SHADOWS IN THE DARK
1. La Volpe, l’Asino e il Serpente.
PROLOGO
“Il passato è attaccato alle nostre spalle. Non
possiamo vederlo, ma possiamo sempre sentirlo.”
(Mignon McLaughlin)
Una volpe.
C’era una volpe sul calendario da tavolo del suo ufficio. Ma non
per davvero. Lo sapeva che non c’era, ma la vedeva.
Le lettere dei mesi e degli anni e i numeri dei giorni si erano mescolati, le
linee che separavano le date allungate e i quadretti allargati ed eccola lì, la
volpe, frutto di tutti quei movimenti neri sulla carta.
Ma non per davvero.
Le lettere e i numeri erano a posto e le linee dritte e tese come una corda. La
volpe? Se si trovava da qualche parte era nella sua testa, e certamente non su
quel pezzo di carta, e tutto quello che Nolwenn capì
da quella strana illusione ottica era che aveva decisamente bisogno di una
vacanza, soprattutto lontana da luoghi come quello, il cui tempo passava così
inesorabilmente lento che la sua mente era arrivata a distorcere un noioso
calendario e a vederci dentro una volpe, che non era gran cosa, ma
evidentemente migliore. Non che ci volesse molto.
Ma chi gliel’aveva fatto fare di ridursi così? Sapeva benissimo che
la sua unica possibilità di vivere senza dover lavorare era vincere alla
lotteria, ma questo?!?
Era questo il suo futuro? La sua vita? Era davvero questo che l’aspettava? Non
aveva neanche trent’anni, e già non ne poteva di più. Ma cos’altro poteva fare?
A cos’altro poteva aspirare?
“Poteva andarti peggio. Potevi trovare un lavoro manuale. Un lavoro
fisicamente faticoso. Un lavoro sottopagato. Un lavoro che superava le otto ore
giornaliere. Oppure nessun lavoro.” Le diceva sempre sua madre, e per quanto ne
fosse infastidita, Nolwenn sapeva che le sue parole
non avevano lo scopo di offenderla, ma di riportarla alla realtà.
“Sii grata per quello che hai.” E lo era.
Non si era mai lamentata. Non aveva mai preteso di avere una vita migliore di
quella che le era stata offerta. Dava tutto quello che guadagnava ai suoi
genitori spontaneamente perché sapeva che erano poveri e vecchi. Quando c’era
da fare la spesa, da portarli dal medico o qualsiasi incombenza di tipo
burocratica era sempre stata lei ad occuparsene. Era diventata un’adulta molto
prima del compimento dei suoi diciotto anni, e ora che di anni ne aveva
ventiquattro, si sentiva una quarantenne schiacciata dalle responsabilità. Ma a
volte, solo a volte, avrebbe preferito qualcosa di più. Non voleva una vita più
ricca, più famosa o più facile, ma solo.. più emozionante.
“.. voglio dire, ho fatto richiesta dei documenti più di una
settimana fa, oggi è il 15 aprile e ancora non sono arrivati? Quando dovrò..”
Né le parole di sua madre né una volpe mai esistita riuscirono a
riportarla alla realtà, ma la voce ancora squillante di Fournier che da due ore
la teneva impegnata in quella che era più un ascoltare e basta da parte di Nolwenn che in una conversazione ci riuscì. Incredibile.
Che due palle.
“Capisco perfettamente, signore. Riferirò ai miei superiori affinché i
nostri settori lavorino più in fretta per farle avere quei docum-“
Nolwenn non riuscì a terminare la frase che un brusco
rumore la interruppe. Il rumore di una telefonata interrotta.
Il fetente ha riagganciato! Due ore ad ascoltare le sue
patetiche ciarle e per una volta che parlavo io, e con molta più cortesia di
quanto meritasse, mi sbatte il telefono in faccia?!?
Nolwenn non fece in tempo a riagganciare la cornetta
che Tomlison, il suo capo, apparve sulla soglia del
suo ufficio, l’espressione infastidita come se fosse stato lui ad aver avuto a
che fare con quel cliente, ma Nolwenn sapeva che il
fastidio che provava era causato esclusivamente da lei.
“Domani ci sono i controlli.”
“Sì, ne sono consapevole.” E’ da una settimana che se ne parla.
Sarebbe stato strano non saperlo.
“Quindi, ecco.. puoi prenderti un giorno di riposo.”
La conversazione stava prendendo esattamente la piega che Nolwenn si aspettava, ma questo non la rendeva meno
irritante.
“Posso o devo?”
Se Tomlison aveva voglia di fare lo
stronzo, lei non aveva nessuna intenzione di renderglielo più facile.
“Lo sai come funziona.” La stava guardando dritto negli occhi, rigido come se
guardarla fosse per lui uno sforzo enorme.
“E come funziona?” sapeva già la
risposta, ma voleva che Tomlison lo dicesse a voce
alta, così forse si sarebbe reso conto di quanto stupido fosse il suo
ragionamento. Forse.
“Sono i controlli. Valuteranno ogni cosa. Deve essere tutto perfetto.”
“Anche la mia faccia?” forse Tomlison non
aveva le palle di dire le cose come stavano veramente, ma lei sì.
Sempre lo stesso problema. Quel problema che i più audaci le
dicevano in faccia mentre i più timidi si limitavano a fissarla come se
avessero visto un alieno: i brufoli.
Lei ne era sempre stata costellata, di brufoli. Dall’infanzia all’adolescenza,
e anche ora che era diventata un’adulta non l’avevano ancora abbandonata.
Fortunatamente le molte lentiggini aiutavano a mascherarne alcuni, ma quelli
più grandi e visibili erano difficili da nascondere, e ovviamente i più erano
sul viso: tre sulla fronte, due sulla guancia sinistra, altri tre sulla destra
e cinque sul mento, di cui due abbastanza piccoli e gli altri tre grandi quanto
un dente, ma era quello nella schiena il più grande e il più fastidioso,
trovandosi esattamente nella zona in cui la pelle toccava il tessuto del
reggiseno, causandole di tanto in tanto un leggero dolore.
Nolwenn sapeva che non era poi così comune
per una giovane donna adulta averne tanti, o averne anche solo qualcuno, e per
quanto lei stessa avrebbe preferito liberarsene, non se ne vergognava al punto
di sentire di doversi giustificare o nascondere per averli, tanto meno per
questioni in cui il suo aspetto non aveva nessuna rilevanza. Come il lavoro.
“Non è niente di personale, Nolwenn..” continuò
imperterrito Tomlison, pur sapendo che lei non
avrebbe creduto ad un sola parola “.. è una questione di reputazione. E di prime
impressioni.”
“Controlleranno il mio lavoro, non la mia pelle.” e la mia pelle
non è in alcun modo affar loro, come non è tuo.
“Non hai nessuna idea di cosa controlleranno. E io non posso
rischiare che si facciano una brutta idea.”
“Però a Natale dell’anno scorso qualche rischio te lo sei voluto
prendere, eh? Quando mancava dello staff e io ho dovuto lavorare dodici ore al
giorno per due settimane perché senza il lavoro si sarebbe fermato. Allora ti
andava bene di vedere la mia faccia brufolosa, eh?”
“Hai detto anche troppo, Laurent. Sono io il capo. Sono io che
decido. La discussione è chiusa, fine della storia. Domani non voglio vederti
in ufficio.”
E non mi vedrai. Stanne certo.
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“L’avvenire è la porta. Il passato ne è la
chiave.”
(Victor Hugo)
Le risate infantili dei bambini che si correvano a vicenda nel
grande giardino erano talmente forti e vivaci da aver raggiunto Arielle dal momento in cui erano nate, nonostante la
distanza e le finestre chiuse. Così come le chiacchiere degli adulti e il
profumo del banchetto esterno.
Arielle diede un’ultima, fugace
occhiata a ciò di cui era privata dalla sua stanza chiusa e lontana, per poi
allontanarsi dalla finestra e sedersi sul suo letto, prima che qualcuno da
fuori, magari alzando lo sguardo, la vedesse.
La sua attenzione si spostò sull’elegante orologio a pendolo, le cui lancette
si muovevano con una tale lentezza da averle dato l’impressione di essere
finita in un mondo parallelo in cui tutto si muove a rallentatore. Fu allora
che ebbe l’impressione che una delle lancette avesse un aspetto diverso dal
solito. La lancetta che segnava i minuti.
Era più gialla di quanto ricordasse. Era sempre stata così gialla? E sembrava
più ondeggiante del solito. Si stava muovendo per caso? Impossibile. Sembrava..
sembrava quasi un minuscolo serpente giallo che si agitava per uscire.
Devo aver dormito peggio del solito questa notte. La mente mi fa brutti
scherzi.
Poco
meno di un minuto dopo, la porta della sua camera si aprì ed entrò una donna
che non poteva avere meno di sessant’anni. Le sue mani erano rovinate e i suoi
lineamenti duri e invecchiati più del dovuto, ma i suoi occhi erano gentili.
“Perdonate il disturbo, signorina Marchand.. avete fame? Ho preso dalla cucina
dei croissant alla marmellata appena sfornati, i vostri preferiti.”
Per la prima volta nel giro di qualche ora, nel volto di Arielle
si formò un sorriso grato e timido.
“Colette.. non dovevi, io.. non ho molta fame. Mangiali tu.”
“Signorina, io ho mangiato più recentemente di voi. Ve li
lascio qui, nel caso cambiaste idea.”
Arielle si limitò a sorridere, e
il volto della cameriera si fece preoccupato.
“State bene, signorina? Avete bisogno di qualcosa?”
Il sorriso di Arielle si spense
lentamente, e tornò a guardare l’orologio a pendolo. Le lancette ora sembravano
muoversi ancora più lentamente di prima, e la lancetta dei minuti sembrava
ancora un serpente giallo.
“Ho bisogno che il tempo passi più in fretta, ma temo che
questo nessuno possa cambiarlo.” Continuava a guardare l’orologio a pendolo
mentre parlava, e la sua voce era talmente melodica e dolce da sembrare quella
di un angelo.
“Nessuno vi obbliga a stare qui, signorina. Lo sapete. Se solo
voleste, potreste scendere e partecipare alla festa della vostra famiglia.”
Era vero. Nessuno la obbligava. Non era una prigioniera. Però
sapeva che la sua famiglia lo avrebbe preferito, e lei non voleva ferire la sua
famiglia. No. Quando la festa sarebbe finita e gli ospiti fossero tornati a
casa loro, sarebbe scesa. Ma non prima.
“Potreste mettervi uno dei vostri meravigliosi vestiti..
sareste la più bella di tutti.”
La più osservata di sicuro, ma di certo non per la sua
bellezza. I suoi occhi erano ancora rivolti all’orologio a pendolo, ma non
osservava più le lancette. Nell’orologio riuscì a vedere la propria immagine
riflessa, ed eccole lì, le sua chiazze non pigmentate, sul viso, sul collo,
sulle spalle e sul resto del corpo.
“La vitiligine colpisce lo 0,5 – 2 % della popolazione mondiale..” e Arielle faceva parte di quel numero fortunato.
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“Il presente è il punto in cui il tempo
tocca l’eternità.”
(C.S. Lewis)
Vide Arielle e Nolwenn non appena arrivò nella maestosa piazza di Notre
Dame, ma non fu la sola: sua madre, che l’aveva accompagnata in macchina, gettò
un’occhiata alle due ragazze, prima di riportare la propria attenzione su sua
figlia.
“Te l’avevo detto che era meglio indossare gli
abiti che ti avevo preparato, Yvonne. E anche pettinarti i capelli non sarebbe
stato male.”
Tombola.
“Mamma ti prego, non cominciare.”
Arielle
indossava un meraviglioso abito raffinato ed elegante come si addiceva alla
ricca e facoltosa famiglia a cui apparteneva, ma anche molto femminile. I suoi
meravigliosi riccioli dorati le cadevano sulle spalle e i suoi occhi azzurri
spiccavano nonostante fosse quasi sera.
Accanto a lei, seduta sul muretto davanti alla cattedrale di Notre Dame c’era Nolwenn, con una gamba davanti appoggiata alla
pavimentazione della piazza e l’altra distesa su una parte del muretto. Aveva i
capelli rossi raccolti in una coda frettolosa ma ben fatta, e gli occhi verdi
sorridevano all’amica. Indossava jeans, scarpe da ginnastica e una maglietta
comoda, ma elegante. Non era femminile e curata come Arielle,
ma a modo suo lo era anche lei.
Tutt’altra faccenda era Yvonne. Capelli scuri,
spettinati e poco curati, occhiali appannati dalla montatura spessa che
nascondevano due grandi occhi, dello stesso colore dei capelli, spesso
annoiati, dei ben visibili baffetti sopra il labbro superiore e una grande
T-shirt raffigurante i Pokémon, fin troppo grande per lei e chiaramente ideata
per essere indossata da un uomo.
Yvonne di anni ne aveva ventiquattro, esattamente come Nolwenn
e Arielle, ma mentre le due amiche li dimostravano,
lei sembrava ancora una ragazzina di tredici anni.
Salutò rapidamente la madre con la mano e uscì dalla vettura. Si incamminò
verso le due ragazze, ma dato che loro l’avevano già vista, finirono con
l’incontrarsi a metà strada.
Come facevano ogni volta che si incontravano, Arielle la salutò calorosamente nei gesti, abbracciandola
delicatamente, con la sua voce piena di affetto e accarezzando le sue braccia
in modo rassicurante, mentre Nolwenn la salutò
calorosamente con la sua voce carica di energia e di battute e con la gioia
negli occhi.
E come tutte le altre volte, Yvonne si limitò ad un sorriso che sfoggiava di
rado e un “ciao” molto sussurrato, che non era mai all’altezza di come invece
veniva accolta da loro due.
Erano amiche da tanto, dai tempi dell’asilo, ad unirle era stata la loro
reciproca solitudine. Allora Nolwenn aveva già i
brufoli e Arielle già la vitiligine, ma Yvonne non
aveva ancora le unghie mangiate e la caduta dei capelli, ma era comunque sola
per via della sua timidezza.
Le unghie iniziarono a rovinarsi con l’inizio della scuola e di tutto quello
che ne era derivato, tra cui l’ansia che l’aveva portata a mangiarsi
costantemente le unghie e che ancora non l’aveva abbondonata.
Poi era subentrata la perdita dei capelli causata da un problema nel sangue.
Non era così grave da essere definita alopecia, ma fu costretta a smettere di
portare la riga al centro e passare a quella laterale per fare in modo che non
si notasse e ciò nonostante, se ti avvicinavi abbastanza, riuscivi a vedere la
cute.
Sua madre aveva provato qualsiasi tipo di cura per anni e per la maggior parte
delle volte Yvonne acconsentì, ma quando le propose dei farmaci, si rifiutò.
Non era vanitosa fino a quel punto, e se avesse dovuto prendere dei farmaci
quotidianamente per arginare il problema, si sarebbe tenuta le sue cadute di
capelli, e al diavolo tutti quanti.
Iniziarono a chiacchierare del più e del meno, camminando per la piazza di
Notre Dame che rimaneva comunque bellissima a discapito della sera che si stava
avvicinando, ma la compagnia era ancora più bella.
Yvonne parlò poco come al solito, si limitava più che altro ad ascoltare Nolwenn e Arielle, le cui vite ed
episodi da riferire erano sicuramente più incisivi e più interessanti dei suoi,
ma le due coetanee parvero apprezzare ognuna delle cose che Yvonne disse,
l’ascoltarono con attenzione, e risero quando se ne usciva con una battuta.
Qualche ora più tardi, tutte e tre si diressero di comune accordo dentro la
Cattedrale di Notre Dame: nessuna delle tre era religiosa, ma l’amavano tutte
quel luogo, per ragioni diverse.
Nolwenn ne era attratta per essere sempre stato un
luogo di pace e tranquillità, laddove il resto della sua vita era frenetica.
Arielle ne amava l’ottimismo e la speranza che
diffondeva quel luogo, il desiderio di un futuro migliore.
Yvonne, invece, ne amava lo stile gotico nell’architettura interna ed esterna,
dandole l’impressione di essere in quei film un po’ cupi che amava così tanto.
Se ne stettero in una delle panchine della cattedrale, in silenzio, ognuna
immersa nei propri pensieri. Ognuna immersa nelle loro preghiere. Preghiere a chi?
A Dio? Al futuro? Alla speranza? Difficile dirlo.
Poi, Yvonne sentì dei rumori. Erano scarpe. Piedi.
Che si muovevano frettolosamente e con agitazione. Strano, considerando il
luogo in cui si trovava.
Decise di aprire gli occhi.
Nolwenn e Arielle li avevano
ancora chiusi, evidentemente non avevano sentito nulla, ma Yvonne aveva sempre
avuto un udito fuori dal comune.
Una delle guardie di sicurezza della cattedrale si muoveva tra le persone
sussurrandogli qualcosa e tutte, poco dopo, si avviano all’uscita. La stessa
guardia poi si avvicinò a loro: si rivolse a Yvonne, dato che era l’unica con
gli occhi aperti.
“Scusate signorine, ma devo chiedervi di uscire per ragioni di sicurezza. Mi
scuso per il disagio.”
A quel punto anche Nolwenn
e Arielle aprirono gli occhi.
“Perché? Non abbiamo fatto niente.” Mormorò Nolwenn.
Non era irritata, voleva solo capire la ragione.
Credeva forse che fossimo turiste? Siamo nate a Parigi. Ci siamo cresciute.
Abbiamo visto Notre Dame da prima di capire cosa fosse, e mai, mai ci avevano
chiesto di uscire.
La guardia non fece in tempo a rispondere che una voce lontana raggiunse
Yvonne. Era agitata, ma le sue parole chiare e limpide come l’acqua di un
ruscello.
“Notre Dame .. la cattedrale .. va a fuoco!”
Evidentemente quella voce non raggiunse solo
Yvonne, ma anche tutte le persone intente ad uscire, perché in una frazione di
secondo si spintonavano a vicenda per essere i primi ad uscire, come se fossero
rincorsi da un leopardo affamato. Anche Nolwenn e Arielle avevano sentito. Riusciva a capirlo dai loro occhi.
Poi accadde tutto in fretta.
La frenesia, le grida, l’agitazione. Le ragazze presero frettolosamente le loro
borse nere che avevano messo sopra i piedi mentre erano sedute e si guardarono
intorno: non c’erano fiamme in vista, ma questo non significava nulla. La
cattedrale era immensa e forse le fiamme erano in un luogo non visibile, magari
più in alto.
Yvonne diede una fugace occhiata, ma poi venne
scossa alle spalle da Arielle, forzandola a voltarsi.
“Nolwenn! Dov’è? L’hai vista?!?” era la prima volta
che vide Arielle agitata.
Yvonne si guardò nuovamente intorno, tanto velocemente da avere come
l’impressione di rischiare di rompersi il collo, ma di Nolwenn
nessuna traccia.
Com’è possibile? Dov’era andata?!? Era qui. Un attimo fa era qui! Non può
essere andata via. Non ci avrebbe mai lasciate, lei che è la più coraggiosa. E
anche se fosse andata via, l’avrebbero vista, accalcata alla folla che cercava
di uscire. Non può dissolversi nell’aria come se niente fosse.
Fece per prendere Arielle per un braccio per
restare uniti, ma tutto quello che sentì fu le sue dita si scontravano con
l’aria.
Anche Arielle. Sparita. Dissolta.
Yvonne sentì il panico crescergli, non tanto per l’incendio a Notre Dame e le
urla, ma per la sparizione improvvisa delle coetanee. Il suo corpo stava
tremando come una foglia: avrebbe voluto correre, scappare, ma non riusciva a
muovere un muscolo.
Cercò con lo sguardo la guardia o chiunque potesse aiutarla, ma tutte le
persone presenti apparivano così distanti, così sfuocate.
I miei occhiali! Forse si sono appannati con l’agitazione e il caos.
Se li tolse cercando di aguzzare la vista e se li
mise in tasca, ma vedeva come prima. Poi, in mezzo a quelle ombre imperfette e
lontane, una figura sembrava più visibile.
Un asino. Era un asino.
Un asino grigio, rivolto verso di lei, che la fissava dritto negli occhi, come
se stesse scrutando la sua anima. Non un asino disegnato. Non un asino di
peluche. Non un asino di legno per bellezza. Un asino vero.
Non. E’. Possibile.
Tutto questo non è reale. E’ un incubo. Un’allucinazione. Forse sono stata
drogata? Ma quando? Come?
Ebbe la conferma che quell’asino era vivo quando vide che chinò la testa,
come ad indicarle qualcosa.
Poi non sentì più il contatto con il pavimento.
Non seppe cosa stesse succedendo, ma i suoi piedi non toccavano più terra.
Non fece in tempo a guardare giù, che si sentì cadere, come se stesse
sprofondando nei più profondi degli abissi.
Vide il soffitto allontanarsi sempre di più, sentiva di urlare, ma dalla sua
bocca non usciva un suono.
Poi, l’oblio.