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Autore: Shichan    24/02/2022    1 recensioni
Dazai è cresciuto più con Mori Ougai che con sua madre, da un certo punto in poi. Sa riconoscere le battaglie vinte e quelle perse. Il pareggio non esiste, per quelli come lui.
[psycho-pass au, menzioni di droga, suicidio e violenza domestica]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Osamu Dazai, Sakunosuke Oda
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ci sono pochi ricordi che Dazai ha della sua infanzia, ma sono tutti estremamente vividi. Nella maggior parte di questi la protagonista è sua madre, nell’assenza totale di un padre di cui invece non conosce nemmeno il viso. Non ha nemmeno bisogno di concentrarsi troppo, per esempio, per ricordarsi di quando aveva otto anni e sua madre lo stava portando al parco, una cosa degna solo delle occasioni speciali come un ottavo compleanno. 

Il caldo di Giugno ha costretto sua madre a indossare un vestito come non gliene vedeva da un sacco di tempo e a tirare su i capelli, anche se in casa li tiene solo sciolti; gli tiene la mano, una cosa molto materna che ultimamente fa poco, e cammina con un passo né troppo frettoloso, né troppo lento. Mentre aspettano al marciapiede che il semaforo pedonale diventi verde Dazai si guarda intorno, curioso come la maggior parte dei bambini. Uno degli edifici più grandi che si affaccia sull’incrocio ha uno schermo gigante che manda in onda le ultime notizie e un uomo in giacca e cravatta sta spiegando che un economista famoso ha appena pubblicato qualcosa di importante. 

Quando alza lo sguardo verso sua madre, Dazai la vede fissare lo schermo senza accorgersi che il semaforo a breve diventerà verde. Non la richiama per non disturbarla, e osserva il suo sguardo muoversi dallo schermo alle telecamere che si trovano proprio accanto alla luce verde ancora spenta che tiene i pedoni ordinatamente in attesa di poter attraversare. La vede modersi il labbro inferiore e assottigliare gli occhi in un modo che lui ha imparato ad associare all’irritazione, anche quando nessun’altra parte del suo corpo la tradisce nello stesso modo.

«Osamu,» lo chiama sua madre ma lui le sta già rivolgendo tutta l’attenzione di cui è capace «vedi quella cosa vicina al semaforo? Quella che sembra una telecamera?» gli domanda e Dazai lo sa, perché lo ha studiato a scuola quando fanno educazione civica. Annuisce, quindi, e le dice che serve per misurare una cosa chiamata “coefficiente di criminalità” così da sapere se qualcuno ha troppa paura e sta per fare una sciocchezza. Dazai lo sa, lo ha imparato da un libro letto di nascosto e su cui non avrebbe dovuto posare le mani prima di altri otto anni che non si tratta di paura e di sciocchezze, ma di stress e crudeltà e cose considerate crimini contro la legge. Alcuni troppo gravi per essere recuperabili.

Sua madre abbassa lo sguardo su di lui e incurva le labbra in quello che a lui sembra un sorriso, adesso, ma presto capirà essere uno stirato tentativo di trattenere una risata isterica.

«Sì, i maiali del governo lo chiamano coefficiente di criminalità,» dice sprezzante, dando un vago strattone alla sua mano quando il semaforo diventa verde e loro cominciano ad attraversare «ma è solo una trappola. Un punto di non ritorno. Tuo padre lo ha superato e ci ha abbandonati. Tu non lo devi superare mai, Osamu, hai capito? Tu non mi devi lasciare come ha fatto tuo padre.»

Forse il motivo per cui è facile per lui ricordare quel compleanno è che, dopo di quello, non ce ne sono stati altri senza quella che il Sybil System etichetta come “violenza domestica”.

*

Non vanta di essere un esperto quando si tratta di certi protocolli, ma Dazai è abbastanza sicuro sia piuttosto raro che un Ispettore decida di prendersi la briga di parlare con qualcuno per motivi diversi dal volergli estorcere informazioni. Qualcosa di cui lui è sprovvisto, non essendo stato parte di un grande piano andato male né di qualche associazione a delinquere che vuole cambiare il mondo o almeno quella piccola e ristretta sfera di esistenza che è il Giappone così come lo conoscono.

Eppure davanti a lui c’è un Ispettore. E’ giovane, sì e no di una manciata di anni più di lui, uno che non sembra granché abituato a quel lavoro ingrato per cui Dazai è convinto si causi la calvizia precoce alle persone. Ha un nome - quello con cui si è presentato, Oda Sakunosuke - che non gli dice nulla, e questo lascia intendere non si tratti di qualcuno con un record di catture né protagonista di gesta eroiche. Conosce qualche nome di Ispettori, gente di cui si è preso gioco come Kunikida Doppo e altri famosi in cui preferirebbe non imbattersi affatto, come Fukuzawa Yukichi. Oda Sakunosuke, però, no.

Gli sta seduto davanti a fissarlo e Dazai comincia a chiedersi quanto tempo ancora passeranno in silenzio a guardarsi, con un tavolo a dividerli e una sedia piuttosto scomoda per chi come lui ha addosso una veste offerta gentilmente dalla clinica di recupero in cui lo hanno rinchiuso.

Oda picchietta un paio di volte sul suo orologio perché lo schermo olografico gli mostri quelli che, con ogni probabilità, sono i dati personali di Dazai accompagnati da qualche riassunto molto schematico del perché si trova lì. Potrebbe quasi recitarlo a memoria, quel report elettronico - e non solo perché lo ha fatto effettivamente hackerare una volta, sia chiaro - ma decide di attendere ancora. Dopotutto, al contrario di Oda e dei suoi casi di certo noiosi ma necessari alla gavetta, Dazai non ha molto di meglio da fare che tornare alla seduta con uno psicologo a cui nessuno ha spiegato che non per tutte le follie esiste rimedio.

Quando finalmente l’Ispettore instaura di nuovo un contatto visivo con lui la prima domanda che gli fa è: «Perché uno della tua età e con un punteggio così alto nella graduatoria del Sybil System arriva a un passo dall’essere un criminale latente da esecuzione?»

Dazai gli scoppia a ridere in faccia.

*

Una teoria interessante che non si sa quanto sia farina di uno studioso e quanto, invece, un passaparola su internet divenuto nozione sostiene che ogni persona passa tre fasi nei suoi rapporti con i genitori. Durante l’infanzia li considera eroi con tutte le risposte, nell’adolescenza l’istinto di ribellione vince sul buon senso e trasforma i genitori in persone che non capiranno mai e infine, da adulti, si rimpiange di non aver ascoltato di più i loro consigli o di non essrsi messi di più nei loro panni.

Si imbatte in questa teoria per puro caso, leggendola in un blog online quando l’estate con le sue giornate più lunghe sta prendendo piede e mancano una manciata di ore alla fine del suo quattordicesimo compleanno. Il posto non è il locale migliore in cui uno della sua età possa andare - ha capito quasi subito di non poter cercare la pulizia nei bassifondi della città più di quanto possa cercarci la legalità.

Per la media il bar Lupin è una reggia. Ci si è infilato per caso ma ci è tornato per scelta; il padrone è un uomo, Hirotsu, che sembra aver vissuto già troppe vite per farsi fregare da questa. Finché Dazai non gli crea problemi non ha ragione di mandarlo via - ogni tanto prova a chiedergli quando studia, se passa lì la maggior parte del suo tempo quando non può neanche fare nessuna delle attività principali del locale: bere alcolici, rimorchiare qualcuno da portare sul retro o fare affati che vanno dallo scambio di informazioni a quello di cose molto meno legali. Così Dazai ha cominciato a portarsi dietro qualcosa da leggere, sempre.

Il giorno in cui trova questa teoria il bar Lupin è semivuoto, perché di recente il bureau con i suoi Ispettori e i loro cani da guardia si è fatto vedere nei paraggi, e in casi come questo sono pochi a voler scherzare col fuoco facendo affari illegali nel posto sbagliato. La luce soffusa e il legno scuro, anche se rovinato, fanno sembrare l’ambiente più caldo di quanto sia in realtà. Una volta, tanto per riempire il silenzio, Hirotsu gli ha detto che se il locale fosse stato dalla “parte giusta”, di certo avrebbe messo uno dei giradischi che andavano una volta e che ora sono pezzi di antiquariato per chi ha troppi soldi e pochi modi di spenderli.

Nel locale, però, risuona la musica di un lettore elettronico che di romantico ha ben poco.

Ci sono poche persone oltre lui e Hirotsu: un ragazzo giovane, anche se più grande di lui, con un taglio di capelli discutibile e degli occhiali da sole con cui Dazai non ha idea di come si possa vedere in un posto poco illuminato come quello. Se ne sta al bancone a blaterare fin troppo, se con Hirotsu o da solo non ne è sicuro. In un angolo della piccola sala c’è un uomo che Dazai vede spesso, capelli lunghi e lineamenti non del tutto giapponesi, perennemente vestito come se fuori facessero cinque gradi anche in piena estate. E’ un eccentrico con cui ha scambiato un paio di sguardi prima di decidere di tenersene alla larga. L’unica di cui si sia sforzato di ricordare il nome è la ragazza che sta uscendo, capelli rossi raccolti e abiti tradizionali che stonerebbero persino in città nei quartieri ricchi, figurarsi lì nella bassa periferia. Ozaki Kouyou. La prima volta che si sono incontrati gli ha rivolto un sorriso al saccarosio che non le ha mai raggiunto lo sguardo.

Dazai tende a non fidarsi di chi riesce a tenere lo sguardo gelido mentre sorride, specialmente se sono donne. Lo fa anche sua madre, prima di avere una crisi.

«Ragazzino!» lo chiama il tizio con gli occhiali tremendi dal bancone, mentre in poco più di un soffio Hirotsu lo ammonisce di lasciarlo leggere in pace. Quello sventola una mano, pronunciando una frase sulla linea di “e non lo mangio mica, Hirotsu-san!” prima di rivolgersi di nuovo a lui e fargli cenno di avvicinarsi. Dazai soppesa l’idea e decide di scuotere la testa. Soddisfatto, Hirotsu gli fa un cenno con il capo prima di dirgli: «Aspetta lì, ti porto qualcosa.»

Il rumore del minifrigo che Dazai sa essere subito sotto il bancone, leggermente sulla destra, è coperto quasi del tutto da quello della porta e dal lieve scampanellio che dà l’illusione di star entrando in un localino quasi di classe, frequentato da gente per bene. Dazai sposta lo sguardo dal blog che stava leggendo per vedere un uomo che così, d’impatto, gli ricorda suo padre per come lo ha conosciuto dai racconti. Uno di quelli da cui sua madre lo ha messo in guardia decine, centinaia di volte: quelli che a un certo punto impazziscono, ed è meglio lo facciano, perché quando non succede allora ti ammazzano nel sonno come tuo padre ha fatto con la puttana che si portava al letto.

Hirotsu gli si rivolge chiamandolo “Mori-san” ma, per quanto ne sa Dazai, potrebbe anche essere un nome falso. Ha un sorriso affabile sulle labbra come potrebbe averlo il tuo medico di fiducia, mentre passa accanto al tavolo dove se ne sta Dazai e gli lancia niente più di uno sguardo; si ferma solo perché Occhiali Brutti lo richiama di nuovo con un «Ragazzino scorbutico!» e Dazai aggrotta la fronte, fa schioccare la lingua contro il palato con fare seccato e porta lo sguardo su di lui solo per dirgli «Lasciami stare, Scodella.» 

Essere saccenti non è furbo. Questo Dazai non lo ha ancora imparato perché con sua madre non c’è ancora furbizia che renda le cose migliori se non aspettare si sia sfogata e si sia fatta passare la crisi di nervi. O che abbia preso le pasticche con cui, onestamente, Dazai non sa se finirà con il guarire o con il farsi uccidere visto che non ha idea di dove le prenda né da chi. Se siano una medicina o qualcosa di cui non conosce ancora il nome, nonostante la sua non sia l’infanzia di un ragazzino a cui è permesso conoscere un mondo pulito.

Prima che se ne accorga ha una pistola sotto il mento e, con la stessa velocità, Occhiali Brutti se ne ritrova una puntata alla testa da dietro il bancone. Hirotsu gli intima di non fare casini nel suo locale e Dazai per un momento pensa che se la farà sotto perché un conto è abituarsi a incassare cinghiate, un’altra è avere una pistola quasi infilata in bocca a quattordici anni. L’uomo chiamato Mori osserva la scena con l’interesse di un bambino allo zoo per la prima volta.

Il ragazzo degli occhiali gli dice «Ringrazia che Hirotsu-san ti ha preso in simpatia.» e qualcosa dentro Dazai si smuove, quasi all’improvviso avesse una bestia che può solo o divorare lui, o divorare gli altri. Non c’è niente di logico o di lucido nel modo in cui gli prende il polso e lo stringe per portarlo a tenere la pistola puntata dov’è, mentre ha la gola secca ma sente i muscoli del viso tendersi in un sorriso che è una smorfia grottesca e niente di più. Dazai avrà pure quattordici anni, che è una vita schifosamente breve, ma nessun adulto si è preso la briga di fare un cazzo per lui fino a ora e non ha bisogno di Hirotsu come eccezione alla regola.

«Sparami,» lo sfida, arrogante e saccente perché di infanzia bruciata non ce n’è mai abbastanza a quell’età e di incoscienza si è pieni «sparami un colpo in fronte, così almeno mi ammazzi di sicuro.» 

Nessuno spara, quel giorno, e Dazai impara la falla nella teoria degli adulti perché è come per le piante: se non le annaffi, non faranno fiori. Se gli adulti non arrivano mai nemmeno a essere eroi con tutte le risposte, non può esserci nessuna seconda fase né una terza.

*

L’Ispettore Oda si presenta più di una volta e in ogni occasione tenta un approccio con la conversazione. Dazai deve riconoscere una certa dedizione, qualcosa che lo rende interessante ai suoi occhi, anche se non abbastanza da dosare quell’arroganza appresa fin troppo presto ma che ha imparato almeno a rendere più sibillina in base a chi si trova di fronte. 

All’inizio Oda si presenta una volta a settimana, in genere il mercoledì. Le domande passano dall’essere di routine per un qualsiasi poliziotto nel mezzo di un’indagine a qualcosa a metà tra il personale e il professionale. Va dato atto a quest’uomo che gli siede di fronte, settimana dopo settimana e poi ogni tre giorni, che la sua pazienza sembra senza limiti. Ogni tanto Dazai ha la sensazione di essere trattato come un bambino, ma ci sono anche visite durante le quali Oda passa la maggior parte del tempo in silenzio o a fare domande degne di una riflessione filosofica sulla vita. 

«Quanti Enforcer si porta dietro, Ispettore?» Dazai gli chiede la terza settimana di visite, mentre sono lì a chiacchierare di niente di davvero utile. Oda lo occhieggia, neanche volesse indovinare il perché della domanda solo guardandolo, ma poi con tutta la tranquillità del mondo risponde: «Dipende dal lavoro.» «E oggi quanti ne hai dietro?»

Oda ci pensa un attimo, forse perché non si fida o forse perché deve decidere quanto danno può arrecare quell’informazione. Alla fin fine, però, Dazai è chiuso dentro una clinica dalla quale al momento sarebbe ben difficile uscire, non senza un più che discreto dispendio di energie. E per quanto lo riguarda, non c’è niente di troppo entusiasmante ad aspettarlo fuori - niente di tanto interessante come quello che c’è dentro.

«Uno solo, in macchina.»

Dazai lo guarda e potrebbe scoppiare di nuovo a ridergli in faccia, oppure potrebbe dire all’Ispettore di non sottovalutarlo, visto che è quasi un criminale latente senza speranza di cui il mondo cerca di occuparsi senza sapere se avrà successo o meno. Però non lo fa.

«Com’è che ti chiami di nome, Ispettore?»
«Sakunosuke.»
«Oda Sakunosuke.» ripete Dazai, occhieggiandolo mentre si poggia contro lo schienale della sedia e incrocia le braccia dietro la testa, come un ragazzino distratto che a scuola vuole dondolarsi avanti e indietro per far passare più in fretta il tempo di una noiosa lezione: «Da quanto fai l’Ispettore? Un mese? Un anno?» lo provoca, perché nella sua esperienza non ce ne sono di così pronti a fidarsi del prossimo o a prendersi a cuore casi disperati.

«Due anni e mezzo.» replica. Giovane, pensa Dazai, considerando che a occhio e croce non pensa abbiano questa grande differenza di età. Non ha grande importanza, ma è abbastanza interessante da farlo tornare a sedersi composto. Poggia le braccia sul tavolo freddo e il mento sopra di esse, l’occhio non coperto dalla benda a scrutare l’uomo davanti a lui.

«E come mai sei diventato Ispettore? Per sconfiggere il crimine? Salvare le persone? O perché il Sybil System ti ha detto che dovevi fare questo lavoro?»

Oda Sakunosuke non cade mai in nessuna trappola. Ogni goccia di arroganza e provocazione che Dazai versa per lui non viene mai bevuta e la risposta è sempre di una calma quasi innaturale. Un occhio poco attento, un suo qualsiasi coetaneo ad esempio, potrebbe persino pensare che l’Ispettore non sia troppo sveglio ma Dazai è sopravvissuto a Mori Ougai. Non ha bisogno di vedere in un uomo il fuoco della violenza per sapere che non è un imbecille.

«Per salvare le persone,» replica Oda, in un’inaspettata sincerità, tutto considerato «e il Sybil System aveva registrato un punteggio alto abbastanza. Non quanto il tuo, comunque.»

Ah, gli si forma subito un pensiero in testa e un mezzo sogghigno sulle labbra, allora risponde alle provocazioni, se vuole.

«Il Sybil System dice tante cose, Ispettore. Dice anche che devo stare in una clinica a parlare con uno psicologo che probabilmente farò impazzire entro un mese, perché così potrò stare bene ed essere reintegrato nella società. Ma lo sappiamo tutti come finisce, giusto? Quante persone ha visto entrare in un posto come questo e uscirne? E se sono usciti, quanti sono diventati un apporto alla società?» lo interroga, a ruoli invertiti in un gioco mentale che non è ancora sicuro l’Ispettore abbia deciso di accettare per quello che è. Per Dazai, è un modo interessante di passare il tempo. Non è sicuro per Oda possa essere più di uno spreco di tempo.

L’uomo di fronte a lui resta in silenzio, lo scruta prima di cominciare a sbottonare i polsini della camicia e ad arrotolare le maniche, scoprendo gli avambracci.

«Una buona percentuale.»
«Oh, una buona percentuale. Va bene, allora diciamo la metà? Un cinquanta per cento. Sei bravo in matematica, Ispettore?»
«Andavo meglio nelle materie umanistiche.» è la risposta schietta di Oda, con la faccia di chi ha tacitamente detestato i numeri per molto tempo. A Dazai scappa d’istinto uno sbuffo divertito, un accenno di risata quasi sincera. 

«Va bene, io non sono ancora diplomato, possiamo fare il conto insieme.» dice, con una mezza scrollata di spalle per quanto la posizione permetta: «Prendiamo questa metà. Togli tutti quelli che sono usciti e ci sono ricaduti. Forse ne rimane un numero abbastanza alto, dicono che qui la riabilitazione funziona bene. Da questo numero ancora alto togli quelli che non sono riusciti a fare un lavoro non da casa. O quelli che, se escono, non possono fare più di un chilometro di strada.» specifica, tirandosi leggermente su con la testa e puntellando un gomito, così da potersi sorreggere il volto con la mano. Oda lo guarda ma non proferisce parola, e Dazai se lo aspettava che l’Ispettore volesse prima vedere dove stesse andando a parare.

«Adesso sta rimanendo una percentuale più bassa di quella da cui abbiamo iniziato. Di queste persone che dovrebbero essere tornate perfettamente nella società, come dici tu, togli tutte le categorie che adesso ti elenco, va bene?» propone, ma non aspetta alcuna risposta per cominciare a sciorinare casistiche: «Persone che non hanno avuto figli per scelta. Persone che prendono psicofarmaci. Persone che non hanno ancora concluso il percorso con uno specialista. Persone che fanno un lavoro dietro le quinte. Persone che non hanno una relazione stabile. Poi escludi anche tutte quelle che sono diventate vittime di abusi di qualche tipo, soprattutto domestico, o che in generale tendono a essere soggette a pressione psicologica da un superiore o a ricoprire posizioni di poco conto nel loro lavoro. Togli tutte quelle che non hanno un animale domestico. Approssimativamente.»

Tocca a lui studiare Oda e lo fa per un minuto intero in cui nessuno dei due dice nulla. L’uomo forse aspetta la conclusione di quello che somiglia più a un monologo o a un ragionamento ad alta voce in cui non è davvero richiesto il suo contributo; Dazai aspetta di vedere sul suo viso il segno di chi, anche solo per riflesso, ha appena fatto mentalmente il calcolo che gli è stato richiesto. Quando scorge quel piccolo segno, facile da scambiare per una ruga di espressione, cambia di nuovo posizione: la schiena contro la sedia, un braccio abbandonato lungo il fianco e l’altro poggiato sul tavolo.

«Il numero rimasto sarebbero le persone “reintegrate nella società”.» dice, mimando le virgolette con una sola mano «Pensa di essere sopra o sotto il 5%, Ispettore?»

Il silenzio di Oda è una risposta: sotto.

«Bene, siamo d’accordo!» esclama con falsa allegria, senza la minima traccia di entusiasmo genuino nello sguardo «Il Sybil System la riempie di stronzate. Ma gioisca! Ci riempie di stronzate tutti quanti.»

*

Il giorno in cui sua madre perde definitivamente il controllo per la prima volta è lo stesso in cui Mori lo avvicina con più di uno sguardo buttato lì mentre entra al bar Lupin. E’ una giornata invernale dei suoi sedici anni e sono già cambiate tante cose: all’interno del locale è almeno un anno che il tizio sempre vestito pesante anche in estate - Rimbaud - non si vede più. Dazai non lo sa per certo, ma non fatica a immaginare sia morto in qualche vicolo. Occhiali Brutti, che in un momento imprecisato ha cominciato a chiamare col suo nome (Kajii), va e viene ma molto più raramente di prima. Qualche nuova faccia si vede arrivare e andare nel retro del locale sempre in buona compagnia, donne o uomini. Qualcuno prova a portare della porcheria da svendere, ma Hirotsu è stato chiaro: non saranno nella parte rispettabile della città, ma droga nel suo locale non la vuole, poco importa di quale qualità sia.

Mori gli ha rivolto poche parole e molti sguardi, non troppo lunghi, ma Dazai sopravvive da tre anni nei vicoli fatti di malavita e disperazione, di avanzi di galera non degni nemmeno di avere gli occhi del Sybil System su di loro. Dazai non è mai stato portato sul retro da nessuno, anche se qualcuno ci ha provato; a un certo punto Hirotsu ha deciso che poteva lasciarlo a cavarsela da solo, ma sospetta l’uomo tenga la pistola a portata di mano lo stesso e che gli anni possono passare ma né la sua velocità né la sua mira ne soffriranno mai granché.

Poi un giorno Dazai entra dalla porta principale come sempre e trova Mori al bancone, una cosa che accade spesso. Tutto il resto però è una prima volta: il modo in cui Hirotsu sgrana gli occhi quando lo vede e impreca sotto voce, aggirando velocemente il bancone; come chiama a gran voce “Chuuya”, con sommo fastidio di Dazai - davvero, non ha voglia di sentirsi urlare nelle orecchie dalla persona con cui è meno compatibile sulla faccia della terra. E poi Hirotsu lo sta sostenendo, braccia sotto le ascelle e Mori appare dal nulla alle sue spalle. 

«Hirotsu-san, sul divanetto.» dà precise istruzioni, come il medico che si suppone sia. Dazai non ha mai capito se si tratti di qualcuno che è stato un dottore e poi è passato dal lato sbagliato, se sia sempre stato medico di chi i dottori d’élite non può permetterseli o se sia un ciarlatano con qualche nozione di primo soccorso. Poco importa a lui nello specifico, visto che non ha ferite mortali a discapito di quanto appaia malmenato.

Sputa fuori una mezza risata strozzata quando Hirotsu lo fa sedere e quello gli causa una fitta al fianco: «Hirotsu-san, avevi detto di essere un gentiluomo.» «Non è il momento, Dazai-kun.» lo rimprovera l’altro, ma il suo tocco si fa più gentile. Non dura molto, comunque, perché Mori prende in mano la situazione e Dazai deve ammettere che si aspettava un modo di fare molto più rude. Mori invece si lega con gesti veloci i capelli in un codino e poi lo spoglia senza troppi preamboli della maglietta che ha addosso, dando a Hirotsu ordini precisi su cosa portargli - acqua calda, asciugamani puliti e qualcosa che Dazai si perde nel rumore fastidioso che sente nelle orecchie. Il mobile del soggiorno non deve essere stato molto gentile con lui quando ci è finito contro.

Ci vogliono venti minuti perché il taglio sulla testa smetta di sanguinare e venga medicato per bene, perché Mori riconosca una costola incrinata e se ne occupi con una medicazione perfetta quanto quelle di un qualsiasi ospedale riconosciuto dal governo. Dazai porta una mano al viso, incontrando il bendaggio che gli copre un occhio e mettendo più o meno a fuoco quello delle braccia. Non azzarda a muovere troppo il busto, immaginandosi la fitta di dolore che potrebbe sentire.

Tossicchia, piano, ed è già sufficiente così.

«E dire che odio il dolore…» borbotta, convinto di essere stato lasciato a riposare ma sentendosi rispondere invece: «Interessante affermazione, Dazai-kun.»

Alza di poco la testa dal divanetto dove Hirotsu lo ha sistemato e riesce a inquadrare la figura di Mori, occupato a sistemare i suoi strumenti da lavoro nella borsa da medico che si porta sempre dietro. Ha ancora i capelli legati in un codino e il solito camice addosso. Lo sguardo che gli rivolge a Dazai non piace per niente: sembra quello di chi potrebbe ucciderlo in un secondo con un bisturi.

«Dico sempre cose interessanti, Mori-san.»
«Di certo non si incontra tutti i giorni un quattordicenne che sfida qualcuno che gli sta puntando una pistola contro. Né uno pronto a chiedere di essere ucciso.» fa notare Mori, divertito come un bambino di fronte a un’intera busta di caramelle tra cui ha solo l’imbarazzo della scelta. Dazai lo scruta, cercando di capire quanto sia consigliato interagire a lungo con un uomo così. Perché a un medico basta uno sguardo per capire la natura di alcuni segni su un corpo, e un medico abituato a destreggiarsi tra pazienti senza speranza o che assumono sostanze peggiori della droga per sopperire all’impossibilità di farsi curare legalmente è ancora più acuto.

«Kajii non avrebbe mai sparato davvero.» dissimula con un sorrisetto e un tentativo di scrollare le spalle «Mi ha illuso e abbandonato, Hirotsu-san dovrebbe smettere di farlo entrare qui.» si lamenta per una morte richiesta e mai concessa, quasi parlasse di una merenda saltata. Mori non dice nulla, finendo di pulire l’ultimo strumento prima di riporlo nella propria borsa e quando lo guarda, c’è un vivo interesse nel suo sguardo.

«Mi incuriosisce tutto questo tuo desiderio di morire, Dazai-kun. Forse non avrei dovuto curarti?» chiede con sincero interesse, una bestemmia sulle labbra di chi giura di fare il possibile e l’impossibile per salvare la vita chiunque vada da lui in cerca di aiuto.

Non sa perché, ma quello è il momento in cui ha la sensazione che Mori sappia più di quanto dovrebbe, più di Hirotsu, più di quanto Dazai possa accettare da chiunque - gli occhi di Mori vedono i suoi bendaggi e non vedono una rissa, né le conseguenze di azioni illegali di un ragazzino che gioca a fare l’adulto. 

Mori vede ogni singolo colpo di sua madre, vede la vergogna, vede un mondo incrinato e vede la trasformazione di una donna anche se indirettamente.

«Quando morirò, sarà qualcosa di veloce e indolore, sensei. Questo era solo un passo verso un punto.»

Dazai ha pochi ricordi della sua infanzia, ma tutti vividi: lui e sua madre chiusi nel loro piccolo appartamento nell’inverno di cinque anni fa e lei che ride e piange, piange e ride, poi gli dice non devi mai superare il punto di non ritorno, Osamu. Non devi abbandonarmi. Se mi lasci come tuo padre, ti ammazzo.

*

Non ci vuole un esperto del comportamento per sapere che il suo modo di portare Oda a presentarsi alla clinica è subdolo: sgattaiolare come avrebbe potuto fare altre mille volte, eludere la sorveglianza e gli infermieri, arrivare fino al tetto e mettersi dall’altra parte del parapetto minacciando di buttarsi di sotto se non potrà vedere l’Ispettore Oda è veramente da bastardi. Un vero peccato che Dazai non abbia scrupoli da offrire a chi lo etichetta come tale.

Immancabile come un cavaliere senza macchia e senza paura, Oda si presenta in poco tempo considerata l’assenza di preavviso di un matto che chiede di lui un attimo prima di lanciarsi dal decimo piano. Una morte veloce ma con alto rischio di non morire affatto e di distruggersi quasi tutte le ossa del corpo, con un po’ di fortuna - o sfortuna, dipende dai punti di vista. 

Dazai si sente chiamare mentre ha lo sguardo rivolto al tramonto e riconosce la voce senza difficoltà, dopo così tante ore a parlare di fin troppi argomenti rispetto a quanti di norma siano concessi a un Ispettore e un criminale latente. Volta la testa, cerca la figura di Oda da sopra la spalla.

«Ispettore!» lo saluta cantilenando «Non ti fidare di quello che dicono, non mi sarei davvero buttato. Ma sai come sono qui, con questa fissazione di dovermi per forza curare e salvare e bla bla bla.» commenta annoiato, oscillando avanti e indietro con solo le mani a tenerlo ancorato al parapetto. Gli unici due infermieri presenti fanno un sobbalzo, non sapendo se avanzare per afferrarlo o stare fermi per non rischiare che si butti sul serio. Oda rimane immobile, forse soppesando se Dazai voglia davvero lanciarsi o se sia solo un bluff. La difficoltà purtroppo deve stare nel fatto che, senza dubbio, nel file che lo riguarda deve esserci scritto delle sue tendenze suicide. Anche se quasi nessuna di questa è supportata da prove.

«Pensavo volessi parlarmi?»
«Pin pon! Esatto!» replica Dazai soddisfatto, occhieggiando gli infermieri «Ma è una chiacchierata privata, Ispettore.» aggiunge, in un invito a liberarsi degli altri due. Non c’è niente che non possa dire anche davanti a loro, a dire il vero, ma non sa mai se l’operatore sanitario davanti a lui può essere una conoscenza di Mori o meno e non vuole davvero prendersi il rischio ora e in una clinica dove potrebbero persino drogarlo. Oda capisce senza bisogno di ulteriori parole e fa un cenno agli infermieri di lasciarli da soli; Dazai rimane comunque dal suo lato del tetto, quasi a stabilire bene i confini e il suo posto sicuro su un cornicione.

Quando gli infermieri sono via, Oda lo osserva senza muoversi. Si deve aspettare qualcosa, un’epifania sul perché Dazai lo abbia fatto chiamare con questo stratagemma di cattivo gusto. Però Dazai non ha nulla di così sensazionale da offrire.

«Ispettore, i tuoi superiori ti permettono di perdere ancora tempo con me, quindi mi chiedevo: perché continui a venire quasi tutti i giorni? Non sono parte di un’indagine, non ci sono accuse di crimini a mie spese, solo un coefficiente troppo alto per una persona normale ma non abbastanza alto da farmi esplodere in mezzo alla strada, giusto?» chiede, non tanto per provocare stavolta, ma perché anche i giochi più divertenti alla lunga stancano e annoiano. Si vedono da più di due mesi ormai, settimane dopo settimane e giorni dopo giorni senza che ci sia una svolta di nessun tipo né nelle domande di Oda, né nel coefficiente di Dazai. Lo psicologo continua a cercare di tirargli fuori storie di traumi che lo facciano finalmente sfogare in un pianto liberatorio che non arriverà mai e Dazai ormai è stufo di continuare a prendersi gioco di quel povero uomo. Glielo rende troppo facile.

«Non ci sarà alcun bisogno di farti esplodere,» pronuncia Oda e la cosa grave è che ci crede sul serio «è per questo che ti hanno portato qui. Perché è una situazione recuperabile.» 

Se fossero solo parole per dargli speranza, Dazai in un certo senso la prenderebbe con filosofia. Davanti a lui c’è un impiegato del bureau, a cui hanno affibbiato un incarico tedioso che di sicuro nessun superiore voleva gestire, e cos’altro ci si può aspettare che dica se non le frasi fatte da copertina di giornale? Non ci sarebbe niente di inaspettato, un dialogo da manuale del buon poliziotto. Invece Oda Sakunosuke crede fermamente in quello che dice, come la peggior specie di Ispettore di cui si può incrociare la strada - quelli che pensano di star facendo del bene, di agire per il meglio, di poter salvare tutti o almeno la maggior parte delle persone. Quelli con abbastanza fortuna da restare vivi perché il Dominator gli permette di polverizzare un’altra persona in un secondo netto, quello necessario a premere il grilletto, se hanno abbastanza fegato per ignorare di star uccidendo qualcuno. Se sono abbastanza bravi da raccontarsi la favola che è necessario.

Se Dazai non avesse l’assoluta certezza del fatto che Oda deve aver letto il suo fascicolo almeno dieci volte, in tutte quelle settimane di dialoghi, se ne farebbe una ragione in una manciata di secondi. Farebbe spallucce, direbbe due bugie e una mezza verità per farlo contento, poi lo lascerebbe andarsene a casa sua tranquillo di aver fatto anche per oggi la sua parte. Ma Dazai sa che Oda conosce la sua situazione meglio di come potrebbe conoscere il libro preferito, letto così tante volte da aver consumato i bordi delle pagine. 

Abbassa lo sguardo verso il suolo, troppi piani più in basso rispetto al cornicione dove se ne sta meglio di un funambolo in attesa che lo spettacolo inizi; vede una macchina scura e due uomini in completo nero che non fatica a riconoscere come Enforcer. Uno dei due gli sta puntando contro un Dominator, ma Dazai non ha bisogno di fare domande per sapere che al momento se anche gli sparassero non esploderebbe in mille pezzetti di carne. 

Perciò Dazai ride: una risata contenuta, perché non vuole sembrare il cattivo di un film d’epoca, con l’ilarità malvagia e megalomane a uscirgli di bocca. Ma se la fa sfuggire tra le labbra, la lascia risuonare nell’aria così che attiri l’attenzione di Oda e lo faccia dubitare di aver appena fatto l’errore più grande di tutti.

«Andiamo, Ispettore Oda,» pronuncia dopo essersi girato abbastanza da poterlo guardare meglio di quanto farebbe da sopra la propria spalla ma senza dare la falsa speranza di voler tornare al sicuro sul tetto della clinica «lo sappiamo tutti e due che hai il mio fascicolo in quell’orologio di ultima generazione dove voi del bureau vi passate tutte le informazioni necessarie. Devo davvero dirti io perché sei qui?» lo interroga con fare scettico, e Oda lo guarda come Hirotsu lo ha guardato la prima volta che Dazai è entrato nel suo locale pieno di lividi, o come lo ha accolto la sua insegnante quando ancora si prendeva la briga di recarsi a scuola. Come lo ha guardato sua madre prima di impazzire dicendogli che è la copia sputata di suo padre. 

«Il Sybil System dice che sono adatto a fare l’Ispettore, vero? Il punteggio più alto tra i miei coetanei degli ultimi, non so, diciamo cinque anni. Però purtroppo per il Sybil sono come una mina vagante che sarebbe ideale esplodesse nel momento e nel posto giusto. E quindi serve qualcuno a controllarmi. Perciò sono qui dentro a cercare di abbassare un coefficiente di criminalità che non si abbasserà mai e lo sappiamo tutti: io e voi.» mette in chiaro, abbandonando i sottintesi e le strategie. Sono divertenti con persone come Nakahara, pronto a sbraitare e saltarti al collo appena dici qualcosa che lo infastidisce - e nel caso di Dazai, davvero, basta così poco - ma non con gente come Oda.

«Ci sono Ispettori messi di fronte a scene del crimine che farebbero alzare il coefficiente di chiunque, anche se ci fanno lavorare con gli Enforcer nella speranza di preservarci meglio.» Oda dice a chiare lettere ciò che diversi del bureau non direbbero mai. Gli fa onore, ma Dazai dell’onore di un uomo non se ne fa niente. 

«Non devi per forza diventare quel tipo di criminale latente che non ha più modo di tornare indietro.»

Ah, che fastidio, è il primo pensiero che si forma nella sua mente. Sa bene che secondo il termine specifico lui è già un criminale latente, ma capisce a cosa Oda si sta riferendo: un conto è essere ancora entro la soglia recuperabile, quella in cui si trova adesso, un altro è superarla e avere a quel punto la certezza di non poterci più fare nulla se non sperare di non essere sotto il mirino di un Dominator. Gli si smuove qualcosa dentro proprio come quando aveva quattordici anni e Kajii gli stava puntando una pistola contro.

«Avevo otto anni quando mia madre mi ha detto di non andare oltre quello che chiamava il punto di non ritorno.» comincia a raccontarglielo neanche fosse una favoletta senza troppa importanza «Quella che per voi è una soglia numerica oltre la quale merito di essere giustiziato per mia madre era un istante non meglio identificato in cui mio padre ha scelto la droga al posto di sua moglie e se ne è andato a morire in un vicolo come i topi. E così per il mio ottavo compleanno mi ha portato al parco e mi ha detto: non azzardarti a diventare come lui e a lasciarmi sola. Sembrava tenero, finché non è diventato una crisi isterica e violenta. Ma sono sicuro che lo sai, perché il governo conosce tutto di tutti, vuoi non abbia le mie cartelle cliniche? Non tutte, comunque. Posso elencarti quello che manca.» assicura, spostandosi di qualche passo verso destra e verso sinistra. Come previsto, l’orologio di Oda suona e lui apre la comunicazione.

La voce di un uomo, abbastanza giovane suppone Dazai, chiede se tutto è regolare con il soggetto che fa avanti e indietro. Gli dice “il Dominator è in modalità Paralyzer” e “lo stordiamo prima che faccia una cazzata?” ma Oda dice di no, che non c’è bisogno. Ha la faccia calma e pacata di chi sta prendendo un tè in terrazza e Dazai si chiede, in un istante di viscerale curiosità, se sappia solo bluffare molto bene o se sia proprio per questo che è un Ispettore con un punteggio alto in graduatoria. 

«Fratture, costole incrinate, devi solo domandare. Ho perso il conto delle volte in cui hai continuato a guardare la benda sull’occhio e so per certo che devi esserti chiesto, Ispettore, se fosse per mia madre o per qualcuno dei bassifondi. Ma non preoccuparti, non sono uno di quei figli tristi per essere stati picchiati, terrorizzati e poi abbandonati. Mia madre non era così forte da scegliere volutamente di restare da sola. Si è fatta una dose in vena di troppo e tanti saluti. Però non è meraviglioso? Ha delirato come se io fossi mio padre, provato anche a chiamare i numeri di emergenza. Sono arrivati, non fraintendermi. Nel nostro mondo perfetto nessuno potrebbe abbandonare una persona, nemmeno se è un rifiuto della società. Poi il Sybil System li giudicherebbe. Ma quando è morta un medico mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto “figliolo, è una tragica perdita ma la tua vita può ricominciare”. Quale compassione!» esclama, tenendosi con entrambe le mani alla ringhiera e sporgendosi indietro. Basterebbe lasciar andare per un secondo per fare un volo di dieci piani verso il suolo.

Oda fa un passo in avanti, d’istinto, e Dazai sa per certo di averlo completamente catturato. La storia del ragazzino picchiato dalla madre funziona sempre con i poliziotti, con i medici, con il mondo: diventa ai loro occhi la creatura sfortunata per cui ci vorrà un miracolo per essere reintegrata dopo una cosa simile. 

«Dire tra le righe a un figlio appena rimasto orfano “gioisci! Quel peso morto di tua madre ora non c’è più!”, non è meraviglioso? Tutti pensano che il mio coefficiente sia peggiorato a causa di mia madre, del contatto con le droghe e con la sua morte. Ma anche tu hai visto la morte, vero Ispettore? Eppure non sei a un passo dal non ritorno.» gli fa notare, allungando una mano e facendogli cenno di avvicinarsi. Ignora il vociare sotto di lui, dovuto di sicuro agli Enforcer che lo tengono sotto tiro.

Oda si avvicina, anche se lentamente. Dazai fa un piccolo gesto con la mano, lo invita in silenzio ad afferrarla. Così quando Oda è abbastanza vicino da farlo, quando le loro dita si sfiorano lui fa uno scatto veloce e stringe le proprie intorno al polso dell’altro e lo tira, con più forza di quanto chiunque si aspetterebbe forse. Se lo tira addosso approfittando dell’essere sbilanciato dell’Ispettore, lo sente sbattere contro la ringhiera che c’è tra loro.

Dazai è cresciuto più con Mori Ougai che con sua madre, da un certo punto in poi. Sa riconoscere le battaglie vinte e quelle perse. Il pareggio non esiste, per quelli come lui.

«Puntami il Dominator in fronte, Ispettore, e dimmi che numero vedi.»

Oda fa per muoversi, per allontanarsi probabilmente, ma sanno bene entrambi che se dovesse strattonare troppo potrebbe fargli perdere l’equilibrio e avere un civile sulla coscienza. Purtroppo per Oda, la sua coscienza sarà la sua rovina prima o poi e Dazai se ne è accorto dal primo momento in cui lo ha visto. Per questo dopo un tempo più breve del previsto il freddo metallo del Dominator è contro la sua fronte e Dazai sogghigna, perché sa bene cosa Oda sta per vedere.

Il coefficiente di criminalità è 298.2, risuona nelle orecchie di Oda, ma sono così vicini che lo può sentire anche lui. Solo lo 0.9 lo separa dalla soglia oltre la quale un Dominator decreta la modalità esecuzione. Così poco a lasciarlo in bilico, sospeso con un piede già oltre il punto di non ritorno verso cui sua madre lo ha sempre messo in guardia. Vede Oda assottigliare lo sguardo, la mano ferma e la luce azzurra del Dominator riflessa nei suoi occhi.

Dazai lo fissa e ride.

«Il tuo Sybil System non può salvare tutti, Ispettore.» mormora, mentre la forma del Dominator cambia contro la sua fronte mentre una voce metallica - la voce di un operatore? Quella del Sybil System? Quella di Dio? - offre un’analisi diversa: il coefficiente di criminalità è di 301.2.

Da qui non si può più tornare indietro. Così Dazai ride, lo lascia andare, si spinge indietro e cade prima che Oda possa fare l’eroe. Lo guarda, mentre la gravità lo tira giù verso l’inferno e sillaba una sola parola come ultimo messaggio verso il mondo.

Bang.

*  

Oda corre, il criminale in vista cinque metri più avanti rispetto a lui. Lo vede girare l’angolo e prima di arrivarci vicino sente un rumore sordo e poi urla di dolore. Aumenta il passo, la mente più veloce delle sue gambe mentre viene attraversata dal almeno tre protocolli contemporaneamente nel caso si ritrovasse con un ostaggio non previsto - la zona è abbastanza deserta, ma i vicoli della periferia nascondono molto più di quanto chiunque creda dalla posizione privilegiata di una vita lontana da qualsiasi fonte di stress e paura.

Quando volta l’angolo, l’immagine che gli si para davanti lo fa sospirare sollevato e rassegnato insieme: il fuggitivo è a terra, faccia contro l’asfalto, il braccio piegato in modo innaturale dietro la schiena e un Dominator puntato alla testa. 

A Oda non è mai piaciuta troppo l’idea di lavorare con gli Enforcer per come è concepita dal governo, ossia come un padrone che rilascia i cani da caccia sfruttandoli solo finché non catturano la preda, per poi rinchiuderli con la museruola stretta. A volte, però, capisce anche il motivo per cui molti dei suoi colleghi non riescono a gestire alcuni degli Enforcer messi a disposizione dal Sistema.

L’ultima aggiunta al suo team è imprevedibile, ingestibile e - parola di Kunikida - un ammasso di guai su due gambe che ha dalla sua solo una buona percentuale di criminali catturati. Questo non lo rende diverso da chi cattura, gli ha detto Kunikida la prima volta che hanno lavorato insieme. Oda è abbastanza sicuro che, potendo scegliere, per l’altro Ispettore quella sarebbe stata volentieri anche l’ultima. 

«Odasaku!» saluta entusiasta Dazai, come se non fosse seduto su un essere umano a cui sta promettendo una metaforica pallottola in testa, facendolo tremare di paura «Non crederai mai quanto facile sia far alzare il coefficiente! Guarda! Duecentoseeeei, duecentoseeeette…»

Oda lo guarda come ha fatto altre volte. C’è chi dice che funzionano insieme perché ha la pazienza di non cacciarlo dalla propria squadra, c’è chi sostiene sia troppo permissivo con lui solo perché è sentimentalmente coinvolto dal non essere riuscito a fare altro che salvarlo da uno schianto dal decimo piano, senza però fare niente per il suo coefficiente. Qualcuno nei corridoi mormora che sarebbe stato un grande Ispettore. Qualcuno che sarebbe stato pessimo. Qualcuno che sarebbe stato troppo crudele, esattamente com’è ora, quindi forse era irrecuperabile fin dall’inizio.

«Dazai.» lo richiama e lo vede sbuffare, alzare il Dominator e cominciare a lamentarsi di quanto Odasaku sia troppo buono

«Qualche giorno un criminale ti ucciderà, Odasaku. Bang! E io dovrò cercare di salvarti, perché sono stato cresciuto a pane e compassione, come potrei mai abbandonarti?» Dazai parla, parla, parla così tanto da mascherare verità in un’infinità di bugie. Però Odasaku se lo ricorda lo sguardo di un anno fa, mentre Dazai si lasciava cadere nel vuoto e pronunciava quella stessa parola, lentamente, con il chiaro intento di farsi vedere. Di farsi comprendere, forse.

Ancora oggi Odasaku, come Dazai ha preso a chiamarlo dal suo risveglio in ospedale, non sa se quella fosse una disperata, finale richiesta di aiuto a cui non ha saputo dare ascolto. Se Dazai gli abbia chiesto di farlo morire, piuttosto che lasciargli superare quel punto di non ritorno da cui sua madre voleva restasse lontano.

Se lo porterà dietro nella tomba.

Bang.

   
 
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