Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Joy    20/03/2022    1 recensioni
Cap 1) Si toglie il cappotto e glielo posa sulle spalle, prima di far scattare la serratura dell'anello che gli blocca il polso.
Cap 2) “Non durerò a lungo...” lo avvisa con un filo di voce.
“Nemmeno io” gli risponde Marco in un soffio.

Cap 3)“Quel bambino rannicchiato sul marciapiede...” mormora Jean, il cappello calato sugli occhi e la fascia eldiana in bella mostra sul braccio sinistro. “Dove sono i suoi genitori?”
Cap 4)“Adesso sei qui, ragazzo” l'aiuta Onyankopon, aprendo per loro la porta di una cabina. “Ci hai fatti preoccupare.”
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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4.

 

 

 

Il sentiero che scende verso il porto è sconnesso, Jean non lo ricordava così. Sarà che non vede nemmeno dove mette i piedi, con il bambino che gli gonfia le falde della giacca coprendogli la visuale.

“Posso portarlo io per un po'” si offre Marco dopo che per la seconda volta il suo stivale slitta sul terreno ghiaioso rischiando di fargli scendere quel che resta del viottolo con le chiappe.

La mano del bambino stringe più forte la sua camicia.

“Non è necessario, posso farcela.”

Quello annuisce e lo precede in un equilibrio anch'esso precario e Jean scoppierebbe a ridere se non avesse la gola presa nella morsa dall'ansia, perché di tutte le situazioni disperate o assurde in cui si sono ritrovati, quella è senza dubbio la più inaspettata.

E c'è del ridicolo -e del patetico- in quella carovana sgangherata, formata dal soldato che ha scoperto di non voler più combattere, quello che ha ricominciato per vendetta sfidando il suo stesso corpo e un orfano febbricitante raccolto per strada, eppure, pensa Jean, niente di tutto ciò sembra davvero fuori posto. Tranne forse il mugolio sommesso e gli improvvisi spasmi che stringono le gambe del bambino attorno ai suoi fianchi.

“Marco...” sussurra piano fermandosi sul sentiero. “Penso che sia giunto il momento di una pausa per necessità impellenti.”

Lo sguardo che riceve è avvolto di stupore solo per un istante, si sposta dal suo volto alla forma del bambino sotto la sua giacca, mentre retrocede verso di lui di un paio di passi.

“Va tutto bene, Jean” gli dice. “È normale urinare spesso nelle tue condizioni, succedeva anche a mia madre.”

Ed è così serio che Jean lo guarda cercando di capire di cosa stia parlando, prima di comprendere e sbuffare un mezzo ghigno.

“Sei proprio un cretino” gli risponde, ma è così tanto tempo che non lo vede scoppiare a ridere in quel modo che non riesce ad essere davvero arrabbiato.

“Pensi di aiutarmi o resti lì impalato?”

Marco ride ancora: “Sono sicuro che saprai gestire la situazione.”

 

***

 

Quando arrivano al porto, il sole è sorto da un paio di minuti e la vedetta sul pontile della nave, ha il binocolo puntato su di loro.

“Siete in ritardo” mormora Onyankopon quando percorrono a passi spediti la passerella, “la prossima volta partiremo senza di voi.”

“Abbiamo avuto dei... rallentamenti.

Jean vede il suo sguardo posarsi sulla testa del bambino che ora spunta dalle falde della sua giacca.

“Spero non vi siate cacciati nei guai” borbotta, mentre li guida al coperto.

“Nessun rapimento, Onyankopon, stai tranquillo” spiega Marco. “Il bambino era un orfano abbandonato a se stesso nel getto di Marley.”

“Bè sono felice che non lo sia più” ribatte quello, “ma mi riferivo a te, quando alludevo al cacciarsi nei guai.”

“Oh bè, Marco stava benone quando l'ho trovato.”

Jean se la concede quella punta di sarcasmo, la butta fuori prima che possa esplodere insieme alla tensione che ha trattenuto fino a quel momento. “Era incatenato nei sotterranei del Palazzo di Giustizia.”

Se ne pente, quando scorge l'espressione vuota e distante che è di nuovo calata sul volto di Marco.

“Adesso sei qui, ragazzo” l'aiuta Onyankopon, aprendo per loro la porta di una cabina. “Ci hai fatti preoccupare.”

Si sforza di sollevare gli occhi e rivolgere all'uomo un abbozzo di sorriso, e per Jean è talmente evidente il dolore sotto quella maschera che si sente anche più idiota del solito.

“Vi faccio portare qualcosa da mangiare.”

Registra distrattamente la voce di Onyankopon e riesce a rivolgergli un cenno d'assenso e un grazie, prima che la porta si chiuda dietro di lui, lasciandoli soli.

“Mi dispiace, Marco” sputa fuori senza esitazione. “Non intendev... So che sei in grado di cavartela.”

E spera davvero di sentire il suo sguardo gentile sulla pelle e il “Va tutto bene, Jean” con cui l'ha perdonato ogni volta che ha fatto il cretino, ma l'unico occhio di Marco questa volta resta rivolto verso il basso mentre si siede su una delle cuccette per sfilarsi gli stivali.

“Forse non quanto vorrei” commenta semplicemente sdraiandosi.

Non dorme da giorni, Jean lo realizza in quell'istante; posa il bambino sull'altro letto e siede nello spazio rimasto libero finché non avverte il respiro di Marco farsi profondo.

 

***

 

Il grido con il quale Marco si sveglia sobbalzando fa sussultare anche lui.

Ha dormito poco, appena un paio d'ore, e Jean l'ha sentito mugugnare parole incomprensibili per tutto il tempo; non si è calmato neanche quando gli ha posato una mano sulla fronte accarezzandogli piano i capelli, come faceva quando erano ragazzi, nelle lunghe ore di dormiveglia dopo l'incidente.

“Marco...” lo chiama piano.

Ha gli occhi vuoti e la maglia sudata, Jean si sposta sul suo letto e gli posa una mano sul collo.

“Marco, sei al sicuro.”

È la prima cosa che gli dice. Lo fa abbassando la testa e cercando di catturare quello sguardo ancora immerso nelle memorie oniriche che continuano ad accanirsi nella sua testa. Sono anni che accade.

Siamo al sicuro” aggiunge. “Siamo sulla nave dei volontari, ricordi?”

Marco solleva il volto e il vagare inquieto della sua pupilla si placa, si concentra su di lui.

“Stiamo tornando a casa” ribadisce Jean, posandogli entrambi i palmi sulle guance, e riesce a vederlo, l'istante in cui riemerge dall'oscurità sbattendo la palpebra libera dalla benda e annuendo piano.

Socchiude le labbra, ma non esce alcun suono.

“Con calma” gli dice, “con calma, Marco” e lo guida contro di sé.

Sente il suo respiro addolcirsi contro il sul collo e il torace rallentare il ritmo del suo espandersi.

Rimane immobile finché non lo sente rilassarsi del tutto, finché la mano di Marco non si solleva fino a posarsi sul suo fianco, dove lo accarezza appena un paio di volte, in un muto grazie.

Jean sorride e lo scosta leggermente da sé.

“Vieni” gli dice, “togliamo questa maglia bagnata.”

Sa che può farcela da solo e che dovrebbe lasciargli i suoi spazzi, ma qualcosa nelle movenze lente di Marco gli richiama alla mente i primi tempi, quando il dolore dominava ogni suo movimento.

Ne scopre la causa quando riesce a sollevargli il tessuto dal petto, rivelando delle bruciature umide e molto più infiammate di quanto ricordasse.

“Perché non mi hai detto che erano così peggiorate?”

Marco scuote la testa, ma ancora non parla, e c'è quella ruga al centro della sua fronte che sembra implorarlo a non insistere e Jean non è mai riuscito ad ignorare quello sguardo.

“Non importa” decide in fretta, “qui sulla nave ci sono tutte le scorte mediche di cui abbiamo bisogno.”

Quando l'aiuta a sdraiarsi di nuovo, lo sguardo di Marco fatica a lasciarlo, Jean gli copre il petto con il lenzuolo e si china per posargli le labbra sulla fronte.

“Tu resta qui calmo e tranquillo” sussurra, “vado a farmi dare qualcosa.”

 

***

 

“L'unguento è solo lenitivo, mi dicono, ma se si è sviluppata un' infezione, queste fiale dovrebbero riuscire a tenerla a bada fino a Paradis.”

Aspira con una siringa il contenuto di una di esse e senza indugiare si siede sul letto di Marco sollevando il lenzuolo in prossimità del fianco.

“Sopporta solo per un secondo” gli dice disinfettando l'area prima di affondare l'ago.

Il gemito che sfugge dalle labbra di Marco gli dice che probabilmente non se lo aspettava.

“Non aveva senso attendere oltre” si giustifica Jean, consapevole di essersi sbrigato più per se stesso che per Marco: non è mai stato troppo disinvolto con le iniezioni. “Abbiamo fatto passare fin troppo tempo.”

“Va tutto bene” lo rassicura quello.

E diamine, Jean aveva bisogno di sentirglielo dire, di sapere che nemmeno quelle ferite lo hanno ucciso e che, in fondo, neanche la sete di vendetta l'ha cambiato.

“Adesso lasciami medicare queste bruciature” mormora.

Ma lo sguardo di Marco è fisso nel suo e sembra voler comunicare qualcosa di più profondo e difficile da tradurre in parole.

La mano adagiata sul lenzuolo all'altezza del petto non accenna a scostarsi, Jean la copre con la sua.

“Mi dispiace di essere un tale cretino, Marco. M'illudo di essere forte” ammette, “ma la verità è che ho paura di rimanere solo.”

Stringe le dita contro il suo palmo e le labbra di Marco si muovono appena: sospira piano.

“Non te ne andare più” aggiunge, e non vorrebbe sembrare così patetico e debole, ma davvero non esiste niente che lo terrorizzi di più di perderlo, ed ha già provato quella paura più volte.

“Jean...”

È un sussurro appena udibile, ma a Jean basta per sentire il sollievo irradiarsi dentro. C'è anche una traccia umida intorno al suo occhio e sotto la benda; gliela toglie delicatamente e asciuga le sue lacrime con il pollice.

“Ora posso stendere un po' di crema su quelle bruciature?” chiede.

Al suo cenno d'assenso guida la mano, ancora allacciata alla sua, sul materasso e abbassa il lenzuolo.

“Faccio piano” assicura afferrando il vasetto di vetro. “Dimmi se ti faccio male.”

Ma lo sguardo di Marco rimane immobile nel suo, la mano si sposta sul suo avambraccio e dietro la linea tirata delle sue labbra questa volta riesce a scorgere un accenno di sorriso.

A Jean basterebbe anche solo quello: l'ombra di un sorriso, lontano dalla guerra.

Sta ancora ricoprendo d'unguento le zone arrossate, quando un mugolio flebile lo distoglie dal torace di Marco.

Dal bozzolo di coperte sul letto accanto, tutto quello che Jean riesce a vedere è una chioma arruffata, un barlume di fronte pallida e una piccola mano chiusa a pugno.

“Ti sei svegliato?” chiede al bambino e quello abbassa la mano rivelando due occhietti assonnati e confusi.

“Hai sete?” ritenta, e questa volta il bambino fa forza sulle braccia e si siede a gambe incrociate sul materasso, annuendo appena.

La mano di Marco blocca la sua: “Pensa a lui” gli dice, “io finisco da solo.”

Ed è il tono, più che le parole, a sollevarlo da quella tensione ansiogena che lo spinge ad essere così protettivo nei suoi confronti; quella sicurezza decisa che Marco riesce a tirar fuori in ogni momento -anche e soprattutto nei peggiori- e che lui non possiederà mai.

Posa l'unguento sul letto, dove Marco può facilmente raggiungerlo e si sposta sull'altro lato della cabina.

Quando si siede sul materasso con un bicchiere colmo d'acqua tra le mani, il bambino si aggrappa al suo braccio e beve tutto d'un fiato.

“Ancora?” gli chiede quando la presa delle sue piccole mani si allenta, ma quello scuote la testa e

rimane immobile guardando avanti a sé.

“È c..caduto?” mormora dopo un istante.

Jean non si rende conto che è la sua voce fin quando abbassando la testa, scorge lo sguardo del bambino fisso su Marco.

“Oh” esclama ancora stupito, “s..sì, direi di sì. È caduto.”

Balbetta un po', non sa come dosare le parole. Lo fa Marco per lui.

“Sono caduto tante volte” gli dice con un sorriso bonario. “Ma non avere paura, ho imparato a rialzarmi.”

E forse quest'ultima parte, pensa Jean incrociando il suo sguardo, è rivolta a lui più che al bambino.

 

***

 

“Come ti chiami?”

La voce allegra di Marco nella quiete del primo pomeriggio lo riscalda più di quel sole che li ha attirati fuori dalla cabina, spingendoli a trovare un angolino riparato dal vento a poppa della nave.

Jean ha bisogno di entrambi, dopo il freddo che la guerra gli ha lasciato addosso.

Il bambino china il viso intimidito e lo avvicina di più al suo petto: anche quello lo riscalda.

“Non te lo ricordi?” ipotizza Marco tranquillo. “Non importa, tornerà.”

Ha un'espressione serena, che Jean non gli vedeva sul volto da mesi.

“Tra non molto saremo a Paradis” mormora rilassando le spalle contro la paratia.

Se guarda dritto davanti a sé può vedere la costa comparire in uno sfocato azzurrino sulla linea dell'orizzonte. Anche il bambino solleva la testa, staccandosi volontariamente da lui per la prima volta da quando hanno iniziato a navigare, tre giorni prima; gattona sul ponte tra le sue ginocchia e si alza in piedi scrutando il mare prima di voltarsi di nuovo verso di loro.

Continua ad avere qualche linea di febbre verso sera, ma è più vispo e reattivo di quando l'ha raccolto dal marciapiede di quel mercato.

“Vieni” gli dice, “non allontanarti.”

E quello torna sui suoi passi andandosi a rannicchiare esattamente al centro tra loro due: la risata che strappa a Marco quando si fa spazio come il cucciolo che è, lo distoglie da qualsiasi altra cosa lo circondi, ed è per questo che non si accorge della piccola mano che si è sollevata a sfiorare le lentiggini sul volto di Marco.

Lo realizza quando lo sente premere contro la sua spalla e alzarsi di nuovo in piedi, sussurrando un flebile “mamma”.

Lo sguardo di Marco si fa dolce mentre il bambino gli si arrampica in grembo: è la prima volta che trova il coraggio di farlo.

“Sono sicuro che anche tua madre le aveva, sì” gli dice. “Anche la mia le ha. Se vuoi potrai conoscerla una volta a terra.”

Il bambino annuisce con vigore, poi con rinnovato coraggio solleva di nuovo la mano, questa volta verso la benda che gli copre l'occhio destro.

Questo a Marco non piace, Jean può vedere tutta la sua figura irrigidirsi; lui stesso ha impiegato mesi se non anni a fargli capire che le sue cicatrici per lui non erano un problema.

“N..non...” s'interrompe e lascia che il bambino infili le dita sotto la benda, scostandola, ma Jean riesce a vedere il fremito dei suoi muscoli, mentre s'impone di non reagire.

Completamente voltato verso di loro, Jean è pronto a raccogliere i pezzi di chiunque tra i due finisca col crollare, ma le dita del bambino vagano incerte sui bordi ruvidi della cicatrice, mentre la sua espressione muta da stupito a triste, poi si sporge con il viso e posa le labbra sulla pelle raggrinzita.

“Passato?” chiede con vocetta flebile.

Marco spalanca l'occhio, deglutisce a fatica e posa la mano sui capelli del bambino.

“Sì” gli dice. “È passato.”

E c'è un luccichio umido nello sguardo che ha improvvisamente fissato sulla linea dell'orizzonte, Jean non riesce a trattenersi: si sposta più vicino a lui, gli passa un braccio sulle spalle e gli schiocca un bacio sulla tempia.

Ed è quello per cui è disposto a barattare tutto ciò in cui ha creduto fino ad allora: lacrime di sollievo al posto del dolore.

 

***

 

Il luccichio delle banchine sotto i raggi del sole che illuminano il porto di Paradis lo ha sempre commosso: di ritorno da ogni missione sotto copertura, è quello il momento in cui si sente di nuovo libero di tornare se stesso. Anche a Marco è mancato, riesce a capirlo dalla sua espressione rapita, mentre socchiude gli occhi respirando i profumi dell'entroterra.

“Avevo giurato che sarei tornato solamente dopo aver compiuto la mia vendetta” mormora tra sé.

Jean solleva gli occhi al cielo.

“Adesso scendiamo da questa nave e raggiungiamo il nostro alloggio. E tu” gli punta il dito contro, “ti farai passare questa vena omicida, o giuro che t'incatenerò al letto.”

Glielo dice perché sa che Marco si è già lasciato alle spalle quell'ossessione, perché nel loro rocambolesco sopravvivere sono inciampati nella promessa di un futuro felice e sono entrambi troppo grati e troppo increduli per lasciarsela sfuggire.

Il sorriso che Marco gli rivolge è attraversato da un'ombra fugace: “Dubito che riuscirei a fuggire di nuovo, anche volendo” ammette, strofinando il palmo sul proprio fianco destro.

“Con un po' di riposo tornerai come nuovo, vedrai” lo rassicura, mentre la nave attracca al pontile. “Hange ti rimetterà in sesto.”

La nave vibra rumorosamente e si ferma, due piccole mani si aggrappano con forza alla stoffa dei suoi calzoni, si china nel momento in cui il bambino vi affonda anche il viso.

“Qui non abbiamo bisogno di nasconderci” gli dice prendendolo semplicemente in braccio. “Siamo a casa.”

 

***

 

“Bene, bene” commenta Hange con un sorriso radioso sulla faccia. “Sei partito solo e disperato e torni con compagno e bambino. Questa sì che è stata una missione riuscita!”

Mettere piede sulla terra ferma è una bella sensazione; lo sono anche le braccia amiche che li accolgono.

“Non la definirei proprio così” la corregge Jean, ricambiando il breve abbraccio, “abbiamo avuto momenti... non facili.”

“Bè, adesso siete qui” commenta Hange, scrutandoli dalla testa ai piedi. “È questo che conta.”

La sua espressione bonaria non cambia quando sposta lo sguardo da lui a Marco, annuisce soltanto, con un lieve cenno d'intesa.

“Vieni” gli dice, “ti do un'occhiata in infermeria.”

Non perde il suo fare allegro e Jean gliene è grato. Ne hanno avute fin troppe di tragedie.

“E magari controlliamo anche questo piccino” aggiunge, arruffandogli i capelli. “Ci sono un sacco di cose buffe nel mio studio, sai?”

Il bambino scosta il suo dall'incavo del suo collo, dove si era rifugiato per lanciargli uno sguardo curioso e un lampo di stupore attraversa l'espressione di Hange; non domanda però.

“Poi mi spiegherete questa cosa della somiglianza” commenta semplicemente mentre gli fa strada verso il quartier generale.

“Non è qualcosa che posso spiegare, Hange” risponde. “So solo che era abbandonato a se stesso e che non potevo far finta di niente.”

Quella annuisce tranquilla e prosegue sulla via.

Sembra strano, adesso che gli occhi di tutti sono puntati su di loro, attraversare l'avamposto con un bambino stretto al collo.

“È stata una scelta imprevista, per la quale dubito ancora del mio buon senso.”

“Sciocchezze!” esclama Hange risoluta, volgendo la testa verso di loro. “Come ti chiami, tesoro?”

“Sembra non ricordarlo” interviene Marco.

“Non importa” scrolla le spalle Hange. “Nel frattempo ti chiamerò Ben. Ti piace?”

Jean vorrebbe obbiettare che forse dovrebbero deciderlo insieme, quel nome provvisorio, ma il bambino annuisce convinto e accenna un sorriso vergognoso. Marco ride al suo fianco, tanto che deve tenersi il petto dolorante con la mano, e di tutti i rientri i patria che Jean ha vissuto negli ultimi anni, quello gli sembra senza ombra di dubbio il più propizio.

 

 

 

Fine.

 

 

  
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