Nella foto, dal set del film “Il club del libro e
della torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Sarah e Matteo in
luna di miele a Ischia.
Capitolo
55
Parlarsi
“L’amore è un
gesto di disarmo. Esso ci impone sempre di parlare la lingua dell’altro, di
imparare un’altra lingua, una lingua differente dalla nostra. L’amore non è mai
amore per l’eguale ma per il prossimo in quanto figura dell’alterità.
[…] Quando dichiaro
l’amore a qualcuno, quando dico «ti amo», dichiaro di amare nell’altro proprio
quello che non so capire, che mi sfugge, il segreto inaccessibile della sua
vita. Per questo si ama innanzitutto la libertà dell’altro. È la meraviglia
dell’amore: amare l’assoluta libertà della lingua dell’altro.”
Massimo
Recalcati
Il
signor Gennaro entrò per primo in casa, palesando il suo malumore con
un’andatura spedita e, al contempo, pesante. Di colpo, frenò i suoi passi
dinanzi al tavolo di una cucina impeccabilmente in ordine, a dimostrazione
della condotta irreprensibile di Sarah, nonostante il trattamento ricevuto. E fu
proprio nell’osservare il vaso con i fiori freschi di calendula dalle sfumature
gialle e arancioni posizionato al centro della tavola su un candido centrino
ricamato che la sua irritazione accrebbe, ancor prima che Matteo aprisse la
bocca.
“Se
siete venuto a dirmi che ho sbagliato, potete anche risparmiarvelo”, gli disse,
mentre udiva i battiti sempre più accelerati del proprio cuore fondersi con un
intercalare arrogante che lui stesso non avrebbe mai e poi mai pensato potesse
appartenergli, soprattutto nei confronti di una persona estranea e matura.
Si
volse prontamente il signor Gennaro e, mentre il sopracciglio gli s’inarcava in
un’espressione sorpresa e irata, dovette trattenersi dal dargli uno schiaffo,
ben sapendo che tal gesto istintivo avrebbe potuto compromettere l’efficacia
della sua paternale. Lo lasciò quindi parlare.
“Perché
lo so già”, proseguì Matteo, pronto a sfogarsi, ma senza scendere nei
particolari, “ma voi non sapete che cosa devo sopportare ogni giorno con
Sarah!”
Si
riferiva alla mancanza di sentirsi da lei amato, voluto e benvoluto,
all’umiliazione di sentirsi secondo rispetto a quel nazista, ma fu un azzardo,
poiché l’altro, non potendo giustamente immaginarlo, lo colpì con dure parole.
In egual modo dettate da un istinto di rabbia, ad esse lo schiaffo sarebbe
stato di gran lunga preferibile.
“Che
cosa devi sopportare ogni giorno con Sarah, eh? Sentiamo!” Il signor Gennaro
non riuscì più a contenersi e sfogò il proprio risentimento in un crescendo di
tono, finché le parole non divennero offensive. “Che è una buona moglie e una
gran lavoratrice? Che contribuisce al sostentamento economico della famiglia?
Che ha venduto i suoi beni per comprare ’sta casa ca’ te mantene linda e pinta
e chella barca ppe fatte fa’ ’o padrone?[1]”
Puntò
energicamente l’indice verso la finestra, pur se, da lì, la barca non fosse
visibile, per poi indirizzarlo accusatore contro Matteo che restava impietrito,
con gli occhi stralunati e umidi, nel sentirsi rinfacciare ciò che, a Sarah,
non aveva mai chiesto.
“Se
non era per lei, avevi voglia di restare alle dipendenze del compare e chissà
fra quanto vi sareste sposati”, proseguì Gennaro, in procinto di assestargli un
colpo ancor più duro del quale si sarebbe presto pentito, “solo per questo l’avissa tenere accussì a chella guagliona.[2]”
Stese una mano con il palmo rivolto all’insù. “Perciò, sta’ attento quando
parli di Sarah, pecché nun tien’ nient’ e nun si’ nisciuno[3]”,
incalzò, puntandogli di nuovo il dito contro, “e bada bene a come la tratti e che
non si ripresenti mai più al lavoro con la faccia impiastricciata di trucco per
nascondere un tuo livido.”
«Nun
tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Le parole gli echeggiarono lentamente, cupamente
nella testa, schiacciandolo ad ogni sillaba scandita. Umiliato, ferito in
quell’orgoglio maschile già abbastanza compromesso, Matteo non controbatté né
si mosse di un millimetro. Soltanto s’intensificò il luccichio nei suoi occhi e,
di colpo, impallidì in viso.
«Nun
tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Eran le lapidarie parole di una società per
la quale non valeva nulla, di un padre deluso, pentito di avergli affidato una
figlia che non meritava, perché lui davvero «non aveva niente e non era nessuno».
Pensò che finanche quell’altro – Hermann –, seppur nel male, fosse meglio di
lui, avendo, difatti, salvato Sarah avvalendosi proprio del suo importante
ruolo nella società di allora.
«Nun
tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Con parole dure e sferzanti, più dolorose e
umilianti di uno schiaffo in pieno viso, gli aveva strappato via la maschera
dell’arroganza, rivelando il volto e gli affanni di un ragazzo vulnerabile qual
era realmente. Gennaro capì di aver esagerato. Poggiò una mano sullo schienale
della sedia accanto a sé e, mentre, chinandosi, esalava un sospiro di
pentimento, un verso strozzato sfuggì dalla gola di Matteo.
Pianse e, tra i singhiozzi malamente
trattenuti coprendo il viso con una mano, il signor Gennaro seppe cogliere, in
parte, le ragioni del suo malanimo.
Sospirò di nuovo, stavolta più
profondamente e riprese a parlargli con un tono pacato e comprensivo: “Immagino
quanto possa essere difficile vivere accanto a una persona sopravvissuta. Sarah
ha perso gli affetti più cari, ha sofferto l’arresto e la prigionia senza
motivo, ha subito umiliazioni e privazioni, ha rischiato di essere deportata ad
Auschwitz
e di perdere la vita com’è accaduto alle migliaia di altri.”
La voce gli s’incrinò e tacque per
contenere la propria commozione, dando a Matteo il tempo di ricomporsi. Questi
portò la mano alla fronte, stringendo i capelli ricci fra le dita e tirandoli
un po’, gesto col quale era solito esprimere il suo disagio. Si asciugò poi il
viso con la manica della camicia beige stropicciata da vento e salsedine e,
tirando su col naso, soffocò un ultimo singhiozzo.
“A volte, sembra estraniarsi dal
presente, perché in passato ha vissuto un tempo sospeso”, proseguì il signor
Gennaro, aggiungendo un’intonazione seria e apprensiva alla sua voce. “Devi
saper comprenderla e per poterlo fare è necessario che vi parliate, sempre. Ma
questo vale per tutte le coppie. Io e mia moglie stiamo insieme da oltre
quarant’anni: sei figli maschi, due guerre mondiali, una gravidanza finita
male, un locale da portare avanti e tante difficoltà che, se non ci fossimo
parlati, non avremmo mai potuto superare. Tante volte abbiamo discusso,
litigato e lo facciamo ancora, ma non siamo mai arrivati al punto dove siete voi
dopo soli sei mesi di matrimonio.”
Sorrise per non piangere, mentre gli
occhi scuri di Matteo deviavano nel vuoto.
Gennaro gli si fece più vicino e,
ponendogli una mano sulla spalla, trattenne un sospiro, prima di avviarsi alla
conclusione: “Ho sbagliato a parlarti in quel modo, ma Sarah è come una figlia
per me e voglio che tu impari a controllare i tuoi istinti. Da questo si misura
la vera forza di un uomo.”
“Su, coraggio!” Tal saluto, accompagnato
da due pacche sulla spalla, destò Matteo dal suo immobilismo.
Rimasto da solo, si volse di lato e
indirizzò lo sguardo inumidito dalle lacrime verso la camera da letto, mentre
udiva i passi del signor Gennaro allontanarsi e la porta di casa aprirsi per poi
richiudersi. E fu subito sera.
Vide Sarah di profilo, seduta ai piedi
del letto, ripiegata su se stessa, con indosso la sua lunga vestaglia di seta
bianca dalle maniche larghe che, apertasi sul fianco, le lasciava una gamba
scoperta e si avvicinò all’uscio della stanza.
Non si era scomposta Sarah al rumore
della porta d’ingresso che s’apriva e si richiudeva, ma, quando i passi lenti e
strascicati di Matteo si fermarono sulla soglia della camera da letto, non poté
che sollevare il capo e rivolgere a lui lo sguardo.
Negli occhi color miele le rilucevano le
lacrime trattenute e sulla guancia impallidita si presentava il livido a
rinfacciargli l’errore. Che cosa le aveva fatto?
“Abbiamo
già un vissuto che, a dire il vero,
somiglia
più ad un conflitto.
Il
cuore spesso offeso da un dito che
tu
mi hai puntato al petto.
Se
gli occhi non riescono
a
raccontarti ciò che vedi,
proverò
io a dirtelo,
perché
all’evidenza non ci credi.”
Emma
Marrone, Mi parli piano