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Autore: Adeia Di Elferas    07/02/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Fortunati era uscito dalla villa presto, quella mattina, per andare a incontrare un certo Alberto De Marzi che, a sua detta, sarebbe stato di grande aiuto a Caterina e ai suoi figli nei giorni a venire.

La Sforza non era stata, in principio, molto d'accordo sul coinvolgere qualcun altro nelle sue faccende più private, ma il piovano sembrava certo della sua valutazione e così, alla fine, la donna aveva accettato che quel tal Alberto venisse coinvolto. In tutta onestà, le pareva che ci fosse già abbastanza gente a conoscenza di anche troppe cose e tirarsi addirittura in casa qualcun altro non la rassicurava.

Il piovano le aveva ribadito per la millesima volta che non avrebbero avuto nessun problema, con quel nuovo alleato, e se n'era andato promettendo anche di portare con sé la stoffa necessaria per le camicie ordinate da Benedetto Balear Riario.

La donna non aveva voluto insistere oltre coi suoi dubbi, ma nel momento stesso in cui si era trovata di nuovo sola, non aveva fatto che tornare a ragionare sui tanti rischi che stava correndo e su come Fortunati, a tratti, si dimostrasse fin troppo sicuro dell'appoggio altrui.

In quei giorni, per esempio, era stato per l'impuntarsi della Tigre, se e lei si erano messi ad analizzare i membri della servitù. Alcuni, come Maria, Giovanni, Battista, Benedetto e Pietro sembravano a entrambi abbastanza fidati e volenterosi. Non avevano un fare intrigante e un paio di loro apparivano troppo poco svegli per essere spie di Lorenzo.

Altri, invece, erano molto più sospetti e quindi andavano trattati con più attenzione. Alcuni di loro, poi, malgrado Caterina stesse ritardando i pagamenti del misero salario che offriva, non si erano mai né lamentati né avevano anche solo fatto cenno, neppure in modo velato, al bisogno di soldi.

Quel dettaglio aveva messo in allarme la Sforza più ancora di Fortunati, perché se anche l'uomo aveva, per lavoro, sempre avuto a che fare con i fiorini e i conti, restava animato da un sincero ottimismo cristiano, che gli impediva di vedere il dolo laddove all'apparenza c'era solo quella che poteva essere scambiata per comprensione del difficile momento economico della famiglia.

“Se non chiedono mai denaro a me – gli aveva fatto notare la Tigre, senza mezzi termini – significa che gliene arriva a sufficienza da qualche altra scarsella.”

Da lì in poi avevano dato per assodato che quella piccola schiera di servi silenziosi doveva necessariamente nascondere i delatori del Popolano.

Restava fuori da ogni conteggio possibile Creobola. Anche quella mattina, dopo un'oretta dalla partenza di Fortunati, Caterina si trovò a ragionare su quella strana serva. La stava osservando di nascosto, dall'alto di una delle finestre che dava sul cortile interno. La domestica era all'aperto, sotto al sole tenue di metà aprile, e stava facendo prendere aria ad alcuni cuscini. Lo faceva in modo sgraziato, sbattendo i guanciali a volte contro il muro della villa.

La Leonessa stringeva gli occhi, per vedere meglio e più si concentrava, più trovava in lei indizi del fatto che non fosse una vera serva. Non una serva, almeno, che lei avrebbe preso a servizio. Era grossolana nelle movenze, ma solo quando svolgeva dei compiti da domestica, risultava abbastanza incapace e approssimativa nelle pulizie di casa, e non indossava abiti consoni al suo ruolo. Benché fosse vestita in modo molto semplice e modesto, non dava certo l'idea di essere lì a servizio... Sembrava più una cortigiana caduta in disgrazia.

Quell'idea improvvisa accese la fantasia di Caterina. Poteva essere sulla strada giusta? Era forse quello, il vero passato di Creobola?

Era intelligente, anche troppo, ed era innegabilmente istruita. Non solo sapeva leggere, ma la Tigre aveva capito che Creobola conosceva il latino, anche se forse solo superficialmente, e aveva rudimenti di poesia e filosofia. Una volta l'aveva anche sentita scambiare delle battute grevi con frate Lauro – che era stato al gioco, pur non cadendo nella volgarità – che comunque sottintendevano una certa cultura anche in campo teologico.

Il parallelismo con sua madre Lucrezia Landriani le risultava abbastanza evidente, per quanto la mettesse in parte a disagio. Aveva sempre saputo chi era sua madre, l'amante del Duca, cortigiana figlia a sua volta di una cortigiana... Nessuno glielo aveva mai nascosto. Eppure proprio grazie a lei aveva imparato a non disprezzare affatto la categoria. Anche Lucrezia, infatti, aveva ricevuto un'istruzione che, seppur destinata a intrigare nobili altrettanto istruiti, le era servita sempre, nella vita, per non soccombere. Malgrado la bassa estrazione e i pochi mezzi, aveva sempre avuto un tratto elegante, che la rendeva profondamente diversa da una serva qualsiasi. Pur non essendo una signora di nascita, anche nei momenti peggiori, non si era mai abbassata a indossare abiti che ne tradissero la povertà d'origine...

Con un sospiro, Caterina guardò Creobola raccogliere i cuscini e tornare all'interno della villa. Se davvero era una cortigiana che aveva abbandonato, forse per età, l'ambizione di diventare la favorita di qualche uomo ricco e potente, ci si poteva davvero fidare di lei?

Incrociando le braccia sul petto, la milanese si riportò alla mente la propria madre. Volendo ripensare a lei in modo del tutto distaccato, doveva ammettere che Lucrezia era sempre stata capace di trovare compromessi e a volte sotterfugi, pur di cavarsela in ogni occasione... Di una donna così, se non fosse stata sua madre, si sarebbe fidata?

Non seppe darsi una risposta.

Camminando lentamente, attraversò metà della villa, senza imbattersi in nessuno. Arrivò nella sua stanza proprio mentre immaginava Creobola come amante prediletta di Lorenzo il Popolano, mandata a Castello al solo scopo di spiarla e riferire tutto al Medici. L'idea le parve astrusa e, volendo dar credito, come sempre aveva fatto, a ciò che un tempo Giovanni aveva detto del fratello, le sembrava improbabile che Lorenzo avesse un'amante.

Si sedette alla scrivania e prese un foglio pulito. Rimandava da un po' la lettera di risposta a frate Domenico, dell'Ordine dei Predicatori. Con Fortunati aveva deciso cosa scrivergli, ma non aveva ancora trovato la voglia di mettere i pensieri nero su bianco.

Intinse la penna nell'inchiostro e poi, innervosita dall'ombra che lei stessa gettava sul foglio, si alzò di scatto, cedendo, come le era capitato spesso nel corso della sua vita, a un accesso improvviso di rabbia. Non sapeva nemmeno lei dire cosa l'avesse scatenato... L'ombra sulla pagina le sembrava una motivazione ben misera.

Eppure, dopo aver messo in salvo la boccetta di inchiostro, la violenza con cui prese di peso la scrivania, spostandola proprio sotto alla finestra, per avere più luce, le diede uno strano senso di soddisfazione, come se nell'usare i muscoli, avesse svaporato la collera.

Con un sospiro profondo, si rimise seduta, sistemò l'inchiostro e mise in ordine i pensieri, cominciando a scrivere: 'M. fratre D.co nostro car.mo la vera servitù mia verso quella M.ta Imperiale me fa dello honore e gloria di quella essere si gelosa che io non sento o vedo cosa che subito nolla examini per salute de sua M.ta et me exponghi ad non perdonare ad cosa alchuna per farla gloriosa faccendo intendere ad ciaschuno quello che me occorre'.

La Leonessa rilesse, trovandosi un'ipocrita nel proclamarsi così affezionata a Massimiliano, ma scoprendosi più che conscia dell'importanza di far credere all'Imperatore, suo cognato, che fosse proprio così.

'E perché o per innata perfidia de qualche uno o propria subgestione de malevoli io sono stata poco cresa insino ad qui con grande detrimento e dishonore di quella M.tà Cesarea, me è suto forza per non mancare in parte alchuna secondo ricercha la vera servitù e devotione mia verso quella' riprese a scrivere Caterina, per poi fermarsi un momento.

Sapeva che quella missiva sarebbe stata affidata ad Antonio di Melozzo, un forlivese che aveva militato per lei e che Fortunati era stato in grado di ripescare abilmente poco fuori da Firenze. Era uno di quei soldati che la Leonessa aveva dato per morto, e saperlo invece ancora vivo e pronto a servirla le aveva fatto molto piacere.

Fu così con rinnovata energia che riposò la penna sul figlio e riprese: 'per presente latore nostro m. Ant.o de Melozzo scrivervi quello che occorre ad ciochè cum ogni humilitate et reverentia da mia parte lo facciate intendere ad quella imperiale Corona, chiedendole perdono se con troppa securità io parlerò con quella abstringendo Sua M.tà ad pigliare la bona mente et core mio verso de quella quale me spinge ad essere così ardita per bene de epsa: e non altro partic.re interesso'.

La Sforza si schiarì la voce, sollevò lo sguardo verso il sole che filtrava dalla finestra e poi, chiedendosi se stesse facendo davvero bene a scrivere quella lettera, che sarebbe probabilmente stata solo tradotta e ripetuta così com'era all'Imperatore. Aveva ben in mente cosa scrivere, ma, ora che era sul punto di farlo, aveva l'impressione di essere troppo avventata. Non riusciva a capire quanto peso potessero avere ancora le sue parole fuori da casa sua. Secondo Fortunati e anche secondo Ciocca, avevano un peso enorme. Malgrado ciò, la donna faticava a credere che fosse così.

Al posto degli altri potenti italiani, lei quanto avrebbe tenuto in considerazione le impressioni e le dichiarazioni di una donna che aveva perso tutto quanto, che era stata schernite pubblicamente dal Valentino e che, tutt'ora, viveva in casa sua, non potendo chiamarla tale, spiata quotidianamente e costretta a nascondere uno dei figli, per paura di vederselo togliere?

In parte resa forte dal pensiero che, anche calcando la mano, non avrebbe potuto fare grande danno, la Leonessa riportò come gli oratori mandati dall'Imperatore a Firenze – uno dei quali era Ermes, suo fratello – avessero fatto un ottimo lavoro: 'haveano – precisò – redocto questa città tucta ad devotione della M.tà Ces.a. in modo che tucto questo popolo la expectava per vero suo consolatore et defensore sperando per le mani de epsa dovere uscire de tanta impresa e servitù in la quale è stata tanti anni.'.

Tuttavia, spiegò poi, i signori di Firenze non erano stati in grado di governare come l'Imperatore aveva chiesto, e la situazione, proprio per la loro incapacità, verteva in uno condizione gravissima.

Giocando sul fatto che Massimiliano non poteva certo sapere di preciso quanto poco lei contasse a Firenze, sostenne di aver personalmente suggerito ai suddetti come fare per seguire le indicazioni dell'Imperatore, spiegando come ci volesse impegno, lo stesso impegno che il cognato aveva messo nel mantenere il suo, di Stato.

Tra le mancanze dei fiorentini che contavano, Caterina ci tenne a precisare che questi non si erano accorti che 'questo popolo ha aperto gli occhi e che lui ha facto el callo per le botte né si muove per minaccie o spaventi de passo ma più presto è per doventare restio e per gittarsi in mano de chi instatemente lo ricerca e vuole con prometterli non mancho bene che gli altri.'

Quell'accenno, nemmeno tanto velato, ai francesi era stato messo volutamente in quel punto del discorso, sperando che servisse a far drizzare le orecchie a chi l'avrebbe ascoltato.

Caterina, quindi, si prendeva la libertà di far presente all'Imperatore che, nel caso in cui volesse realmente soggiogare Firenze, avrebbe dovuto evitare quindi di usare i mezzucci tanto cari al re d'Oltralpe, prediligendo grazie e beni materiali alle punizioni e alle minacce. Firenze, insomma, l'avrebbe visto come un protettore e un conservatore.

Mise poi in guardia il cognato dai 'pernitiosi modi e andamenti sua' di un sedicente amico dell'Impero, e, tanto per far capire che, seppur ritenuta da molti fuori dai giochi, in realtà ne sapeva ancor più della maggior parte dei sedicenti signori d'Italia, scrisse: 'che se io potessi scrivere tucto farei stupire el mondo'.

Rilesse quell'ultima frase. Si rese conto che quel concetto, per lei, aveva un valore molto più ampio. Non si applicava solo alla politica e al discorso fatto a uso e consumo di Massimiliano. Era la sua stessa vita. In vita sua, pur avendo appena trentanove anni non ancora compiuti, aveva visto, fatto e provato tante di quelle cose, sia nel bene che – soprattutto – nel male, che, se avesse potuto mettere ogni cosa nero su bianco, avrebbe davvero fatto stupire il mondo intero.

Deglutendo un paio di volte, la donna guardò di nuovo la finestra. La luce, che aveva cercato con rabbia poco prima, adesso le dava quasi fastidio. Avrebbe voluto lasciare la missiva a metà e uscire dalla villa. Voleva andare nel bosco, questa volta evitando di trovarsi nel fitto della vegetazione in piena notte, e voleva cacciare e cavalcare e tornare alle piccole cose che aveva amato e che aveva sempre cercato, anche nei momenti più bui della sua vita, anzi, soprattutto in quei momenti.

Ricordo con un dolore penetrante le volte in cui, sognante, il suo Giacomo le aveva proposto di vivere nei boschi, da soli, senza più problemi e preoccupazioni, cibandosi di quello che lei avrebbe cacciato e del loro amore. Ricordò come lei, addolcita dalle parole del suo uomo, era stata tentata di accettare e di come, poi, sospinta dal senso di responsabilità e dal cognome che portava, aveva sempre dovuto rinunciare a quella prospettiva che, tutt'ora, le sembrava così allettante...

Riscuotendosi con un sospiro dolente, la donna volle far capire a Massimiliano che qualcosa sapeva davvero. Riferì come sapesse, per mezzo di Averardo di Buglione, cameriere di re Luigi, della rottura del patto tra il re di Francia e l'Imperatore stesso. Ovviamente non parlò dei termini dell'accordo andato in fumo, dato che non ne era a conoscenza. Riteneva ben sufficiente far credere al cognato di saperne abbastanza, anzi, mostrandosi reticente, forse, lo induceva a immaginarla ancor più al corrente di tutto.

'Ho voluto farvi legiermente questo discorso per pagare per ultimo el debito mio con mia satisfactione – soggiunse la Tigre, grattando forse con più forza del dovuto la pagina con la punta della penna – remettendomi ad ogni correctione e sapienti.ma resolutione de quella Corona in la cui bona gratia del continuo mi terrete ricordarndomi humulmente ad quella'.

A quel punto, la Tigre si prese un attimo per rileggere da capo. Tutto sommato, era felice dell'equilibrio trovato nelle parole. Avrebbe voluto far leggere quella missiva anche a Fortunati, prima di spedirla, ma sapeva benissimo che il piovano, seppur mosso da buon intenzioni, avrebbe cominciato ad avanzare dubbi e proporre formule meno dirette e alla fine la lettera ne sarebbe uscita molto diversa, se non addirittura stravolta. Caterina, invece, malgrado tutto, voleva che si sentisse chiaramente la sua voce, in quelle frasi.

Stringendo le labbra, si accinse a chiudere il messaggio nel modo più cordiale, ma incisivo possibile.

'Et perche el nostro m. Ant.o vi raguaglierà più largamente de tucto, non replicherò altro remettendomi alla relatione sua alla quale presterete como a me propria indubitata fede exeguendo quanto da lui vi sarà decto subito e bene valete etc. Ricordatemi – soggiunse, chiedendosi se mai qualcuno si sarebbe davvero dato la pena di riferire quelle parole a sua sorella Bianca Maria – alla M.tà della Regina con ogni efficacia, ad m. Galeazzo e ad tucti quelli altri signori parenti e amicis.mi nostri.'.

In realtà stava facendo un azzardo, ipotizzando che Galeazzo Sanseverino fosse ancora alla corte dell'Imperatore, tuttavia quel dettaglio era troppo ghiotto per non inserirlo. Scrivere quel semplice saluto a piè pagina era un chiaro segnale, per far capire a chi di dovere che lei sapeva tutto, che lei aveva occhi e orecchie ovunque. Poco importava se non era davvero così: l'importante era che tutti lo credessero, compreso Massimiliano.

Infine, con una certa soddisfazione, aggiunse la data e la firma: 'Florentie die xxij aprilis 1502. Caterina Sf. Manu pp.a'.

Fece un paio di profondi respiri. In un certo senso si sentiva come quando aveva preparato missive importanti nello studiolo del suo castellano, a Ravaldino. C'era sempre quel velo di tensione che si mescolava al desiderio che il messaggio arrivasse presto a destinazione, per poterne scoprire la risposta.

Attese che l'inchiostro si asciugasse e poi, con una lentezza che sottintendeva tutta l'importanza di quella lettera, la sigillò, scrivendo a tergo: 'Al nostro car.mo frate Dominico dello ordine de frati Predicatori'.

Sapendo bene chi cercare, tra i servi, per far partire la missiva senza rischio, la Sforza lasciò la scrivania, senza prendersi il disturbo di rimetterla a posto, pensando che, così sotto alla finestra, le sarebbe stata più comoda anche in seguito.

I suoi passi non facevano quasi rumore, mentre attraversava la villa. Come sempre si stupiva di come quell'edificio le desse costantemente l'impressione di essere deserto quando, comunque, oltre a lei e ai suoi figli, viveva un discreto numero di servitori. Forse erano stati gli anni passati alla rocca, a Forlì, a farle sembrare quell'ambiente così silenzioso e solitario. Nemmeno alla Murate, però, le sembrava ci fosse quel clima quasi da eremita.

“Posso aiutarti?” Bianca, che stava uscendo dalla sala delle letture con un libro sotto al braccio, sorrise alla madre, andandole incontro.

Questa, dopo aver rifiutato con un cenno del capo l'offerta d'aiuto, le disse, non ricordandosi se avesse già dato o meno quell'informazione alla figlia: “Quando Fortunati tornerà, ci porterà la stoffa per iniziare a fare le camicie... Mi spiace doverti coinvolgere, ma lo sai che io non...”

“Non preoccuparti.” disse subito la giovane, senza segno di insofferenza: “Tenere le mani impegnate mi... Mi aiuta.”

Alla Sforza non sfuggì il rapido e quasi impercettibile movimento della mano della Riario, che aveva sfiorato appena il ventre che custodiva il segreto di una nuova vita. In un certo senso, poteva capirla. Non doveva essere facile, per lei, malgrado avesse l'appoggio della madre e di Galeazzo. Si trattava di una condizione complicata, e la stessa Caterina faceva fatica a vederne con esattezza i contorni. In più, da quello che ne sapeva lei, il De Rossi non si era fatto più vivo da che era partito per San Secondo. Per quanto la ragazza fosse innamorata, doveva per forza avere qualche momento di dubbio e sconforto.

“Allora...” iniziò a dire la Tigre, ma si frenò subito, perché Bianca aveva sollevato una mano, come a zittirla, e aveva voltato la testa, tendendo l'orecchio.

Scusandosi con un borbottio, la giovane era tornata correndo nella sala delle letture. La milanese la seguì, a passo più lento, e la vide mentre guardava dalla finestra, tesa come la corda di un arco.

Il modo in cui si girò di nuovo verso di lei, lasciando di colpo il libro sul tavolino più vicino, le fece capire che dovesse aver visto qualcosa di bello.

Proprio mentre la Riario parlava, anche la Sforza sentì in lontananza il battere ritmato degli zoccoli di un paio di cavalli: “È tornato!” esclamò, quasi sottovoce, Bianca: “Troilo è tornato!”

La Leonessa fu un po' frastornata da quella notizia. La parte più orgogliosa di lei era quasi disinteressata all'arrivo inatteso del De Rossi, essendo troppo concentrata nel chiedersi come avesse fatto a non sentire subito anche lei lo scalpicciare degli zoccoli. La sola idea che, con gli anni, le fosse calato l'udito, andando ad acuire il suo senso di invecchiamento e inadeguatezza, la faceva impazzire.

Sforzandosi di tornare presente a se stessa, frenò appena in tempo la Riario, che stava già per correre di sotto dal suo uomo.

Prendendola per un braccio, le sussurrò solo: “Ricordati che Ottaviano potrebbe vedervi.”

Bianca, come raggelata da quell'idea, si posò, questa volta in modo molto evidente, le mani sulla pancia e restò dov'era. Nei suoi occhi blu si poteva leggere tutta la confusione di quel momento. Da un alto la giovane avrebbe voluto correre tra le braccia di Troilo, baciarlo immediatamente, stringerlo a se e gridargli di essere incinta. Dall'altro temeva troppo le azioni sconsiderate del fratello, per mettere tutto a rischio per un capriccio del momento.

“Aspettalo nella sua stanza.” le suggerì allora Caterina: “Stai attenta che non ti notino. Te lo mando subito.”

Sovreccitata da quella prospettiva, la Riario saltò al collo della madre, stringendola a sé e bisbigliandole all'orecchio un sentitissimo 'grazie'. Poi, ben prima che la Sforza potesse raccomandarsi una volta di più con lei, uscì di corsa dalla sala delle letture, andando senza esitazione in direzione della camera che, in precedenza, era stata concessa al De Rossi.

La Leonessa, mettendo la lettera destinata a frate Domenico nel tascone che si era fatta cucire a lato della sottana, ripromettendosi di spedirla non appena avesse consegnato l'emiliano alla figlia, si avviò al portone.

Sistemandosi un po' i capelli, che teneva sciolti come quando era più giovane, fece un cenno ai due servi che, insospettiti dall'arrivo inatteso di quello straniero, erano corsi all'ingresso per chiedergli come mai fosse lì e cosa volesse.

“Lo manda il re di Francia.” mentì disinvoltamente la Tigre: “Per vedere se vengo trattata come si deve al mio rango.” aggiunse, godendosi gli sguardi nervosi che intercorsero tra i due servi.

La donna, a quel punto, uscì dal portone, stringendo gli occhi verso i due figuri che stavano arrivando. Uno era indubbiamente Troilo de Rossi: la sua testa biondo rossiccia era inconfondibile, così come la sua elegante imponenza. Appena dietro di lui, su un cavallo molto meno pregiato, c'era uno scudiero, che si portava appresso i bagagli del padrone.

Non appena fu a portata d'orecchio, il De Rossi le gridò un saluto e poi, accelerando appena, arrivò ai piedi della villa, smontò di sella e diede le redini al suo servitore. La sua espressione, da gioviale che era, si fece preoccupata.

Guardandosi attorno, si avvicinò a Caterina, che non aveva mosso nemmeno un passo verso di lui, e chiese, in ansia: “Bianca non sta bene?”

“Sta benissimo.” lo rassicurò la Sforza, sollevando un sopracciglio: “E credo che voglia dirvi qualcosa... Vi aspetta nella vostra stanza. Ricordate come ci si arriva?”

L'uomo deglutì, il cuore che batteva più veloce, all'idea che la sua innamorata lo stesse aspettando e che la Tigre non sembrasse troppo infastidita da quel fatto. Sentiva gli occhi di altri Riario fissarlo, e in effetti dalle finestre Galeazzo e Sforzino guardavano giù, mentre il piccolo Feo, addirittura, si era affacciato sulla porta, e restava a distanza di sicurezza, alle spalle della madre.

“I bagagli ve li faccio portare più tardi?” chiese la Leonessa di Romagna, guardando oltre l'emiliano, verso lo scudiero che, pur sceso da cavallo, non accennava ad avvicinarsi.

“Va bene, grazie.” accettò subito l'uomo, per poi aggiungere: “Appena avrà scaricato tutto, potete congedare il mio servo... Per lui ho trovato alloggio in città. Non volevo darvi troppi incomodi.”

“Certo.” convenne Caterina e poi, spostandosi un po' di lato, come a dargli il permesso di andare, concluse, improvvisamente agitata all'idea che il De Rossi potesse avere una reazione inattesa alla notizia della gravidanza di Bianca: “Non fatemi pentire di avervi accettato in questa casa.”

Perplesso da quella raccomandazione, Troilo si accigliò, ma ebbe la prontezza di ribattere: “Dovete pensare a me come a un settimo figlio, non come a qualcuno da cui attendersi delusioni.”

“Se conosceste meglio i miei figli – sbuffò Caterina, intravedendo con la coda dell'occhio Ottaviano che, pigramente, osservava da una delle finestre quella scena – usereste un paragone migliore. Senza contare che abbiamo quasi la medesima età.”

In forte imbarazzo, l'emiliano arrossì violentemente, ma la Sforza non volle infierire oltre e, con un movimento ampio del braccio, gli fece capire di non perdere altro tempo e correre da Bianca.

“Venite – disse poi, rivolgendosi allo scudiero – vi faccio vedere dove lasciare i bagagli... E prima di ripartire, se volete, potete bere un calice di vino nelle cucine...”

 

Bianca si tormentava le mani l'una nell'altra. La stanza in cui stava aspettando Troilo sapeva di chiuso e aveva qualcosa di negletto che indicava come la servitù, poco solerte, l'avesse lasciata sempre indietro, come se non fosse destinata a essere utilizzata mai più.

La ragazza non sapeva come avrebbe accolto il De Rossi. Voleva corrergli incontro, per prima cosa, azzerare del tutto la distanza che l'aveva tormentata in quelle settimane, sentire di nuovo la sua pelle, il suo calore, il suo respiro... Di contro, avrebbe voluto mostrarsi più moderata, parlargli, prima di baciarlo, dirgli che era incinta, spiegargli quanto le era mancato, quanto aveva ragionato sulla loro situazione...

Quando finalmente sentì la porta scattare alle sue spalle, però, tutti i ragionamenti si interruppero.

Per un lunghissimo istante, lei e l'emiliano si fissarono. Anche se era passato relativamente poco, da che si erano separati – un paio di mesi – a entrambi parve di scorgere qualche differenza nell'altro. Era impossibile capire se si trattasse di differenze reali, o se, semplicemente, l'immagine vera non corrispondesse in modo esatto a quella che la memoria aveva levigato nei giorni passati lontani, a ricordarsi e immaginarsi.

Quelle piccole variazioni, però, non erano per nulla sgradite, a nessuno dei due. Bianca trovò le spalle larghe di Troilo ancora più imponenti, le sue gambe più snelle e lunghe, i suoi capelli corti e ordinati, malgrado il viaggio, il suo profilo perfetto come quello di una statua greca, e anche se sulla sua fronte scopriva una ruga che non ricordava, non la infastidiva, anzi, le sembrava che desse profondità ai suoi occhi dorati.

Troilo, invece, la trovava senza più traccia della ragazzina che aveva a volte intravisto in passato, le sue forme erano più piene, il suo viso più luminoso. Si perse a studiare i riflessi d'oro dei suoi capelli, chiedendosi se fossero così chiari anche prima. Guardò i suoi occhi blu, limpidi come il mare, ma capaci di burrasche, le sue mani, sempre segnate dai lavori con ago e filo, gli parvero più belle, più gentili, e così le sue labbra, quando si sollevarono in un sorriso pieno, gli diedero l'impressione di essersi fatte più rosse, più carnose, più attraenti.

Dopo quel lunghissimo momento di studio reciproco, però, nessuno dei due riuscì a trattenersi e, muovendosi pressoché all'unisono, si corsero incontro. Si strinsero in un abbraccio avvolgente, molto stretto, che la Riario non riuscì a rifiutare, malgrado temesse di schiacciare troppo il proprio ventre.

Troilo cercò le labbra di lei e, vinto dallo slancio di quel momento, mentre si beava di nuovo del suo odore e del suo sapore, la sollevò da terra, tenendola fermamente con le sue forti braccia. La ragazza rise, divertita come non mai da quella dimostrazione di forza e desiderio.

Mentre restava con i piedi staccati dal pavimento, gli occhi fissi in quelli del suo uomo, la giovane sentì il sorriso affievolirsi, mentre diceva, senza preamboli e senza pensarci troppo: “Sono incinta.”

Il De Rossi aggrottò la fronte. Tutto si era aspettato, tranne quella notizia. Aveva creduto che, se la Riario fosse rimasta incinta, glielo avrebbe scritto subito, o, almeno, avrebbe trovato un modo per farglielo sapere.

Riappoggiandola lentamente a terra, sempre fissandola, le chiese: “Davvero?”

“Sì.” confermò lei, sentendo il cuore di lui battere più veloce: “Ho avuto il sospetto qualche giorno dopo la tua partenza, ma non ne sono stata certa finché non mi ha visitato chi ne sa più di me.”

“Tua madre lo sa?” chiese l'uomo, pensando subito al modo in cui la Tigre gli aveva detto che Bianca aveva qualcosa di cui parlargli.

La ragazza annuì, senza dire altro. L'emiliano si sentiva così stordito, da non riuscire nemmeno a pensare. Gli pizzicavano gli occhi, avrebbe voluto piangere, gli sembrava una cosa così assurda, aspettare un figlio dalla donna che amava, che non riusciva nemmeno a immaginarsi che potesse essere vero...

“Credevo che fossimo d'accordo.” sussurrò la Riario, ancora stretta tra le braccia del De Rossi, male interpretando il suo prolungato silenzio.

Finalmente l'uomo si sciolse, aggrappandosi a lei con una forza nuova, prepotente, affondò il viso nei suoi capelli e, trattenendo a stento le lacrime, soffiò: “Sono così felice...”

Spiazzata da una reazione tanto marcata, la Riario gli accarezzò la testa e poi, inducendolo a guardarla di nuovo e trovandolo con le guance infuocate e gli occhi arrossati, gli domandò: “Sei davvero felice?”

Lui annuì, la baciò e poi, avvertendo qualcosa di stonato nella sua espressione, le chiese: “Tu non la sei?”

“Sì, sì, io sono felice.” ammise la giovane: “Ma ho anche paura.”

“Non devi averne. Ci sono io.” fece subito l'emiliano, ma ormai la Riario si era slegata dall'abbraccio.

I fantasmi che l'avevano ossessionata negli ultimi giorni stavano uscendo tutti insieme, con prepotenza. Prima che potesse frenare la lingua, riverso su Troilo tutti i suoi tormenti, gli ricordò che non erano sposati, che Astorre Manfredi era ancora vivo e vegeto, che il Valentino li voleva tutti morti e che Firenze non era esattamente un'ospite generosa, con loro. Il papa era loro ostile e non avrebbe mai avvallato la loro unione e perfino in famiglia il rischio era alto, dato che Ottaviano era tutto fuorché un fratello premuroso e affettuoso.

Era ancora in pieno sfogo, quando il De Rossi la frenò. Le prese le mani con le sue e poi, inginocchiandosi davanti a lei, le baciò il ventre, che ancora non mostrava la gravidanza iniziata da poco, e l'abbracciò, senza alzarsi.

Dall'alto, Bianca poteva vedere la testa del suo uomo piegata come quella di un penitente. Lo ascoltò mentre mormorava parole che le aveva già detto prima, quando ancora l'idea di avere un figlio era solo un progetto vago.

Alla fine, sollevando lo sguardo verso di lei, le assicurò: “Non c'è stato giorno, a San Secondo, che non abbia pensato a te. Sono tornato appena ho potuto. Mio padre è morto, io sono il nuovo Conte di quelle terre.”

Quella rivelazione diede una strana vertigine a Bianca, che non ebbe nemmeno lo spirito di fare le condoglianze al suo innamorato, troppo concentrata a sentire che altro aveva da dire.

“Ho incontrato Gian Giacomo da Trivulzio, e ci terrà informati su Astorre.” continuò Troilo, facendosi ancora più serio: “E abbiamo parlato della situazione in gerale. Riguardo a tuo fratello Ottaviano, il consiglio è di farlo partire per un po'...”

“Mia madre sta già organizzando la sua partenza.” rivelò la giovane.

Sorpreso, il De Rossi fece un cenno di approvazione e poi riprese, spiegando attentamente come le sue terre fossero in costante pericolo, la rocca di San Secondo fosse da risanare, per non dire ricostruire partendo dalle fondamenta, e di come lui volesse occuparsi di tutte quelle cose solo ed esclusivamente assieme a lei.

“Finché Astorre non morirà – gli fece presente la Riario, dopo la sua lunga trattazione – io non potrò essere tua moglie. Mia madre ha già chiesto aiuto alle sue conoscenze, per far sì che, quando sarà il momento, le monache mi ospitino, per il parto...”

Quella prospettiva non piaceva troppo a Troilo, ma la trovava una cosa di buon senso, perciò, a malincuore, ribatté: “Se per allora non saremo ancora marito e moglie agli occhi della legge, faremo così...”

“Allora sei davvero felice che io sia incinta?” chiese di nuovo la giovane, con un tono ancora pieno di incertezza.

Rimettendosi in piedi, il De Rossi rispose: “Sono più che felice: sono euforico.”

Mettendosi a ridere come se anche il quarantenne fosse poco più di un ragazzino, si baciarono di nuovo e poi, sentendosi liberati da un peso, si lasciarono liberi di ritrovarsi, con lo stesso, immutato desiderio della prima volta.

“Forse dovremmo stare più attenti...” soppesò Troilo, quando ormai, stanco e appagato, stringeva a sé la sua donna, beandosi della sensazione calda della pelle di lei contro la propria.

“Da quello che so, mia madre non ha mai rifiutato il suo Giacomo, quando aspettava mio fratello Bernardino, e lo stesso si può dire del povero Giovanni quando erano in attesa di Giovannino...” si lasciò scappare la Riario, zittendosi poi, come se avesse rivelato un mezzo scandalo.

“Allora, fidiamoci di tua madre...” rise l'emiliano: “Se non ne sa abbastanza lei, che dicano sia in grado di rendere sterili le fertili e fertili le sterili...”

Quell'accenno alla ben nota autorevolezza in campo alchemico della Tigre, che negli anni aveva portato a tanti pruriginosi commenti e pettegolezzi, non infastidì più di tanto Bianca. In fondo anche lei aveva sempre visto nella madre una sorta di alchimista capace di fare cose impossibili, e l'ampia parte del suo ricettario dedicato alla carnalità dimostrava più di ogni altra cosa quale fosse uno dei suoi maggiori campi di interesse.

“Mi sei mancata tantissimo.” sospirò il De Rossi, accarezzando la spalla liscia della sua donna.

“Mi sei mancato tantissimo anche tu.” fece eco lei: “Ma dobbiamo abituarci a questi momenti di lontananza, almeno finché Astorre non morirà.”

Con il fantasma dell'ancora vivente Manfredi che aleggiava su di loro, i due amanti si assopirono, incuranti del fatto che qualcuno avrebbe potuto attenderli a tavola, insospettendosi per l'assenza di entrambi. A renderli così sicuri, oltre alla necessità di stare vicini a quel modo e prendersi il riposo sereno che si erano negati nello stare lontani, c'era la certezza che la Tigre di Forlì, pur con tutti i suoi spigoli e le sue durezze, avrebbe sempre vegliato e protetto il loro amore.

 

   
 
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