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Autore: Little Firestar84    14/01/2022    3 recensioni
Il mentalista Patrick Jane irrompe ancora una volta nella vita di City Hunter: quando le tracce dei gemelli Jonathan e Cameron Black lo portano ancora una volta a Tokyo, è a Ryo e Kaori, coppia nel lavoro e nella vita, che il consulente dell'FBI chiede aiuto.
Senza sapere che City Hunter- e tutto il loro sgangherato gruppo di alleati- sta già seguendo il caso... solo da un'altra angolazione!
Da New York a Tokyo, la caccia ai ladri ha inizio, ed il tutto per proteggiere il misterioso e prezioso gioiello noto solo come Serpenti!
Genere: Commedia, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kaori Makimura, Ryo Saeba
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno | Contesto: City Hunter
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Consultant'
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Tokyo, stazione di Shinjuku. 

“Ma non potevamo almeno andare in albergo prima?” Kay si stava trascinando dietro una valigia parecchio pesante, mentre Jane si era limitato a portarsi dietro una sacca, e aveva al braccio la sua immancabile giacca; fresco come una rosa ed eccitato come un bambino la mattina di Natale, non sembrava essere appena sceso da un aereo dopo un volo di oltre mezza giornata, ma  essersi appena svegliato dopo un lungo sonno ristoratore su di un comodo e caldo giaciglio – ma probabilmente, il fatto di essere riuscito ad ottenere con uno sguardo e due paroline un upgrade dalla classe economica alla business aveva decisamente aiutato. Kay lo aveva già immaginato la prima volta che si erano incontrati, ma adesso ne aveva la conferma: Jane era un animale sociale, il cui territorio era il mondo intero, ed era un vincitore nato.

“Se vuoi contattare Saeba è qui che dobbiamo stare, e fidati, il tempo stringe!” Jane incrociò le braccia, gongolando. I capelli risplendevano, illuminati dal sole, e sembrava quasi un folletto birichino delle fiabe – anzi, più lo guardava, più Kay pensava alle divinità dell’inganno e della manipolazione di tanti miti. “Mancano solo tre giorni all’inaugurazione della mostra, non abbiamo tempo da perdere!”

“E non potremmo telefonargli?” Kay spalancò le braccia, mentre avvertiva il tessuto di cotone della maglia aderirle alla pelle, impregnato di sudore. Era stanca, stufa e stressata, e le quattordici e passa ore di volo le aveva passate in Economica nel sedile centrale, strizzata tra un tizio con problemi di sudorazione e una vecchietta petulante che non aveva chiuso il becco per un attimo. Voleva solo farsi una doccia e chiudere per cinque minuti gli occhi, in un posto comodo e tranquillo, senza gente intorno che la rimbambisse. “O… O andare a casa sua?”

Ancora una volta Jane venne colpito da quanto ingenua quella donna fosse: ingenua, buona, innocente, al limite del naif. Comportamenti molto simili a quelli della sua adorata moglie, Teresa Lisbon, che con Kay condivideva la professione di agente FBI. 

“Kay, tu hai capito che Saeba è un fuorilegge, vero?” Le domandò a bassa voce, con un tono da professorino che non capiva come la sua allieva potesse essere così indietro, e non capire un argomento di una tale semplicità e banalità. “Capisci che non è esattamente sull’elenco telefonico, e che non va a sbandierare a destra e manca dove vive, giusto?”

Kay aprì la bocca per parlare, poi però fissò Jane dritto in volto, sconvolta ed oltraggiata. La bocca era aperta, eppure non le uscivano le parole: non sapeva cosa dire per descrivere quanto fosse furente verso di lui. 

“Il gatto ti ha mangiato la lingua?” Le domandò, sollevando un sopracciglio. 

“Tu lo sai.” La donna lo accusò, con voce sibilante, espirando dal naso. Denti stretti, pugni chiusi, Kay era certa che se fosse stata in un cartone animato avrebbe avuto il fumo che le usciva dalle orecchie. “Tu sai  esattamente dove trovarlo ma non me lo vuoi dire!”

“Lascia che ti dica che mi sento profondamente offeso da queste tue accuse e …..” Iniziò a dirle, sollevando l’indice destro in tono perentorio, ma tuttavia, prima che potesse aggiungere altro, gli occhi di lei lo gelarono. Jane si schiarì la gola, e prese un profondo sospiro, prima di cambiare radicalmente espressione: il pagliaccio era sparito, lasciando spazio alla verità, l’uomo sì tormentato, ma d’onore. “Se Lisbon ed io siamo ancora vivi lo devo solo a Saeba, e sebbene tu e Cameron siate due delle poche persone che annovero tra i miei amici, devi capire che tu ed io siamo persone fondamentalmente diverse. Saeba, al contrario… a volte credo che mi assomigli più di quanto non voglia ammettere, e se voglio portarti nel suo mondo, è giusto che lo faccia alle sue regole.”

“Ma io ci sono già dentro!” Lei obbiettò, esasperata. “Lui mi conosce, sa che può fidarsi!”

“Kay, tu per lui sei un federale, Ryo non sa se sei più fedele al tuo cuore o al tuo distintivo, ma tu puoi mostrarglielo. Dagli l’occasione di conoscerti. Per davvero.” Jane provò a spiegarle, la voce quasi supplichevole, bassa. Un sussurro: lui e Kay erano così vicini che nessun’altro avrebbe potuto carpire la loro conversazione. 

“Dammi il telefono.” Le offrì il palmo della mano aperta; Kay prese dalla tasca del jeans aderente lo smartphone, un Samsung di ultima generazione, e lo sbloccò con la sua impronta digitale, prima di porgerlo al mentalista. “Bene. Hai l’app per aprire un QR code?” 

“Sì ma, perché?” Gli domandò esterrefatta, non capendo dove volesse arrivare. Mordendosi le labbra, Kay si guardò davanti: c’era solo uno schermo attaccato al muro, al cui centro c’era, effettivamente, un QR code, ma la donna non riusciva a capire cosa quello centrasse con Saeba. 

Jane non rispose: inquadrò il codice, e sullo schermo apparì una lavagna verde, non dissimile da quelle delle scuole nei tempi andati. Kay sbirciò da sopra la spalla del biondo, e lo vide scrivere tre semplici lettere in una colonna vuota: col dito tracciò, in verticale, in stampatello, la X, la Y e la Z, prima di lanciarle in mano l’apparecchio. Kay tentennò quasi, facendo ballare il cellulare nell’aria, rischiando che le cadesse a terra, ma riuscì ad afferrarlo e lo mise di nuovo al sicuro nella sua tasca. 

“E adesso?” Gli Domandò. Preferì evitare di fargli altre domande: Jane, facilmente, avrebbe tergiversato per non rispondere, oppure l’avrebbe canzonata – anche avesse deciso di essere serio e onesto, lei forse non sarebbe stata in grado di credergli, perché con lui non si poteva mai dire. 

“Spero che tu non abbia nulla di caro in quella valigia, perché i bagagli abbandonati di solito spariscono nel giro di pochi minuti, rubati da qualche malintenzionato o, se li trova la Polizia, li fanno esplodere… sai com’è, il rischio terroristico… e non sono certo che potremo portarci dietro quell’affare.” Jane fissava davanti a sé, e parlava con assoluta tranquillità, il tono pacato; tuttavia, stava gettando l’occhio alle sue spalle, fingendo di controllare se ci fosse coda a uno dei tanti bar della stazione. Kay lo capì subito, ma immaginò fosse meglio far finta di nulla e dargli corda, tuttavia, alzando un sopracciglio, lei stessa si guardò intorno.

Due uomini si stavano avvicinando, fingendo di trovarsi lì per caso, che la loro fosse una camminata qualsiasi: vestiti di scuro, i visi coperti da mascherine sanitarie, come era uso fare in Asia quando si era allergici a pollini, polveri o si aveva magari tosse e raffreddore, per proteggere la comunità.  

Qualcosa a cui la gente lì non avrebbe normalmente posto attenzione: ma lei e Jane non erano esattamente persone comuni. Erano stati a contatto col marcio abbastanza a lungo da sentire la puzza lontano mille miglia. 

“Ti fidi di me?” Le domandò. Kay fece segno di sì col capo, le labbra strette in una morsa quasi dolorosa: d’altronde, che possibilità aveva? C’era scelta, forse? 

No – e poi, lei aveva chiesto aiuto a Jane, lo aveva trascinato a New York ad esaminare gli indizi lasciatole da Cameron, facendogli credere che si trattasse di un caso di omicidio, riconducibile alla Blake Society (1), e lui non solo l’aveva perdonata - ma capita, ed aveva accettato di darle il suo aiuto.

Kay doveva fidarsi di lui. 

“Prendi la valigia e cammina al mio fianco, con calma…” La istruì, fingendo di ridere e facendo cenno di sì col capo, e Kay eseguì. “Brava, così. Adesso ridi, fingi di trovarmi adorabile… tu mi trovi adorabile, vero?”

“Trovo adorabile che tu riesca sempre a cacciarti in un mare di guai ovunque tu vada…” La donna lo canzonò, sospirando. Fingeva di ridere, ed intanto, trascinandosi dietro il trolley, camminava. Il suo passo era apparentemente tranquillo, quello un po’ strascicato, pigro di certi turisti, ma ogni muscolo era teso come una corda di violino, pronto a farla scattare non appena Jane le avesse dato il segnale. 

Lasciarono la stazione, consapevoli della presenza minacciosa alle loro spalle; Jane le teneva una mano sulla spalla, le indicava questo e quell’altro, memore del suo precedente viaggio a Shinjuku, parlottava mettendo nelle frasi luoghi comuni e sporadiche conoscenze acquisite nelle più disparate maniere nel corso degli anni. 

Lei, annuiva, fingeva di ascoltare – ma i suoi sensi erano focalizzati su quei due uomini, che avevano aumentato il passo, riducendo la distanza che li separava gli uni dagli altri. 

Kay guardò fissa davanti a sé il semaforo pedonale che lanciava la sua luce rossa. Si fece forza, concentrandosi su cosa significasse ciò che stava loro accadendo.

Quella donna sapeva che erano a Tokyo, e aveva mandato loro incontro un comitato di accoglienza: Jane aveva avuto l’intuizione giusta,  quella era la pista da seguire, tutto portava a quella collana.

Ma… c’era una ma. Cosa significa questo per Cameron? La donna misteriosa aveva capito che era stato lui a lasciare una scia di indizi perché Kay lo potesse ritrovare, potesse salvare lui e Jonathan?

Cameron era forse in pericolo ora?

“Andiamo, adesso…” Jane si incamminò verso l’ingresso di un vicolo, stretto e scuro, lontano da occhi indiscreti. Fece finta di guardarsi intorno con circospezione, quasi avesse voluto appartarsi con la sua amante, ma Kay piantò i piedi a terra, irrigidendosi. Il panico si stava impadronendo di lei, e per quanto volesse fidarsi di Jane, quel gesto le sembrava sciocco, stupido, quasi quell’uomo fosse stato come un topo che desiderava essere divorato dal gatto. 

“Un vicolo? No!”  Gli sibilò contro con voce tagliente, l’istinto che le gridava di allontanarsi, scappare, fuggire - mettersi in salvo. “Loro sono armati, e solo io so un po’ di autodifesa. Ci metteranno con le spalle al muro!”

Kay cercò gli occhi di Jane: vi trovò non paura, ma solo serenità, tranquillità. 

Jane sapeva cosa stava facendo: aveva un piano. Ma quale? Farsi catturare? Il semplice fatto che la donna misteriosa sapesse che loro erano arrivati a Tokyo era già di per se grave, ma se quei due scagnozzi li avessero presi, non solo le loro vite sarebbero state in pericolo, ma la posizione di Cameron si sarebbe complicata e di non poco: lei avrebbe capito che il giovane illusionista l’aveva tradita.

Kay sapeva che la scelta migliore sarebbe stato fuggire, eppure… eppure c’era qualcosa nello sguardo di Jane che la teneva incollata a lui, che la rassicurava. Era una finta, lo sapeva bene Kay: quello era lo sguardo ammaliatore che Jane aveva usato sulle folle, quando aveva spennato soldi a vagonate a disperati fingendo di essere un sensitivo, di parlare con l’aldilà, di vedere il futuro. Lei in quel momento non era sua amica, sua collega: era sua vittima. 

E in quel momento decise che le andava bene. Che voleva credere che, come nelle fiabe a cui aveva smesso di credere fin troppo presto, ci sarebbe stato il lieto fine. 

Si stampò sul viso un sorriso, si avvicinò al consulente FBI e gli lasciò all’angolo delle labbra un bacio, che ai passanti indaffarati (e forse ai loro inseguitori) sarebbe apparso come vero, di passione. La mano lasciò la maniglia del trolley, e scivolò nell’apertura a V della camicia leggermente sbottonata, mentre lui la spingeva in fondo al vicolo,  tuffando il naso nei capelli di Kay.

Un flash, un ricordo, un brivido che percorse l’intero essere del mentalista, facendogli avvertire un senso di nausea e vertigine: il passato, un’altra messinscena. 

La seduzione della donna di John il Rosso, nella speranza che lei lo portasse al cospetto della sua nemesi, o che tradisse l’infame serial killer.

Lo sguardo della sua amata Teresa quando aveva capito cosa Jane fosse arrivato a fare per raggiungere il suo scopo. 

La delusione. 

L’amore, creduto non ricambiato, ferito. 

Il respiro gli morì in gola, mentre il cuore accelerava i battiti  ad un ritmo pazzo. Jane si portò una mano al petto: sarebbe fuggito dalla gabbia toracica, il cuore, scoppiato?

“Jane….” Kay avvertì il panico dell’amico e collega, e nonostante non capisse cosa lo stesse causando, perché fosse cambiato così nel giro di un attimo, gli posò una mano sul braccio, rassicurante, e gli sorrise, complice e serena.

Sarebbe andato tutto bene. Sarebbero tornati a casa – lui da Teresa, lei con Cameron. 

Poteva fidarsi di lui.

Jane si morse le labbra, strinse gli occhi e prese un profondo respiro, facendo cenno di sì col capo; si concentrò non sul passato, ma sul presente, sulle differenti situazioni, e permise al tocco delicato ma caldo e rassicurante di Kay di ancorarlo nel momento.

Raggiunsero il fondo del vicolo; spinse la schiena della donna contro i sudici mattoni, mentre l’olezzo di spazzatura lasciata lì troppo a lungo riempiva loro i polmoni, ed un gatto miagolava scappando, bottiglie di birra vuote che cadevano a terra frantumandosi al suo passaggio caotico. 

Sono qui, ora, adesso. 

Le mani di Kay gli strinsero gli avambracci fino a quasi fargli male mentre lei guardava oltre le spalle del mentalista: le due figure li avevano seguiti nel vicolo e si avvicinavano, minacciose. In mano, non pistole, ma taser che sfrigolavano con scintille luminose di energia elettrica. 

La schiena di Kay fu percorsa da un brivido, mentre ricordava esattamente cosa si provava nell’istante in cui venivi pungolato, e il tuo avversario schiacciava un bottone, permettendo alla scarica di percorrere tutto il corpo, bloccando l’intero sistema nervoso centrale – immobile ma presente, come una macabra bambola.

“Ehm. Disturbo?”

Uno dei due energumeni si voltò, quando sentì la voce venir schiarita alle sue spalle, qualcuno che gli picchiettava sulla schiena mingherlina. Sgranò gli occhi, mentre sotto alla mascherina la bocca si apriva in una malcelata espressione di terrore, che aumentò nell’istante in cui il nuovo venuto ghignò soddisfatto. 

Sapeva con chi aveva a che fare: bene.

Con le mani in tasca dei jeans neri, fischiettando nemmeno stesse facendo una passeggiata, alzò il ginocchio, colpendo nello stomaco l’energumeno. Mentre questi gemeva di dolore, il suo corpo si sollevò in aria, ed un altro calcio lo colpì: stavolta alla testa. La potenza e la velocità del calcio assestato lo mandarono a sbattere contro i mattoni, e l’uomo ricadde a terra, dolorante.

Occhi spalancati, dita tremanti, sangue caldo che colava dal naso, la testa che gli pulsava, non riusciva a muoversi, ma sapeva di doverlo fare. Era già grave che avessero fallito, ma se fossero stati catturati,  non ci sarebbe stata alcuna pietà per loro un volta che lei gli avesse trovati.

Lei non possedeva cuore, e forse faceva loro persino più paura dell’uomo che gli stava innanzi, la leggenda in carne ed ossa. 

Nemmeno mezza ciocca fuori posto, fresco come una rosa, l’uomo si voltò verso il secondo assalitore, che stava lentamente camminando all’indietro, verso l’uscita del vicolo, il corpo che tremava quasi fosse stato di gelatina. 

L’uomo sollevò un sopracciglio, interessato, e sghignazzò; tirò fuori dalla tasca una biglia di metallo, e come fosse stata una pallina da tennis o da baseball, la lanciò contro la testa dell’uomo. 

Lo colpì: forse la potenza del lancio, nonostante la grandezza dell’oggetto e la relativamente minima distanza, o forse per la sorpresa, il criminale perse l’equilibrio. Razzolò a terra, cadendo sulle ginocchia, mentre il taser gli scivolava via dalle mani.

Avvertì passi alle sue spalle: lui si stava avvicinando, con incedere minaccioso e deciso. L’uomo non attese altro, e fregandosene bellamente del compare, che a terra lo supplicava in silenzio di aiutarlo, allungando una mano tremante e debole verso di lui, scappò. L’adrenalina andò a mille, mentre l’aria gli bruciava i polmoni e cercava di mettere quanta più distanza  possibile tra di loro… anche perché se lui era lì, la sua socia non poteva essere troppo lontana. 

Mentre l’energumeno fuggiva, una Mini Cooper rossa fiammante si fermò lungo la strada, all’altezza del vicolo. Una donna si sporse dal finestrino, vestita con una camicetta bianca ed un giacchino di pelle rosso.

“Che faccio, lo seguo?” Domandò senza preamboli all’uomo che era giunto in soccorso di Kay e Jane. 

“Nah, lasciamolo andare. Facciamolo correre con la coda tra le gambe dal suo capo per dirle che di questa faccenda ce ne stiamo occupando noi… e poi noi abbiamo già questo qui da far cantare, ih, ih, ih!” Lui sogghignò, mentre premeva la suola della scarpa sulla schiena del malcapitato che aveva messo al tappeto, senza tuttavia metterci troppa convinzione. 

Era una messinscena. Anche quell’altro sbandato sarebbe fuggito, anche lui avrebbe raccontato la sua versione al loro capo… e sarebbe bastato il cliente a raccontare a lui e Kaori la sua storia. Ryo si sarebbe premurato di avere tutti i dettagli prima di accettare il caso, ma già sentiva che di qualsiasi cosa si trattasse, sarebbe stato decisamente interessante – e se erano fortunati, anche redditizio.

Ryo prese dalla tasca il cellulare, e puntò lo schermo in direzione della coppia appena salvata, mostrandoglielo: Kay riconobbe la stessa schermata che era apparsa sul suo telefono quando Jane aveva inquadrato il codice QR alla stazione.C:\Users\eli\Desktop\Downloads\city-hunter-xyz.jpg

XYZ.

“XYX… siete voi che avete chiamato City Hunter, vero?” Senza voltarsi a guardarli, parlò con voce matura, suadente, lo sguardo sì concentrato, ma che aveva un che di affabile, conturbante. Non sembrava un comune mortale, una persona normale, ma bensì l’eroe di un romanzo noir di altri tempi. “Sono Ryo Saeba e sono qui per…. Jane?!”

Ryo sgranò gli occhi, la mandibola che quasi gli toccava terra quando vide chi aveva davanti – chi gli aveva mandato quella richiesta d’aiuto. Patrick Jane: Ryo quasi perse l’equilibrio, fissando il mentalista, quasi sconvolto. Dovunque Jane andasse, c’erano guai, questo lo aveva già capito, ma l’ultima volta che l’ex truffatore era stato a Tokyo loro ci avevano quasi rimesso la pelle… loro, e anche la moglie di Jane, Teresa.

“No, no, no! Non se ne parla, nemmeno per sogno!” Lo sweeper gracchiò in tono minaccioso, puntando il dito contro l’americano. “Tu porti solo rogne, e  l’ultima volta che sei venuto in città mi sono ritrovato invischiato in una setta di pazzi assassini e a momenti io e Kaori ci siamo rimasti secchi, e tutto per la tua dannata boccaccia!”

“Ah, Ryo, è sempre un piacere incontrati!” Jane, quasi non avesse sentito una sola parola, scoppiò a ridere, divertito; dal taschino del gilet tirò fuori un paio di eleganti occhiali da sole, estremamente trendy nelle loro linee, e li indossò, alzando il viso verso il sole. “Proprio una bella giornata, eh? Non sembra nemmeno inverno!”

“Jane…” Ryo incrociò le braccia, e grugnì il suo disaccordo, lanciando sguardi carichi d’ira al biondo americano. “Arriva al dunque, che diavolo vuoi?”

“Beh, Ryo, punto primo, tecnicamente tu mi devi un favore, perché è grazie a me che hai tolto tuo cognato dai guai- per la questione di Visualize siamo pari perché è sempre grazie al sottoscritto se hai risvegliato la tua bella fidanzata da quel brutto trance ipnotico. Punto secondo…” Jane sorrise, compiaciuto, facendo schioccare la lingua, usando quel tono falsamente mellifluo che più volte gli aveva causato problemi con le forze dell’ordine. “Punto secondo, il cliente non sarei io, ma lei, e sarai pure accasato, vecchio volpone, ma tu, alle richieste di aiuto di una donna innamorata e disperata e per giunta bella, non hai mai saputo dire di no. E non mentirmi, che tanto lo sai che è inutile, ti conosco troppo bene!

Indicò Daniels, che contro il muro si era incurvata nelle spalle, facendosi piccola: quando aveva incontrato Ryo e Kaori, aveva immaginato che il loro mondo fosse uno in bilico tra la luce e l’ombra, ma adesso ne aveva la certezza. City Hunter: quel nome era una leggenda anche negli Stati Uniti – una leggenda che anche lei, come molti altri membri delle forze dell’ordine, aveva scoperto negli anni all’FBI. 

Molti lo credevano una leggenda metropolitana: lei, adesso, scopriva che non era così, che si trattava della realtà.

Ryo alzò gli occhi al cielo, e scrollò le spalle, sbuffando. “Tanto, conoscendoti, se non accettassi minimo mi ipnotizzeresti, peggiore dei casi arriveresti al ricatto per farmi fare quello che vuoi…”

“Che esagerato, sempre a pensare il peggio di me!” Jane gli rispose, ma in realtà stava gongolando; da quando lui e Ryo si erano incontrati per la prima volta, aveva scoperto di aver trovato in lui un compare – un uomo che gli era più simile di quanto loro stessi volessero ammettere, ed adoravano punzecchiarsi a vicenda. 

“Agente Daniels… qual buon vento la porta qui in Giappone?” Ryo si voltò verso di lei, abbandonando l’espressione frustrata ed annoiata che aveva riservato a Jane, e sorridendole affabile, con aria rassicurante; le offrì la mano in segno di fiducia, e lei fissò quel palmo aperto, quasi non sapesse come comportarsi, poi alzò lo sguardo verso Ryo prima, e Jane poi, ed il mentalista annuì, con un gesto pacato del capo. 

Kay prese un profondo respiro, e afferrò quella mano, stringendola nella sua mentre serrava gli occhi, che volevano ardentemente piangere: ma non lo avrebbe fatto, sapeva di dover essere forte. 

“Un mio carissimo amico si è messo in una marea di guai per salvare la vita di suo fratello, e credo che adesso potrebbe essere qui in Giappone, alle calcagna di una ladra, truffatrice e probabilmente anche assassina… e io….” Ingoiò a vuoto, mentre soffocava un singhiozzo. “Mi serve il suo aiuto per trovarlo prima che sia troppo tardi.”

“Beh, nessun problema, agente Daniels…” Kaori sorrise. “Lei è nel posto giusto!”

Si voltò verso Ryo, bella e luminosa come il sole, risplendente. 

Lui le sorrise di rimando, sospirando: ormai era chiaro che, tra di loro, a portare i pantaloni in casa era Kaori, e comunque, non sarebbe mai stato in grado di dirle di no. 

Lo sweeper sospirò, grattandosi il capo. 

“E va bene, accettiamo il caso…. Vediamo di recuperare il fidanzatino dell’agente Daniels! Ma sia ben chiaro, Jane…” Ryo sorrise, facendogli l’occhiolino. “Risolta questa, stavolta siamo pari!”

“Ah, per me va benissimo, tanto scommetto che prima che finisca questa storia sarai di nuovo in debito con me…” Il mentalista gli passò accanto, uscendo dal vicolo, dando una pacca sulla spalla di Ryo; poi prese nella sua la mano delicata di Kaori, e lasciò un delicato bacio sulla pelle delle nocche, facendola arrossire come fosse stata una ragazzina – mentre lo sweeper fumava di rabbia, grugnendo, e maledicendosi per aver detto di sì. “Kaori, sono felice di rivederti. Sei sempre bellissima – anzi, ad essere sincero hai un qualche cosa di diverso… non dirmelo, tu…”

Le sorrise in modo enigmatico, quando lei non gli rispose, e Jane scrollò il capo, comprendendo cosa stesse accadendo; si voltò verso Ryo, e borbottando qualcosa a denti stretti in inglese, gli diede una sonora pacca sulla schiena – lo sweeper si limitò a fissare quello strambo uomo, incapace di arrivare a cosa volesse dire. 

“Bene, allora direi che possiamo andare a discutere del caso, sì?” Jane batté le mani, e lasciò il vicolo, scavalcando il malcapitato che, ancora a terra, gemeva. “Che dite, andiamo a berci una buona tazza di the? Quella del tuo amico Falcon era una meraviglia!”

  1. In The Mentalist la Blake Society era la società segreta di cui faceva parte John il Rosso. Ne erano componenti agenti di polizia e figure governative, che la usavano per insabbiare le proprie nefandezze.

   
 
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