Serie TV > O.C.
Segui la storia  |       
Autore: MauraLCohen    29/03/2022    0 recensioni
Se Kirsten e Sandy non si fossero mai incontrati nei loro anni del college, ora non ci sarebbero Seth, Ryan e Sophie Rose; ma siamo proprio sicuri che se non si fossero incontrarti allora non lo avrebbero, poi, più fatto?
Ebbene, queste cose non ditele neanche per scherzo, perché ci sono io con le mie storie da Le mille e una notte pronta a raccontarvi ogni possibile modo in cui l’incontro tra Sandy e Kirsten sarebbe potuto avvenire.
Questo è un primo tentativo.
A Berkeley, vent’anni dopo. Entrambi un po’ persi, nostalgici, certi di essersi persi qualcosa in viaggio.
Basta una libreria, la pioggia e il libro giusto. Il destino farà resto.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kirsten Cohen, Sandy Cohen
Note: AU, Soulmate!AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Dobbiamo essere grati alle persone che ci rendono felici, sono gli affascinanti giardinieri che rendono la nostra anima un fiore.

- Marcel Proust



 

————————————


Capitolo 1

Messaggi nascosti 


Potevano essere le sei o le sette del mattino, non più tardi, quando Kirsten aprì gli occhi. Dalle tende penetrava la cerea luce delle prime ore del mattino, la quale, timidamente, si andava ad adagiare sulle forme spigolose del mobilio bianco; si rifletteva sui vetri degli armadi alla parete, sulle cornici dei quadri importanti, fino a distendersi completamente nel grande letto al centro della stanza. 

Era un letto povero, senza nessuno stile particolare, tanto da cozzare con la scelta curata, pulita, dei mobili dell’hotel. Eppure a Kirsten piaceva: le ricordava quello che aveva avuto per vent’anni nella casa a Palm Spirings, o - come la chiamava Caleb - la casa del fine settimana. 

Le piaceva quel posto perché non era niente di speciale: era scarno nell’arredamento, poco appariscente nell’architettura. Quando l’intera famiglia Nichol si trovava tra quelle mura non vedeva il riflesso della propria ricchezza, ma l’accoglienza di una casa serena. 

Era di Rose, quella casa. 

L’aveva ereditata sin da ragazza dai genitori. L’aveva arredata a suo gusto e ne aveva curato ogni ambiente con la sua solita minuzia: sceglieva i quadri - pochi, ma importanti, belli da guardare, densi di significato -, i fiori persino: ogni giorno qualcosa di fresco, colorato, che lei stessa sistemava nei vasi, realizzando splendide composizioni. 

Kirsten sapeva di aver ereditato la creatività da sua madre, così come aveva ereditato l’amore per i fiori e quello per l’arte. 

Ricordava con estrema facilità le volte in cui da bambina (così come da ragazza), la madre la madre l’aveva portata con sé per le gallerie d’arte, tra gli artisti della strada, per cercare il quadro giusto da appendere; ricordava come Rose ascoltasse con attenzione la sua opinione, nonostante lei ancora non avesse nessuna competenza in merito. 

L’arte è fatta di sensazioni, tesoro. Sono le nostre emozioni che permettono all’arte di vivere. Senza, sarebbe sono uno spreco di scarabocchi, colpi di scalpello e parole in fila. 

Ed ora che Kirsten poteva guardare da oltre quindici anni la laurea che le conferiva le competenze per potersi esprimere in merito ad un quadro o ad una scultura, comprendeva meglio le parole della madre. 

 

Si riggirò tra le lenzuola e il pesante piumone grigio, cercando una posizione migliore che le riconsigliasse il sonno, ma lei e Morfeo erano in disputa dall’arrivo a Berkeley. 

Kirsten amava quella città, amava la vita che aveva condotto per i quattro anni di college e amava la libertà che aveva scoperto lì; ma un’altra parte di lei covava dentro il rammarico di essere stata talmente tanto felice al college, alle feste, con gli amici, da essersi completamente estraniata dalla vita che si era lasciata alle spalle, tanto da non accorgersi nemmeno che sua madre stesse male. E quel senso di colpa non passava, non si acquietava con gli anni… Ogni volta che nei suoi pensieri inciampava in Berkeley, si rendeva conto che l’amore che aveva per la città della sua rinascita era commisurato all’odio che per la stessa nutriva. Ed ora quei sentimenti stavano facendo a pugni dentro di lei, mentre il suo corpo cercava l’agognato riposo. 

 

Stanca ormai di provarci, Kirsten si mise supina. I capelli sciolti si sparpagliarono per il cuscino e sul suo petto. Lei li lasciava liberi, quasi incurante o insensibile del fatto che, a volte, s’incatravano nei suoi movimenti e tirassero. 

Rimase a fissare il soffitto in silenzio. 

Era a Berkeley da quarantotto ore e ne avrebbe trascorse lì altrettante. Non sapeva nemmeno lei perché avesse scelto di partire con largo anticipo rispetto all’incontro con i fornitori. Aveva giustificato la cosa a Caleb dicendogli che era per precauzione: avrebbe avuto il tempo di vedere il cantiere, constatare lo stato dei lavori, l’efficienza della dita, così da avere più elementi per la contrattazione. Si era giustificata col padre con un mucchio di balle - era quello il termine giusto. Al cantiere non aveva ancora messo piede, i file per la riunione erano chiusi nel pc spento che stazionava in valigia come il più brutto dei maglioni… Non era per il lavoro che aveva anticipato la partenza, era per quella città, per quel conflitto di emozioni che sentiva dentro e che, fino a quel momento, era stata l’unica cosa che le ricordava di essere viva. 

 

Di colpo alla mente le tornò il ricordo della libreria e di quel singolare incontro con l’uomo che le aveva regalato Il Maestro e Margherita. Vedeva davanti a sé gli occhi scuri di quello sconosciuto, sentiva addosso la sensazione di smarrimento che aveva provato nell’incorciare il suo sguardo. Era stato un momento, ma tanto era bastato perché la turbasse - anche se ancora doveva capire se ciò che sentiva fosse positivo o meno. Per ora sapeva solo che lui l’aveva colpita: senza il minimo sforzo era riuscito a leggerla. Aveva scoperto la sua piccola bugia semplicemente guardandola, l’unica persona che sapeva farlo era Rose. Solo lei era in grado di guardare la figlia negli occhi e capire se stesse mentendo o meno. Non sbagliava mai. 

Kirsten allungò la mano sul comodino, dove la sera prima aveva lasciato il libro che l’uomo le aveva regalato. Ne aveva sfogliato distrattamente qualche pagina, stroppo stanca e scossa dalla giornata per poter trovare la concentrazione per leggerlo. Ora, invece, lo aprì con cura, girando solamente la copertina per guardarne il retro: 

 

“Alla mia Margherita, 

Che tu possa trovare in queste pagine 

L’amore che non ti ho saputo dare”

- D

La dedica era scritta con un inchiostro nero, sbavato su alcune lettere, forse a causa di una mano che l’emozione aveva reso tremolante. Kirsten studiò la grafia: i movimenti della penna sembravano incerti, ma curati. Non era difficile immaginare che chiunque avesse scritto quelle parole, le aveva prima provate davvero. E per un attimo lei riuscì persino ad empatizzare l’autore di quella dedica colpevole: pensava a Jimmy. Al modo in cui lo aveva trattato, al modo in cui gli aveva negato un figlio e quell’amore che aveva promesso di dargli. Avrebbe voluto chiedergli scusa infinite volte per il male che gli aveva fatto, per la vita a cui lo aveva costretto, ma quando provava a farlo, il coraggio veniva meno. In fondo, erano passati più di quindici anni da quando loro due stavano insieme: lui avrebbe dovuto lasciare andare lei e lei avrebbe dovuto lasciare andare i sensi di colpa; ma per qualche motivo nessuno dei due ci riusciva. 

Pensò, allora, all’uomo che aveva scritto quelle parole: che amore provava per la sua Margherita? Era un amore colpevole, insufficiente, come quello che lei aveva per Jimmy o era qualcosa di tanto forte e al tempo stesso impossibile? Era forse come l’amore di suo padre per Rose, così intenso e profondo da spaventare persino lui, tanto da non rivelarlo mai? In ogni caso, Kirsten arrivava alla stessa conclusione: era un amore infelice. E lei ne era fuggita per tutta la sua vita. Non voleva Jimmy, non voleva un matrimonio come quello dei suoi genitori e non voleva sentirsi in trappola. Si era convinta, ormai, a quasi quarant’anni che l’amore non faceva per lei e che non ne aveva bisogno. Non aveva mai creduto a chi le diceva che per essere complete serviva innamorarsi; vedeva a Newport quanto poco contasse l’amore per la gente come lei: non era altro che un contratto, uno scambio tra prestigio, potere, ricchezze e la promessa di non essere soli per il resto della vita. Lei, però, le vedeva le sue amiche, le donne e gli uomini che le erano cresciuti accanto: avrebbe potuto contare quelli felici sulle dita di una sola mano e lei non voleva ritrovarsi a vivere come le coppie escluse dalla conta.  

Lesse le prime righe: 

 

“Nell'ora di un tramonto primaverile insolitamente caldo apparvero presso gli stagni Patriaršie due persone. Il primo (…)”

 

Ma la sua mente venne richiamata all’immagine dell’uomo che l’aveva attesa fuori dalla libreria per darle quel libro. La sua gentilezza l’aveva colpita: vivere a Newport per gran parte della propria vita comporta un significativo stato di alienazione all’indifferenza, alla cattiveria gratuita e alla superficialità, tanto da dimenticarsi che fuori da quelle luci sfarzose nel mondo c’era ancora qualcosa di buono. Come quell’uomo, che se n’era andato senza lasciarle niente di chi fosse, mentre lui, ora, ovunque fosse, conservava di lei il suo libro preferito, quante copie possedesse, persino quella capacità di scovare le sue menzogne e di sorridere della sua goffaggine nei momenti di imbarazzo. In città e a Newport quell’estraneo avrebbe potuto vantarsi di conoscerla meglio di chiunque altro lei avesse mai frequentato nella sua vita, il padre compreso, anche se nessuno dei due conosceva il nome dell’altro. 

Kirsten avrebbe voluto il tempo di riflettere su quanto fosse imprevedibile è incomprensibile la vita il pù delle volte, ma non ne ebbe il tempo: qualcuno stava bussando alla porta e lei non aspettava visite. 

Si alzò, raccattando dalla poltrona vicina il suo accappatoio bianco. Vi si avvolse dentro e lo legò in vita mentre andava spedita verso la porta.

Si ritrovò davanti un ragazzetto bruno che sarebbe potuto essere suo figlio per quanto era giovane. Portava la divisa dell’hotel, ma lei non era sicura che avesse l’età per lavorare; il giovane le sorrideva cordialmente, mentre teneva in mano un mazzo maniacalmente curato di fresie. 

 

“Per lei, signora” disse il giovane, porgendole il mazzo colorato, poi si affrettò a precisare che lo avevano consegnato alla reception pochi minuti prima. “Trova il bigliettino tra gli steli.” 

Kirsten guardò il mazzo: sapeva perfettamente chi era il mittente, non le serviva il bigliettino. Era un regalo di Jimmy. 

Da quando erano adolescenti, sotto Natale le faceva arrivare un mazzo di fresie gialle. Gli piaceva l’idea di usare quei fiori per dirle che non avrebbe mai smesso di amarla. 

A sedici anni, Kirsten lo trovava romantico; a trentasei quella tradizione aggravava il suo senso di colpa.

Mentre dava la mancia al ragazzo, si chiedeva se Julie sapesse di quella piccola tradizione che Jimmy continuava a preservare. Ogni anno se lo chiedeva e ogni anno fingeva di non sapere la risposta, nonostante gli sguardi furenti di Julie non lasciassero spazio agli equivoci. 

Era certa che quella donna la odiasse e, del resto, lei non riusciva a darle torto. Certo, non serviva essere dei grandi osservatori per capire che ciò che Julie amava di più in Jimmy era la sua ricchezza, ma per Kirsten, il loro, era uno scambio alla pari: Julie usava Jimmy per il denaro; Jimmy usava Julie per dimenticare lei. 

Nessuno dei due era cattivo o ingiusto con l’altro, erano semplicemente infelici. 

Guardò i fiori. Avrebbe dovuto chiamarlo per ringraziarlo del pensiero, come ogni anno, ma proprio come ogni anno avrebbe rimandato quella telefonata fino a sera, finché il vino non le avrebbe reso più facile convivere con l’amore di Jimmy.

 

***

 

Arrivò l’ora di pranzo senza che Kirsten avesse combinato granché. Non aveva chiamato Jimmy, non aveva guardato le mail, non aveva aggiornato Caleb sulle questioni che riguardavano il centro commerciale in costruzione. Al contrario, aveva trascorso la mattina a letto, divisa tra i fiori sul tavolo e il libro accanto a lei sul letto. Pensava a Jimmy e all’estraneo che aveva incontrato in libreria. Era certa di non aver mai detto a Jimmy quale fosse il suo libro preferito; non si era mai aperta sinceramente con lui, nonostante lo avesse amato molto fino alla fine e una parte di lei, seppure in modo fraterno, lo avrebbe sempre fatto. 

Tra lei e Jimmy, semplicemente, non funzionava. Lui credeva di vedere in lei qualcosa che lei, però, era certa di non essere. Voleva essere madre, voleva essere una moglie, ma prima di tutto voleva essere se stessa e a diciannove anni non lo sapeva ancora. Jimmy parlava di matrimonio, mentre lei voleva ancora trovarsi, capire cosa poteva essere fuori da Newport. E lui non capiva. 

Parlava, progettava, ma non la ascoltava. 

Se glielo avesse chiesto, gli avrebbe risposto che lo avrebbe sposato, ma non subito, non a vent’anni. E di sicuro non essendo già madre. 

Capitava, in alcune sere in cui si sentiva più sola del solito, di rimpiangere la scelta di lasciare il piano preconfezionato che Caleb e Jimmy avevano per lei in favore di un college lontano da casa; pensava che avere qualcuno che l’aspettasse a casa dopo il lavoro avrebbe alleviato quella sensazione torbida che sentiva dentro, ma era una convinzione vacua, che durava il momento di un po’ di malinconia, lasciando, poi, il posto alla consapevolezza che se vent’anni prima avesse acconsentito a sposare Jimmy, avrebbe costretto entrambi ad una vita infelice in cui Jimmy avrebbe dovuto amare per tutti e due mentre lei non avrebbe potuto far altro che sentirsi sola e in colpa. 

Quando l’amore è squilibrato, quando in un matrimonio uno ama e l’altro viene amato, inevitabilmente entrambi finiscono con l’annietarsi, sfinirsi, fino ad odiarsi e Kirsten non voleva questo per Jimmy né per se stessa. 

 

Allontanò lo sguardo dai fiori. Stava lasciando che quella giornata malinconica riaprisse vecchie ferite, che lei aveva già medicato più e più volte, perciò era arrivato il momento di uscire da quella stanza e lasciare là dentro il dolore per Rose e i dubbi su Jimmy. Meritava qualche ora di pace o, almeno, un pranzo decente. 

Decise di uscire, anche se non sapeva bene dove sarebbe andata: conosceva la Berkeley degli anni ottanta, ma non aveva idea di come questa fosse cambiata con l’avvento del nuovo millennio. Così si mise uno dei suoi completi da lavoro, una giacca elegante con dei pantaloni a palazzo, sobri nel taglio e nel colore. 

Si sarebbe spinta fino al porto dove sperava di trovare ancora un vecchio locale che ai tempi del college era la meta di tutti gli studenti, perché si spendeva poco e si mangiava bene, anche se in fatto di arredamento e musica lasciava al quanto a desiderare. 

Non aspettarti granché, non avrà niente in comune con i locali a cui siete abituati a Newport. A Kirsten parve di risentire le parole della compagna di stanza, Helen, quando la prima sera decise di metterla in guardia prima di portarla a cena lì. Ricordava esattamente cosa pensò nel sentire Helen parlare così e quello era lo stesso motivo per cui, quella mattina, sceglieva di riandare in quella bettola: non era come Newport. 

 

Il taxi la lasciò ai margini della strada, vicino ad una banchina chiusa da un imponente cancello arrugginito, dietro al quale un gruppo di pescatori stava sistemando le imbarcazioni con corde e reti in vista di quello che a Kirsten parve dover essere un lungo viaggio. 

L’aria quella mattina era frizzante: il sole si stagliava più in alto che poteva, ma non riusciva a scaldare come nei mesi più caldi e il vento che soffiava incessante non lo aiutava. 

Kirsten si strinse nel suo cappotto lungo e iniziò a camminare seguendo l’andamento inverso dei pedoni sul marciapiede. Aveva un vago ricordo di dove fosse quel luogo, ma si sforzò ugualmente di orientarsi. Scrutò con attenzione una schiera di edifici non molto alti, che dovevano essere d’appannaggio dei pontili: centri informazioni, magazzini, polizia portuale… SIcuramente Jimmy e suo padre lo avrebbero saputo: loro erano esperti navigatori, a differenza sua, che col mare aveva sempre avuto un rapporto controverso. 

Superò quegli edifici e s’infilò in una stradina laterale che si allargava su una grande piazza a ridosso del mare, delimitata solo da una ringhiera sgangherata e troppo bassa per fungere da parapetto. Lì, sul lato destro, ancora contraddistinto dalle pareti azzurre e bianche, c’era il ristorante in cui Kirsten e i suoi amici avevano trascorso le serate migliori. 

 

Entrò facendosi accompagnare dall’ inconfondibile tintinnio dei cristalli mossi dalla porta: nessuno arrivò ad accoglierla e lei cercò un tavolo appartato per conto suo. 

L’interno era rimasto invariato: stessi tavoli in legno raccattati chissà dove; stessi quadri impolverati e centri tavola fatti di gerbelli gialli e steli spogli, probabilmente gli stessi fiori finti di vent’anni prima. 

La faceva a sorridere il fatto che i gerbelli gialli, sinonimo di lusso e benessere, venissero usati e associati ad un locale che a stento si teneva in piedi con le proprie fondamenta; ma ne apprezzava l’ironia.

 

Si ritrovò a sorridere davanti ad un tavolo vuoto, ricordando di come anche da ragazza la cosa riuscisse a divertirla: Helen e il resto del gruppo finivano, inevitabilmente, per prenderla in giro e lei stava al gioco. Era vero: forse un po’ spocchiosa lo era sempre stata. Un po’ Newpsie. 

Nel dirselo, non si accorse che qualcuno due tavoli dietro di lei era rimasto molto incuriosito dalla sua presenza. L’uomo la fissava con insistenza, scrutandone la figura elegante e il profilo distratto. Solamente quando lo stesso si convinse ad attirare la sua attenzione con la voce, Kirsten si accorse di lui. 

 

“Che fa, mi segue?” L’uomo si alzò in piedi e fece cenno a Kirsten di accomodarsi con lui. 

 

Lei gli sorrise. Certo, era una strana coincidenza ritrovarsi per ben due volte nello stesso posto. “Potrei farle la stessa domanda.” 

 

“Non è mia abitudine inseguire le donne, anche quando sono così belle.” L’uomo le rivolse uno sguardo scherzoso, mentre si riaccomodava. “Sandy Cohen. È un vero piacere.” 

 

Kirsten gli strinse la mano. “Kirsten.” 

 

“Kirsten…?” 

 

“Nichol. Kirsten Nichol.” Gli sorrise ancora, stavolta abbassando lo sguardo sulla tovaglia di carta. C’era qualcosa in quell’uomo che aveva il potere di metterla a disagio e al tempo stesso di farla sentire perfettamente a proprio agio in sua compagnia. 

Lo sconosciuto aveva uno sguardo intenso, per lei magnetico. Aveva l’aria di un uomo che sapeva ascoltare e che non aveva grandi difficoltà con le donne. 

Era chiaramente attraente, a giudicare dal fisico e della spalle larghe doveva essere uno sportivo. 

A differenza di lei, lui vestiva in modo più rilassato: un maglione blu e un paio di pantaloni neri. 

 

“Nichol… Perché questo cognome non mi è nuovo?” Sandy si picchiettò l’indice sul mento. 

 

“Forse conoscerà m”

 

“Diamoci del tu” la interruppe. 

 

Kirsten annuì. “Dicevo, forse conoscerai mio padre. Caleb Nichol.” 

 

Sandy ebbe un sussulto, come se avesse appena sentito un nome indicibile e a Kirsten scappò una risata. Notava l’imbarazzo negli occhi di lui, lo stesso che incontrava quando parlava con chiunque al di fuori di Newport: il nome di suo padre incuteva sempre fascino e terrore, ammirazione e disprezzo; non capitava mai che qualcuno ne rimanesse indifferente: o l’una o l’altra cosa. Era inevitabile. 

Da ragazza il suo cognome le creava imbarazzo, spesso la obbligava a doversi giustificare ancora prima di presentarsi, ma ora che era una donna e che contribuiva a rendere quel nome ancor più imponente, riusciva solamente a sorridere. 

Non era d’accordo con molte delle pratiche del padre, non apprezzava il modo losco in cui gli affari venivano portati a termine, eppure la sua posizione da vicepresidente le aveva aperto gli occhi su aspetti del mondo degli affari che altrimenti non avrebbe mai potuto comprendere. Uno su tutti svettava: nessun uomo ricco è onesto fino in fondo. Anche i migliori hanno scheletri negli armadi di cui vorrebbero dimenticarsi per sempre, il denaro non fa sconti a nessuno e in una comunità come Newport, del valore, del prestigio e del potere, il denaro era l’unità di misura. 

 

Sandy, però, sorvolò sul padre di Kirsten. Fu sollevato dal fatto che lei non se la prese per la sua reazione spontanea, ma preferì non giocare troppo con la fortuna. Così, mentre si passava una mano tra i capelli per tirare indietro qualche ciocca che era sfuggita alla piega, scavò a fondo nella memoria: quel cognome non era legato unicamente al Newport Group, alle costruzioni dal valore esorbitante e dalla cattiva pubblciità delle idee politica di Caleb Nichol; Sandy lo ricordava bene anche per un altro motivo… 

 

“Tu eri la compagna di stanza di Helen. Studiavi qui a Berkeley” chiosò, come se Kirsten non lo sapesse. Lei si limitò annuire, interdetta dall’accuratezza dell’informazione. 

 

“Io ero il compagno di stanza di Paul, siamo grandi amici da… beh, tutta la vita. Mi ricordo di te, anche se non credo di averti mai vista ad una delle nostre serate.” 

 

“Non uscivo granché. C’erano molti esami da preparare.” 

 

“Helen non era dello stesso avviso.” 

 

Kirsten sorrise - “Helen non si è laureata in corso.” - e con le sue parole si trascinò dietro anche Sandy, che si spinse leggermente indietro con la schiena e alzò le mani. 

 

“Touché, Kirsten Nichol. Immagino che tu di me non ti ricordi.” 

 

Ma si sbagliava. Anche Kirsten aveva ben chiaro chi fosse Sandy Cohen all’epoca. Come avrebbe potuto non averla? Le sue amiche non facevano altro che parlare di lui. Giravano tante voci sul suo conto: chi lo disprezzava per i suoi modi poco seri con le ragazze; chi non sapeva resistere al suo fascino; chi parlava di lui unicamente per la rottura con quella che sarebbe dovuta essere la sua fidanzata e mille altri motivi ne Kirsten, ormai, aveva rimosso dalla sua memoria. 

 

“Lavoravi in questo posto. Per questo era la meta preferita di tutte le matricole.” 

 

“Erano altri tempi, ma questo posto non è cambiato.” Sandy si guardò intorno. “Il proprietario mi mise a servire ai tavoli anche se sapeva che ero un disastro. Diceva che avevo il fascino del venditore e che avrei avuto successo ai tavoli, ma io penso di essergli stato semplicemente simpatico. Pagavano da schifo, ma… - Sandy puntò con l’indice quello che un tempo doveva essere un palchetto e che ora era occupato solamente da piante finte impolverate - potevo esibirmi là sopra ogni sera verso la chiusura, per quei quattro gatti che erano così coraggiosi da rimanere.” 

 

Kirsten lo ascotò e ne seguì i movimenti con gli occhi e con il resto del corpo. Sandy avrebbe potuto parlare per delle ore: era impossibile arrestarlo; ma questo suo lato non la dispiaceva affatto, almeno la toglieva dall’imbarazzo di pensare a cosa dire dopo. Poi, le piaceva ascoltarlo: c’era trasporto nelle sue parole, nei suoi ricordi e questo permetteva a Kirsten di tornare indietro con lui e rivivere i loro anni al college. Allora non capiva cosa le sue colleghe trovassero in un ragazzo come Sandy Cohen, ma ora che conosceva l’uomo che era diventato, comprendeva cosa le folgorasse così tanto. 

 

“Che fai nella vita?” Gli chiese, allora, interessata ad approfondire quella conversazione. 

 

“Sono un difensore d’ufficio da quindici anni. Lavoro principalmente qui e nei dintorni, dipende da dove mi chiamano.” 

 

“Ed è un lavoro che ti gratifica?”

 

Sandy catturò lo sguardo di Kirsten. Sorrise.  “Molto. Non mi farò guadagnare grandi cifre, ma quello che perdo in denaro, lo guadagno in soddisfazione. Il mondo è pieno di persone buone che hanno commesso errori ed io voglio aiutare queste persone. Meritano una seconda occasione, io cervo di fargliela avere.” 

 

“È molto nobile.” 

 

“O molto stupido. Se al college avessi deciso di seguire i miei colleghi, ora lavorerei in un qualche studio dal nome pomposo e guadagnerei cifre da capogiro.” 

 

“Ma?” Kirsten lo chiese come se fosse ovvio che quel ma ci fosse. 

 

“Ma non potrei alzarmi la mattina e guardami allo specchio. Io ero proprio come la gente che cerco di aiutare. Una brava persona con pessime carte. Io ho avuto la fortuna di avere il mio riscatto, ora cerco di restituire al mondo quello che il mondo mi ha dato.” 

 

In quel momento sopraggiunse un cameriere sulla trentina, alto e con uno stano tatuaggio colorato sul collo. Sandy e Kirsten ordinarono senza il bisogno di consultare il menù, certo che non fosse cambiato da quando entrambi frequentavano quel posto. 

 

Per tutto il tempo dell’ordinazione, in ogni più insignificante momento di silenzio, sia lui che lei non avevano perso occasione per scrutarti di nascosto, incuriositi da quella figura che era stata un’ombra nella vita dell’altro. Era incredibile quanto vicini fossero andati dal conoscersi e al tempo stesso quanto sembrasse normale che il loro incontro non fosse mai avvenuto. Sembrava uno strano gioco del destino, almeno per Kirsten, che in queste cose credeva più di quanto volesse ammettere a se stessa. 

 

« Quindi vivi a Newport? » Sandy aveva appena porto i menù al cameriere che si allontanava quando si rivolse nuovamente a Kirsten. 

Lei annuì, ma subito allontanò lo sguardo del suo interlocutore. 

 

« Non ti piace vivere lì? » insistette lui. Aveva compreso che se voleva carpire una qualsiasi informazione da Kirsten doveva prima abbattere il muro di diffidenza con cui filtrava ogni domanda. Lui non era così: si lasciava andare alle conversazioni, spesso parlava troppo, fino ad assorbire la persona che lo ascoltava; se ne rendeva conto sempre troppo tardi, il più delle volte quando ormai nessuno lo ascoltava più. Erano pochi gli argomenti che lo rendevano arido di parole: suo padre, la sua infanzia, Rebecca… Quelli erano argomenti che non condivideva con nessuno, nemmeno con se stesso. E sapeva bene che quella riservatezza era frutto di un grande dolore, con cui ancora non aveva imparato a fare i conti, nemmeno dopo quarant’anni. Dunque, guardava Kirsten e non poteva far altro che chiedersi cosa, nella sua vita, l’avesse portata ad essere così taciturna su qualsiasi argomento. 

 

“Newport è la città di mia madre, è la città in cui sono nata e cresciuta. Ci sono molto legata. Semplicemente, immaginavo di essere altrove a questo punto della mia vita.” 

 

“Ti capisco.” Sandy poggiò istintivamente la mano su quella di Kirsten, poggiata sul tavolo. Fu un contatto che durò un solo momento, il tempo di farle sentire la propria vicinanza, che permise ad entrambi di scorgere l’intimità dietro gli occhi dell’altro, senza filtri ad offuscarne la sincerità. 

 

Kirsten ruppe per prima quel contatto visivo, provando a rigirare la domanda di Sandy. “Non ti piace vivere a Berkeley?” 

 

“Mi piaceva, un tempo, ma Berkeley mi ha tolto più di quanto mi abbia dato, perciò ora mi godo quello che può offrirmi, senza aspettarmi troppo.” 

 

“E cosa ha da offrire questa città?”

 

Sandy si portò indietro col busto, guardò fuori dalla finestra e invitò anche lei a fare lo stesso. “Il mare” disse. “Io sono nato e cresciuto nel Bronx. Se non fossi venuto in California a diciotto anni non avrei mai scoperto il surf. Questa è una delle cose che Berkeley può offrire e che mi spingono a restare.” 

 

Kirsten rimase sorpresa dalla risposta. Forse si aspettava che Sandy parlasse ancora del lavoro, di una moglie… Di certo non immaginava che il motivo per cui un uomo come lui, che ad una prima, rapida conoscenza sembrava così pragmatico e razionale, potesse scegliere di restare in una città come Berkeley fosse proprio il mare o il surf. 

Faticava ad immaginarlo su una tavola, in mezzo alle onde, lui che aveva l’aria di essere un uomo così serio e pragmatico. 

Le venne istintivo sorridergli. 

Non gli avrebbe detto che l’aria da surfista californiano non gli si addiceva granché, ma era curiosa di sapere di più di lui e di quelle sfaccettature della sua personalità che saltavano fuori inattese.

Se in libreria Kirsten era rimasta colpita dai suoi modi gentili, dall’abilità con cui l’aveva compresa, ora si ritrovava affascinata dal modo in cui quell’uomo sapeva renderla partecipe della propria vita. 

Parlava con passione del suo lavoro, del suo hobby e di tutto ciò che sembrava stargli realmente a cuore. Di rado a Kirsten era capitato di imbattersi in un sentimento così intenso: a Newport l’unica passione che si era diffusa era quella per il denaro.

Nessun uomo onesto e anche ricco, Kirsten. Gli affari richiedono un certo margine di compromesso tra la propria morale e la propria ambizione. 

Suo padre era solito ripeterglielo sempre. Per lui ogni ideale aveva un prezzo, proprio come le persone, il tempo e i sentimenti. Per Caleb Nichol ogni cosa poteva essere comprata, dal rispetto all’affetto, senza nessuna eccezione. Lui non parlava con la passione negli occhi; lui non aveva mai provato quel tipo di emozione. Tutto si riduceva ad una compravendita che iniziava quando quella precedente si concludeva. Nulla di più. 

Le sarebbe piaciuto mostrare a suo padre lo sguardo di Sandy, per fargli capire con esattezza perché lei vent’anni prima aveva scelto di lasciare Newport per Berkeley: cercava quello che Sandy aveva trovato. L’entusiasmo delle cose che lo rendevano felice. Così anche lui avrebbe capito e, forse, sarebbe riuscito a perdonarla per aver tradito la vita perfetta che le aveva costruito attorno. 

 

***

 

Quella sera Kirsten si era lasciata andare sulla poltrona davanti al camino. La luce della fiamma si adagiava sulle superfici lisce, bagnandole di una calda maschera gialla e arancione che danzava liberamente, proiettando ombre sui muri e sul pavimento mentre lei, rannicchiata in se stessa, riprendeva la lettura da dove l’aveva interrotta quella mattina. 

Ad ogni parola che leggeva, la mente tornava al pranzo con Sandy Cohen e al mondo in cui le fosse sembrato di conoscerlo da tutta la vita. 

Si sentiva ridicola. 

Aveva solamente trascorso un pomeriggio piacevole in compagnia di un uomo gradevole; era trascorso così tanto tempo dall’ultima volta da avere il potere di turbarla. 

Lo sapeva. Era semplicemente quello. 

Eppure la sua mente continuava a tornare a lui. Alla passione nei suoi occhi, alla spensieratezza con cui rideva e alle venature di malinconia che le aveva permesso di intravvedere nelle innocenti confessioni che le aveva fatto. 

Jimmy non era mai riuscito a scombussolarla tanto, nemmeno all’inizio della loro storia, quando tutto era una scoperta, e lei non aveva mai avvertito con lui la connessione che Sandy aveva creato tra loro nell’arco di una sola ora. 

 

Quell’idea le fece scuotere il capo vigorosamente. Che stava pensando? 

Sandy Cohen era un estraneo. Un uomo che, una volta tornata a Newport, non avrebbe più incontrato. 

Se ne sarebbe scordata presto, come aveva sempre fatto con chiunque avesse incrociato nei suoi viaggi. O almeno lo sperava. 

Tornò a concentrarsi sul libro. 

Le pagine ingiallite erano ruvide al tatto ed emanavano un odore acre di chiuso e muffa. Lei annotava ai margini piccole considerazioni, evidenziava con una riga di grafite le frasi che la colpivano, come se quella fosse la prima volta che lo leggeva.

Accanto a qualcuna di limitava a poche parole, su alte invece si dilungava per pagine e pagine. 

Così le ore trascorsero piacevoli, mentre Kirsten diventava via via più stanca e la legna nel camino si apprestava a morire, diventando brace. 

Lei seguiva la fiamma spegnersi con lo sguardo che si nascondeva lentamente tra le palpebre prima chiuse, poi aperte e poi ancora chiuse. 

Seguendo quel ritmo estenuante del fuoco, la stanchezza di Kirsten stava per avere la meglio, quando, però, il suono di un paio di nocche che bussavano contro la porta, la convinse ad andare ad aprirla. 

 

Sulla porta, eccolo di nuovo, il ragazzetto dei fiori. Stavolta reggeva in mano un mazzo di gerbere come quelle che erano intrappolate nel bouquet di plastica sul tavolo del ristorante. 

Kirsten annusò il profumo fresco dei petali rosati. Non aveva dubbi su chi li avesse mandati, ma sperava comunque che Sandy le avesse lasciato un bigliettino. Guardò tra gli steli, mentre il ragazzo sulla porta attendeva pazientemente di essere congedato. Kirsten se ne ricordò solo dopo qualche minuto. 

 

“Ecco a te” si affrettò a dire, porgendo al ragazzo una mancia di qualche dollaro. “Scusami.” 

Chiuse la porta dietro di lei e tornò ai suoi fiori. Lo vide tra i gambi più in profondità: una bustina color crema, incastrata alla perfezione. La aprì ed estrasse il bigliettino. 

 

Mi sembrava la scelta migliore per ringraziarti del pranzo. Berkeley aveva ancora qualche sorpresa in serbo per me.

Sandy. 

Sotto la firma, al margine destro del piccolo rettangolo, c’era un numero di telefono, che Kirsten non esitò a comporre. 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > O.C. / Vai alla pagina dell'autore: MauraLCohen