XVII: La Stella – Spes ultima dea
Schiudo
le palpebre, lentamente, e tutto intorno a me
è oscurità. Devo essere rimasto svenuto a lungo,
perché non mi sento più il
lato sinistro della faccia. Non mi sento neanche le gambe e le braccia,
a dire
il vero; il dolore lancinante all'addome offusca qualsiasi altra cosa,
compresi
i ricordi. Mi chiedo per quale motivo mi trovi disteso sulla nuda
roccia, ma
non ho una risposta. Non ricordo neanche come abbia fatto a finire qui.
Una
manina si posa sul mio naso, il gorgoglio di un
neonato rompe il silenzio.
Riapro
gli occhi e vedo Atena, le guance rosee
illuminate dalla luce candida della luna. Così piccola e
delicata, così inerme.
È
in pericolo!
Serro
le dita della mano e cerco di issarmi in
ginocchio. Il dolore al petto mi spezza il fiato, rendendo una tortura
anche
compiere il più piccolo movimento, ma non posso arrendermi.
Devo farlo, per
Atena, per il mondo intero. Anche a costo di morire, devo portarla in
salvo,
lontana dal Grande Tempio.
Lontana
da Saga.
Le
dita grattano nella roccia, riflesso di tutta la
frustrazione e l'impotenza che sento. Se solo gli fossi stato
più vicino, se
solo il Gran Sacerdote non avesse scelto me. Perché lui,
perché Saga? Era così
buono, così fiero, così…
Scuoto
la testa. Il Saga di un tempo non c'è più, devo
convincermene. L'uomo con cui ho combattuto, lo stesso che ha ordinato
a un
bambino di dieci anni di uccidermi a sangue freddo, è solo
un demone che di
Saga ha l'aspetto.
Il
mio amico è morto.
Mi
puntello sui gomiti e mi tiro su. La ferita sputa
nuovo sangue; non credo che mi resti molto da vivere, però
devo resistere.
Almeno finché Atena non sarà salva.
Solo
un altro po', andiamo. Puoi farcela,
Aiolos.
Il
braccio mi cede e crollo di nuovo in ginocchio.
Tossisco sangue, le lacrime adesso mi fanno pizzicare gli occhi. Atena
mi
guarda, mi sfiora il naso con la sua manina. Il suo Cosmo è
ancora debole, ma
lo avverto; un abbraccio caldo che mi tranquillizza. Mi dà
speranza e quelle
poche energie di cui ho bisogno.
Puntello
di nuovo le mani e mi tirò in ginocchio. Il
dolore al petto è sempre più penetrante, il
sangue non smette di macchiarmi la
pelle, ma non importa. Con uno sforzo che mi costa le poche energie che
conservo ancora sono di nuovo in piedi. Barcollo, mi chino sulla
neonata e la
prendo in braccio. Cerco di non sporcarla di sangue, ma non sono sicuro
di
esserci riuscito. La vista va e viene e io sono coperto della mia
stessa vita.
Se avessi ucciso Shura adesso non sarei in fin di vita, ma non potevo
farlo.
È
solo un bambino, non è colpa sua.
Mi
carico la cassa dell'armatura in spalla – non
ricordo di averla mai sentita così pesante, neanche il
giorno dell'investitura
a Santo – e mi incammino verso la costa. Laggiù,
dove sorge Atene. Dove spero
di poter affidare a qualcuno l'unica speranza dell'umanità.
La loro stella più
luminosa.