Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Joy    08/02/2022    1 recensioni
Cap 1) Si toglie il cappotto e glielo posa sulle spalle, prima di far scattare la serratura dell'anello che gli blocca il polso.
Cap 2) “Non durerò a lungo...” lo avvisa con un filo di voce.
“Nemmeno io” gli risponde Marco in un soffio.

Cap 3)“Quel bambino rannicchiato sul marciapiede...” mormora Jean, il cappello calato sugli occhi e la fascia eldiana in bella mostra sul braccio sinistro. “Dove sono i suoi genitori?”
Cap 4)“Adesso sei qui, ragazzo” l'aiuta Onyankopon, aprendo per loro la porta di una cabina. “Ci hai fatti preoccupare.”
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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2.

 

 

 

La stanza si è riscaldata in fretta; sono bastati un paio di ciocchi nel camino, un braciere colmo di tizzoni sotto l'infuso dolciastro che ha scovato rovistando tra le scorte stantie e il vapore dell'acqua calda che s'innalza dai bordi della vecchia vasca in ottone.

“Non ho mai utilizzato questo rifugio” chiarisce Jean, estraendo dalla cassapanca ai piedi del letto una scatola colma di bende e boccette. “È sicuro.”

Marco, in piedi di fronte al camino, annuisce appena dandogli le spalle.

È chiuso nel suo silenzio da quando hanno varcato la soglia, dopo aver viaggiato fino a sera inoltrata in direzione del porto e nell'ultimo tratto di strada, che hanno percorso a piedi nella sterpaglia, Jean lo ha visto vacillare più volte.

Lo ha preso per mano, di più Marco non gli ha concesso.

“Lascia che controlli il fianco e quelle bruciature” tenta con tono leggero, “poi potrai immergerti nella vasca e non ti disturberò...”

“Non è necessario” taglia corto deciso. Solleva il braccio fino a posarlo sulla mensola del camino e vi adagia la fronte sopra.

Sospira.

La pelle nuda della sua schiena si tende.

Il cappotto, umido della guazza serale, è abbandonato sulla spalliera della sedia più vicina, dove Marco lo ha gettato quando la legna nel camino ha cominciato a scoppiettare riscaldando l'aria del rifugio.

Non sembra far caso alla propria nudità.

Jean lo osserva su uno sfondo di fiamme guizzanti: non vi sono cicatrici evidenti sulla sua schiena, e se l'angolazione lascia in ombra la spalla destra, Jean ha la sensazione di avere di fronte agli occhi il ragazzo che era.

Quello che si era scoperto a sbirciare, la sera nei bagni comuni e che legava i suoi sguardi e ogni suo desiderio ad un sorriso costellato di lentiggini.

Non gli manca quell'innocenza, nessuno di loro la merita più, con quelle mani ormai grondanti di sangue, ma nemmeno è disposto a lasciarlo dilaniare da una rabbia che lo consumi come le fiamme su quei ciocchi inariditi dal tempo.

Posa la scatola dei medicinali sul tavolo e si porta alle sue spalle.

“Marco...” sussurra. Posa una mano lieve sui muscoli contratti della sua schiena e quello sussulta.

“Se non fossi venuto a salvarmi, avrei portato a termine la mia vendetta” snocciola in fretta, come se quelle parole gli pesassero. Non la chiama missione, questa volta ha il coraggio di dare a ciò che desidera il nome corretto.

Continua a mostrargli la schiena e a Jean fa male.

Fa talmente male che non riesce nemmeno a stare in piedi, si piega in avanti e gli avvolge entrambe le braccia attorno alla vita, china la testa sulla sua spalla e chiude gli occhi.

La sua pelle sa di fumo, polvere e sudore.

“E saresti finito sul patibolo o a marcire in qualche prigione sotterranea... per colpa mia?” biascica. “Non abbiamo già sacrificato abbastanza?”

Marco non risponde.

Le sue spalle vibrano, però. Un gemito strozzato gli muore in gola, Jean ne sente la vibrazione più che il suono.

Marco non è mai stato uno dalla lacrima facile, nonostante tutto quello che ha passato; e di pianti sostenuti, come quello ora gli scuote la schiena, Jean ne ricorda solo un altro, molti anni prima: quello di un ragazzo che non riusciva a mostrarsi nudo con la pelle graffiata dalle cicatrici.

“Marco” lo chiama e afferra una coperta dalla sedia più vicina, perché sospetta che questa volta non riesca a coprirsi, deciso com'è a fare a meno di ogni emozione.

Gliela avvolge attorno alle spalle e torna ad allacciargli le braccia al petto.

Lì in piedi, di fronte al camino, con le lacrime che ormai gli bagnano il braccio e colano sulla mensola, Jean aspetta che abbia finito; e quando finalmente alza la testa, lo costringe a voltarsi.

“Vieni qui” gli dice, tirandolo contro il suo petto.

Non fa resistenza questa volta, chiude nel pugno la stoffa della sua camicia e posa la guancia sulla sua spalla.

“Sono stanco” mormora, e il suono della sua voce è ancora umido di lacrime.

Certo che lo è, pensa.

Vivere per settimane in una condizione di allerta costante, con la mente su due fronti, passando dalla recita alla realtà fin quasi a distruggerne il confine, è estenuante, Jean lo sa bene.

“Vieni” gli dice di nuovo guidandolo verso il letto. “Siediti qui.”

Lo tiene tra le braccia. Jean sa che lo farà finché non sarà lui a ritrarsi. Non gl'importa se non è più un ragazzo, del resto l'ha cullato talmente tante volte, quando il dolore dell'amputazione lo teneva sveglio, che gli viene naturale.

E in fondo non sono passati poi così tanti anni, da quelle notti.

Quando sedeva sul suo letto d'infermeria e lo abbracciava dondolando fino all'alba; canticchiava per lui ogni sorta di filastrocca ricordasse dall'infanzia, finché non sentiva il suo peso aumentare contro il petto e sulla spalla, e la sua mano allentare la presa sui suoi vestiti; le uniche volte in cui Hanji non lo rimproverava se si sedeva con la divisa ancora indosso, sulle lenzuola pulite.

Lo fa anche adesso, perché Marco ha lo stesso sguardo di allora: quello che sembra guardare già oltre.

Oltre cosa, Jean ha sempre avuto paura a pensarlo.

Solleva la coperta che continua a scivolargli dalle spalle, e stringe la presa intorno a lui, lo farebbe per tutta la notte, ma Marco non si lascia andare come faceva un tempo, continua a fissare il vuoto, rigido e sofferente.

“Rimani con me, Marco” gli mormora contro l'orecchio.

E non si aspetta una risposta, ma la mano di Marco si sposta sul suo braccio e stringe.

“Ci sono, Jean” sussurra.

L'aria torna a fluire dentro e fuori i suoi polmoni,

“Eccolo qui” commenta nascondendo un sorriso triste tra i suoi capelli, “il mio Marco.”

Poi gli prende il volto tra le mani e cancella via le tracce lasciate dalle lacrime: “Non mi lasciare più” sussurra sulle sue labbra.

 

***

 

“Non l'ho fatto solo per te, sai?” confessa Marco, la mano intrecciata alla sua che dalla sommità del ginocchio sfiora il pelo dell'acqua e la schiena contro il suo petto.

“Volevo...” si sforza.

Sembra difficile. Jean gli elargisce un paio di carezze, strusciando le nocche tra l'orecchio e la gola, e sorride dei brividi che gli irruvidiscono all'istante il braccio.

“Avevo bisogno...” esita ancora.

“Ho capito, Marco” lo rassicura.

Registra distrattamente che avrebbe dovuto lasciarglielo dire, che voleva sentirsi di nuovo indipendente, autonomo; permettergli di trovare le parole, buttarle fuori e sentirle risuonare in luoghi che non fossero solo le pareti della sua testa. Ma Marco è stanco, ogni fibra del suo corpo lo grida, e ha crampi frequenti sul lato destro del corpo: Jean se ne accorge anche se non parla, sente i muscoli irrigidirsi intorno alle vecchie ferite, sente l'immobilità dei suoi polmoni congelati dal dolore contro il suo petto.

Scende con la mano a massaggiare ogni sua cicatrice, le scorre piano una alla volta dal torace al fianco, per poi tornare indietro e ripercorrere la stessa strada.

“Sai che farei qualsiasi cosa ti faccia stare meglio, vero?” mormora contro il suo orecchio, non appena sente la rigidità dolorosa concedergli una tregua.

Marco tira su col naso e sospira stancamente.

“Forse non dovresti” risponde.

 

***

 

“La tua temperatura sembra tornata normale. Hai ancora freddo?”

Sulla mano che Jean gli ha posato sul collo vibra il no della sua risposta.

Tra i lembi aperti della camicia, recuperata dalla cassapanca del rifugio, le bruciature spiccano infiammate sul suo petto; Jean può immaginare le fitte di dolore, ravvivate dal calore dell'acqua calda in cui è stato immerso, quasi fossero sue.

Avvicina le punte delle dita senza toccarle.

“Posso occuparmene, ora?” chiede senza alzare lo sguardo: le lentiggini superstiti sono esattamente dove le ricorda.

“Puoi farlo se vuoi, ma non sono molto dolorose” gli risponde Marco. “Lo è di più rinunciare.”

La presa delle sue dita sul vasetto dell'unguento che ha recuperato si allenta, non gli sfugge di mano per miracolo: “A cosa stai rinunciando, Marco?” gli chiede sollevando il viso, e questa volta non riesce ad epurare il tono dall'amarezza che sta provando. “Alla vendetta? Oppure stai rinunciando a me?”

Fa male. E Jean è sicuro che sia così anche per lui, perché non riesce a sostenere il suo sguardo

“Non perdi molto se me ne vado” è la risposta, borbottata a capo chino, che ottiene.

È come un soffio gelido che gli immobilizza il petto.

La crema nel barattolo è dura e pastosa: gli blocca le dita.

Tutto si ferma, anche il respiro.

Vorrebbe dirgli che perderebbe tutto senza di lui, che non può davvero credere una cosa simile e-

“Scusa, Jean” sente insieme alla mano che improvvisamente gli sfiora la guancia; si rifugia in quel contatto: è passato troppo tempo dall'ultima volta che Marco lo ha accarezzato.

“Sei proprio un cretino” mormora a occhi chiusi.

“Sì, lo sono” ne conviene Marco, un mezzo sorriso complice a tagliare la tensione del momento.

Jean resterebbe immobile e in silenzio sotto il suo tocco per tutta la notte.

“Questa roba è piuttosto datata” commenta invece, estraendo le dita dal contenitore e spalmandone il contenuto sulle zone arrossate.

I muscoli di Marco si contraggono. Non si lamenta, però Jean si scusa lo stesso.

“Sopporta solo per qualche istante” aggiunge continuando piano, poi scosta il lembo della camicia per scoprire il fianco: ha un livido fiorito sotto pelle, sfiorato da un'abrasione superficiale.

Non è una gran ferita in mezzo alle cicatrici crudeli che dal petto si allungano al fianco destro, posa il palmo aperto sulla sua coscia ed estende la crema fino a coprire anche quella zona.

“Ti sto facendo male?” chiede, quando sente la gamba irrigidirsi sotto la sua presa.

Marco non risponde se non alzando lo sguardo sul suo volto: Jean lo sente formicolare sulla pelle, mentre srotola le bende attorno al suo torace. Sente anche un respiro lieve, seguito dal calore della sua mano sul collo.

E dopo un istante, il tocco lieve delle sue labbra sulla bocca.

 

***

 

Marco è nato con le costellazioni del cielo sulla pelle.

Quando guarda quei puntini, Jean non sente limiti al trasporto che prova: loro si chiudono in forme geometriche e lui si perde fuori dai loro confini.

Lo sente ridere quando traccia con l'indice le linee immaginarie che li uniscono e l'eco di quel suono riecheggia all'infinito.

Una volta ha fatto la stessa cosa con le sue cicatrici e Marco ha pianto.

Ha fatto di tutto purché quel suono si spegnesse subito.

Ha dato un nome ad ogni galassia puntiforme, ad ogni frastagliato cratere su una pelle ancora più simile alla luna, e gli ha detto che l'universo intero era tutto disegnato sul suo corpo.

Marco l'ha baciato con le guance bagnate e gli ha allacciato le gambe attorno alla vita, perché non ci fossero barriere a dividerli.

A volte Jean pensa che sul proprio corpo, quei confini non siano serviti a molto: li ha sentiti crollare miseramente contro la sua volontà, in una cella fetida, con l'ausilio di un po' di saliva scivolosa.

Non ha potuto asciugarsi le lacrime quella volta, con le mani legate.

Marco lo fa ora, con le labbra.

“Siamo proprio una bella coppia di disperati” gli dice, la fronte contro la sua.

A Jean basta che siano una coppia, perché quell'amore, se lo prova da solo, diventa un'agonia.

E non c'è niente che gli faccia più paura.

Posa la bocca sulla sua, gli avvolge le braccia attorno e lo spinge indietro tra i cuscini.

Si sdraia e la pelle calda di Marco, finalmente a contatto con la sua, lo commuove di nuovo: lo fa sentire a casa.

Lo sente muoversi sotto di lui, insinuare la mano tra i loro corpi e l'avvolgerla attorno alle loro erezioni: lo bacerebbe, ma ha le labbra paralizzate appena sopra la sua bocca, mentre assorbe un respiro lieve che troppe volte ha avuto il timore di aver perso per sempre.

Chiude gli occhi e trema.

La mano di Marco scivola avanti e indietro troppo lentamente: lo fa impazzire.

“Non durerò a lungo...” lo avvisa con un filo di voce.

“Nemmeno io” gli risponde Marco in un soffio.

Ed è così naturale provare piacere con lui, che Jean nemmeno prova a trattenersi per fare di più.

Si lascia travolgere, perché non ha bisogno che sia memorabile, vuole solo che sia abitudine, normalità.

E che Marco lo segua, nell'orgasmo e sul sentiero, come ha sempre fatto.

Vuole la vita per la quale hanno combattuto entrambi fin da quando erano poco più che bambini.

Vuole la pace e sapere che quel piacere che gli esplode in grembo, potrà averlo per sempre.

Esala un sospiro appagato e rotola di lato, afferrando dal tavolino a fianco del letto un panno per pulirsi.

Vuole una vita dove Marco può rubarglielo dalle mani, quel panno, per pulirsi a sua volta, con le guance gonfie di una risata che sta tentando di trattenere.

Una in cui può baciargli le labbra, intrecciare le gambe alle sue e sollevare le coperte fino a coprirli entrambi.

E dove può addormentarsi quasi all'istante con la testa sul suo petto.

 

  
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