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Autore: keska    03/09/2009    43 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Gravidanza… ero incinta

Gravidanza… incinta. Non riuscivo a crederlo. Vuoto, nella mia testa c’era il vuoto e quella sola parola al centro.

Mi sentii chiamare. «Bella? Mi senti?».

«Bella? Sta di nuovo male?».

«Forse ha trovato qualcosa».

Fui scossa leggermente e la voce agitata di mio marito giunse direttamente alle mie orecchie «Tutto bene?».

Sussultai, spostando lo sguardo dal foglietto, ancora immobile nelle mie mani, fino al suo sguardo dorato, preoccupato. Tentai di formulare una frase di senso compiuto, ma i miei pensieri, inesistenti in quel momento, non sarebbero mai riusciti a raggiungere le labbra leggermente aperte per lo stupore.

Sentii una mano fredda sulla spalla e mi voltai, sobbalzando, verso Carlisle, senza abbandonare la mia espressione completamente persa nell’incredulità.

«Bella, ti senti bene?» mi chiese con un tono misurato «hai letto qualcosa che può esserci utile?».

Dovevo parlare, dovevo dirglielo. Ma prima di tutto dovevo rendermene conto io stessa e non pensarlo come un pensiero astratto, ma come qualcosa che mi stava succedendo davvero. Dovevo avere la conferma di quel pensiero assurdo e in ogni modo inconcepibile. Tuttavia anche troppo realistico.

Carlisle mi fissava in attesa della mia risposta.

Dovevo dire quella parola. Quella sola parola. Sentii le labbra muovesi sconnessamente senza produrre alcun suono. Non ci riuscivo. Non potevo dirlo. Come un automa presi il foglietto che avevo fra le mani e glielo consegnai.

Lui lo guardò perplesso, sfilandolo delicatamente dalla mia presa ferrea. «Il foglietto? Devo leggerlo?» mi chiese confuso.

Annuii lentamente, muovendo poi l’indice tremante verso la frase che avrebbe dovuto leggere. La stessa frase che io avevo letto poco prima e che mi aveva portato quella sconcertante illuminazione.

Lui abbassò lo sguardo, titubante. La sua fronte si corrugò un instante, leggendo la frase che gli avevo indicato. Immediatamente si riappianò, scattando verso l’alto con un’espressione sorpresa, come quella che ormai c’era anche sul volto di Edward.

Quella per me fu una ben certa conferma. Ero incinta. Incinta.

No.

Eppure Carlisle aveva avuto la mia stessa reazione. E anche Edward. Questo voleva dire solo una cosa: avevo ragione. Ma come? In che modo potevo avere ragione, se io non…

«Che cosa succede? Cosa sta succedendo?» chiese Rosalie, confusa, osservando le nostre espressioni.

«Bella è incinta» spiegò Carlisle, comprendendo quello che in tutti i quei giorni avevamo fatto finta di non vedere, abbandonando parzialmente lo stupore.

Sentirlo dire fu come farsi attraversare da una potentissima scarica elettrica. Come dovessi accettare per forza la verità. Come se il mio cervello intorpidito si fosse immediatamente rianimato. Non c’era tempo per gli indugi, volevo risposte.

Mi voltai immediatamente verso di lei, rianimata. «Com’è possibile, Rose?!» chiesi, con voce tremante.

Ma lei non mi rispose. Stava immobile, stupefatta, come Edward, come Carlisle, come me pochi istanti prima.

Doveva dirmelo. Doveva dirmi quello che non volevo e non potevo accettare, quello che irrazionalmente volevo sapere da lei perché non avevo il coraggio di chiedere a me stessa. «Come è possibile?!» sbottai, con voce più ferma.

Rimase ancora immobile.

Fui accecata dalla rabbia, dalla frenesia. «Rose!» urlai, sollevandomi dal letto e ignorando la stanchezza inconsistente. «Rosalie!» gridai quando le fui di fronte, tentando inutilmente di scuoterla. Nessuno mi teneva, nessuno mi fermava. Troppo impegnati a capire l’impossibile. Ma lei, lei, Rosalie doveva darmi la risposta che stavo cercando e che pure era l’unica che non potevo accettare. «Rosalie! Devi dirmi com’è possibile!» gridai a perdifiato, facendo cadere dai miei occhi lacrime di rabbia.

Sentii delle mani fredde afferrarmi da dietro, prima che potessi cominciare a farmi male a furia di tirarle pugni sulle spalle. Era Edward. Accanto a lui, Carlisle.

Rosalie sobbalzò. Attraverso i miei occhi appannati dalle lacrime potevo vedere la sua espressione addolorata. Deglutì, distogliendo lo sguardo dai miei occhi furiosi.

«Dimmelo!» urlai, tentando inutilmente di divincolarmi dalla presa immobile e fredda di mio marito.

«Io… io non so…» balbettò, per poi portare i suoi occhi nei miei, assurdamente afflitti.

«Rosalie» la invitò a continuare Edward. Mi stupii di quanto la sua voce fosse neutra e atona. Voleva sapere. Come me. Stava solo aspettando le parole giuste per crollare, come un meraviglioso castello di carte che sta per essere trasportato nella galleria del vento.

Carlisle andò verso Rosalie, posandole una mano sulla spalla. I suoi occhi erano lucidi, come se davvero stesse per piangere «Credo… quando ti ha drogata…» biascicò infine.

E quelle parole, quelle, che non avrei mai voluto sentire, fui costretta di malavoglia ad accettarle, come una spessa lama di una spada affilata, che ti entra nei polmoni, trafiggendoti la carne, togliendoti il respiro, mangiando la tua vita; una lama che non ti chiede il permesso, né ti rassicura dicendoti che non ti farà del male, ma porta a termine il suo scopo. Ti uccide.

«No… No! No!» urlai, liberando tutto il mio immenso dolore. Perché è così. Quando si soffre, quando si sta male, la prima cosa a cui ci si aggrappa è la possibilità di sfogarsi.

Inutilmente, perché il dolore ti rientra dentro con più vigore, togliendoti le ultime forze.

Lasciai che le ginocchia mi cedessero, tenuta in piedi ancora solo da quelle braccia forti e immobili che non si erano mosse di un millimetro, pietrificate in una gabbia di protezione. Immobili, come il corpo immobile del mio amore, contro cui cozzavo spinta da potentissimi singhiozzi.

Farfugliavo, piangevo, biascicavo ingiurie e parole che ancora resistevano, pronunciate da quella piccolissima parte di me che ancora non poteva accettare quello che stava accadendo.

Quando il mio respiro si fece pesante, stanco, e i singhiozzi cessarono, lasciando il posto a pesanti lacrime, vidi nella mia mente annebbiata delle mani, che allontanavano le braccia immobili di Edward da me.

Qualcuno mi afferrò, prima che potessi definitivamente cadere a terra e mi adagiò delicatamente sul letto, accarezzandomi e forse anche rassicurandomi. Non prestavo troppa attenzione ai volti, né alle parole.

Vedevo Edward in piedi, immobile nella stanza e qualcuno, forse più di uno, che lo faceva uscire, portandolo con sé.

Jacob aveva abusato di me. Di me, del mio corpo. Non potei fermare una nuova ondata di lacrime e mi abbandonai, piangente, sulla spalla della persona che mi stava accanto.

Alice.

Mi ritrassi, esausta, gemendo.

Lei mi fissò dispiaciuta, profondamente addolorata. «Bella ti prego» disse con voce rotta «non posso sopportare di perderti ancora».

Mi gettai di slancio fra le sue braccia, di nuovo, liberando nuove, infinite lacrime.

Avevo la testa pesante e dolorante e non riuscivo a fermare i fremiti involontari che mi pervadevano il corpo. Ero esausta, non avevo una buona percezione dello spazio intorno a me, complice la testa che non aveva smesso un istante di girare. Sentivo umido, e il sapore salato delle lacrime.

Che cosa dovevo fare?

Non posso sopportare di perderti ancora. Proprio ora che mi stavo ritrovando.

«Alice» farfugliai, la voce roca per tutte le lacrime versate «dov’è Edward?» mormorai, staccandomi da lei e scostando la coperta che probabilmente mi avevano messo addosso. «Devo parlare con lui» biascicai sconnessamente, provando ad alzarmi.

«No, aspetta» disse bloccandomi e facendomi stendere. Non riuscivo a reggermi in piedi, ero sfinita. Mi accarezzò la testa «Sta arrivando, ti ha sentita» mi rassicurò con un minuscolo sorriso mesto che scomparve quasi subito dal suo piccolo volto. Andò via.

Edward comparve nella stanza d’improvviso dove prima non c’era. Sul suo viso un’espressione di pietra.

Lo studiai in silenzio. Mi vergognavo così tanto di me stessa e del mio corpo che i suoi occhi mi parevano bruciare su di me. Come sarei riuscita ancora a fare l’amore con lui? Mi avrebbe mai voluta? Straziata, mi portai le mani alle labbra, realizzando per la prima volta che un’altra vita dipendeva dalla mia volontà. Cosa dovevo fare con mio figlio?

«Ti ha…» iniziò in quello che non poteva essere più di un sussurro.

«Non ricordo nulla» farfugliai pianissimo.

Annuì. Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche. «È meglio così».

Scossi il capo, molto lentamente. «Ci ha distrutti».

Fremette, le sue labbra vibrarono e in un lampo fu un metro più vicino. «No» pigolò, afflitto. Serrò gli occhi. «Ti prego, non lasciamoglielo fare».

«È entrato dentro di me, Edward. È entrato dentro di me, dove solo tu eri stato, dove solo tu potevi stare. È entrato nella mia anima e l’ha straziata. Mi è entrato dentro e ha messo un figlio dentro di me» boccheggiai, lasciandomi andare sulle lenzuola «nessun farmaco potrà mai cancellarlo».

Crollò, piegandosi sulle ginocchia. Il fatto che non mi avesse ancora toccata mi uccideva. Rimanemmo in silenzio, così, per un lunghissimo tempo.

Per un attimo pensai di chiedergli se avrebbe mai avuto di nuovo voglia di fare l’amore con me. Non lo feci. Avevo la stessa sensazione di quando volevo staccarmi la pelle dalle braccia con le unghie, moltiplicata per mille. Volevo fare un bagno nell’acido, sciogliere tutta la mia pelle e cancellare la mia vergogna e il mio dolore.

Ero stata abusata. Davvero, fino in fondo. E dentro di me portavo il figlio di uno stupro.

Mi sembrava che morire fosse più facile che sopportare quel dolore che mi stava facendo impazzire. Sapevo cosa andava fatto.

Edward aveva fatto abbastanza per me.

Mi sollevai sulle gambe malferme e gli andai incontro, chinandomi sul pavimento freddo ed abbracciandolo.

«Lo so» mormorò al mio orecchio, sulla mia spalla, senza guardarmi. «So quello che hai detto a Jasper».

Mi raggelai, sconvolta. Mai mi sarei aspettata, in quel momento, di sentire quelle parole. Come poteva essere successo? Gliel’aveva forse detto…?

«No» disse Edward, intuendo i miei pensieri. «Non me l’ha detto lui, lo so dal giorno prima del matrimonio. L’unica che può nascondermi i suoi pensieri, a volte, è Alice». Si staccò da me, guardandomi per la prima volta con intensità.

Calde, stanche, stanchissime lacrime avevano ricominciato a scendere dai miei occhi pulsanti. «Perché non…?» balbettai.

«Perché non ti ho impedito di sposarmi nonostante lo sapessi?» mormorò, mortalmente serio. Mi carezzò il viso. «La prima cosa che ho pensato è stata che dovevo lasciarti andare».

Aprii la bocca, sconvolta.

Serrò la mascella, studiandomi. «Poi ho pensato che non potessi commettere lo stesso errore un’altra volta. Ho parlato con Alice, e lei ti ha parlato, e mi ha convinto che quello che volevi, anche più che avere un figlio, era stare con me» inclinò il capo di lato, sfiorandomi con la dolcezza del suo sguardo senza vita.

«Perché me lo stai dicendo?» balbettai fra le lacrime.

Si aprì in un lungo, lunghissimo sorriso triste. «Lo sai perché».

Mi piegai in un singhiozzo, stringendomi le braccia al petto che mi sembrava stesse andando in mille pezzi. «No, no» farfugliai scuotendo il capo «ci sta uccidendo. Non ho più vita, non ho più forza. Non possiamo sopportare anche questo, Edward. Non possiamo. Sai cosa va fatto».

Prese un respiro, un’espressione devastata sul viso. «Non c’era vita nella mia dannazione. Non c’era forza, non c’era via d’uscita. Ma poi ho incontrato te, e non ti avrei mai incontrato se non fossi stato dannato».

«Questo non ha niente a che vedere con…»

«Non posso permettere che tu lo faccia» mi disse, fissandomi negli occhi. «Che rinunci alla tua unica possibilità di essere madre, e ancora di più che uccidi un altro essere umano» disse, facendomi sussultare «farlo ti ha condotta sull’orlo del baratro più di quello che lui ha fatto a te. Pensi che ti farebbe stare meglio, che aggiusterebbe le cose fra di noi, ma non è così» fece, determinato «solo l’amore può far stare meglio. L’odio non aggiusta nulla. Fa stare solo peggio».

Scossi il capo. «Non chiedermelo, ti prego» singhiozzai esausta.

Si alzò in piedi, guardandomi dall’alto. «Non te lo sto chiedendo. Ti sto dando la possibilità di fare la cosa giusta».

«No» scossi il capo «ci spezzerà».

«Non lo so» mormorò «forse. Ma uccidere tuo figlio non ci salverà di sicuro» sussurrò, lieve «ti amerò comunque per sempre» disse, prima di scomparire nel nulla.

Mi lasciai andare sul pavimento in un mucchio di spasmi singhiozzanti. Se il giorno dopo essere stata salvata mi ero sentita morire, adesso, non so come, in che modo fosse possibile, mi sentivo un miliardo di volte peggio. Se solo avessi potuto avrei davvero preso quella boccetta di calmanti per sprofondare in un sonno che lenisse tutto quel dolore. Chiusi gli occhi, esausta da ogni singolo dei miei pensieri.

Trasalii quando mi sentii toccare il braccio e poi qualcosa pungermi. Era Carlisle. Ed io ero di nuovo a letto, sotto le coperte.  

«Perdonami, pensavo stessi dormendo» disse lui, un’espressione rassicurante.

Sospirai, spostando lo sguardo dall’ago con una smorfia di dolore.

«Ho incannulato la vena, prometto che non ti pungerò più. Dormi, ora. Devi essere davvero esausta, è appena l’alba».

Sospirai, piano. Un lentissimo sospiro stanco. Le mie palpebre erano calde, stanche, affaticate. Avevo gli occhi così secchi eppure così gonfi di lacrime che non aspettavano altro che uscire. La mia testa si riempì di immagini orribili, le più crude, le peggiori che avessi mai visto. Niente. Mi sentivo così morta dentro che mi sembrava che non potessero più farmi nulla. Continuai a pensarci, ancora e ancora, quasi come per vedere fino a che punto sarei potuta arrivare prima di crollare.

Le mie labbra si mossero pianissimo, sfregando l’una contro l’altra come carta vetrata. Guardai gli occhi di Carlisle, così attenti e concentrati, così pieni di pena per me. «Mi sento così violata» biascicai umiliata.

Strinse le labbra in un fremito, e si chinò a carezzarmi i capelli, lieve, lievissimo, quasi avesse paura di distruggermi con il suo tocco. «Lo so bimba mia».

«Cos’è?» domandai fra le labbra secche, stupendomi della rochezza della mia voce.

Carlisle si sedette sul letto, accanto a me. «Un tocolitico, per la gravidanza. Hai una seria minaccia d’aborto».

Serrai le palpebre. Come avrei voluto che la natura decidesse per me in quel momento. «Non è giusto» balbettai.

«Shh, lo so» mi blandì, accarezzandomi i capelli. «Non è giusto, hai ragione. Mi dispiace davvero moltissimo Bella» fece una pausa, e per la prima volta vidi sul suo volto un’espressione rammaricata. «Scusami. Avrei dovuto dare ascolto ai miei figli, quando mi dicevano che ucciderlo era la scelta migliore. Ora non vi sarebbe successo tutto questo».

Rimasi per un attimo senza fiato. Non riuscivo a credere che Carlisle potesse davvero pensare quello che stava dicendo.

«Carlisle» mormorai, avvicinando la mano a stringere la sua.

Mi guardò ancora, afflitto, nel più serio degli sguardi che gli avevo mai visto rivolgermi. «No, però. Per quanto mi dispiaccia non tornerei indietro. Scusami, ancora, se puoi. Ma non posso pensare di portare via nessuna vita umana, non riesco a pensare che ci sia anche solo un più che manifesto e valido motivo per farlo, persino nel peggiore dei casi».  

Mi morsi il labbro con forza. «Nonostante tutto non avrei voluto ucciderlo» riuscii a sputare infine, restando senza fiato dopo quelle parole.

Annuì. «Lo so figliola» mormorò con dolcezza, carezzandomi il braccio.

Singhiozzai, portandomi le mani al viso. «Come posso pensarlo dopo tutto il male che mi ha fatto?».

Mi abbracciò con la tenerezza di un padre. «Non possiamo controllare il comportamento degli altri, il male che ci fanno. A volte sembra che ci distruggano, che non ci lascino alcuna via di fuga, che l’unica cosa da fare sia fare altro male. Ma non è così. L’unica cosa che nessuno potrà mai, mai, mai togliere a nessun altro essere umano è la libertà. La libertà di amare».

Mi portai la mano tremante alle labbra. «Io ho scelto di ucciderlo».

«Non ti voglio far sentire in colpa figlia mia, né ti sto dicendo cosa fare» mi disse in infinita dolcezza, «ti sto solo dicendo che voglio la tua felicità. Che quando si è sommersi da un abisso di infinita disperazione c’è solo una cosa da fare per sfuggire: amare».

Sospirai, piano. Un lentissimo sospiro stanco. Le mie palpebre erano calde, stanche, affaticate. Avevo gli occhi così secchi eppure così gonfi di lacrime che non aspettavano altro che uscire. La mia testa si riempì di immagini orribili, le più crude, le peggiori che avessi mai visto. Niente. Mi sentivo così morta dentro che mi sembrava che non potessero più farmi nulla. Continuai a pensarci, ancora e ancora, quasi come per vedere fino a che punto sarei potuta arrivare prima di crollare.

Le mie labbra si mossero pianissimo, sfregando l’una contro l’altra come carta vetrata. Guardai gli occhi di Carlisle, così attenti e concentrati, così pieni di pena per me. «Mi sento così violata» biascicai umiliata.

Strinse le labbra in un fremito, e si chinò a carezzarmi i capelli, lieve, lievissimo, quasi avesse paura di distruggermi con il suo tocco. «Lo so bimba mia».

Singhiozzai, allentandomi dal suo corpo e stringendo una mano alla bocca e una alla pancia. Mi lasciai andare fra i cuscini.

«Ti senti male?» mi chiese gentilmente, carezzandomi la schiena.

«Non lo so… forse devo vomitare» biascicai, respirando con la bocca.

Restammo così per un po’, in silenzio. Alla fine non vomitai, e la nausea scemò pian piano. Carlisle sospirò, afflitto. «Avrei dovuto capirlo prima».

«Non era possibile» farfugliai afona «nessuno avrebbe potuto saperlo» dissi, immaginando ancora nella mente scene colorite che arricchivano i miei incubi più reconditi. Chiusi gli occhi. Neppure l’oblio del sonno mi avrebbe dato alcun sollievo.

«C’è qualcos’altro che devo dirti» continuò, afflitto. «Devi sapere che con tutti i farmaci che hai assunto, il feto potrebbe aver subito gravi malformazioni, sperando sempre che la gravidanza non si interrompa spontaneamente. A prescindere dalla decisione che prenderai, suggerisco di fare dei test per valutare l’andamento della gravidanza, se sei d’accordo, potrebbero aiutarmi per farti stare meglio».

Non risposi.

«Posso farti alcune domande?».

Annuii, lo sguardo perso nel vuoto.

«Bene» sospirò, fissandomi dispiaciuto. «Quando è stata la data della ultime mestruazioni?» mi chiese formale.

I miei occhi si velarono di tristezza. «Il 28 Luglio».

Carlisle iniziò un rapidissimo calcolo mentale.

Mi sentii attraversare da un brivido, poi da una nuova ondata di nausea.

«Sei certa che sia proprio quello il giorno?» mi chiese Carlisle, pensieroso. Poteva un vampiro sbagliarsi a calcolare?

Annuii, distratta dalla mia nausea. Abbassai il viso sulla mia pancia. Che lo volessi o no, a prescindere da chi fosse il padre, lì dentro c’era mio figlio. Sarei mai riuscita ad amarlo? Come sarebbe stato bello essere in un universo parallelo, dove vampiri e licantropi non esistevano e dove quel bambino era mio e di Edward, entrambi umani. Sospirai, troppo stanca per piangere ancora. Insinuai una mano sotto la maglietta, sotto l’elastico dei pantaloni del pigiama, stringendo forte in cerca di un segno.

Mi ritrovai nel mio universo alternativo.

Fredda e dura. Ecco com’era la mia pelle. Lo sentivo debolmente, sotto il mio strato di pelle, ma lo sentivo. Fredda e dura.

Nell’agonia che stavo provano una gioia sconcertante esplose dentro di me, insieme ad un’innaturale certezza.

«Bella» mi chiamò Carlisle, con la sua voce lontana «questo significa che hai più di tre settimane di ritardo, che il concepimento è avvenuto circa cinque settimane fa, e se i tuoi cicli erano regolari tu eri ancora con…».

Le lacrime di commozione non furono in alcun modo arginate.

«Edward» dicemmo insieme.

Immediatamente tutta la stanchezza scomparve in un solo istante, balzai giù dal letto, strappandomi l’ago della flebo dal braccio.

«Aspetta Bella, non ne sono certo!» mi richiamò Carlisle, troppo tardi.

Io si. Io ne ero certa.

Riuscii a fare tutte le scale di corsa, senza mai cadere, senza mai inciampare. I piedi nudi producevano suoni ritmici e veloci sul parquet.

Esme e Rosalie mi fissarono sbigottite, ma non dissero nulla. Alice mi sorrise emozionata, così che continuai a correre, più veloce di prima.

Mi lanciai fuori dalla porta, sotto la pioggia fitta e pesante, continuando a correre finché non raggiunsi il centro esatto del giardino.

«Edward!» urlai a squarciagola, «Edward!» gridai ancora, piegandomi per riprendere fiato, «Edward!» ripetei, con quanto fiato avevo in corpo.

Dal fitto della vegetazione, attraverso la coltre di pioggia, vidi avanzare la figura di mio marito, a passo umano. Mi lanciai di corsa, ancora, sciaguattando con i piedi nudi nel fango, fino a buttarmi fra le sue braccia.

Attaccai le mie labbra alle sue febbrilmente, con amore, passione, gioia e paura di quella tanta troppo gioia. Lo tenevo stretto a me, la sua testa fra le mie mani, fra i suoi meravigliosi capelli bagnati. Lo baciavo, ancora, ancora, senza staccarmi, comunicandogli tutta la mia felicità e il mio amore immenso. Perché aveva compiuto un miracolo, un piccolo grande miracolo. Perché in un istante, tutto l’universo si era ribaltato, rendendo possibile che portassi in grembo mio figlio, mio e di Edward, nato dal nostro immenso amore.

Edward si staccò da me, guardandomi con immenso amore e dolore, insieme, scostandomi una ciocca bagnata di capelli dal viso. «Va bene, Bella. Hai fatto la scelta giusta, sarò davvero come un padre per lui…».

«No Edward. No» dissi decisa, sorridendo dell’immensa indescrivibile emozione totalizzante che provavo in quel momento. «Tu non sarai come un padre».

Si bloccò, confuso, non capendo le mie parole.

«Tu sei suo padre».

Lui fece un’espressione sbigottita, per poi rivolgere lo sguardo alle mie spalle. Mi voltai. C’era tutta la famiglia. Carlisle fece un cenno d’assenso, sconcertato.

Edward riportò i suoi occhi nei miei «Ma… com’è possibile?» balbettò, gli occhi sgranati.

Sbattei le palpebre per via della pioggia. «È possibile» dissi solo.

Scosse il capo, incredulo «No… Non… Non è così…».

«Edward» lo chiamai tremante, prendendo la mano che aveva ancora sulla mia guancia e portandola lentamente verso la pancia, senza mai distogliere lo sguardo dai suoi occhi ambra. Sentivo il cuore nelle orecchie. Infilai la mano sotto la maglietta bagnata, posando il suo palmo sulla mia pelle. «È tuo figlio».

I suoi occhi immobili si sciolsero, accettando in un sospiro quell’incomprensibile verità.

Chiusi gli occhi, sentendo il freddo irradiarsi dalla pancia in tutto il mio corpo, come se stessi godendo in quel momento del più puro e incorruttibile piacere.

La mano di Edward aderì completamente alla mia pancia ed io posai sopra la mia, riaprendo gli occhi e trovando la sua espressione sconvolta.

«Mio figlio» farfugliò, emozionato, per poi baciarmi.

   
 
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