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Autore: summerlover    14/02/2022    1 recensioni
La storia di due ragazzini e delle vicissitudini che li vedranno crescere e li coinvolgeranno per tutto il corso della loro vita, in una società tanto antica quanto saggia e piena di antico sapere.
Questa è la prima parte della storia, scritta intorno al 2000, e che solo oggi vede la luce in questa pubblicazione. Mi scuso per eventuali errori di battitura, sarà mia premura revisionare la storia una volta conclusa.
Personaggi, trama, ed ambientazioni sono totalmente frutto del mio lavoro. Vietato copiare.
Genere: Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“e in fine sarà il tempo in cui lei camminerà tra noi...”

 

Capitolo 1

La nuova patria

 

Le onde si infrangevano sulla lontana costa, mentre la nave volgeva verso il piccoli porto. Entro quella sera i passeggeri avrebbero potuto dormire in veri letti invece che in piccole cuccette scomode. Il sole faceva brillare le vele bianche, mentre il ragazzino guardava l’orizzonte accarezzando il gatto che si crogiolava felice al sole.

Era un bambino di circa dodici anni dai capelli di un indefinibile colore tra il biondo e il castano. Fissava la città dove avrebbe passato il resto della sua vita: sulla costa sorgevano le abitazioni di pescatori, mentre all’interno stavano mercanti e contadini, ma il luccichio che predominava su tutto era quello del maestoso Tempio del Sole. Nonostante mancasse ancora un intero giorno di viaggio, la Piramide si poteva distinguere nitidamente sia per le sue dimensioni che per la sua posizione elevata: le pietre con cui era costruita erano levigate e perfette, tanto che sarebbe stato quasi impossibile abbattere la costruzione.

Il ragazzino pensò con malinconia alla sua casa: aveva lasciato i suoi fratelli, le sue sorelle maggiori erano sposate da tempo, e i suoi amici… lui non aveva amici, solo ragazzini che volevano approfittarsi della sua posizione. Ripensò meglio alla sua situazione, e decise che in fondo era stato meglio così: suo padre non sapeva che farsene si un altro figlio maschio. Era soltanto un peso morto per la sua famiglia, del tutto ignorato. Almeno in questo nuovo posto la sua condizione sociale non sarebbe pesata, anzi, sarebbe stata ignorata e lo avrebbero considerato per quello che in realtà era: un ragazzino solo allontanato dalla famiglia.

-Mio giovane signore, dove siete? – la voce di Adserth, il suo istruttore, risuonò sul ponte, mentre l’anziano uomo avanzava verso di lui.

-Finalmente vi ho trovato, Principe Kron. Non potete saltare a vostro piacimento le lezioni. – lo rimproverò amichevolmente il vecchio insegnante. L’uomo sapeva bene come il piccolo Kron si sentisse impaurito e solo, per cui non lo biasimò: il Re suo padre non si preoccupava quasi minimamente di lui, ricordandosi della sua esistenza solo quando gli tornò utile avere un figlio così giovane. Adserth si considerava una delle poche persone che fossero veramente amiche del giovane Principe, se non forse l’unica.

Re Medestor aveva dato il suo consenso a quell’accordo solo quando seppe che uno dei Custodi aveva promesso di mandare sua figlia per farla sposare ad uno dei principi, e vedendo il lato buono Medestor inviò il suo ultimogenito come “risposta”.

Ed ora, il Principe Kron stava andando a conoscere la sua futura moglie.

-Adserth, credete che lei mi troverà almeno simpatico? – chiese il Principe, parlando della ragazzina. – So che le Leggi della Città dei Sacerdoti impongono il combinare dei matrimoni. Per questo spero che mi tratti, anche se non con adorazione, almeno con amicizia.

-Mio Signore… - cominciò Adserth.

-Basta. Non voglio più sentire quei titoli onorifici: da quando ci siamo imbarcati io sono semplicemente Kron.

Adserth rimase in silenzio. Tornando in cabina per finire di sistemare i pochi bagagli che cui viaggiavano. Sapeva che una volta giunti al Tempio del Sole, avrebbe dovuto lasciare il bambino alle cure dei Sacerdoti per riprendere i suoi doveri al Tempio della Sfera Oscura. Indossò la sua tunica nera, aspettando di giungere al porto.

Kron restò tutto il giorno sul ponte ad osservare la sua nuova patria che si avvicinava sempre più.

 

***

Davanti a quell’immensa costruzione, Kron si sentì ancora più piccolo, mentre i due uomini di guardia alle porte della Città dei Sacerdoti gli incutevano un certo timore. Adserth gli posò una mano sulla spalla, come per infondergli coraggio, ed insieme oltrepassarono le porte.

Furono scortati fin nella grande Sala del Sole, dove i Custodi attendevano l’arrivo del ragazzino da quando la nave era stata avvistata.

Kron entrò, e non poté fare a meno di rimanere stupefatto davanti a quello che stava guardando. Di fronte a se, seduti, stavano i Dieci Custodi nelle loro vesti candide ricamate d’oro; in alto, una cupola di vetro assicurava la luce solare dall’alba al tramonto. Quello che sembrava il Custode più anziano si alzò, e disse: - Presentati a noi, così che possiamo accoglierti con i rispetti che ti sono dovuti.

La voce dell’uomo risuonava imperiosa ma non autoritaria, come quella di suo padre, ed il giovane principe se ne stupì.

Adserth lo esortò a parlare, rassicurandolo con un lieve sorriso. Kron si mosse di tre passi, in modo da trovarsi al centro esatto della stanza.

-Il mio nome è Kron, Principe di Pharos, figlio ultimogenito del Re Medestor. – la sua voce risuonò calma, mentre si presentava. – Sono venuto per ordine di mio Padre, per essere accolto tra i sacerdoti e, se mi sarà possibile, diventare uno di voi, rendendomi disposto ad abbracciare le vostre usanze.

I Custodi lo scrutarono. Un altro si alzò, una donna, e chiese: - Come possiamo essere sicuri che tu comprenda fina in fondo le nostre tradizioni?

-Sono stato il suo insegnante e precettore da quando aveva 4 anni. – intervenne Adserth, avvicinandosi al bambino.

-Conosciamo il tuo culto, sacerdote. – rispose l’uomo anziano, chiazzando di disprezzo l’ultima parola. – Non possiamo rischiare di accettare un bambino cresciuto negli insegnamenti delle tenebre.

-Forse voi dimenticate, - ribatté Adserth, - che sono nato e cresciuto nella Città del Sole, e che il mio Tempio non vi ha mai dato prova che le voci che circolano siano vere. Se volete una garanzia, qualora il giovane Kron non dovesse rispettare il vostro Codice, le sue colpe ricadranno su di me fino a che contrarrà matrimonio o non sarà ritenuto adulto secondo le vostre usanze.

Quelle parole sembrarono convincere, almeno in parte, i Custodi, che si alzarono all’unisono per recitare la formula di benvenuto: - Noi ti accogliamo, Kron, figlio di Medestor. Crescerai nel culto del Sole, osserverai il Sacro Codice, e quando sarà ritenuto opportuno, compirai il dovere che gli Dei ti hanno incaricato di svolgere presso di noi.

I Dieci Custodi tornarono a sedersi, mentre un sacerdote scortava una bambina che era rimasta in un angolo.

Kron si chiese come mai non l’avesse notata prima: poteva avere dieci, forse undici anni, portava i capelli castani intrecciati, mentre il naso e le gote lentigginose contrastavano con gli occhi azzurri.

Adserth si era allontanato, lasciandolo solo con la ragazzetta, evidentemente imbarazzata quanto lui.

L’uomo anziano si alzò, pronto per recitare la sua parte del rito di promissione: - Presentate i vostri nomi, così che possiamo accettare la vostra promessa di matrimonio nell’età adulta.

Kron rimase in silenzio: sapeva cosa dire, ma aveva paura che l’emozione potesse tradirlo.

-Io, Kary-O-Dhar, figlia di Phlegur il Custode, mi impegno su richiesta di mio padre.

Kron le fu grato per quell’aiuto e recitò la formula del rito: - Io, Kron di Pharos, figlio di Medestor il Re, mi impegno su richiesta di mio padre.

L’anziano Custode si riadagiò su suo sedile, mentre una donna di mess’età si alzava, dicendo: - Fino a che sarete liberi, potrete avere figli da chi vorrete, a patto che chi scegliate sia libero. Kary-O-Dhar, sarai libera di riconoscere da sola i tuoi figli, mentre tu, Kron, sarai libero di non riconoscere i tuoi, ma entrambi siete costretti a riconoscere davanti ai Custodi i figli nati dal vostro matrimonio. Accettare questa Usanza del Sacro Codice?

-Sì, la accettiamo. – risposero i due bambini.

Un uomo si alzò, dicendo: - Entrambi siete liberi di decidere se rimanere casti o no, ma una volta celebrato il matrimonio, salvo per ordine delle Sacerdotesse della Madre o dei Guaritori, l’uno sarà costretto a dividere il proprio letto esclusivamente con l’altro: l’infedeltà al coniuge è punibile con la morte. Accettate questa Usanza del Sacro Codice?

-Sì, la accettiamo, - Risposero nuovamente.

I Custodi si alzarono all’unisono, per dire: - Noi, Custodi del Sacro Codice, accettiamo il vostro impegno di matrimonio, riservandoci la facoltà di annullare la vostra promessa od il vostro matrimonio qualora lo riterremo opportuno.

La cerimonia si era conclusa, e solo il più anziano Custode rimase in piedi, guardando Adserth, che si avvicinò.

-Il bambino passerà sotto la custodia di Phlegus, mentre tu potrei tornare e svolgere i tuoi… doveri… presso il tuo Tempio. Tuttavia, tu sei l’unico che conosce Kron meglio di tutti, perciò ti chiedo: che nome dovrà portare al di fuori dei Riti?

Adserth guardò Kron, e ripensò al piccolo che ascoltava attentamente le sue lezioni, quasi fosse stato una volpe attenta ai movimenti del nemico. Una volpe…Joser..

-Io scelgo, per questo bambino, il nome di Joser, che sarà usato al di fuori dei Riti. Sempre se Kron è d’accordo. – Adserth volse lo sguardo verso Kron, che annuì senza protestare: per lui, qualunque cosa detta dal suo maestro era giusta.

-E che sia: da oggi porterai il nome di Joser, e così tutti ti chiameranno, mentre il tuo vero nome, Kron, sarà trascritto nei registri anagrafici. Joser, da questo momento abiterai nella casa di Phlegus il Custode, e obbedirai a lui come se fosse tuo padre. – l’anziano uomo si sedette, mentre Adserth conduceva fuori i due ragazzini.

 

***

 

Oltre la porta, un uomo nelle vesti di Custode aspettava i due bambini.

-Ti affido il giovane K… - Adserth si corresse, rivolto a Phlegus. – Volevo dire, ti affido il giovane Joser.

Phelgus osservò Kron, chiedendosi se si sarebbe abituato presto al nuovo nome e se si sarebbe adattato alla vita semi rigida dei Sacerdoti. Infine, il Custode si rivolse alla figlia. – Conducilo con te verso casa, mentre io mi informo dell’istruzione del nostro ospite dal suo maestro.

La bambina, obbediente, prese per mano Kron, e se lo trascinò via per le strade, tra le case.

Non appena furono abbastanza lontani per non sentire, Phlegus si rivolse ad Adserth con un tono poco formale.

-Allora, - cominciò il Custode, . ti sei trovato bene a Pharos?

-A parte il fatto che Re Medestor è un grande bestemmiatore ed eretico, per il resto è stato un bene per quel bambino essersi allontanato da quell’uomo: si è ricordato di lui solo quando gli ha fatto comodo.

-Ad ogni modo, spero che sia consapevole di ciò che ha giurato, perché non potrà più tornare indietro.

-Stai tranquillo: suo padre non si è mai curato di lui, figurati della sua istruzione. Ho avuto carta bianca su tutto, anche se avrei preferito averlo tra le mani ad un’età più tenera: sarà difficile che accetti certe cose. – affermò Adserth.

-Da quello che ho capito,- concluse Phlegus, - è al pari dei suoi coetanei di qui, e sembra anche che si fidi di te. L’ho capito da come ha accettato subito il nuovo nome: non ha esitato ad annuire.

-Posso essere orgoglioso di lui: vedrai, diventerà un ottimo sacerdote. – riflettè il vecchio Adserth.

 

***

 

Tra le strade, Kron guardava incuriosito come tutto era diverso: le case, la gente, persino i bambini.

-Allora, Joser, che impressione ti fa la Città dei Sacerdoti? – gli chiese la ragazzina, sorridendogli.

-Devo dire che è bella. A Pharos non esistono costruzioni così imponenti, e la gente non è così… disposta ad accogliere nella propria casa un bambino che non conosce.

-Allora posso dedurre che sei soddisfatto. – concluse lei, mentre continuava a camminare, arrivando davanti ad un’ampia casa.

Entrarono, sotto lo sguardo severo di una donna che si stava assicurando che le serve non sbagliassero a svolgere il proprio lavoro, e si chiusero in una camera che conteneva un letto ed un paio di bauli.

-Quella era Rhalith, la moglie di mio padre. – disse piano la bambina, - non mi piò sopportare. Se fosse per lei. Credo che convincerebbe mio padre a mandarmi via per sempre, se non addirittura a vendermi come schiava.

Si sorrisero a vicenda, ripensando all’espressione della donna.

-Scusa se te lo chiedo, - disse Kron, - ma come devo chiamarti?

-Mio padre mi chiama Harysya, e mi ha anche detto di informarti sulle nostre Usanze. A proposito, hai già tredici anni?

Kron negò, dicendo che li avrebbe compiuti durante l’autunno, mentre ora si trovavano in primavera.

-Meglio così. Per questa notte dormiremo qui, ma domani verrai con me alla Casa dei Bambini, in genere, i piccoli vengono lasciati sotto la custodia materna fino al compimento dei sei anni, poi sono trasferiti nella Casa dei Bambini in maniera graduale, e dopo i tredici anni ci viene chiesto di scegliere il tipo di studi che vogliamo fare. – riferì Harysya.

Kron la guardò, mentre versava una gran quantità di acqua in una tinozza e cominciava a spogliarsi.

-Senti, forse è meglio che esco. – Kron stava per avviarsi alla porta, ma furono le parole di Harysya a fermarlo.

-Fino ai tredici anni, da te non ci si aspetta che osservi le regole del pudore. Alla Casa dei Bambini, tutti dividiamo la stanza con altri, indifferentemente dal sesso o dall’età, ed ogni pretesto è buono per spogliarsi e giocare nel lago del cortile. Quindi, anche se so che non sei sporco, credo che dividere un bagno caldo possa solo rilassarti.

Vedendolo titubante, Harysya gli tolse personalmente gli abiti, per nulla imbarazzata nel vederlo nudo, e spogliatasi, si immerse allegramente nella tinozza. Kron accettò l’invito, e presero a parlare delle differenti tradizioni dei loro paesi, mentre Harysya gli illustrava il modo di vivere dei sacerdoti.

-Credo che mi piacerà questo posto. Dov‘ero prima, non potevo avvicinarmi alle bambine perché non era ritenuto conveniente. – osservò Kron, - E poi, nella sua rigidità, la vita qui è più facile e libera, a dispetto del rango.

La ragazzina divenne serie, correggendolo: - In verità, per i figli non riconosciuti, l’unica prospettiva è essere esposti davanti alle porte della Città dei Sacerdoti. Nessuno si sognerebbe mai di dire davanti a tutti che ha degli amici tra i servi o tra gli schiavi, anche se è risaputo. Ma per noi bambini il rango non conta, conta solo la persona. Ed è meglio che filiamo a letto, o mio padre ci sgriderà.

Entrambi uscirono dalla tinozza, la svuotarono, e si aiutarono ad asciugarsi, quasi fosse come un gioco, ed infilarono due leggere tuniche per la notte.

Mentre sentiva Harysya addormentata al suo fianco, nel letto che dividevano insieme, Kron decise che il posto gli piaceva, ed era quasi contento che il padre lo avesse mandato lì. Eppure, riflettendo, sentiva in lui che Kron stava scivolando in un angolo remoto della propria coscienza, mentre capiva che quella notte era nato dentro di se un bambino di nome Joser.

Da quel giorno, si riprometteva di considerare come suo vero nome Joser.

 

***

 

Il sole fu salutato dal canto dei sacerdoti, intonato sull’alta piramide, che risuonò in tutta la città.

Harysya svegliò subito Josera, conducendolo in cucina, dove un’abbondante colazione li attendeva.

Joser divorò con gusto una fetta di torta di mele, e sotto gli occhi scrutatori di Rhalith, ne chiese educatamente un’altra porzione. Harysya mangiò con calma quello che aveva nel piatto, e quando ebbe finito, diede il tempo al ragazzino di cambiarsi, e lo trascinò allegramente per le strade della Città dei Sacerdoti, dove la gente cominciava ad aprire le finestre al nuovo giorno.

-Il tuo bagaglio è già stato trasferito alla Casa dei Bambini, - disse Harysya, mentre procedevano verso una costruzione cubica recintata da un muro di pietre, - Dividerai il letto con me, e la stanza con altri due bambini. Non ti aspettare grandi cose: le stanze sono piccole, ma ci si sta comodamente. Ed il cibo non è male. Se poi ti ammali, ti riservano anche un trattamento speciale.

Joser continuava a seguirla, ansioso di conoscere i suoi nuovi compagni di studio. Sperava che lo avrebbero accettato senza troppe difficoltà, e si chiedeva se Harysya si sarebbe comportata sempre gentilmente con lui perché gli era simpatico o solo per cortesia. Temeva che un giorno lo avrebbe odiato per averla costretta a sposarsi.

-Non preoccuparti se alcuni ci prenderanno in giro: è una cosa del tutto normale, quando due bambini si impegnano come abbiamo fatto noi ieri. Una mia amica è stata presa in giro da un ragazzino che la insultava perché non è graziosa, ma poi ha dovuto impegnarsi con lei, e da allora la difende quando altri la infastidiscono, dicendo che solo lui poteva trattarla così – Harysya si lasciò sfuggire una leggere risata.

Varcarono il cancello di ferro, che fu richiuso alle loro spalle. Joser si sentì osservato dai bambini di varie età che giocavano nell’ampio cortile, mentre Harysya venne accolta da alcune sue compagne. Il ragazzino si sentì perso: doveva immaginare che lei non avrebbe potuto stargli sempre accanto.

Un ragazzetto all’incirca della sua età si avvicinò e lo squadrò per bene: agli occhi di Joser, lui appariva piuttosto robusto, ma non grasso, con i capelli neri e gli occhi blu. Non doveva avere cattive intenzioni, perché gli sorrise, come per accoglierlo.

Harysya guardava la scena, con aria perplessa. Il nuovo si avvicinò, tese la mano, e si presentò.

-Io sono Kaherl. Tu devi essere quello mandato da Pharos se non sbaglio. Se sei tu, ti auguro buona fortuna: Harysya non è quella che si può definire una brava ragazza: è pestifera.

Per tutta risposta Harysya gli buttò addosso una buona quantità di acqua fresca, inzuppandolo lievemente. Kaherl interpretò il gesto come un invito al gioco, e coinvolgendo anche Joser, cominciarono a lanciarsi modeste quantità d’acqua, tra le risate più rumorose.

Si fermarono solo quando un uomo li riprese e fece loro una bella predica sulla stupidaggine che avevano appena fatto non perché si stavano buttando addosso l’acqua reciprocamente, ma perché la stagione era incerta e potevano ammallarsi gravemente.

Harysya prese per una manica Joser, tirandolo per un lungo corridoio in pietra bianca, dove molti bambini correvano urlando e ridendo, molti dei quali nudi, incuranti dei richiami delle balie, fino ad arrivare ad una delle porte sul fondo.

La voce irata di una donna anziana che proveniva dall’interno della stanza fece fermare la ragazzina, che indietreggiò con un’espressione cupa sul volto, tenendo dietro di se Joser.

-Che sta succedendo? – prima che potesse terminare la frase, la mano di Harysya gli chiuse la bocca, mentre lei gli fece cenno di tacere.

La porta si aprì, lasciando uscire una donna dai capelli argentati, il severo abito che indossava le ricadeva in maniera molto formale, nascondendo la sua robustezza, mentre il suo volto, segnato dall’età, era impassibile come quello di una statua. La donna guardò Harysya.

-E’ il nuovo arrivato? – chiese alla ragazzina, nel tono più duro che Joser avesse mai sentito usare.

-Sì, Sorvegliante, - la risposta della bambina era breve ed esauriente.

-Qual è il tuo nome? – chiese, con uno sguardo gelido al ragazzino.

-Joser, signora. – fu tutto quello che riuscì a dire, intimorito.

Incrociando le mani sul petto prosperoso, la donna li scrutò per un attino, e disse: - Bagnati come due pulcini, e per di più, tu, Joser, sei anche impudente. Oppure la colpa è tua, Harysya?

-Sì, Sorvegliante. Avrei dovuto metterlo al corrente delle regole vigenti nella Casa dei Bambini. – confessò a fatica la bambina.

Joser non si accorse di nulla, sentì soltanto nell’aria il rumore di un sonoro schiaffo, mentre sulla guancia di Harysya appariva un livido rossastro. La donna se en andò, senza voltarsi, mentre nel corridoio scendeva il silenzio, così che le balie poterono riprendere il controllo sui bambini.

 

***

 

A testa bassa, Harysya ricacciò indietro le lacrime: non le avrebbe mai dato la soddisfazione di vederla piangere.

Joser, preoccupato, le posò una mano sulla spalla, ma il caloroso sorriso che ricevette in cambio sembrò rassicurarlo.

Entrando nella stanza, una bambina di circa dieci anni stava piangendo seduta sul pavimento, mentre i lividi si facevano evidenti sulla sua pelle. Harysya, dimenticandosi di Joser, corse verso la piccola, prendendola tra le braccia, consolandola come meglio poteva.

Il ragazzino, non sapendo cosa poter fare, si guardò attorno, notando che la stanza conteneva tre letti, mentre una porta dava su un piccolo giardino interno. I tendaggi erano color celeste, mentre su di uno scaffale erano esposti dei giocatoli, quasi a testimoniare la presenza di bambini di età piuttosto tenera. Eppure, quella stanza aveva anche qualcosa che la rendeva fredda, quasi che lo spirito della donna anziana risiedesse in quelle mura di pietra.

Nel frattempo, la bambina si era calmata, cominciando a ridere, e correndo verso il cortile esterno.

Harysya sorrise, e Joser pensò che era carina, ed anche generosa.

-Bene. A quanto vedo hanno già portato le tue cose, - disse la ragazzina, indicando un baule color ottone. – La donna di prima è Lohanahr, la Sorvegliante della Casa dei Bambini. Quando ti rivolgi a lei, devi ricordarti di chiamarla con la sua carica, vale a dire Sorvegliante. Per questa volta ha lasciato perdere, ma è molto severa: ho preso molte frustate per non aver svolto come si deve i miei compiti.

-Ma i genitori dei bambini, cosa ne pensano? – chiese Joser, - Voglio dire, non hanno da ridire sui metodi di quella donna?

Alla risposta negativa di Harysya, Joser non seppe più cosa pensare. In che mondo strano suo padre l’aveva mandato? Possibile che fosse così dura la vita, anche per i bambini?

Ma ancora non conosceva la realtà che lo circondava. Su cosa gli avrebbe riservato il futuro, e se non avesse cercato di fuggire per tornare a casa.

Quale casa? I ricordi del castello di suo padre lo facevano rabbrividire, come nello scoprire che sua madre era stata impiccata perché si era data ad uno dei vassalli di Medestor, mentre il re prendeva nel suo letto ogni notte una donna diversa.

 

***

 

Il giorno se ne andò in fretta, così come scese la notte.

Nella Casa dei Bambini regnava il silenzio, mentre Joser restava immobile, pensieroso, nel letto che divideva con Harysya. L’indomani avrebbe cominciato a prendere parte alle lezioni, ed era emozionato, eccitato, ed anche impaurito.

Ripensò ad Adserth: era due giorni che non lo vedeva, e si chiese cosa stesse facendo, se si fosse dimenticato di lui.

Ma i suoi pensieri non vagarono per molto tempo, poiché furono interrotti da uno strano canto che proveniva da lontano. Alzandosi in piedi, Joser uscì dalla porta che dava sul giardino interno, tendendo le orecchie, cercando di ascoltare il canto

 

Signora delle Tenebre

Signora oscura

rivelaci i misteri che celi sotto il tuo manto stellato

così che noi possiamo diffonderli

nel mondo degli increduli,

di coloro che ignorano

ciò che è reale da ciò che è illusione.

Lasciaci scoprire i tuo i segreti,

per permetterci di usarli per servirti.

 

-E’ il canto che i sacerdoti del Tempio della Sfera Oscura intonano quando sorge la stella della loro Signora. – spiegò Harysya, giungendo in silenzio alle spalle del ragazzino, - Anche il tuo istitutore starà cantando in questo momento.

Joser rimase perplesso, non capendo di cosa lei gli stesse parlando.

-Il Tempio della Sfera Oscura è avvolto nel mistero. Nessuno sa con precisione cosa facciano, ma molti sospettano che celebrino dei sacrifici umani. Io non ci credo. Adserth stesso è nato nella Città dei Sacerdoti, eppure ha deciso di rimanere con loro. Forse, un giorno, mi recherò anch’io presso di loro per studiare i misteri che nascondono.

-Perché? – chiese Joser.

Ma Harysya rimase silenziosa, restando ad ascoltare l’inno che si stava spegnendo man mano che la stella sorgeva, mentre in lontananza la luna piena declinava lentamente.

 

***

 

L’aula si presentava come una grande stanza con un unico sgabello. Joser si chiese dove i bambini potessero appoggiare le loro pergamene per scrivere. La confusione delle voci ancora assonnate degli altri ragazzini lo rendevano più nervoso, ma tacquero quando entrò un uomo dall’abito chiaro, che preso posto sullo sgabello.

Joser rimase stupefatto: tutto di quell’uomo gli ricordava Adserth, no, erano identici. I suoi occhi si ingannavano: Adserth aveva una lieve cicatrice sul mento, mentre l’uomo che gli stava di fronte ne era sprovvisto.

-Joser, fatti avanti. – disse l’uomo, senza curarsi di cosa gli stesse succedendo intorno.

Joser si alzò dal pavimento, dove tutti i bambini si erano seduti, e si presentò dinnanzi all’insegnante.

-Molto bene. Mio fratello mi ha assicurato che sei un ottimo allievo, ed esigo il massimo impegno da parte tua. Io sarò il tuo precettore per quanto riguarda la lettura degli astri: sono Mastro Ryunahn. Ora, voltati verso gli altri, così che possano conoscerti.

Joser rimase immobile, mentre Mastro Ryunahn spiegava i motivi della sua presenza nella Città dei Sacerdoti. Il ragazzino si sentiva puntati addosso gli occhi di tutti, sentendosi impacciato negli abiti che Harysya gli aveva fatto indossare: un paio di pantaloni beige con sopra una tunica dello stesso colore che arrivava al ginocchio. In modo meccanico tornò al suo posto, mentre la lezione cominciava.

La sensazione di essere osservato non passò, ma si intensificò- dietro di se sentiva dei commenti di cui non capiva il significato, mentre i suoi vicini non gli rivolgevano la parola.

Se si trattava di una specie di tortura psicologica, stava funzionando molto bene.

 

 

Il sole pomeridiano intiepidiva la schiena di Joser, che disteso sull’erba, si godeva la tranquillità delle prime ore meridiane. Mentre i piccoli erano nei loro letti, i sacerdoti della Casa dei Bambini risistemavano le aule, e le ragazzine stavano a lungo nelle vasche di acqua calda.

Joser ripensò a come la sua vita fosse cambiata in meno di tre giorni: da ignorato principe di Pharos a comune ragazzino della Città dei Sacerdoti.

Testò tutto il pomeriggio a godersi il sole, i giochi delle nuvole che si inseguivano spinte dalla brezza del mare, lesse alcuni dei rotoli che Mastro Ryunahn gli aveva consigliato, ed alla fine si addormentò, incurante della sera che si stava avvicinando.

 

 

Harysya corse per tutto il prato, mentre le tenebre si stavano sempre più alzando, cercando Joser. Ormai il freddo si faceva sempre più sentire, mentre il fiato della ragazzina si condenssava.

Dopo una ricerca lunga ed estenuante, Harysya trovò Joser sotto un grande albero, addormentato. Lo guardò, notando delle lacrime sulle guance del ragazzino: doveva aver pianto durante il sonno.

Lo svegliò con dolcezza, scuotendolo un poco. Una fredda brezza annunciava un acquazzone per quella notte, ed era meglio mettersi al riparo.

Corsero a perdifiato, fino a raggiungere la loro stanza, in silenzio si cambiarono, per poi coricarsi mentre la campanella suonava l’ultimo rintocco del giorno.

 

La compagnia di Harysya divenne sempre più rara, così che Joser dovette cavarsela da solo. Le amicizie non gli mancavano di certo, soprattutto quella di Kaherl, che lo considerava quasi una sorta di fratello, ma sentiva di non essere visto di buon occhio dall’anziana Lohanahr, dopo i vari guai che avevano combinato. Non che gli importasse di attirare su di se le ire della Sorvegliante, ma qualcosa nella sua vita mancava, e quella mancanza la colmava litigando ed insultando Harysya, che così facendo aveva quasi smesso di parlargli.

Così, nell’estate inoltrata, gli venne comunicata una notizia che lo lasciò perplesso e sorpreso allo stesso tempo. E a comunicargliela fu Kaherl.

-Ma ne sei sicuro? – chiedeva Joser per l’ennesima volta, per accertarsi della veridicità dell’informazione ricevuta.

-Come del fatto che il sole sorge ad est. – gli confermava l’amico. – Harysya ha chiesto alla Sorvegliante di poter cambiare stanza, ma quella vecchia megera le ha risposto che Phlegus in persona ha ordinato che voi due stiate il più insieme possibile, tutto in previsione del futuro matrimonio.

-E non possiamo nemmeno sopportarci! Ma non si può fare niente per cambiare le cose, ormai siamo destinati a sposarci, e le stelle non cambiano mai il loro cammino. Dovrò solo attendere che il tempo passi, e che mio padre non sappia mai di tutto quello che sto combinando! – concluse Joser, prima di avviarsi verso la sua lezione pomeridiana di astronomia.

La sua concentrazione, però, era presa dal pensiero di Harysya. Com’era possibile che lo odiasse fino a quel punto? Sapeva di non esserle molto simpatico, di avere esagerato a volte con gli scherzi, e di essere meritato la maggior parte delle punizioni inflittegli, ma in fondo al cuore le voleva bene, e di lì a qualche mese avrebbe dovuto lasciare la Casa dei Bambini e trasferirsi nella Casa degli Uomini. Considerava assurdo il modo in cui i Sacerdoti istruivano i propri figli: Finché erano bambini, non importava né il sesso né l’età; ma dopo i tredici anni, era tutto diverso, i fratelli erano separati dalle sorelle, come se fosse un male necessario.

Anche Kaherl se ne sarebbe andato, prima dell’autunno, e Joser si sarebbe ritrovato nuovamente solo, così come quando era arrivato. Se almeno avesse potuto parlare con Adserth. Non lo vedeva dal giorno del loro arrivo, e sperava che stesse bene, al suo Tempio.

A volte pensava a cosa gli sarebbe accaduto se fosse rimasto a Pharos. Di certo sarebbe stato un figlio cadetto che nessuna famiglia avrebbe voluto come marito di una qualsiasi figlia, anche se si trattava del figlio del re. Nessuno si accorgeva della sua esistenza, in famiglia, e tutti si ricordarono di lui solo quando fu deciso di mandarlo in quel luogo lontano.

Non gli importava più di nulla, e quello che era fatto era fatto e basta. Così come le stelle non cambiano mai il loro cammino, continuando ad illuminare il cielo notturno.

Harysya non avrebbe compiuto i tredici anni prima della prossima primavera, pesò, e poteva contare almeno sui loro litigi per non sentirsi solo.

Ma non poteva prevedere che il suo fragile mondo presto sarebbe crollato.

 

In una calda mattina del quinto mese dell’anno, mentre Joser era ad una lezione di armi, Harysya dovette decidere del suo futuro, poiché quel giorno si svegliò urlando.

La sera precedente si era sentita male, così che le sera stato concesso di saltare tutte le lezioni della mattina successiva. L’urlo che lanciò richiamò l’attenzione di tutte le balie, che vedendo la ragazzina pallida nel suo letto, decisero di scaricare il problema nelle mani della Sorvegliante.

Al solo pensiero di dover raccontare tutto a quella donna metteva Harysya in imbarazzo, anzi, la faceva sentire come un topolino in trappola, così si nascose sotto le coperte, anche se la nausea si faceva sentire.

Lohanahr arrivò il prima possibile, immaginando quale fosse la causa di tanto scompiglio. Raccolse tutte le informazioni necessarie, e chiamò in disparte Ryunhan.

-Vai al Tempio di tuo fratello, chiedi di lui, e digli di riferire alla signora che il momento che tanto attendeva è giunto.

Senza chiedere la minima spiegazione, il sacerdote corse verso il Tempio della Sfera Oscura e riferì ad Adserth quanto la vecchia Lohanahr gli aveva detto.

Intanto, Harysya notò che tutte le tende della sua stanza furono tirate, e questo le diede un leggero senso di panico. Con lei rimase solo la Sorvegliante.

-Ora dobbiamo solo aspettare. – e con quelle poche parole, Lohanahr si sedette sul bordo del letto.

Passarono alcune ore, prima che una portantina sorretta da quattro sacerdoti in abito scuro giungesse alla Casa dei Bambini. I veli neri proteggevano la donna che viaggiava all’interno della portantina dai raggi del sole. Quando scese, tutti i piccoli ed i sacerdoti nei loro abito bianchi la lasciarono passare con lo sguardo carico di paura e rispetto.

La nuova arrivata, coperta da un mantello nero e col cappuccio che le copriva il volto, raggiunse la stanza dove stava Harysya e vi entrò.

La bambina, alla vista della donna, rabbrividì.

-Da quanto? – chiese la figura avvolta dal mantello nero.

-Da questa mattina, Ojimahl. – riferì Lohanahr, - da allora, nessun uomo l’ha vista, né le ha parlato.

Ojimahl si avvicinò al letto, sollevò le coperte, e sorrise vedendo quella macchia di sangue che si estendeva sul lenzuolo bianco.

-Kary-O-Dhar, sai bene cosa questo comporta. – le disse Ojimahl, con calma. – Verrai trasferita alla Casa delle Donne, a meno che tu non voglia venire al Tempio con me e apprendere ciò che questi scellerati di sacerdoti della Luce nascondono.

Harysya rimase silenziosa, non sapendo come rispondere.

-Io non ti sto imponendo di seguirmi, ma ti chiedo di scegliere, in tutta libertà, cosa fare del tuo futuro. Se verrai con me, nessuno ti costringerà ad unirti a noi per sempre, come fece Adserth. Voglio solo darti la possibilità di conoscere la Verità. – continuò Ojimahl.

-E quale sarebbe la Verità? Forse che mio padre non mi abbia fatta educare nel modo giusto? – disse in tono sprezzante alla donna.

Lohanahr rimaneva in disparte, perché sapeva che non doveva intromettersi tra Ojimahl e sua figlia.

La donna, nel suo mantello nero, serrò le mascelle, quasi sul punto di colpire Harysya per la sua sfacciataggine. Ma riuscì a trattenere quell’impulso, rilassandosi con un esercizio di respirazione.

-No, io non ho detto che tuo padre non abbia saputo allevarti bene. Sto solo dicendo che per te voglio qualcosa di meglio che vederti servire e riverire un uomo per il resto dei tuoi giorni.

Harysya pensò, nel silenzio che stava regnando fra loro.

-Per quanto tempo potrò restare al Tempio? – chiese la ragazzina, senza esitazione.

-Se verrai, dovrai rimanervi per almeno cinque anni da questo giorno, dovrai sottostare alle regole del Tempio, senza discussioni. Poi, potrai decidere se rimanere o andartene. – dichiarò Ojimahl.

-Verrò, - disse con fermezza Harysya, - Lohanahr è testimone delle mie parole e della mia libera scelta.

Il silenzio, Ojimahl si alzò dal letto, e senza proferire parola avvolse la bambina in un velo nero, in modo tale che nessuna parte del suo corpo potesse essere visibile. Prendendola tra le braccia, la portò fuori dalla costruzione, fino a che Phlegus non le si parò davanti.

-Che cosa hai intenzione di fare, Ojimahl? – chiese il Custode, in tono duro. – Non avrai in mente di condurre mia figlia al tuo Tempio senza prima avermi consultato spero.

Ojimahl rimase in silenzio, e fu l’intervento di Lohanahr, che spiegò ogni cosa, a permetterle di salire sulla portantina davanti agli occhi roventi di Phlegus, che giuravano di ucciderla se avesse fatto del male ad Harysya.

Nel suo fagotto, Harysya pensò che in fondo, Ojimahl le voleva bene, anche se non glielo aveva mai detto.

-Ascoltami bene, Harysya. Nel mio Tempio molte responsabilità sono caricate sulle mie spalle, e ti potrà sembrare divertente che io possa permettermi il lusso di una portantina, ma comandare significa anche sapere prendere le giuste decisioni. Ad ogni modo, prima di sera pronuncerai il giuramento e ti unirai alle altre lemish.

Harysya rimase stupefatta. Sapeva che la vita nel Tempio della madre era molto misteriosa, ma essere una lemish era la cosa peggiore che le potesse capitare. Aveva sentito cose orribili sul loro conto, e tutte le versioni erano colorite da chi le raccontava con immaginazione, tanto che non si riusciva a distinguere il vero dal falso.

Era disonorata, ormai, ma non poteva più tornare indietro. Se solo avesse potuto chiedere consiglio ad una persona amica.

 

Harysya non capiva cosa le stesse succedendo intorno. Capì soltanto di essere in una stanza buia quando la madre le permise di liberarsi da quell’orribile velo nero.

-Ore resta qui, in silenzio. – le disse Ojimahl, andandosene dalla stanza e chiudendo la porta con la sbarra dall’esterno.

Harysya si chiese in che parte del Tempio poteva trovarsi. Niente le dava la minima indicazione del tempo che passava, poiché la stanza era priva di finestre ma non di piccole feritoie che permettevano il ricambio dell’aria.

Stava sonnecchiando appoggiata al muro, quando Ojimahl le si presentò, prendendole gentilmente un braccio e conducendola lungo un corridoio dove le torce stavano illuminando il loro cammino fino ad una stanza, dove altre sei donne, tutte anziane, stavano aspettando. La porta alle loro spalle fu chiusa.

Harysya si rese conto solo allora che la camicia da notte che indossava era lorda di sangue, e la vergogna prese possesso di lei. Ma le donne non fecero caso ai suoi abiti.

Contemporaneamente, le sei donne si tolsero i cappucci neri, posizionandosi in cerchio attorno a lei. Ojimhal fece un cenno con la testa, e la più giovane delle donne le strappò il vestito di dosso, incurante del fatto che Harysya sentisse o no il gelo della stanza.

-Presentati, - le ordinò Ojimahl, con un tono che non ammetteva repliche.

-Harysya, - disse la ragazzina, senza pensare. Per lei era diventato un riflesso incondizionato rispondere con quel nome.

-Molto bene, - annunciò la donna alla destra di Ojimahl. – Hai deciso di tua libera scelta di unirti a noi? Oppure sei stata costretta perché questa è l’unica casa che tu abbia mai conosciuto?

Harysya rimase perplessa: in quel luogo tetro venivano allevati dei bambini?

-Ho scelto di mia volontà, - dichiarò tranquillamente, senza abbassare lo sguardo.

-Allora, che sia trascritto ciò che la piccola ha affermato. – dichiarò Ojimahl, - possiamo riprendere con il rito.

Con un rumore sordo, il soffitto della stanza si spostò, lasciando intravedere il cielo notturno dove la luna piena splendeva. Una mano dietro di lei le scioglieva i capelli, spazzolandoli e districandone i nodi: non aveva mai creduto di avere i capelli lunghi fin sotto la cintola.

-Giuri di non far sentire a nessun uomo la tua voce, da questo giorno fino a quando non ti riterremo pronta? – le chiese la donna alla destra di Ojimahl, che le si era avvicinata.

-Lo prometto, - dichiarò Harysya.

La donna le tagliò una ciocca dei capelli, quasi alla radice, e tornata nella sua posizione porse le forbici che aveva usato alla donna che le era di fianco: stavano compiendo il giro contrario al sole, da ovest ad est.

-Giuri di obbedire a tutto ciò che ti sarò detta da ogni donna a te superiore sia come grado sia come cultura in questo Tempio? – e alla risposta affermativa seguì un altro taglio, ed una nuova domanda.

-Giuri che tratterai come tue pari tutte le lemish di questo Tempio, di qualunque casta esse siano?

-Giuri di non restare mai sola con un uomo, fino a quando noi non ti riterremo pronta?

-Giuri di non lasciare che nessun uomo ti veda senza veli finché non ti sarà permesso?

-Giuri di credere ad ogni insegnamento che ti sarà impartito, poiché in esso si nasconde la Verità più profonda?

Infine, le forbici giunsero nelle mani di Ojimahl, che le si avvicinò, formulando l’ultima domanda. – Giuri di non trasmettere a nessuno ciò che apprenderai in questo Tempio, di non lasciare che gli sciocchi e gli approfittatori non ti storceranno nemmeno una sola parola per entrare tra di noi, ne sotto tortura ne con qualsiasi altro mezzo, e che rispetterai ogni mia decisione?

-Lo prometto. – e con quell’ultimo giuramento, anche l’ultima ciocca dei capelli castani di Harysya cadde ai suoi piedi, mentre il sangue insozzava il pavimento di pietra.

Di nuovo le donne compirono il giro, versandole addosso ognuna un catino di acqua fredda, per purificarla.

Ojimahl la vestì con una tunica che arrivava ai piedi, le pose sulla testa un velo color fuliggine che le arrivava alle ginocchia, fermandolo con un cerchietto nero sulla testa.

-Osserva la luna, e ricordala bene, poiché ogni qualvolta che sarà piena, il sangue della vita ti si ripresenterà. – dichiarò Ojimahl, prima di andarsene dalla stanza.

Una delle donne fece avvicinare una figura velata di nero, una lemish, che la prese per mano e la condusse verso l’ala del Tempio riservata a quelle come loro.

 

Nell’oscurità del corridoio, Harysya faticava a seguire la ragazza, non soltanto perché l’altra era più alta, ma anche perché la tunica le ostacolava i movimenti. Ed irrimediabilmente, inciampò. Con n piccolo urlo, attirò l’attenzione della ragazza.

-Sei fortunata che qua non ci sia nessun uomo. – le disse, aiutandola ad alzarsi. – Il mio nome è Sorhaya. Sono una lemish da oltre un anno. Anche se non sembra, non ti troverai male qui.

Harysya rimase perplessa: se non doveva far sentire la sua voce, allora perché Sorhaya stava parlando?

Aveva molte altre domande, ma non riuscì a dire una parola, per la paura di dire qualcosa di sbagliato, o perché non sapeva cosa dire.

Arrivarono davanti ad una porta, dove due uomini enormi ed identici stavano di guardia, ed aprirono loro la porta, rivelando un lungo corridoio. Non appena la soglia si richiuse alle loro spalle, Sorhaya si levò dal volto il velo nero, respirando a pieni polmoni.

-Non mi abituerò mai a questo maledetto coso! – disse, levando dal volto di Harysya il velo. – Qui sei libera di toglierti il velo, e puoi parlare finché vuoi. L’importante è che tieni la bocca chiusa in presenza di un uomo.

-Chi erano quei due uomini? – chiese Harysya, incuriosita.

-Sono Keros e Pheros, le guardia delle lemish. Sono eunuchi, e non possono parlare: hanno dedicato la loro vita a proteggerci, e se faranno qualcosa di sbagliato, noi abbiamo il potere di farli uccidere. Per questo puoi parlare davanti a loro: non sono considerati veri uomini.

Proseguirono lungo il corridoio, fino ad arrivare ad un ampio spiazzo, dove molte ragazzine e giovani donne stavano bagnandosi dentro ad una polla, mentre altre utilizzavano dei catini per il bagno serale.

-Questa è la polla esterna. E’ qui che veniamo per farci il bagno. Esiste anche una polla interna, alimentata da una sorgente di acqua calda, ma ovviamente la usiamo durante i mesi freddi. Ci sono molte regole che devi sapere: innanzitutto, prima di bagnarti, dovrai segnarti. Ti mostro come.

Imitando i gesti di Sorhaya, Harysya fece un triangolo sulla fronte, una linea su ogni seno fino al capezzolo, ed un cerchio sul basso ventre. Non capì il perché di quei segni, ma non chiese nulla, immaginando che nemmeno Sorhaya sapesse il loro significato.

Si spogliarono, posando gli abiti su delle pietre pulite, e si avviarono verso la polla.

-Un’altra regola, - disse Sorhaya, - proibisce a quelle di noi a cui il sangue si è presentato di bagnarsi nella polla. Dovrai lavarti insieme alle altre, con un catino. Credo che sia per evitare le malattie, ma non ne sono molto convinta. Forse solo la Signora sa veramente il perché. Ad ogni modo, sei stata affidata a me, di conseguenze mi dovrò preoccupare che tu ti lavi accuratamente, soprattutto in certi periodi.

Si unirono alle altre, e mentre Sorhaya le lavava i capelli con delle strane bacche rosse, Harysya poté osservare le lemish: molte avevano i capelli neri e gli occhi scuri, tipici dei pescatori e dei mercanti, ma altre avevano i capelli biondi, se non addirittura rossi, segno che non appartenevano ai ceti bassi. I suoi capelli erano castani, ma perché sua madre non faceva parte della casta sacerdotale.

Molte la scrutarono, alcune con disprezzo, altre con curiosità, ma nessuna le si avvicinò, ne le disse qualcosa di offensivo. Forse avevano paura di Ojimahl, delle reazioni che avrebbe avuto se sua figlia fosse stata maltrattata. Ma non sapevano quanto si sbagliavano.

-Nessuna ti parla. E’ comprensibile. Sei nuova e non sei cresciuta in questo Tempio, ma vieni da fuori. Molte lemish sono nate qui, e quasi tutte si conoscono fin dalla nascita, ma nessuna ti mancherà di rispetto perché hai deciso di venire qui. Nessuna donna della Città dei Sacerdoti vorrebbe vivere qui.

Le parole di Sorhaya la confortarono un poco.

Una volta rientrate dal cortile della polla, si incamminarono per il corridoio, ed entrarono in una stanza. Il mobilio era consunto, mentre una cena a base di frutta e verdura le aspettava. Harysya si rese conto di avere molta fame, dopo un’intera giornata senza toccare cibo.

-Mentre sarai una lemish, non mangerai carne, a meno che tu non sia malata. – le disse Sorhaya. –Il digiuno è essenziale perché la mente si possa aprire a nuovi orizzonti, ed è questo l’unico mezzo per capire al meglio la Verità.

La Verità, ma qual era veramente? Harysya se lo domandò, ed allora decise di chiedere una cosa che l’aveva sempre tormentata.

-Girano molte voci sulle lemish. Non so quanto sia vero e quanto falso, ma vorrei saperlo da te, questa stessa notte. Ho sentito dire che i sacerdoti oscuri vi prendono a loro piacimento, e che vi utilizzano per i più biechi esperimenti. Poi ci sono le versioni più crudeli, che vi dipingono come brutte e deformi, e vi vogliono come un gruppo che compie sacrifici umani, uccidendo neonati, per divorarne le carni.

Il volto di Sorhaya sbiancò: non avrebbe mai potuto pensare che la gente fosse così meschina. Negò tutto, riferendole soltanto che nel Tempio il sacrificio umano era considerato un abominio, mentre la stessa carne era disprezzata da quasi tutti i sacerdoti.

 

Il sonno di Harysya fu interrotto bruscamente da una sacerdotessa che la stava scuotendo, e tirandola a forza le sistemò la tunica ed il velo e la trascinò con se lungo i tetri corridoi.

Harysya non capì il perché di quello che le stava accadendo, ma dalla fretta con cui la sacerdotessa la stava tirando capì che si trattava di una questione urgente. Passarono per un corridoio esterno, e dalla luce in lontananza, Harysya comprese che l’alba non era lontana.

Faticava a camminare, e più di una volta non inciampò, ma rimase senza parole trovandosi ad una scura porta di legno, che si aprì. All’interno della stanza intravide due figure scure, una delle quali era un uomo. Non parlò. Riconobbe nell’altra figura scura la madre, e vide in un angolo quello che le sembrava un ragazzino.

La porta si richiuse alle sue spalle, mentre i due adulti presero a parlare tra loro, ignorandola.

-Come ti avevo detto, - cominciò Ojimhal, - sta bene.

-Spero solo che non si penta mai della sua decisione, - intervenne l’uomo.

Ojimhal ed il sacerdote si voltarono verso il ragazzino, che non disse nulla. Si avvicinò ad Harysya, le girò intorno, e si diresse verso le figure in nero.

-Non mi ritengo soddisfatto. Chi mi assicura che è lei e non un’altra?

Sotto il velo scuro, la ragazzina trasalì: Joser. Joser era venuto fin lì per vederla, e lei non poteva parlare. Avrebbe voluto piangere, perché aveva sempre creduto che lui la odiasse, ma non era così.

-Voglio parlarle, e vedere il suo volto, Adserth. – Joser si espresse con parole dure, cariche di sfiducia nei confronti di Ojimhal.

-Joser, - cominciò Adserth, - le regole di questo Tempio proibiscono ad un uomo di parlare ad una lemish, a meno che lei non abbia ottenuto il permesso. E non potrà essere vista da nessun volto maschile.

Il silenzio che circondò Harysya la mise in allarme. Cosa avrebbe fatto Joser? Avrebbe insistito per parlarle? Oppure avrebbe rinunciato?

-Non posso essere considerato un uomo: il mio tredicesimo compleanno è ancora lontano. E per quanto riguarda il fatto di vederla, basterà che io mi bendi gli occhi. Adserth, questo significa che voi dovreste lasciare la stanza.

-Non dipende da me, - disse il sacerdote con un sorriso, - ma dalla signora. È lei che dovrà decidere.

-Si può fare, - sentenziò Ojimhal, lasciando Harysya stupefatta, - E per lasciarli più liberi, uscirò anch’io. In fondo, cosa può fare di male un ragazzetto come lui.

Dopo istanti che durarono un’eternità, Harysya sentì la porta chiudersi alle sue spalle, e vide nella stanza solo Joser. Si tolse il velo dal volto, guardandosi intorno. Joser le stava davanti, in piedi e con gli occhi bendati. Da come erano ridotti i suoi vestiti, dedusse che si era vestito il più in fretta possibile.

-Come stai? – chiese il ragazzino, non sapendo da che parte voltarsi.

-Sto bene, non dovevi preoccuparti. – mentre gli rispondeva, Harysya si avvicinò.

Toccò una mano di Joser, che con l’altra le cercò il volto. La stava accarezzando con gentilezza mista a goffaggine, ma quando arrivò ai capelli, le sue dita si mossero con frenesia.

-Ti hanno tagliato i capelli! – esclamò Joser, - Peccato, erano belli. – un tono di tristezza fece capolino nella voce del ragazzino.

-Ricresceranno. Sono sicura che torneranno belli come prima. – cercò di consolarlo lei.

-Forse anche di più! – fu al risposta di lui.

Restarono fermi per alcuni minuti, senza parlare. Fu la mossa improvvisa di Joser che lasciò Harysya di stucco: velocemente, le avvicinò il volto al suo. Fu un bacio leggero, anche se durò alcuni attimi. Un’esperienza che prima di allora non aveva mai provato.

 

La luce del sole che stava nascendo cominciava ad illuminare le strade. Adserth restava al fianco di Joser, mentre lo stava riaccompagnando alla Casa dei Bambini.

Il ragazzino era triste, malinconico: il suo fragile mondo era caduto quando il pilastro portante era stato abbattuto. E quel pilastro era Harysya. Con la presenza costante della ragazzina. Joser era riuscito ad ambientarsi bene nella casta sacerdotale. Ma ora, cosa avrebbe fatto? Sarebbe riuscito ad affrontare da solo quel mondo ancora sconosciuto per lui?

Si sentì abbandonato a se stesso, quasi come aveva fatto sua padre mandandolo in quel luogo, lontano dai posti che amava. Manon era tempo di rimpiangere il passato. Doveva reagire, ed affrontare di petto tutti i suoi problemi.

Sapeva di potercela fare.

 

Adserth lo stava guardando, ed allora avvertì un brivido, lo stesso tipo di brivido che avvertiva in presenza di persone importanti. Ed allora capì. Joser era sempre stato destinato ad arrivare in quel luogo, a soffrire per la perdita di una persona amata, ma era anche destinato ad essere grande nel suo piccolo. Forse sarebbe stato ricordato, forse no.

Il sacerdote si chiedeva se veramente non si fossero già incontrati un un’altra vita: erano molti i legami che si formavano durante le numerose reincarnazioni, ed era sicuro di essere legato al ragazzino quanto ad Ojimhal.

Forse un giorno ne avrebbe capito il motivo.

 

   
 
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