Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Ricorda la storia  |       
Autore: Claire DeLune    02/02/2022    1 recensioni
La donna fece per prendere il portafogli dentro la piccola borsetta che le pendeva dal polso, ma con un gesto della mano il capitano la bloccò, «Offre la casa».
Questo sì che la stupì.
«Ho sofferto per anni di insonnia, so come ci si sente», chiarì.
«Ne soffre ancora?».
Levi annuì.
«Immagino non si possa scappare dai nostri demoni», rispose lei mesta e per la prima volta il corvino notò un’ombra velarle i solitamente allegri occhi ambrati.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Falco Grice, Gabi Braun, Levi Ackerman, Mikasa Ackerman, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ciao a tutti e grazie per aver scelto di leggere questa storia!
È la mia prima fanfiction in questo fandom e la prima che scrivo dopo almeno un paio d'anni di pausa, perciò siate clementi anche se sono un po' arrugginita.
Come avrete intuito dall'intro, i fatti narrati avranno luogo dopo la fine dell'ultimo arco narrativo, perciò potrebbero essere contenuti spoiler per chi sta seguendo solo la serie animata. 

Ringrazio la mia cara amica Federica per la pazienza che sta mostrando nel leggere e redarre i capitoli di questa storia, che prevedo non supererà i cinque capitoli. 

Non voglio farvi indugiare oltre. Vi lascio nelle mani del nostro amato Levi.
Buona lettura!
Claire DeLune

HANJI’S LAB

 

1.
Il barista bendato

   Era una notte buia, l’aria gelida di fine inverno stava mutando in temperature più miti e primaverili, insieme alla ciclicità delle costellazioni che cedevano il passo a un cielo meno ricco di stelle ma più luminoso, grazie all’allungamento delle giornate. La volta celeste sarebbe stata meravigliosa in assenza della pallida luna, se non fosse stata velata da una fitta coltre di nuvole scure e cariche di pioggia. Il vento soffiava forte, i suoi ululati si scontravano sulle spesse pareti in pietra del borgo e, in lontananza, si udiva lo scrosciare violento dell’acqua salmastra che s’infrangeva sui frangionde e l’oscillazione delle imbarcazioni attraccate nel porto.
   È in arrivo una tempesta, pensò Levi, stringendosi nella coperta che gli avvolgeva le spalle, mentre attraversava silente il corridoio addormentato. C’era solo una candela a rischiararlo; la fiammella tremolava ad ogni suo passo, illuminandone di una fioca e calda luce il volto diafano e proiettando inquietanti ombre sulle pareti. Levi le osservò appena, aveva visto scene ben più spaventose nei suoi anni da soldato, immagini che difficilmente abbandoneranno i suoi occhi e i suoi sogni. Gli incubi ricorrenti ancora lo affiancavano come compagni fedeli, convogliando in un’incurabile insonnia che nemmeno con la ritrovata pace sembrava affievolirsi.
   Non era stato facile, per Levi, adattarsi alla nuova situazione. Acclimatarsi con la vita spensierata di Marley, così caotica in confronto alle realtà ancora rurale di Pardis. Si ritrovava spesso perso nei propri pensieri a domandarsi cosa avesse fatto per meritarsi quell’ennesima opportunità di vivere, sereno stavolta.
 
  Sereno si fa per dire.
   Per quanto non fosse minacciato da evidenti nemici, rimaneva comunque un uomo che aveva fatto della guerra il suo mestiere e che ora, come sopravvissuto in terra straniera, era costretto a reinventarsi.
   Era proprio restare a Marley la parte più difficile. Più delle dolorose ferite che lo avevano segnato nel corpo e nello spirito, più della cecità all’occhio destro, era abituarsi all’esilio - perché infondo questo era - che lo affliggeva maggiormente, e alla solitudine che ne derivava.
   Pe merito del sacrificio di Eren i giganti erano svaniti, nelle vene degli eldiani non scorreva più sangue di demone, solo sangue umano, ma le vecchie abitudini, le vecchie paure, le stigma trascinate per secoli, i sospetti, gli asti erano sempre lì, pronti a farsi avanti, ad approfittare di una minuscola scintilla per riappiccare il fuoco dell’odio e trovare nuova vita. Non si potevano cancellare duemila anni di conflitti in un battito d’ali di farfalla.
   Ma a Levi non era rimasta altra scelta se non quella di accettare l’asilo che gli era stato offerto, nonostante in molti avrebbero preferito vedere la sua testa conficcata su una picca. In primis a Paradis, caduta nelle mani degli Jeageristi, per i quali l’ex-soldato non rappresentava altro che un traditore. Qui non gli era rimasto nessuno per cui valesse la pena combattere all’infuori della sua unica consanguinea ancora in vita, ma Mikasa avrebbe solo sofferto se lui fosse ritornato in patria. In quanto entrambi Ackerman, la presenza di Levi avrebbe messo in serio pericolo la giovane e la famiglia che si stava costruendo con Jean.
   Perciò sopportava.
   Per proteggerla.
  Perché teneva a lei.
   Vedeva questa fase della sua esistenza come un’espiazione dei propri peccati: per non aver mantenuto la promessa fatta a Erwin fino a quando non era stato troppo tardi, per aver perso i suoi commilitoni, la sua squadra, per aver lasciato andare Hanji incontro al suo infausto destino.
   Levi, intento a scaldare il bollitore sul fornello, sentì una fitta all’altezza del cuore, portò in un movimento automatico il pugno destro al petto, «Offrite i vostri cuori», mugugnò in un flebile respiro. Non aveva mai pronunciato quelle parole prima dell’ultimo saluto alla sua cara amica. Un gesto solenne il suo, che tuttavia non fu indirizzato solo a lei, ma a tutti coloro che aveva perso lungo la via, pronto a ricongiungersi a loro una volta adempiuto al proprio dovere. Da allora in più di un’occasione si era ritrovato, spesso inconsapevole, in quella posizione così rigida e cerimoniosa, così al di fuori della sua persona, lui che era sempre stato sprezzante delle formalità e delle gerarchie; però suscitava qualcosa in Levi portare la mano stretta a pugno sul proprio cuore e recitare quella frase, come se gli confermassero che lui aveva fatto parte di un disegno più grande, che nonostante la perdita, il vuoto, i sacrifici, lui aveva onorato i suoi compagni nelle sue gesta, aveva dato loro giustizia e un degno riposo.
 
  Una cosa che soltanto le Mura potevano sapere, era quanto il capitano desiderasse trovare la stessa pace che avevano trovato Erwin e l’annientato Corpo di Ricerca, ma la vita aveva in serbo altro per lui. Come Dante uscito dall’Inferno, anche Levi doveva attraversare il Purgatorio prima di poter giungere in Paradiso.
   Sospirò, versando l’infuso alle erbe nella tazza, poi la prese in entrambe le mani, andò in salotto, si sedette sulla poltrona accanto alla finestra che dava sul porto e, nel suo solito modo sgraziato, se la portò alle labbra sottili.
   «Capitano, beve troppo tè, per questo non dorme», lo rimproverò bonaria Petra una mattina in ufficio, accortasi che il superiore era rimasto in piedi tutta la notte a compilare rapporti. Affermazione cui a suo tempo rispose con un grugnito, ma in quel momento il ricordo fece comparire l’ombra di un sorriso sul suo viso provato. Era proprio questo il punto. La teina lo teneva vigile ma lo sapeva anche rilassare, era l’unica cosa che lo aiutasse ad azzerare almeno per un’irrilevante frazione di tempo la mente. E se la conseguenza era l’allontanamento dal sonno e dai visi dei suoi cari che tornavano a perseguitarlo, tanto meglio, ne avrebbe abusato quanto più possibile, perché per quelle due o tre ore in cui effettivamente dormiva, era così distrutto da riuscire a bearsi di un riposo privo di sogni.
   Privo di rimorsi.
   Guardò fuori dalla finestra, il suono della pioggia che picchiettava sul vetro lo distrasse dal suo rimuginare incessante e apparve stranamente rivelatore, come se gli stesse ricordando che era ormai tempo di concludere un lungo oscuro capitolo della sua storia, di mettere da parte i sensi di colpa, in favore della costruzione di una neonata armonia, insieme alla nuova famiglia che lo aveva adottato.
   Certo c’era molto lavoro da fare, per i marleyani, così come per le altre popolazioni. Non sarebbe stato facile non guardare più agli eldiani come a dei mostri, ma le mura dei quartieri di internamento erano state abbattute, le fasce al braccio gettate e questo era già un gran passo avanti per il genere umano.
   Lo scricchiolio delle assi del pavimento fecero scattare la testa di Levi in direzione della porta, sulla soglia trovò un ancora mezzo addormentato Falco, ma abbastanza sveglio da grattarsi nervosamente la nuca in un gesto impacciato di scuse.
   L’uomo arcuò scocciato un sopracciglio. Una conseguenza dell’essere in esilio a Marley era l’essere costretto a convivere con i due mocciosi dell’ormai sciolto Corpo degli Aspiranti Guerrieri, unica sua consolazione in questa esistenza di solitudine lontano da casa - cosa da cui ben si guardava dal rivelare -, custodia che condivideva con un terzo coinquilino ben più maturo e sopportabile: Onyankopon.
   Eppure in quel periodo era proprio quest’ultimo ad irritarlo più di ogni altra cosa.
   Erano giorni che l’uomo alto e slanciato passava il tempo blaterando su un locale in affitto nella zona portuale, che a suo dire sarebbe stato perfetto come negozio da tè e bar, e quella mattina non era stata diversa. Erano le otto, ma era già da più di un’ora che lo pressava e, stranamente, per una volta la sua idea aveva trovato l’approvazione e l’entusiasmo della lamentosa Gabi. Il loro chiacchiericcio aveva ovviamente disturbato il prezioso rituale mattutino con cui Levi cominciava la sua giornata: sorseggiare in tranquillità il suo tè  - ironia della sorte che a rovinare il suo tè fosse un discorso sul tè.
   «Pensaci, Levi», si rivolse nuovamente a lui Onyankopon, gli occhi neri lucidi come biglie di onice, «Un bel locale diviso in due stanze, in una metteremo dei tavolini dove i clienti potranno degustare le tue creazioni e nell’altra un negozio ben assortito».
   «Sì, Levi! I tuoi infusi sono i migliori che abbia mai assaggiato, farà sicuramente successo!», rincarò la ragazza, «Potremmo anche mettere dei tavoli all’aperto nelle belle stagioni. I clienti faranno a cazzotti per potersi rilassare guardando il mare».
   L’ex-soldato sospirò pesantemente, portandosi la tazza ormai freddata alla bocca; fece un sorso, una smorfia di puro disgusto storpiò le sue labbra sottili, mentre analizzava con stizza il suo povero tè ridotto a della mera acqua sporca. Una volta freddo diventava troppo amaro persino per lui che aveva fatto dell’amarezza uno stile di vita.
   «L’odore di salsedine non si sposa col profumo del tè», si rifiutò debolmente. Era al limite della sopportazione, non ce la faceva proprio più ad ascoltarli.
   Gabi sollevò un sopracciglio dubbiosa. Era la prima volta che Levi non riusciva a trovare la giusta scelta di parole per zittirli, Sta cedendo?, si ritrovò a chiedersi speranzosa, O forse è solo stanco?, pensò poi, valutando che probabilmente fosse poco propenso a inutili discussioni, considerando quanto lo estenuassero le intense sessioni di fisioterapia a cui si stava sottoponendo.
   «Già sono cieco da un occhio, non ho nessuna intenzione di farmi trascinare in giro da voi su questa stramaledetta sedia per il resto dei miei giorni!», affermò il giorno in cui comunicò loro di aver trovato un medico disposto a rimetterlo in piedi.
   La convalescenza post-operatoria non fu affatto semplice, se possibile Levi diventò ancora più insostenibile con le sue manie del pulito. Non potendo metterci mano lui stesso alla faccende domestiche, comandava a bacchetta i suoi coinquilini rumorosi, ricordando ancora terribilmente a tutti il capitano del Corpo di Ricerca che viveva in lui e, quando il risultato finale non rispecchiava i suoi standard, il suo sguardo ricordava fin troppo vividamente anche il criminale che era stato nella Città Sotterranea.
   Nessuno osava respirare difronte a quegli occhi affilati come coltelli.
   Come se già di suo non fosse un uomo difficile con cui avere a che fare, il dolore bruciante che la gabbia avvitata alla gamba gli provocava lo rendeva ancora più imprevedibile.  Sapevano che era per il bene di tutti loro se aveva preso quella sofferta decisione, perciò passavano sopra alla sua connaturale scontrosità; Gabi mandava già il boccone anche quando avrebbe voluto sputarglielo dritto in faccia, conscia che non lo facesse per orgoglio, bensì per indipendenza.
   Da un paio di settimane a questa parte la gabbia era stata rimossa, ma la fisioterapia si era intensificata per aiutare le ossa a guarire nel modo corretto. I risultati erano straordinari. Benché ancora necessitasse di una stampella per reggersi, Levi aveva ricominciato a camminare. A passo incerto, ma camminava.
   «Stai bene?”, gli chiese finalmente lei, “Vuoi un analgesico?».
   L’uomo comprese subito a cosa si stesse riferendo e il fatto che la ragazza stesse imparando, giorno dopo giorno, a decifrarlo, da una parte lo emozionò e dall’altra lo irritò, ovviamente prevalse la seconda. Le sopracciglia sottili di Levi si avvicinarono in un profondo cipiglio.
   «No», disse semplicemente alzandosi e poggiando la tazza nel lavello.
   Stava già preparando l’occorrente per lavare le stoviglie quando Gabi commentò, «Non ti troverai mai una donna se continui a fare così».
   Nella stanza calò un silenzio tombale. La ragazza stava entrando in un campo minato in cui nessuno osava mettere piede. Le altre due persone presenti si assestarono sul posto, paralizzati come sentinelle, le braccia anchilosate lungo i fianchi e la paura di chi sa che al minimo passo falso, la bomba sarebbe esplosa sotto di loro, dipinta in faccia.
   «Gabi», sussurrò Falco in un chiaro segnale alla giovane di tacere. Segnale che evidentemente non arrivò.
   «Hai trentotto anni, sarebbe anche ora che ti sistemassi».
   Onyankopon e Falco osservavano la scena in assoluto ammutoliti, le mandibole persero controllo dell’articolazione ritrovandosi inesorabilmente divaricate, i loro occhi rimbalzavano dalla schiena di Levi al viso della ragazza come palline da tennis impazzite, terrorizzati dalla brutta piega che quella conversazione stava prendendo.
   C’erano volte in cui la schiettezza di Gabi superava l’umana comprensione. Quella era una di quelle volte.
   La mano destra insaponata di Levi chiuse l’acqua del rubinetto, la sinistra ripose la tazza sul fondo del lavabo, poi le sistemò entrambe sul bordo del lavello, appoggiando sulle braccia il proprio peso, la schiena rigida e leggermente incurvata in avanti. Era troppo tardi, ancora un paio di secondi e Levi si sarebbe girato come una furia e li avrebbe inchiodati lì sul posto, sempre con quel suo sguardo acuto e sferzante, gli occhi fini ridotti a due fessure e un sinistro lampo omicida ad animarli.
   Tuttavia il capitano fece qualcosa che sorprese tutti. Grugnì e voltò leggermente il viso nella loro direzione, sebbene non abbastanza per poter scrutare la sua espressione. Si strinse nelle spalle e se possibile sembrò ancora più minuto di quanto non fosse già.
   Ripensò a sua madre, a Isabel, a Petra.
   Ad Hanji.
   Alle donne che aveva perso e si disse che non era disposto a perderne un’altra.
   Non gli importava se il lignaggio degli Ackerman si sarebbe estinto con lui, tanto era stato maledetto fin dall’inizio. Non gli importava di invecchiare da solo, in tutta onestà non sarebbe dovuto vivere così a lungo tanto per cominciare.
   «Gabi», la chiamò solenne, «Non c’è nessuna per me».
   «Certo che c’è!”» si affrettò a dire, «C’è qualcuno per chiunque». I suoi occhi castani si posarono timidi sulla figura del giovane biondo poco distante da lei, pronto a farle da scudo dalle grinfie del loro tutore se fosse stato necessario.
   «No, mocciosa, per me non c’è più nessuno».
   La ragazza si azzardò ad avvicinarsi all’uomo che mai come in quel momento si era mostrato così distrutto, così vulnerabile, e gli mise una mano sulla spalla. In un primo momento Levi s’irrigidì ma accettò il contatto.
   «Là fuori c’è qualcuno che sta aspettando di incontrarti. Qualcuno a cui non importerà del tuo passato, da dove vieni, delle cicatrici o se sei basso», marcò quelle ultime parole come se fossero davvero il suo unico grande difetto e incredibilmente gli strappò una risata soffocata, «Meriti di essere felice, Levi».
   «Gabi ha ragione», s’intromise Onyankopon, «Aprire quel locale potrebbe rivelarsi il luogo ideale per trovare la tua persona».
   Quanto è furbo, pensò Levi squadrandolo dalla testa ai piedi.
   Non poteva prevedere quanto le parole dell’uomo fossero propiziatorie.
   «A cosa stai pensando?», osò chiedergli Falco all’improvviso, riportandolo a quella notte buia e piovosa, la voce ridotta a un flebile sussurro per non svegliare gli altri e, per un attimo, credette l’avesse fatto perché il ragazzo lo temeva.
   L’uomo riportò l’attenzione sulla finestra, mentre Falco prendeva posto davanti a lui sul divano, così da poter osservare meglio la sua espressione apparentemente distante.
   «Com’è posizionato il locale?».
   Falco gli lanciò un’occhiata confusa. Aveva sentito bene?
   «Come?».
   Levi schioccò la lingua, «Non costringermi a ripetermi», minacciò come suo solito.
   «Ehm, beh, l’ingresso è nella piazza portuale, proprio davanti alla statua di Helos, con una veranda che dà sul lungomare. Lì c’è abbastanza spazio per mettere dei tavoli durante le belle giornate», fece una piccola pausa, in risposta il capitano gli fece cenno di proseguire, «Il locale è piuttosto grande per allestire una sala ristoro e un negozio, come diceva Onya, c’è anche un laboratorio sul retro, visto che in origine era una pasticceria».
   Levi sorseggiò la sua tisana assorto prima di decidersi a parlare, «Hai impegni domani?».
   «E’ il mio giorno di concedo».
   «Accompagnami a vedere il posto».
   Le iridi verdognole del ragazzo si strabuzzarono piacevolmente sorprese nell’osservare quello che un tempo era stato il suo nemico, ora sua figura di riferimento e modello, «Vuoi andarci davvero?».
   Levi annuì, «Ma non dire niente agli altri, non voglio che rimangano delusi se decido di non imbarcarmi in questo progetto».
   Falco sorrise comprensivo. Si sentiva sempre avvolto da uno strano calore quando Levi mostrava il suo lato protettivo, sebbene a giudicare dall’inflessione con cui parlava poteva apparire semplicemente disinteressato alle opinioni e ai sentimenti altrui.
   «Torna a dormire, moccioso», proruppe dopo un po’ l’altro.
   «Sissignore».

 

✯✯✯

 

   Le procedure burocratiche e l’allestimento del locale rubarono più tempo di quanto potessero immaginare, scoprirono loro malgrado che l’amministrazione maleyana era piuttosto ostica e frustrante, a tratti disfunzionale, ma, quasi a quattro mesi da quando avevano cominciato questo percorso, finalmente potevano dirsi soddisfatti di aver firmato il contratto d’affitto.
   Si erano divisi i compiti in base alle qualità specifiche di ognuno. Onyankopon e i ragazzi, quando non erano all’accademia, si sarebbero occupati del servizio al tavolo, Levi invece della cassa, della vendita dei prodotti e della creazione delle miscele in laboratorio.
   C’era stato qualche battibecco sul nome, ma erano giunti di comune accordo di intitolarlo Hanji’s Lab, in onore della grande donna che aveva cambiato le loro vite.
   Con loro grande sorpresa, nonostante la scontrosità di Levi e il suo aspetto non propriamente accogliente a primo impatto, il locale prese piede velocemente e non era raro che i clienti tornassero a casa con scatoline in latta, dopo aver assaggiato il loro ricco assortimento di tè.
   L’idea di Onyankopon si era rivelata geniale, il tenebroso capitano Ackerman si era riscoperto avere un talento per questa sublime arte. Le foglie triturate e sminuzzate accuratamente erano sempre della perfetta tostatura e il fiuto di Levi, da buon intenditore, riconosceva la giusta composizione floreale, fruttata, agrumata o speziata da abbinare alla qualità di tè scelta, creando connubi inediti dai bilanciamenti impeccabili, tanto che ormai l’Hanji’s Lab era sulla bocca di tutti in città, così come lo era il suo enigmatico proprietario. Tutti a Marley, e non solo, erano curiosi di incontrare l’autore di tali armonie, al punto da guadagnarsi il soprannome Il Poeta, perché questo rappresentava l’esperienza di bere un tè preparato da Levi: pura poesia che solo il palato poteva accogliere.
   Una donna fra tutte era particolarmente intrigata dal capitano stoico, di poco parole e chiaramente a disagio di ricevere tante attenzioni, totalmente estraneo all’effetto che aveva sugli altri. Non la comprendeva quella stima e ammirazione che la gente nutriva nei suoi confronti quando lo denominarono Il soldato più forte dell’umanità e non la capiva tutt’ora che lo chiamavano Il Poeta, anzi, se possibile gli era ancora più impossibile in questa sua nuova veste da barista.
   Ella non perdeva occasione di presentarsi al locale e lanciare qualche occhiata fugace all’uomo di bassa statura dietro al bancone, per nulla intimidita dalla sua postura severa, dal viso impassibile e dalla benda nera che gli copriva l’occhio destro, al contrario se ne trovò affascinata, tanto da essere disposta a comprare tutto il tè del negozio pur ti parlare con lui. Si convinse che doveva pure aver fatto delle figure poco lusinghiere in certe circostanze, con domande banali pur di non interrompere la conversazione che altrimenti sarebbe stata piuttosto stringata.
   «Quanto deve stare in infusione?», gli chiese una volta, alzando un scatola quadrata all’altezza della sua testa che faceva capolino da dietro la spalla, la stampa dell’etichetta ocra riportava lo schizzo di fiori di gelsomino e semi di cardamomo. Anche senza alzare le iridi di nuvola su di lei, Levi avrebbe riconosciuto il profumo delicato e impercettibilmente dolciastro a chilometri. Ma lui la guardò comunque, o meglio la fissò. Fissò dei piccoli frammenti di foglie che abbandonavano l’interno della confezione aperta e cadevano sul pavimento immacolato, mentre lei si girava verso di lui.
   Un sopracciglio di Levi scattò appena e irritato rispose: «Dai tre ai cinque minuti, come tutti i merdosi tè».
   La donna non si aspettò quella rispostaccia, glielo si leggeva dall’espressione meravigliata, ma ciò nonostante abbozzò un sorriso divertito, richiuse la scatola e attraversò lo spazio che separava gli scaffali espositivi al bancone con la cassa.
   «Questo, per favore».
   «A posto così?».
   Ci pensò su un attimo, «Fate tisane per uso terapeutico?».
   «Dipende dall’utilizzo che ne deve fare».
   «Ultimamente fatico a dormire».
   «Posso consigliarle una tisana a base di tiglio e verbena, con rooibos, camelia, liquirizia, cannella e pera».
   «Rooibos?», domandò lei curiosa, il capo leggermente piegato di lato.
   
Levi sbuffò, «È  un tè rosso che arriva dalle terre desertiche, privo di teina per favorire il rilassamento insieme al tiglio e alla verbena», le diede le spalle, aprì uno dei tanti cassetti lungo la parete e con un setaccio raccolse una polverina colorata che rinchiuse in filtri sfusi, «Lo provi per qualche giorno, se non funziona proverò a modificarlo».
   La donna fece per prendere il portafogli dentro la piccola borsetta che le pendeva dal polso, ma con un gesto della mano il capitano la bloccò, «Offre la casa».
   Questo sì che la stupì.
   «Ho sofferto per anni di insonnia, so come ci si sente», chiarì.
   «Ne soffre ancora?».
   Levi annuì.
   «Immagino non si possa scappare dai nostri demoni», rispose lei mesta e per la prima volta il corvino notò un’ombra velarle i solitamente allegri occhi ambrati.
   «Grazie», spezzò il silenzio lei, l’ex-soldato rispose con un cenno del capo.
   La donna si incamminò, i tacchi picchiettavano sicuri sul legno scuro del pavimento. Quando la mano guantata prese la maniglia, si girò e lo guardò dritto negli occhi senza esitazione, i capelli cioccolato incorniciavano il viso di porcellana e labbra color lampone, «Lyra, il mio nome è Lyra», e se ne andò.
   Levi non ebbe il tempo di presentarsi a sua volta, ma non potè fare a meno di pensare che quel nome le si addicesse.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: Claire DeLune