Gravidanza… incinta. Non riuscivo
a crederlo. Vuoto, nella mia
testa c’era il vuoto e quella sola parola al centro.
Mi sentii chiamare.
«Bella? Mi senti?».
«Bella? Sta di nuovo
male?».
«Forse ha trovato
qualcosa».
Fui scossa leggermente e la voce
agitata di mio marito
giunse direttamente alle mie orecchie «Tutto bene?».
Sussultai, spostando lo sguardo dal
foglietto, ancora
immobile nelle mie mani, fino al suo sguardo dorato, preoccupato.
Tentai di
formulare una frase di senso compiuto, ma i miei pensieri, inesistenti
in quel
momento, non sarebbero mai riusciti a raggiungere le labbra leggermente
aperte
per lo stupore.
Sentii una mano fredda sulla spalla
e mi voltai,
sobbalzando, verso Carlisle, senza abbandonare la mia espressione
completamente
persa nell’incredulità.
«Bella, ti senti
bene?» mi chiese con un tono misurato
«hai letto qualcosa che può esserci
utile?».
Dovevo parlare, dovevo dirglielo.
Ma prima di tutto
dovevo rendermene conto io stessa e non pensarlo come un pensiero
astratto, ma
come qualcosa che mi stava succedendo davvero. Dovevo avere la conferma
di quel
pensiero assurdo e in ogni modo inconcepibile. Tuttavia
anche troppo realistico.
Carlisle mi fissava in attesa della
mia risposta.
Dovevo dire quella parola. Quella
sola parola. Sentii
le labbra muovesi sconnessamente senza produrre alcun suono. Non ci
riuscivo.
Non potevo dirlo. Come un automa presi il foglietto che avevo fra le
mani e
glielo consegnai.
Lui lo guardò perplesso,
sfilandolo delicatamente
dalla mia presa ferrea. «Il foglietto? Devo
leggerlo?» mi chiese confuso.
Annuii lentamente, muovendo poi
l’indice tremante
verso la frase che avrebbe dovuto leggere. La stessa frase che io avevo
letto
poco prima e che mi aveva portato quella sconcertante illuminazione.
Lui abbassò lo sguardo,
titubante. La sua fronte si
corrugò un instante, leggendo la frase che gli avevo
indicato. Immediatamente
si riappianò, scattando verso l’alto con
un’espressione sorpresa, come quella
che ormai c’era anche sul volto di Edward.
Quella per me fu una ben certa
conferma. Ero incinta.
Incinta.
No.
Eppure Carlisle aveva avuto la mia stessa
reazione. E anche
Edward. Questo voleva dire solo una cosa: avevo ragione. Ma come? In
che modo
potevo avere ragione, se io non…
«Che cosa succede? Cosa
sta succedendo?» chiese
Rosalie, confusa, osservando le nostre espressioni.
«Bella è
incinta» spiegò Carlisle, comprendendo quello
che in tutti i quei giorni avevamo fatto finta di non vedere,
abbandonando
parzialmente lo stupore.
Sentirlo dire fu come farsi
attraversare da una
potentissima scarica elettrica. Come dovessi accettare per forza la
verità.
Come se il mio cervello intorpidito si fosse immediatamente rianimato.
Non
c’era tempo per gli indugi, volevo risposte.
Mi voltai immediatamente verso di
lei, rianimata.
«Com’è possibile, Rose?!»
chiesi, con voce tremante.
Ma lei non mi rispose. Stava
immobile, stupefatta,
come Edward, come Carlisle, come me pochi istanti prima.
Doveva dirmelo. Doveva dirmi quello
che non volevo e
non potevo accettare, quello che irrazionalmente volevo sapere da lei
perché
non avevo il coraggio di chiedere a me stessa. «Come
è possibile?!» sbottai,
con voce più ferma.
Rimase ancora immobile.
Fui accecata dalla rabbia, dalla
frenesia. «Rose!»
urlai, sollevandomi dal letto e ignorando la stanchezza inconsistente.
«Rosalie!» gridai quando le fui di fronte, tentando
inutilmente di scuoterla.
Nessuno mi teneva, nessuno mi fermava. Troppo impegnati a capire
l’impossibile.
Ma lei, lei, Rosalie doveva darmi la risposta che stavo cercando e che
pure era
l’unica che non potevo accettare. «Rosalie! Devi
dirmi com’è possibile!» gridai
a perdifiato, facendo cadere dai miei occhi lacrime di rabbia.
Sentii delle mani fredde afferrarmi
da dietro, prima
che potessi cominciare a farmi male a furia di tirarle pugni sulle
spalle. Era
Edward. Accanto a lui, Carlisle.
Rosalie sobbalzò.
Attraverso i miei occhi appannati
dalle lacrime potevo vedere la sua espressione addolorata.
Deglutì,
distogliendo lo sguardo dai miei occhi furiosi.
«Dimmelo!»
urlai, tentando inutilmente di divincolarmi
dalla presa immobile e fredda di mio marito.
«Io… io non
so…» balbettò, per poi portare i suoi
occhi nei miei, assurdamente afflitti.
«Rosalie» la
invitò a continuare Edward. Mi stupii di
quanto la sua voce fosse neutra e atona. Voleva sapere. Come me. Stava
solo
aspettando le parole giuste per crollare, come un meraviglioso castello
di
carte che sta per essere trasportato nella galleria del vento.
Carlisle andò verso
Rosalie, posandole una mano sulla
spalla. I suoi occhi erano lucidi, come se davvero stesse per piangere
«Credo…
quando ti ha drogata…» biascicò infine.
E quelle parole, quelle, che non
avrei mai voluto
sentire, fui costretta di malavoglia ad accettarle, come una spessa
lama di una
spada affilata, che ti entra nei polmoni, trafiggendoti la carne,
togliendoti
il respiro, mangiando la tua vita; una lama che non ti chiede il
permesso, né
ti rassicura dicendoti che non ti farà del male, ma porta a
termine il suo
scopo. Ti uccide.
«No… No! No!»
urlai, liberando tutto il mio
immenso dolore. Perché è così. Quando
si soffre, quando si sta male, la prima
cosa a cui ci si aggrappa è la possibilità di
sfogarsi.
Inutilmente, perché il
dolore ti rientra dentro con
più vigore, togliendoti le ultime forze.
Lasciai che le ginocchia mi
cedessero, tenuta in piedi
ancora solo da quelle braccia forti e immobili che non si erano mosse
di un
millimetro, pietrificate in una gabbia di protezione. Immobili, come il
corpo
immobile del mio amore, contro cui cozzavo spinta da potentissimi
singhiozzi.
Farfugliavo, piangevo, biascicavo
ingiurie e parole
che ancora resistevano, pronunciate da quella piccolissima parte di me
che
ancora non poteva accettare quello che stava accadendo.
Quando il mio respiro si fece
pesante, stanco, e i
singhiozzi cessarono, lasciando il posto a pesanti lacrime, vidi nella
mia
mente annebbiata delle mani, che allontanavano le braccia immobili di
Edward da
me.
Qualcuno mi afferrò,
prima che potessi definitivamente
cadere a terra e mi adagiò delicatamente sul letto,
accarezzandomi e forse
anche rassicurandomi. Non prestavo troppa attenzione ai volti,
né alle parole.
Vedevo Edward in piedi, immobile
nella stanza e
qualcuno, forse più di uno, che lo faceva uscire, portandolo
con sé.
Jacob
aveva
abusato di me.
Di me, del mio corpo.
Non potei fermare una nuova ondata di lacrime e mi abbandonai,
piangente, sulla
spalla della persona che mi stava accanto.
Alice.
Mi ritrassi, esausta, gemendo.
Lei mi fissò
dispiaciuta, profondamente addolorata.
«Bella ti prego» disse con voce rotta
«non posso sopportare di perderti ancora».
Mi gettai di slancio fra le sue
braccia, di nuovo,
liberando nuove, infinite lacrime.
Avevo la testa pesante e dolorante
e non riuscivo a
fermare i fremiti involontari che mi pervadevano il corpo. Ero esausta,
non
avevo una buona percezione dello spazio intorno a me, complice la testa
che non
aveva smesso un istante di girare. Sentivo umido, e il sapore salato
delle
lacrime.
Che cosa dovevo fare?
Non posso sopportare di perderti
ancora.
Proprio ora che mi stavo ritrovando.
«Alice»
farfugliai, la voce roca per tutte le lacrime
versate «dov’è Edward?»
mormorai, staccandomi da lei e scostando la coperta che
probabilmente mi avevano messo addosso. «Devo parlare con
lui» biascicai
sconnessamente, provando ad alzarmi.
«No, aspetta»
disse bloccandomi e facendomi stendere.
Non riuscivo a reggermi in piedi, ero sfinita. Mi accarezzò
la testa «Sta
arrivando, ti ha sentita» mi rassicurò con un
minuscolo sorriso mesto che
scomparve quasi subito dal suo piccolo volto. Andò via.
Edward comparve nella stanza
d’improvviso dove prima
non c’era. Sul suo viso un’espressione di pietra.
Lo studiai in silenzio. Mi
vergognavo così tanto di me
stessa e del mio corpo che i suoi occhi mi parevano bruciare su di me.
Come
sarei riuscita ancora a fare l’amore con lui? Mi avrebbe mai
voluta? Straziata,
mi portai le mani alle labbra, realizzando per la prima volta che
un’altra vita
dipendeva dalla mia volontà. Cosa dovevo fare con mio
figlio?
«Ti
ha…» iniziò in quello che non poteva
essere più di
un sussurro.
«Non ricordo
nulla» farfugliai pianissimo.
Annuì. Strinse i pugni
fino a far sbiancare le nocche.
«È meglio così».
Scossi il capo, molto lentamente.
«Ci ha distrutti».
Fremette, le sue labbra vibrarono e
in un lampo fu un
metro più vicino. «No»
pigolò, afflitto. Serrò gli
occhi. «Ti prego, non lasciamoglielo fare».
«È entrato
dentro di me, Edward. È entrato dentro di
me, dove solo tu eri stato, dove solo tu potevi stare. È
entrato nella mia
anima e l’ha straziata. Mi è entrato dentro e ha
messo un figlio dentro di me»
boccheggiai, lasciandomi andare sulle lenzuola «nessun
farmaco potrà mai
cancellarlo».
Crollò, piegandosi sulle
ginocchia. Il fatto che non
mi avesse ancora toccata mi uccideva. Rimanemmo in silenzio,
così, per un
lunghissimo tempo.
Per un attimo pensai di chiedergli
se avrebbe mai
avuto di nuovo voglia di fare l’amore con me. Non lo feci.
Avevo la stessa
sensazione di quando volevo staccarmi la pelle dalle braccia con le
unghie,
moltiplicata per mille. Volevo fare un bagno nell’acido,
sciogliere tutta la
mia pelle e cancellare la mia vergogna e il mio dolore.
Ero stata abusata. Davvero, fino in
fondo. E dentro di
me portavo il figlio di uno stupro.
Mi sembrava che morire fosse
più facile che sopportare
quel dolore che mi stava facendo impazzire. Sapevo cosa andava fatto.
Edward aveva fatto abbastanza per
me.
Mi sollevai sulle gambe malferme e
gli andai incontro,
chinandomi sul pavimento freddo ed abbracciandolo.
«Lo so»
mormorò al mio orecchio, sulla mia spalla,
senza guardarmi. «So quello che hai detto a Jasper».
Mi raggelai, sconvolta. Mai mi
sarei aspettata, in
quel momento, di sentire quelle parole. Come poteva essere successo?
Gliel’aveva forse detto…?
«No» disse Edward, intuendo i miei
pensieri. «Non me l’ha
detto lui, lo so dal giorno prima del matrimonio. L’unica che
può nascondermi i
suoi pensieri, a volte, è Alice». Si
staccò da me, guardandomi per la prima
volta con intensità.
Calde, stanche, stanchissime
lacrime avevano
ricominciato a scendere dai miei occhi pulsanti.
«Perché non…?» balbettai.
«Perché non ti
ho impedito di sposarmi nonostante lo
sapessi?» mormorò, mortalmente serio. Mi
carezzò il viso. «La prima cosa che ho
pensato è stata che dovevo lasciarti andare».
Aprii la bocca, sconvolta.
Serrò la mascella,
studiandomi. «Poi ho pensato che non
potessi commettere lo stesso errore un’altra volta. Ho
parlato con Alice, e lei
ti ha parlato, e mi ha convinto che quello che volevi, anche
più che avere un
figlio, era stare con me» inclinò il capo di lato,
sfiorandomi con la dolcezza
del suo sguardo senza vita.
«Perché me lo
stai dicendo?» balbettai fra le lacrime.
Si aprì in un lungo,
lunghissimo sorriso triste. «Lo
sai perché».
Mi piegai in un singhiozzo,
stringendomi le braccia al
petto che mi sembrava stesse andando in mille pezzi. «No,
no» farfugliai
scuotendo il capo «ci sta uccidendo. Non ho più
vita, non ho più forza. Non
possiamo sopportare anche questo, Edward. Non possiamo. Sai cosa va
fatto».
Prese un respiro,
un’espressione devastata sul viso.
«Non c’era vita nella mia dannazione. Non
c’era forza, non c’era via d’uscita.
Ma poi ho incontrato te, e non ti avrei mai incontrato se non fossi
stato
dannato».
«Questo non ha niente a
che vedere con…»
«Non posso permettere che
tu lo faccia» mi disse,
fissandomi negli occhi. «Che rinunci alla tua unica
possibilità di essere
madre, e ancora di più che uccidi un altro essere
umano» disse, facendomi
sussultare «farlo ti ha condotta sull’orlo del
baratro più di quello che lui ha
fatto a te. Pensi che ti farebbe stare meglio, che aggiusterebbe le
cose fra di
noi, ma non è così» fece, determinato
«solo l’amore può far stare meglio.
L’odio non aggiusta nulla. Fa stare solo peggio».
Scossi il capo. «Non
chiedermelo, ti prego»
singhiozzai esausta.
Si alzò in piedi,
guardandomi dall’alto. «Non te lo
sto chiedendo. Ti sto dando la possibilità di fare la cosa
giusta».
«No» scossi il capo «ci
spezzerà».
«Non lo so»
mormorò «forse. Ma uccidere tuo figlio non
ci salverà di sicuro» sussurrò, lieve
«ti amerò comunque per sempre» disse,
prima di scomparire nel nulla.
Mi lasciai andare sul pavimento in
un mucchio di
spasmi singhiozzanti. Se il giorno dopo essere stata salvata mi ero
sentita
morire, adesso, non so come, in che modo fosse possibile, mi sentivo un
miliardo di volte peggio. Se solo avessi potuto avrei davvero preso
quella
boccetta di calmanti per sprofondare in un sonno che lenisse tutto quel
dolore.
Chiusi gli occhi, esausta da ogni singolo dei miei pensieri.
Trasalii quando mi sentii toccare
il braccio e poi
qualcosa pungermi. Era Carlisle. Ed io ero di nuovo a letto, sotto le
coperte.
«Perdonami, pensavo
stessi dormendo» disse lui, un’espressione
rassicurante.
Sospirai, spostando lo sguardo
dall’ago con una
smorfia di dolore.
«Ho incannulato la vena,
prometto che non ti pungerò più. Dormi, ora. Devi
essere davvero esausta, è
appena l’alba».
Sospirai, piano. Un lentissimo
sospiro stanco. Le mie
palpebre erano calde, stanche, affaticate. Avevo gli occhi
così secchi eppure
così gonfi di lacrime che non aspettavano altro che uscire.
La mia testa si
riempì di immagini orribili, le più crude, le
peggiori che avessi mai visto.
Niente. Mi sentivo così morta dentro che mi sembrava che non
potessero più
farmi nulla. Continuai a pensarci, ancora e ancora, quasi come per
vedere fino
a che punto sarei potuta arrivare prima di crollare.
Le mie labbra si mossero
pianissimo, sfregando l’una
contro l’altra come carta vetrata. Guardai gli occhi di
Carlisle, così attenti
e concentrati, così pieni di pena per me. «Mi
sento così violata» biascicai
umiliata.
Strinse le labbra in un fremito, e
si chinò a
carezzarmi i capelli, lieve, lievissimo, quasi avesse paura di
distruggermi con
il suo tocco. «Lo so bimba mia».
«Cos’è?»
domandai fra le labbra secche, stupendomi
della rochezza della mia voce.
Carlisle si sedette sul letto,
accanto a me. «Un
tocolitico, per la gravidanza. Hai una seria minaccia
d’aborto».
Serrai le palpebre. Come avrei
voluto che la natura
decidesse per me in quel momento. «Non è
giusto» balbettai.
«Shh,
lo so» mi blandì,
accarezzandomi i capelli. «Non è giusto, hai
ragione. Mi dispiace davvero
moltissimo Bella» fece una pausa, e per la prima volta vidi
sul suo volto
un’espressione rammaricata. «Scusami. Avrei dovuto
dare ascolto ai miei figli,
quando mi dicevano che ucciderlo era la scelta migliore. Ora non vi
sarebbe
successo tutto questo».
Rimasi per un attimo senza fiato.
Non riuscivo a credere
che Carlisle potesse davvero pensare quello che stava dicendo.
«Carlisle»
mormorai, avvicinando la mano a stringere
la sua.
Mi guardò ancora,
afflitto, nel più serio degli
sguardi che gli avevo mai visto rivolgermi. «No,
però. Per quanto mi dispiaccia
non tornerei indietro. Scusami, ancora, se puoi. Ma non posso pensare
di
portare via nessuna vita umana, non riesco a pensare che ci sia anche
solo un
più che manifesto e valido motivo per farlo, persino nel
peggiore dei casi».
Mi morsi il labbro con forza.
«Nonostante tutto non
avrei voluto ucciderlo» riuscii a sputare infine, restando
senza fiato dopo
quelle parole.
Annuì. «Lo so
figliola» mormorò con dolcezza,
carezzandomi il braccio.
Singhiozzai, portandomi le mani al
viso. «Come posso
pensarlo dopo tutto il male che mi ha fatto?».
Mi abbracciò con la
tenerezza di un padre. «Non
possiamo controllare il comportamento degli altri, il male che ci
fanno. A
volte sembra che ci distruggano, che non ci lascino alcuna via di fuga,
che
l’unica cosa da fare sia fare altro male. Ma non è
così. L’unica cosa che
nessuno potrà mai, mai, mai togliere a nessun altro essere
umano è la libertà.
La libertà di amare».
Mi portai la mano tremante alle
labbra. «Io ho scelto
di ucciderlo».
«Non ti voglio far
sentire in colpa figlia mia, né ti
sto dicendo cosa fare» mi disse in infinita dolcezza,
«ti sto solo dicendo che
voglio la tua felicità. Che quando si è sommersi
da un abisso di infinita
disperazione c’è solo una cosa da fare per
sfuggire: amare».
Sospirai, piano. Un lentissimo
sospiro stanco. Le mie
palpebre erano calde, stanche, affaticate. Avevo gli occhi
così secchi eppure
così gonfi di lacrime che non aspettavano altro che uscire.
La mia testa si
riempì di immagini orribili, le più crude, le
peggiori che avessi mai visto.
Niente. Mi sentivo così morta dentro che mi sembrava che non
potessero più
farmi nulla. Continuai a pensarci, ancora e ancora, quasi come per
vedere fino
a che punto sarei potuta arrivare prima di crollare.
Le mie labbra si mossero
pianissimo, sfregando l’una
contro l’altra come carta vetrata. Guardai gli occhi di
Carlisle, così attenti
e concentrati, così pieni di pena per me. «Mi
sento così violata» biascicai
umiliata.
Strinse le labbra in un fremito, e
si chinò a
carezzarmi i capelli, lieve, lievissimo, quasi avesse paura di
distruggermi con
il suo tocco. «Lo so bimba mia».
Singhiozzai, allentandomi dal suo
corpo e stringendo
una mano alla bocca e una alla pancia. Mi lasciai andare fra i cuscini.
«Ti senti
male?» mi chiese gentilmente, carezzandomi
la schiena.
«Non lo so…
forse devo vomitare» biascicai, respirando
con la bocca.
Restammo così per un
po’, in silenzio. Alla fine
non vomitai, e la nausea scemò pian piano. Carlisle
sospirò, afflitto. «Avrei dovuto capirlo
prima».
«Non era
possibile» farfugliai afona «nessuno avrebbe
potuto saperlo» dissi, immaginando ancora nella mente scene
colorite che
arricchivano i miei incubi più reconditi. Chiusi gli occhi.
Neppure l’oblio del
sonno mi avrebbe dato alcun sollievo.
«C’è
qualcos’altro che devo dirti» continuò,
afflitto.
«Devi sapere che con tutti i farmaci che hai assunto, il feto
potrebbe aver
subito gravi malformazioni, sperando sempre che la gravidanza non si
interrompa
spontaneamente. A prescindere dalla decisione che prenderai, suggerisco
di fare
dei test per valutare l’andamento della gravidanza, se sei
d’accordo,
potrebbero aiutarmi per farti stare meglio».
Non risposi.
«Posso farti alcune
domande?».
Annuii, lo sguardo perso nel vuoto.
«Bene»
sospirò, fissandomi dispiaciuto. «Quando
è
stata la data della ultime mestruazioni?» mi chiese formale.
I miei occhi si velarono di
tristezza. «Il 28 Luglio».
Carlisle iniziò un
rapidissimo calcolo mentale.
Mi sentii attraversare da un
brivido, poi da una nuova
ondata di nausea.
«Sei certa che sia
proprio quello il giorno?» mi
chiese Carlisle, pensieroso. Poteva un vampiro sbagliarsi a calcolare?
Annuii, distratta dalla mia nausea.
Abbassai il viso
sulla mia pancia. Che lo volessi o no, a prescindere da chi fosse il
padre, lì
dentro c’era mio figlio. Sarei mai riuscita ad amarlo? Come
sarebbe stato bello
essere in un universo parallelo, dove vampiri e licantropi non
esistevano e
dove quel bambino era mio e di Edward, entrambi umani. Sospirai, troppo
stanca
per piangere ancora. Insinuai una mano sotto la maglietta, sotto
l’elastico dei
pantaloni del pigiama, stringendo forte in cerca di un segno.
Mi ritrovai nel mio universo
alternativo.
Fredda e dura. Ecco
com’era la mia pelle. Lo sentivo
debolmente, sotto il mio strato di pelle, ma lo sentivo. Fredda e dura.
Nell’agonia che stavo
provano una gioia sconcertante
esplose dentro di me, insieme ad un’innaturale certezza.
«Bella» mi
chiamò Carlisle, con la sua voce lontana
«questo significa che hai più di tre settimane di
ritardo, che il concepimento
è avvenuto circa cinque settimane fa, e se i tuoi cicli
erano regolari tu eri
ancora con…».
Le lacrime di commozione non furono
in alcun modo
arginate.
«Edward»
dicemmo insieme.
Immediatamente tutta la stanchezza
scomparve in un
solo istante, balzai giù dal letto, strappandomi
l’ago della flebo dal braccio.
«Aspetta Bella, non ne
sono certo!» mi richiamò
Carlisle, troppo tardi.
Io si. Io ne ero certa.
Riuscii a fare tutte le scale di
corsa, senza mai
cadere, senza mai inciampare. I piedi nudi producevano suoni ritmici e
veloci
sul parquet.
Esme e Rosalie mi fissarono sbigottite,
ma non dissero
nulla. Alice mi sorrise emozionata, così che continuai a
correre, più veloce di
prima.
Mi lanciai fuori dalla porta, sotto
la pioggia fitta e
pesante, continuando a correre finché non raggiunsi il
centro esatto del
giardino.
«Edward!» urlai
a squarciagola, «Edward!» gridai
ancora, piegandomi per riprendere fiato, «Edward!»
ripetei, con quanto fiato
avevo in corpo.
Dal fitto della vegetazione,
attraverso la coltre di
pioggia, vidi avanzare la figura di mio marito, a passo umano. Mi
lanciai di
corsa, ancora, sciaguattando con i piedi nudi nel fango, fino a
buttarmi fra le
sue braccia.
Attaccai le mie labbra alle sue
febbrilmente, con
amore, passione, gioia e paura di quella tanta troppo gioia. Lo tenevo
stretto
a me, la sua testa fra le mie mani, fra i suoi meravigliosi capelli
bagnati. Lo
baciavo, ancora, ancora, senza staccarmi, comunicandogli tutta la mia
felicità
e il mio amore immenso. Perché aveva compiuto un miracolo,
un piccolo grande
miracolo. Perché in un istante, tutto l’universo
si era ribaltato, rendendo
possibile che portassi in grembo mio figlio,
mio e di Edward, nato dal nostro immenso amore.
Edward si staccò da me,
guardandomi con immenso amore
e dolore, insieme, scostandomi una ciocca bagnata di capelli dal viso.
«Va
bene, Bella. Hai fatto la scelta giusta, sarò davvero come
un padre per lui…».
«No Edward. No»
dissi decisa, sorridendo dell’immensa
indescrivibile emozione totalizzante che provavo in quel momento.
«Tu non sarai
come un padre».
Si bloccò, confuso, non
capendo le mie parole.
«Tu sei suo
padre».
Lui fece un’espressione
sbigottita, per poi rivolgere
lo sguardo alle mie spalle. Mi voltai. C’era tutta la
famiglia. Carlisle fece
un cenno d’assenso, sconcertato.
Edward riportò i suoi
occhi nei miei «Ma… com’è
possibile?» balbettò, gli occhi sgranati.
Sbattei le palpebre per via della
pioggia. «È
possibile» dissi solo.
Scosse il capo, incredulo
«No… Non… Non è
così…».
«Edward» lo
chiamai tremante, prendendo la mano che
aveva ancora sulla mia guancia e portandola lentamente verso la pancia,
senza
mai distogliere lo sguardo dai suoi occhi ambra. Sentivo il cuore nelle
orecchie. Infilai la mano sotto la maglietta bagnata, posando il suo
palmo
sulla mia pelle. «È tuo figlio».
I suoi occhi immobili si sciolsero,
accettando in un
sospiro quell’incomprensibile verità.
Chiusi gli occhi, sentendo il
freddo irradiarsi dalla
pancia in tutto il mio corpo, come se stessi godendo in quel momento
del più
puro e incorruttibile piacere.
La mano di Edward aderì
completamente alla mia pancia
ed io posai sopra la mia, riaprendo gli occhi e trovando la sua
espressione sconvolta.
«Mio figlio»
farfugliò, emozionato, per poi baciarmi.