Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Claire DeLune    11/02/2022    1 recensioni
La donna fece per prendere il portafogli dentro la piccola borsetta che le pendeva dal polso, ma con un gesto della mano il capitano la bloccò, «Offre la casa».
Questo sì che la stupì.
«Ho sofferto per anni di insonnia, so come ci si sente», chiarì.
«Ne soffre ancora?».
Levi annuì.
«Immagino non si possa scappare dai nostri demoni», rispose lei mesta e per la prima volta il corvino notò un’ombra velarle i solitamente allegri occhi ambrati.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Falco Grice, Gabi Braun, Levi Ackerman, Mikasa Ackerman, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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2.

Profumo di lillà

 

   «Allora?», lo incalzò Gabi all’ora di chiusura, le mani poggiate al bordo del bancone e il busto chino parallelo alla superficie per avvicinarglisi il più possibile.
   Levi ruotò su se stesso, tra le dita stringeva un bicchiere di vetro e il panno con cui lo stava asciugando, lo sguardo gli cadde sul mobile che lo divideva dalla ragazza e schioccò la lingua: lo aveva appena finito di pulire e già glielo stava lerciando con quelle manacce.
   «Allora cosa?», l’apostrofò, lanciandole un’occhiata annoiata.
   La testa di lei si piegò in direzione della veranda e, con un cenno eclatante, indicò la donna ben vestita e dal portamento elegante che sorseggiava il suo tè. Gli occhi, allungati in un taglio felino, correvano frenetici sulle pagine che teneva strette in una mano, di tanto in tanto le sopracciglia dritte e angolate verso l’alto scattavano in un quasi impercettibile tremolio, insieme alle labbra a bocciolo che s’imbronciavano appena, accentuando la lieve sproporzione del labbro inferiore rispetto a quello superiore; quando riponeva la tazza sul piattino, lasciava leggera delle annotazioni ai margini, oppure tracciava cerchi e sottolineature ed era in questi frangenti che la sua fronte si aggrottava in un’espressione corrucciata di pura concentrazione.
   «Non dovresti dirle che stiamo per chiudere?», gli lanciò un ghigno furbo Gabi, le iridi castane scurite dall’ombra delle ciglia lunghe che calavano sugli occhi come drappeggi di un teatro, un angolo della bocca inarcato all’insù, visibilmente compiaciuta.
   «Sta lavorando».
   «Che lavoro fa?».
   «Dottoranda e insegnante all’università qui vicino», dal tono di Levi non traspariva alcuna emozione, ma la giovane sorrise comunque: se non gli importasse, non avrebbe badato a raccogliere informazioni su di lei.
   Tornò ad osservarla, scrutandola da capo a piede piacevolmente sorpresa. Lyra era indubbiamente una bella e giovane donna, dai tratti delicati, l’aria gentile e comprensiva, il fatto che fosse una persona professionalmente impegnata e di cultura erano sicuramente qualità ulteriori che gliela fecero apprezzare ancora di più.
   Perlomeno il nanetto ha buon gusto.
   Ridacchiò sotto i baffi. Non le erano sfuggite le occhiatine argute e allusive con cui spesso spiava Levi, ben accorta dal non farsi notare, non dal diretto interessato per lo meno.
   Arrivava al locale più o meno alla stessa ora, quasi tutti i giorni, da ciò Gabi ne dedusse che venisse dopo il lavoro, probabilmente per rilassarsi. A ogni modo, era sotto gli occhi di tutti che, col tempo, aveva cominciato a trattenersi sempre di più, arrivando addirittura, come quella sera, a rimettersi a lavorare. Inizialmente, la giovane considerò l’eventualità che non avesse uno studio o un luogo adatto dove rintanarsi, tutto, però, cambiò un tardo pomeriggio di qualche mese prima.
   Quel giorno, improvvisamente, il cielo si oscurò, le onde, imbizzarrite, colpivano vigorose il lungomare, e, contro ogni previsione, iniziò a piovere a dirotto, le raffiche di vento erano così poderose da trasportare qualche goccia fino al patio coperto su cui erano disposti i tavolini all’aperto. Onyankopon e Falco sfrecciavano tra i clienti, affrettandosi a chiudere le vetrate, scusandosi costernati per l’imprevisto, e fu proprio in quella circostanza che lo porta-finestra dell’ingresso sbatté e sulla soglia si presentò Lyra. I capelli increspati dall’umidità, l’orlo della gonna, dello stesso rosa delle tuberose, infradiciato, le scarpe zuppe e l’ombrello rotto gocciolante che sporcavano il pavimento d’acqua e terriccio, gli occhi d’ambra liquida ridotti in uno sguardo affranto, le labbra rosee schiuse e piegate all’ingiù, il respiro affannato le faceva alzare e abbassare il petto veementemente. La poveretta doveva aver corso sotto all’inclemenza della pioggia battente.
   «Levi», fu l’unica parola che riuscì a pronunciare, la voce spezzata dal fiato corto.
   Al suono del suo nome, il capitano sollevò l’alzata del bancone e la raggiunse in ampie falcate con un asciugamano immacolato, «Guarda come ti sei conciata», la rimproverò, ma Gabi potè riconoscere un’inflessione inedita nel modo in cui l’ex-soldato modulava la voce. Il tono, che ad orecchie sconosciute poteva suonare aspro, in realtà velava qualcosa di diverso; una sorta di melodia, una morbidezza che non corrispondeva all’immagine che l’uomo dava di se stesso, all’apparenza così spigoloso e scostante, quasi a sfiorare un’aridità di sentimenti, come se avesse rinunciato all’incanto e all’imprevisto in favore di una funzionale vuota efficienza.
   Non era un segreto che Levi trascurasse i rapporti umani - il vero mistero era se lo facesse volutamente o meno - e non lo era neppure che fosse difficile averci a che fare, richiedeva un’enorme pazienza, una comprensione pressoché infinita, ma, se si scavava abbastanza in profondità, se gli si concedeva del tempo per aprirsi e lasciarsi andare, egli era una sorpresa continua, un intero universo da esplorare. Levi divenne il freddo calcolatore che era per necessità, per annichilire la sofferenza, ma sotto sotto conservava ancora un cuore vivo e pulsante, e di ciò nutriva una grandissima paura.
   Se sei privo di sensibilità, niente può ferirti.
   «Scusami, ti ho sporcato tutto il pavimento».
   «Non fa niente», asserì lui, tamponandole il viso per poi toglierle il soprabito, «Accomodati. Ti preparo qualcosa di caldo», tornò dietro al bancone e cominciò a trafficare con bollitori, colini, foglie triturate e fiori sminuzzati.
   Non fa niente…?, rimase di stucco Gabi. Sussultò quando l’uomo la chiamò, ancora stordita da quello scenario così surreale. Per una persona con un evidente disturbo ossessivo-compulsivo quel pavimento non poteva essere niente, era sicuramente qualcosa.
   «Prendi lo straccio», una frase che non ammetteva repliche.
   Ecco appunto.
   A un tratto, il rumore breve e sottile di una penna che, cadendo, toccava terra, strappò Gabi dalle sue elucubrazioni mentali, le iridi castane si scontrarono con quelle di miele dal lato opposto della stanza. Si rese conto soltanto in quell’istante di aver fissato la giovane docente per tutto il tempo e subito si sentì profondamente a disagio sotto a quegli occhi indagatori, il viso le andò letteralmente in fiamme; distolse lo sguardo in tutta fretta e, schiarendosi la gola, proferì: «Noi il nostro dovere lo abbiamo fatto, è ora di tornare a casa».
   «Se vuoi andare a casa, vai. Tra non molto hai gli esami, dovresti studiare».
   La ragazza sbuffò sonoramente, stendendosi sulla superficie lignea al punto da strofinarci sopra una guancia. Levi non poté evitare di digrignare i denti e bofonchiare un’imprecazione di sdegno, le dita strinsero così forte il bicchiere che sarebbe bastato premerlo ancora un poco per romperlo. Il fatto che si fosse trattenuto dall’esternare ciò che gli ribolliva dentro, era tutto merito della presenza di Lyra: in sua assenza il capitano si sarebbe lasciato andare a termini ben più coloriti di un semplice borbottio. Gabi l’avrebbe ringraziata per questo, se alla sola idea di buttarsi sui libri, dopo un estenuante pomeriggio di lavoro, non si fosse sentita drenare di qualsivoglia energia rimastale.
   Però, in un secondo momento, sentì il suo corpo scuotersi frizzante, come se avesse appena preso la scossa, si risollevò di colpo, le palpebre divaricate e la bocca schiusa a formare una O, «Non è che vuoi rimanere da solo con lei?».
   Levi la squadrò per un attimo che parve interminabile prima di decidersi ad aprir bocca, «Non parlare di cose che non capisci, ragazzina».
   «Dovresti invitarla a uscire», proseguì imperterrita l’altra, ignorando totalmente l’occhiata bieca che le stava riservando.
   «E tu dovresti deciderti a dare una risposta a Falco».
   Quelle parole colpirono Gabi dritta al petto con la precisione di un abile arciere e, per la seconda volta in poco tempo, le gote le si tinsero di porpora. Bofonchiò qualcosa d’incomprensibile, le guance gonfie d’aria e le labbra piene strizzate tra loro, mentre oltrepassava la porta che collegava il negozio con lo spogliatoio riservato al personale. Quando se la fu richiusa alle spalle, a Levi sfuggì un sorrisetto vagamente divertito.
   Stavolta fu il turno del barista di occhieggiare la donna, per quanto cercasse di non farlo, distraendosi con altro, non riusciva a farne a meno, si sentiva come calamitato nella sua direzione e, prima ancora che ne fosse conscio, il suo sguardo metallico si era già riposato su di lei.
   Gabi lo salutò in malo modo uscendo, ancora impermalosita dallo scambio di battute di poco prima. Falco l’aspettava fuori come tutte le volte in cui la ragazza aveva il turno serale.
   Non so proprio come fa a sopportarla, si domandò bonario Levi, guardando i due giovani farsi inghiottire dai colori caldi e avvolgenti del tramonto, che già sfumavano nelle prime nuance della notte. Il giovane si assicurò di posizionarsi sul lato di marciapiede che confinava con la strada, come per farle da scudo, in un gesto protettivo e premuroso; di tanto in tanto le sue dita si allungavano a sfiorare quelle dei lei che, istintivamente, rispondevano al tocco ma poi si ritraevano. Gabi era più timida di quel che si poteva pensare guardandola. Poteva essere una vera spina nel fianco alle volte, in più di un’occasione aveva dimostrato mancanza di disciplina e incapacità di leggere l’aria che tirava, ma doveva concederle che fosse una giovane piena di risorse: coraggiosa, tenace, forse un po’ troppo impulsiva, ma l'energia che metteva in ogni piccola cosa era sinonimo di un gran senso del dovere e responsabilità.
   Se Levi l’avesse conosciuta in un contesto diverso, gli sarebbe stato più facile ammettere di aver imparato ad apprezzarla, sia per il suo lato impetuoso sia per quello goffamente affettuoso. Sicuramente la grande somiglianza caratteriale con l’Eren che preferiva conservare nella sua memoria, non lo aiutavano a mettere da parte il rancore che, più sovente di quanto desiderasse, ancora provava nei suoi confronti. Poteva conviverci, tollerarla, giustificarla con la scusa del lavaggio del cervello che le era stato impartito, ma aveva pur sempre ucciso Sasha, un membro della sua squadra, e ciò era imperdonabile.
   La mano di Falco si avvicinò abbastanza da stringere quella di Gabi, in un movimento sicuro a cui, nonostante le proteste, la ragazza si arrese, il viso rivolto altrove per non farsi guardare in faccia.
   L’ex Gigante Mascella doveva amarla davvero tanto.
   Il fischio del bollitore riempì la stanza. In una serie di azioni automatiche lo tolse dal fornello e rovesciò l’acqua fumante in una teiera, in seguito, prese un infusore pulito, lo riempì, lo chiuse per bene e immerse la pallina nell’acqua calda, poggiò il tutto su di un vassoio insieme a due semplici tazze di porcellana bianca, delineate sul bordino da una sottile linea dorata, e s’incamminò. Una volta difronte a Lyra, sistemò le chicchere sul tavolino, ben attento dal macchiare i fogli sparsi per buona parte della superficie, abbandonò il vassoio su un altro tavolo e si sedette.
   Avvertendo il movimento, la testa della donna si sollevò istintivamente, le iridi abbandonarono la carta stampata scribacchiata e oscillarono tra quella ardesia di Levi e la sua mano che avvicinava il tè verso di lei. La labbra le si scucirono in un ampio bianco sorriso. Non erano particolarmente carnose, erano modeste, ma era proprio quel sorriso, così caldo e accogliente, che le illuminava il viso e spingeva gli zigomi alti a sollevarsi, quel tanto da chiuderle delicatamente le palpebre fino a formare due mezzelune, cosicché anch’esse sorridessero, ad ammaliarlo.
   Era dolce il suo sorriso, lo faceva sentire stranamente a suo agio, quasi a casa e questo sì che era bizzarro. Di un bizzarro bello, però.
   Come poteva uno straniero in esilio sentirsi a casa in uno Stato che non era il suo?
   Ma non era solo dolcezza che rivedeva in lei, perché essa si scontrava e mescolava con il taglio dei suoi occhi a mandorla, di quel colore indefinito e con quel guizzo sagace e serafico che, in contrapposizione al sorriso, gli metteva addosso quel genere di disagio piacevole e stuzzicante.
   Attraente era l’aggettivo perfetto per descrivere l’acume che le riempiva lo sguardo.
   Sentiva che Lyra, nonostante non si fosse spinta in gesti eclatanti, gli fosse entrata sotto pelle come nessuna prima di allora era riuscita a fare, a prescindere da quanto ci provasse.
Per la prima volta in vita sua Levi provò quel tipo d’interesse verso qualcuno e, con suo sommo stupore, ne era… Felice?
   Gli piaceva come due parti tanto discordi trovassero una loro armonia in quel volto così trasparente.
   La mimica gioviale di Lyra mutò in una più amareggiata, «Mi sono di nuovo trattenuta oltre la chiusura», si portò le unghie curate a grattarsi una guancia, «Mi dispiace».
   Levi scosse il capo, «Non c’è problema».
   «È che qui mi trovo così bene», spiegò prendendo il manico della tazza, «Quando sono nel mio ufficio è un continuo via vai di colleghi e di studenti che chiedono un colloquio fuori orario. E a casa ho mille distrazioni», prese un sorso poi si umettò le labbra, attirando irrimediabilmente l’attenzione di Levi su quel gesto involontario, «Qui mi sento così… libera», concluse.
   Libertà. Quante volte il capitano aveva avuto a che fare con questo concetto e ogni volta, per ognuno, aveva un’accezione differente. Per Isabel e Farlan era abbandonare i Sotterranei; per Erwin e Hanji le risposte fuori dalle Mura; per Armin era il mare.
   Fu inevitabile ripensare ad Eren, a che cosa l’aveva portato la sua interpretazione del termine e, senza che lo volesse, l’uomo cambiò espressione, di poco, ma abbastanza perché un’acuta osservatrice come Lyra se ne accorgesse.
   «Forse è meglio che vada. Ti ho disturbato già abbastanza per oggi».
   Non ricordava quando i due avessero abbandonato le formalità e cominciato a parlarsi in maniera così colloquiale. Non era l’unica cliente con cui ciò accadeva, ma con nessuno aveva una reale confidenza come con lei, abbastanza da prenderle il polso e invitarla a finire almeno il suo tè prima di andarsene.
   L’ex-soldato si raddrizzò sulla sedia, portandosi la gamba danneggiata perpendicolare al ginocchio dell’altra e afferrò la tazza dal bordo.
   Lyra seguì incuriosita quella serie di movimenti che le parvero non consoni ad un uomo distinto come Levi.
   «Che c’è?», chiese lui per spezzare il silenzio.
   «Mi stavo chiedendo perché bevessi in quel modo. Sembra terribilmente scomodo».
   «È un’abitudine», lei lo fissò come per spronarlo ad argomentare ulteriormente quell’affermazione, di rimando Levi sbuffò ma l’accontentò comunque, «Nel luogo in cui sono cresciuto era difficile procurarsi beni di prima necessità, figurati di qualità. Un giorno stavo bevendo del tè, mi era costato un occhio della testa…», si indicò la benda, «Non letteralmente», scherzò amaro, «Quando sollevai la tazza dal manico, questo si ruppe, la tazza cadde a terra e si frantumò in mille pezzi e il mio prezioso tè si sparse su tutto il pavimento».
   «Un vero spreco», convenne lei.
   «Infatti», annuì di rimando, «Da allora tengo la tazza direttamente dal bordo, così sono sicuro che, anche se si dovesse rompere, non ricapiterebbe di nuovo», bevve e quel suo modo inusuale di farlo lo rese, se possibile, ancora più interessante agl’occhi della docente, «Col tempo ho perfezionato la tecnica per bere senza rovesciarmelo addosso».
Lyra gli riservò un debole sorriso, «È  la prima volta da che ti conoscono che sei così loquace».
   Levi schioccò la lingua sul palato, «È la seconda volta che mi sento dire una cosa simile», affermò, guadagnandosi una risatina cristallina di rimando.
   «Evidentemente gli altri erano troppo spaventati da te per dirtelo».
   «Molto probabile», sorrise sghembo.
   «Cos’hai risposto a quella persona?».
   «La loquacità fa parte della mia personalità». A quelle parole, lei si lasciò andare ad una risata piena e spontanea. Il capo le cadde lievemente all’indietro e qualche ciuffo sfuggì dallo chignon ordinato, rovesciandosi sulla nuca. Tutto di lei era così curato, osservò il corvino, c’era così tanta attenzione nel modo di porsi, nella scelta dell’abbigliamento, nella misura in cui parlava, eppure non dava mai, nemmeno per un istante, l’impressione che stesse fingendo con lui, di fingere in generale, lei era così: genuinamente diligente. Una perfezionista. L’aveva già intuito quando, una delle tante sere in cui si era trattenuta oltre la chiusura, gli aveva raccontato del suo dottorato di ricerca e di come lo stesse svolgendo. La sua meticolosità, la passione che ci metteva nel suo lavoro erano ammirevoli.
   «Avrei dovuto aspettarmelo. È così da te», sentenziò e ciò lo stupì, e non di poco. Come poteva essere riuscita a leggerlo così facilmente se si conoscevano appena? Infondo, la loro conoscenza era basata su piccoli stralci di conversazione tra un tè e l’altro, seduti sempre a quello stesso tavolo. Eppure lo fece sorridere. Di un sorriso vero. Sentì la cicatrice che gli attraversava l’angolo destro della bocca tirare, ricordandogli che da quel lato la sutura gli aveva storpiato il labbro, ma incredibilmente non ci badò, forse perché non vide quei suoi due bei fili di perle spegnersi a sua volta.
   Avvertendo comparire un inizio di rossore a colorargli l’incarnato esangue, Levi si girò e notò, suo malgrado, il cielo volto all’imbrunire. Lyra seguì il percorso del suo sguardo e sospirò impercettibilmente, alzandosi in piedi intenta a riporre i fogli sparsi alla rinfusa dentro una cartelletta.
   «Si sta facendo tardi, è meglio che vada».
   «Ti accompagno», si propose lui.
   La donna rimase bloccata sul posto, gli occhi fissi su Levi che andava a recuperare i soprabiti, «Non ce n’è bisogno, abito qui vicino», sorrise.
   «Insisto», lapidò semplicemente, posando la giacca sulla sedia, «Non è sicuro a quest’ora», aprì bene il trench ciclamino davanti a lei, la quale, ancora sorridente, gli diede le spalle accettando la carineria. Lo allacciò stretto in vita e sistemò la morbida pashmina tutt’intorno al collo sottile. Una volta pronta, il capitano le aprì la porta, la lasciò passare, poi uscì e fece scattare la serratura tre volte.

✯✯✯



   Il tragitto fu relativamente breve. Proprio come aveva detto, Lyra abitava nei pressi dell’Hanji’s Lab, il suo appartamento rimaneva esattamente a metà strada tra il porto e il centro città, dove era situato il polo universitario, giusto un paio di isolati a nord-ovest rispetto al bar.
   Le giornate si erano fatte più calde negli ultimi giorni, con notevoli sbalzi di temperatura, la mattina presto e la sera ancora permaneva un flebile ricordo della frescura primaverile, piacevole nonostante, per quanto ci si stringesse nei cappotti, penetrasse all’interno delle ossa sotto forma di centinaia di microscopici aghi invisibili. Quel tardo pomeriggio, in particolare, era più tiepido del solito, complice la leggera brezza marina che alitava tra le strade di Marley, calpestate solo dai lavoratori che rincasavano.
   Lyra prese una via secondaria sulla sinistra e lo condusse ad un complesso residenziale di recente costruzione, lo si capiva dal perfetto stato dell’intonaco crema e dai profili grigio chiaro intrecciati tra loro a ricreare figure floreali e fitoformi, quasi a ricordare un’edera rampicante che si faceva strada lungo le pareti del palazzo, qua e là farfalle stilizzate riposavano tra le foglie tratteggiate. Anche le finestre riprendevano le medesime linee geometriche in ferro battuto e modellato a disegnare cerchi e ovali concatenati tra loro.
   Per quanto Levi ne riconoscesse la magnificenza dell’ingegno umano dietro a quei ghirigori tanto decoratavi quanto naturalistici, non riusciva ad apprezzare appieno quel nuovo stile che stava prendendo piede in città, soppiantando a mano a mano quello più sobrio ed eclettico che la caratterizzava. Non vedeva armonia in quell’intreccio di fili e fiori, al contrario gli rimembrava quanta poca natura ci fosse a Marley, così fortemente industrializzata e uggiosa, se non fosse per il giogo del mare che ripuliva l’aria viziata e donava un cielo sempre limpido - maltempo permettendo - e per i parchi disseminati in punti strategici, al fine di donare colore a una capitale che altrimenti sarebbe tristemente monocromatica.
   Uno di questi si trovava proprio accanto all’edificio, recintato da una raffinata ringhiera nera, che ancora richiamava a quella semplicità che il capitano tanto agognava. Al suo interno la recinzione era costeggiata da aiuole in fiore dalle quali si alzava un soave profumo di lillà.
   Levi lasciò che gli riempisse le narici: amava quell’aroma. Era per lui un rimando tangibile a uno dei rari momenti in cui si era detto sereno durante l’interminabile assedio dei giganti naturali fuori dalle Mura.
   Gli rievocava un ricordo nello specifico.
   Era entrato a far parte del Corpo di Ricerca da qualche mese ormai, e in quell’insignificante lasso di tempo aveva già perso le uniche persone che fino ad allora avrebbe potuto definire fratelli, e con loro anche tutte le certezze che aveva su quel mondo impari e crudele lo avevano abbandonato. Al seguito di Erwin aveva dovuto fare inesorabilmente i conti con una realtà straordinariamente infausta, tale che, in paragone, le condizioni della Città Sotterranea sembrano quasi impallidire, ma che, se possibile, colmarono il cuore di Levi di un maggiore odio verso l’élite politica infantile, opportunista ed egoista che li guidava. Il degrado dei sotterranei era esclusivamente colpa dell’indifferenza dei grassi porci che li governavano, ma lì fuori c’era qualcosa che andava oltre l’umana comprensione, qualcosa di più grande e misterioso nascosto dietro a quelle espressioni buffe e quegli sguardi assenti, qualcosa che faceva sentire la giovane recluta nel posto che gli spettava nel mondo.
   Dentro le Mura, sebbene sopra di sé ci fosse un cielo infinito al posto di un soffitto di roccia, Levi si sentiva soffocare, una morsa gli si chiudeva lungo la trachea, come se una mano gliela stringesse con tale impeto da impedire all’aria di entrare nei polmoni e irrorare il sangue d’ossigeno; ma quando era là fuori, in groppa al suo nero destriero che galoppava fino quasi allo stremo, con il paesaggio che gli scorreva intorno in scie confuse di verde, marrone, azzurro e bianco, e i rumori della natura si confondevano con lo scalpiccio degli zoccoli, finalmente smetteva di sentirsi oppresso e nemmeno la minaccia dei giganti poteva privarlo di quella precaria beatitudine. Nonostante sapesse che ogni volta sarebbe tornato indietro col lutto nel cuore, non poteva evitare di provare quella trepidazione farsi spazio a gomitate nel suo animo all’idea di varcare il portone di pietra del Wall Maria.
   Athena correva all’impazzata sul terreno scosceso in prossimità di un lago, ad ogni falcata dava forti colpi al bacino di Levi, che faticava ad armonizzarsi con l’andatura incontrollata della sua purosangue in preda al terrore. Avevano scampato l’imboscata di ben tre giganti anomali per pura fortuna, decine di suoi commilitoni erano stati divorati, le loro urla ancora rimbombavano nella mente del giovane che, schivando una titanica mano che tentò di afferrarlo, scivolò giù per una scarpata, ritrovandosi, così, separato dal resto della formazione e senza alcun punto di riferimento a cui appellarsi per rientrare al quartier generale.
   Era salvo, come sempre, ma per l’ennesima volta non era riuscito a salvare i suoi compagni.
   Raggiunse lo specchio d’acqua, smontò da cavallo e lasciò che Athena si abbeverasse e calmasse, mentre egli si guardava intorno alla ricerca di impronte o segni fisici che qualcuno fosse passato di lì prima di lui, sfuggendo ai giganti.
   Nulla.
   Nemmeno una spada spezzata o un brandello di mantello strappato.
   Senza volerlo si doveva essere allontanato parecchio dal campo di battaglia - di sterminio forse calzava meglio alla realtà dei fatti.
   Si accucciò in riva al lago, proprio accanto alla giumenta, e si lavò con veemenza viso e mani, sfregò via quel poco che rimaneva del sangue, in gran parte già evaporato ma che comunque lo faceva sentire sporco. In seguito rimontò in sella, tirò le briglie verso destra e calciò piano i fianchi di Athena, la quale in risposta ruotò fino ad avere la sponda sulla sinistra e trottò, polvere e pietrisco si sollevavano ad ogni colpo di zoccoli.
   Costeggiarono la riva fino a quando i costoni di pietra non si appiattirono nei margini di un’ampia radura, tagliata su un lato dal fiume che alimentava il lago, e che, molto probabilmente, era quello che, all’interno delle Mura, veniva percorso dai battelli. Se la sua ipotesi si fosse rivelata corretta, risalendolo, esso l’avrebbe condotto al sicuro.
   Non vi erano alberi idonei al movimento tridimensionale. Constatarlo diede a Levi un’amara certezza: pur avendo la bombola del gas ancora piena e le lame intatte, senza appigli utili, aveva scarse possibilità di uscirne vivo da quello spiazzo lussureggiante.
   Tuttavia, in quel momento, il pensiero di essere prossimo alla morte non lo attanagliò. I suoi occhi di nuvola, spesso ridotti a due fessure, si strabuzzarono dall’incredulità, al punto che persino Erwin avrebbe a stento trattenuto una risata, se fosse stato presente per assistere alla scena. Un’immensa distesa di migliaia di fiorellini purpurei disposti a grappolo si estendeva a perdita d’occhio, l’intera radura ne era invasa.
   Malva, magenta, pervinca, glicine, viola.
   Le sfumature accese dei fiori in piena fioritura si mischiavano alle tonalità più spente di quelli che avevano già fatto il loro corso e ora volgevano alla fine della loro bellezza. Il profumo dolce e carezzevole lo avvolse, inebriandolo di un’armonia e una pace interiore che mai, dopo la dipartita della madre, era riuscito a trovare.
   Non che ci avesse provato, in ogni caso. Levi era un uomo pragmatico, cinico, che non si illudeva nell’esistenza di un futuro migliore, roseo, e con una marcata predisposizione alla violenza - doveva ringraziare Kenny per questo. Eppure, dinnanzi all’infinita magnificenza della natura, anche lui si dovette arrendere. Qualcosa di bello esisteva per compensare alla crudeltà di quel mondo, un equilibrio.
   Da vero incosciente - aggettivo che mal si sposava con ciò che era Levi - serrò le palpebre, inclinò il capo all’indietro e inspirò a pieni polmoni. Trattenne il respiro più che poté per non lasciarsi sfuggire quell’aroma, poi espirò fino a sentirsi leggero e per la prima volta in vita sua smise di pensare e cominciò a sentire. Quella solitudine aveva il sapore dolceamaro della consapevolezza, della Natura che si rende manifesta nel suo essere contemporaneamente madre e matrigna, e lì, in quella radura, in comunione con ciò che lo circondava, il soldato comprese che non sarebbe più stato lo stesso, che non avrebbe più guardato il mondo con gli stessi occhi di prima.
   Non avere rimpianti, soltanto adesso capiva cosa volesse dire Erwin.
   Per un breve istante accarezzò l'idea di rimanere così, fermo immobile in groppa ad Athena, immerso in tutto quel viola, e che avrebbe potuto farlo per il resto dei suoi giorni, o forse attimi, ma il rumore di uno sparo lo costrinse a tornare coi piedi per terra. Di scatto si voltò in direzione di quel suono, una striscia verde squarciò fumosa il cielo terso.
   Un fumogeno.
   Sembrava distante, ma non così tanto da non potersi ricongiungere alla formazione. Istintivamente mosse i talloni e Athena partì lesta.
   Era salvo per davvero.
   Il cadetto non raccontò mai a nessuno di quel luogo. Per qualche ragione sconosciuta persino a se stesso, preferì conservarlo gelosamente nel suo cuore spezzato, nel suo animo dilaniato, suo unico conforto nelle notti insonni.
   «Un helos1 per i tuoi pensieri», lo richiamò Lyra, scrutandolo da sotto le ciglia lunghe e curve.
   «Mm?», si trovò in contropiede Levi.
   «Eri perso da qualche parte qui dentro», gli picchiettò una tempia, nessuna traccia di fastidio nella voce. Pensò che per un militare doveva essere inevitabile avere momenti in cui la mente vagava nella nebbia di ricordi sconnessi e nefasti. Puoi togliere il soldato dalla guerra, ma non puoi togliere la guerra dal soldato.
   «Mi dispiace».
   La donna scosse la testa accondiscendente, «Non scusarti. Spero un giorno vorrai condividerli con me questi pensieri».
   Lui sorrise e distolse lo sguardo imbarazzato, mentre rifletteva su come formulare il quesito che da un po’ gli passava per la mente. Stare in sua presenza, sotto i suoi occhi attenti di certo non aiutava a spronarlo.
   A un certo punto, però, riprese a guardarla in quei luminosi specchi dorati, la postura dritta e la voce ferma, prese un bel respiro come per raccogliere il coraggio e chiese: «Quand’è il tuo giorno libero?».
   Le palpebre di lei sbatterono un paio di volte, smarrita dalla domanda, «Il lunedì».
   Levi le lanciò un sorrisetto soddisfatto, «Bene, è il giorno di riposo al bar. Ti andrebbe un picnic in spiaggia?».
   Il sorriso che gli riserbò fu abbagliante, «Molto volentieri».


[1] Helos: moneta totalmente inventata da me, ispirata al nome del famoso eroe marleyano.

Note d'Autore
Riciao a tutti quanti!
Questo capitolo è stato sofferto. L'ho riletto e riletto un sacco di volte prima di decidermi a pubblicarlo, ogni volta aggiungevo, tagliavo, poi riaggiungevo e ritagliavo, mi sembrava sempre mancasse qualcosa e allo stesso tempo non fosse mai abbastanza (sicuramente destreggiarsi tra università e lavoro non aiuta LOL).
Nonostante abbia infine deciso di caricarlo, ancora ho qualche dubbio, perciò fatemi sapere cosa ne pensate, ogni feedback sarà prezioso.


A presto, 
Claire DeLune  

   
 
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