Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Joy    07/02/2022    2 recensioni
Cap 1) Si toglie il cappotto e glielo posa sulle spalle, prima di far scattare la serratura dell'anello che gli blocca il polso.
Cap 2) “Non durerò a lungo...” lo avvisa con un filo di voce.
“Nemmeno io” gli risponde Marco in un soffio.

Cap 3)“Quel bambino rannicchiato sul marciapiede...” mormora Jean, il cappello calato sugli occhi e la fascia eldiana in bella mostra sul braccio sinistro. “Dove sono i suoi genitori?”
Cap 4)“Adesso sei qui, ragazzo” l'aiuta Onyankopon, aprendo per loro la porta di una cabina. “Ci hai fatti preoccupare.”
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Nata questa estate come One Shot, ho deciso di ripostarla e trasformarla in una serie. ^^

 

Ambientazione 4°stagione

What if

Alive!Marco

Hurt/Comfort

Dark

Sex after comfort

 

Scritta per la “Are You Kidding Challege” (dove il protagonista, a causa del contesto, mostra un comportamento diverso dal solito), indetta dal gruppo Facebook Hurt/Comfort Italia

 

 

 

 

UNDERCOVER

 

 

 

1.

 

 

 

“Eccomi, ci sono. Ci sono, Marco, ti ho trovato.”

“Rallenta Jean. Sto bene e tu stai facendo troppo rumore: qui i muri sono sottili.”

Nel buio pesto dei sotterranei del Palazzo di Giustizia di Marley, la voce di Marco è un suono nitido e cristallino.

È proprio la sua, Jean l'avrebbe riconosciuta anche se non avesse scorto la linea familiare del suo corpo contro la parete di mattoni, eppure contiene qualcosa di pungente e sfrontato che lo fa sussultare, e non è abituato.

Si avvicina, scruta con il cuore in gola l'immagine che ha di fronte, tagliata dalle sbarre della porta, e suo malgrado ridimensiona i toni.

“Stai bene, eh?” commenta sarcastico facendo scattare la serratura che chiude la cella. “Lo vedo. Hai proprio una bella cera: il blu principio di congelamento ti dona.”

Marco sorride solo con il lato sinistro del viso, quello destro è immobile: con la vascolarizzazione peggiorata dal tessuto cicatrizzato, Jean non fatica a catalogarlo come un brutto segno.

“Hanno solo provato ad intimorirmi, lasciandomi qui nudo” gli risponde tuttavia con noncuranza. “Stanno sondando il terreno. Non mi hanno fatto nulla.”

La paglia su cui Jean posa i piedi quando riesce a entrare è putrida e l'aria talmente densa d'umidità da affogare i polmoni.

Si toglie il cappotto e glielo posa sulle spalle, prima di far scattare anche la serratura dell'anello che gli blocca il polso.

“Lo faranno e lo sai” ribatte posandogli due dita sul collo. “Quando capiranno di non poter ottenere alcuna informazione utile ti useranno per il loro divertimento.”

Sposta la mano sul lato destro del suo viso e lo trova gelido, rigido: lo friziona piano con pollice.

“E non si cureranno di lasciarti sopravvivere alla festa” aggiunge.

Gli toglie la benda che copre l'occhio cieco e traccia i contorni del sopracciglio e dello zigomo, massaggiando piano. Marco si lascia sfuggire un sospiro, uno soltanto.

Se si fosse concesso anche solo un respiro in più, Jean vi avrebbe posato sopra le labbra, come ha fatto molte volte, impaziente di sentirlo gemere ancora, più forte.

Ma Marco non lo fa. Torna a respirare piano, in modo controllato, come se fosse concentrato nel farlo in modo corretto.

“Non succederà” lo corregge dopo quell'istante di silenzio. “Hanno guardato con disgusto le mie cicatrici.”

“Certo. E hanno pensato di aggiungerne altre” sbotta Jean, avvicinando con cautela le dita alla zona arrossata che spicca sulla pelle grigiastra del suo torace. “Questa con cosa te l'hanno fatta?”

“Sigaretta” risponde Marco. “Qualcuno ha trovato divertente convertire il mio ho freddo in un brucia. Sono stato incauto a lasciarmelo sfuggire, lo ammetto.”

Jean sente una rabbia dentro che lo consuma più di quanto faccia il fuoco con quelle cannucce di tabacco che vanno tanto di moda a Marley.

Marco scuote la testa come se non ne valesse la pena: “Non è niente, Jean. Sai bene che ho passato di peggio.”

Tenta di sorridere. Gli riesce male questa volta. E non si muove, Jean realizza che è rimasto nella stessa posizione adagiata contro il muro nonostante il suo polso sia ora libero dalle catene.

“Fatico ad accettare quello che stai facendo, Marco” inizia, “me ne faccio una ragione, ma ti prego, ti prego, non rendere queste crudeltà accettabili, solo perché ne hai subite di peggiori.”

Non risponde.

Jean osserva il suo sguardo diventare vacuo e la mandibola contrarsi; anche il suo respiro è cambiato, invece che regolare e cadenzato -da sembrare quasi finto- adesso esce a tratti dalle sue labbra alternando piccole apnee.

“Dove?” chiede risoluto.

Marco abbassa la palpebra e scuote appena la testa.

“Dove senti dolore?” insiste Jean, percorrendo con lo sguardo i suoi punti critici, quelli che ha accarezzato e massaggiato nelle notti in cui i crampi li hanno svegliati entrambi; quelli che ama baciare, perché il dolore di Marco gli appartiene, l'hanno condiviso fin dall'inizio.

Indugia sulle vecchie cicatrici che gli percorrono il fianco destro e parte del torace e vi poggia deciso entrambe le mani. Le scalda prima di farlo, le infila sotto la divisa nemica che indossa ormai senza più vergogna e aspetta che il calore vi si sia trasferito, prima di posarle sul costato contratto di Marco.

“È qui vero?” chiede, anche se sa perfettamente la risposta. La sente sotto le dita, gliela comunicano i muscoli stessi che si allentano sotto il suo tocco, la sente nello sciogliersi graduale di quel respiro dolorosamente congelato, la vede nello sguardo di Marco che torna lucido e pure un po' umido.

“Oh Marco...” mormora, spostando una mano per avvolgergli le spalle e tirarselo contro il petto.

“Non sono più un ragazzino, Jean” protesta debolmente per un istante, ma non si ritrae.

Jean pensa che in fondo non ha motivo di farlo, sono sempre stati parte l'uno dell'altro.

“Lo so” gli risponde tra i capelli. “Neanch'io lo sono più.”

“Voglio continuare la missione” mormora Marco a bruciapelo, senza neanche spostare il viso dall'incavo del suo collo e fa talmente male che Jean sente di non poter gettar fuori l'aria che gli gonfia i polmoni fino a scoppiare.

“Non succederà niente di grave, vedrai” aggiunge.

E Cristo Santo, Jean vorrebbe aver portato con sé uno di quei sedativi ad effetto rapido da iniettargli a tradimento, pur di trascinarlo fuori da quel posto di merda e da quell'incubo.

Se non succederà, sarà perché ti porterò via ora” sbotta Jean deciso. “E non voglio più scoprire che ti sei infiltrato nel continente al posto mio.”

Marco si scosta da lui e infila il braccio nella manica del cappotto che ha ancora sulle spalle.

“Era la cosa migliore da fare” ribatte. “La tua copertura era saltata ed io ero credibile come inserviente: un povero soldato marleano, menomato nell'adempimento dei suoi doveri al fronte...”

Tenta di chiudere i bottoni e non ci riesce, Jean posa le mani sulla sua.

“Un povero soldato marleano con un serramanico cucito nella fodera della manica destra” commenta, mentre infila i bottoni nelle asole per lui. “Come l'hanno presa quando l'hanno scoperto?”

“Non l'hanno scoperto” chiarisce Marco, adagiando la testa contro il muro, esausto. “Non lo porto sempre con me: sto studiando la situazione, valutando ipotesi. Lo userò al momento giusto.”

“Oh davvero?” lo canzona bonariamente, mentre scende con lo sguardo a verificare che non abbia lesioni importanti a gambe e piedi. “E quando sarebbe il momento giusto?”

“Dopo che avrò finito di avvelenarli poco alla volta con il mercurio.”

Non c'è inflessione nella sua voce, mentre pronuncia quelle parole, è freddo e sterile, lo sguardo fisso su una porta che lui non ha mai desiderato di veder aprire. Non prima del tempo, almeno.

“Se mi lasci qui, concluderò la missione” ribadisce.

“No” obietta secco, Jean. “Giuro su Dio, Marco, questa tua versione vendicativa e incosciente mi farà invecchiare prima del tempo.”

Si alza da terra e lo aiuta a mettersi in piedi.

“Mi accontenterei se tu sopravvivessi fino alla vecchiaia...” commenta Marco, barcollando incerto sulle proprie gambe. Jean gli avvolge un braccio intorno alla vita.

“Tu che parli di vecchiaia? Mi era sembrato di capire che fossi contrario ad una vita fatta di focolare domestico e pantofole ricamate.”

Marco sbuffa e si limita a sostenersi posando una mano sulla sua spalla.

“Sono stufo di riordinare archivi, Jean. Se tu sei sul campo, voglio esserci anch'io.”

Ed è qualcosa che Jean brama e teme da anni, perché gli è mancata la presenza costante di Marco al suo fianco, durante le lunghe giornate di allenamento, ma non sa come accettare i rischi che corre gettandosi in quel modo tra le braccia del nemico. Per causa sua, oltretutto.

“Vorrei che tu avessi ancora fiducia nelle mie capacità, Jean. Un tempo era così” ribadisce.

“La mia fiducia non è qualcosa che puoi perdere” gli risponde, “persino di fronte a...” solleva gli occhi verso l'alto, dove un soffitto di nude travi li separa da tre piani pullulanti di militari nemici, “situazioni disperate come questa.” Riporta lo sguardo su di lui e gli posa una mano sul viso, è ancora gelido, nota.

“Ma non mentirmi: è vendetta quella che stai cercando”

Marco non si sottrae al suo tocco né alle sue parole: “Sì, anche quella” ammette.

“Vai avanti” riprende dopo un istante, retrocedendo di un passo. “Mettiamo in scena 'guardia e prigioniero', no?” commenta scrutando apertamente la divisa marlena che ha indossato per intrufolarsi nelle prigioni. “Sarebbe strano vederti mentre mi sostieni.”

Jean vorrebbe fargli notare che per quelle persone sarebbe strano anche solo vedere il suo volto, considerato che sei mesi prima la sua copertura è saltata.

Ha controllato che fosse di guardia un novizio appena arruolato prima d'intrufolarsi nelle prigioni, ma immagina che il suo fascicolo sia stato mostrato a tutte le forze armate in essere.

Marco serra le labbra, e Jean è certo che sia consapevole dei rischi quanto lui.

Lo supera di qualche passo ed esce dalla cella.

“Andiamo” dice ostentando una sicurezza che non prova. “E speriamo che Teodor Gorski sia rimbambito quanto dicono.”

 

***

 

Se c'è una cosa che Jean ha imparato nel periodo in cui ha ricoperto il ruolo di spia infiltrata a Marley è che un silenzio ostentato, accompagnato da un'occhiata di gelida sufficienza con contorno di mostrina graduata da ufficiale di alto rango, sono in grado di aprire qualsiasi porta. A patto che la matricola addetta ai controlli sia sufficientemente giovane e influenzabile, ovvio.

Si concentra su quella labile certezza, mentre avanza a mento alto nei corridoi bui, fingendo che quella follia non sia un piano suicida.

Il passo strascicato di Marco alle sue spalle e il tintinnare delle catene che ha dovuto stringere attorno alle sue caviglie, gli ricordano che non avrà margine di errore: o recita bene -con il benestare, si spera, di poche oscillazioni da parte della fortuna- o moriranno entrambi, rimpiangendo di non avere, nascoste tra i denti, quelle capsule di cianuro che ha visto schiumare tra le labbra di quanti preferiscono arrendersi ad una morte rapida piuttosto che cadere nelle mani del nemico.

“Documenti, signore” lo ferma la guardia a presidio dell'uscita, mentre il suo sguardo si sposta con sospetto sul cappotto della divisa militare indossato da Marco.

“Perché il prigioniero indossa il suo pastrano, signore?”

Jean se l'aspettava. Il ragazzo sembra giovane come dice il suo fascicolo, ma non così imbranato come lo descrivono i racconti di taverna, nelle serate gioviali e cameratesche a cui ha fatto in modo di assistere ben nascosto dietro a un mazzo di carte.

“Da dove vieni, matricola Gorski?” chiede a sua volta impettito, avendo cura d'impregnare le parole d'un tono di comando.

“Dai territori ad est, signore.”

Jean gli lancia uno sguardo sprezzante.

“Forse nelle brughiere selvagge dove vivono gli zoticoni come te, è normale assistere a scene incivili” il ragazzo contrae la mascella, ma resta in silenzio, “ma gli onorevoli cittadini di Marley non sono abituati a vedersi sbattere davanti agli occhi le nudità di un prigioniero, mutilato per giunta.”

La sicurezza del ragazzo barcolla, ma non cede: ha ancora un guizzo di sospetto nello sguardo e la mano sull'arma da fuoco che porta alla cintura. Jean decide che è il momento di alzare il tiro.

“Qual è il nome della fanciulla che ogni giorno ti aspetta qui davanti, sul calesse, scortata dal padre e dalla governante?” sibila, ostentando un falso interesse.

“Harriet Jolie Mitchell, signore.”

“Secondo te” scandisce bene le parole, “la signorina Mitchell, merita di assistere ad una simile visione?” strattona il cappotto dalle spalle di Marco e lo lascia cadere a terra.

Si odia per quello che sta facendo, ma lo sguardo di Marco è fisso di fronte a sé e non lascia trapelare niente di ciò che gli passa per la testa, mentre quello della matricola tentenna.

“N..no, signore!” ne conviene e sembra finalmente convinto.

Jean respira.

“Se non fosse per l'inettitudine di voi soldati senza cervello, non avrei dovuto sacrificare il mio vestiario per proteggere il pudore dei cittadini di Marley” rincara.

“Tutto bene qui, soldato Gorski?”

La voce proviene dalla stanza attigua al blocco, Jean volge lo sguardo in quella direzione, dissimulando la tensione crescente che avverte nel petto.

Un militare dall'aspetto vissuto appare sulla soglia, la fronte contrita dalle rughe di un evidente malumore.

Jean cerca le mostrine con i gradi, sulla sua divisa: sottufficiale. La paura retrocede, lasciando a traccia del suo passaggio solo un lieve formicolio.

“Sissignore!” risponde Gorski accompagnando le parole al saluto militare. “Questo prigioniero deve essere trasferito, signore.”

L'uomo getta uno sguardo carico di disprezzo alla figura nuda di Marco e non tenta nemmeno di nascondere la smorfia di disgusto che gli increspa le labbra: ha una fila di denti ingialliti dal fumo e dalla scarsa igiene. Jean glieli farebbe saltare tutti.

“I documenti sono in regola?” domanda ancora.

Jean gli porge il plico di fogli e deve rammentare a se stesso che non corre rischi -a meno di non fare qualche cazzata sul finale-, perché il suo grado è superiore, e poco importa se ha sul volto un'espressione da ribelle pronto a far saltare in aria l'intero Palazzo di Giustizia.

Il colpo di tosse attutito, proveniente da Marco, non sembra un espediente finalizzato alla loro fuga, ma lo ammonisce sulla necessità di tenere i nervi saldi.

Attende paziente che i documenti tornino nelle sue mani e sceglie di non commentarne i tempi.

“Procedete” dichiara infine il sottufficiale. Poi si avvicina a Marco e lo colpisce sul fianco con il calcio del fucile “E tu, santo cielo, copriti” sibila sprezzante. “Non abbiamo bisogno di una simile visione raccapricciante.”

Jean rivaluta l'ipotesi di far implodere l'edificio su se stesso, seduta stante.

Si trattiene solo perché l'uscita dista solo due metri da loro, hanno a tutti gli effetti superato il blocco e una camionetta militare li attende nel piazzale per portarli in un luogo sicuro.

Si trattiene perché Marco ha bisogno della sua fiducia, non della sua compassione: lo ha chiesto lui stesso, e perché nonostante l'abrasione che Jean ha visto comparire sul suo fianco mentre si piegava su se stesso, Marco sembra comunque in grado di rimettersi in piedi e infilarsi di nuovo il cappotto.

Tiene la bocca chiusa e gli occhi aperti sull'uscita, aspetta con mani bramose di aiutarlo, che Marco sia di nuovo in grado di camminare e varca con decisione la soglia.

Se Marley voleva intrattenersi con lo spettacolo delle loro teste nel cappio di una forca, dovrà sfogare i suoi pruriti su qualcun'altro: lui e Marco se ne tornano a casa.

 

 

  
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