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Autore: keska    06/09/2009    39 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Non riuscivo più a tenere gli occhi aperti

I vampiri non dormivano e quella notte sembrò più giorno che mai in casa Cullen.

Volevo essere una di loro, stare con loro, parlare e capire come l’impossibile fosse diventato possibile dentro di me. Ma avevo una stanchezza ben più profonda di quella mai provata nel resto della mia vita. Mi si chiusero le palpebre e dolcemente mi lasciai trasportare dalla forza di gravità. Nella mia mente avevo un vortice confuso di pensieri che girava veloce, veloce, veloce, impedendomi un vero sonno ristoratore.

«Dalla a me, le metto qualcosa di asciutto» disse una voce. Forse era Rosalie. Sentivo lontane delle mani su di me, ma non capivo se fossero un sogno o la realtà. C’era un calore confortevole. Aprii leggermente gli occhi quando sentii il rumore di un phon. Ero nel bagno adiacente alla camera di Edward. Alice mi asciugava i capelli e Rosalie finiva di sistemarmi una vestaglia asciutta.

Gemetti, stringendomi la pancia. Volevo dirgli che mi faceva di nuovo male, ma non ci fu bisogno di parlare. Quando riaprii debolmente le palpebre ero a letto, e la flebo era di nuovo al suo posto. Stavo un po’ meglio.

Non so quante ore dormii.

«Ecco, tieni. Le ho preparato questi».

«Alice, il denim non va ancora bene per lei».

Un sospiro trattenuto. «Sono i suoi preferiti».

«Sì, ma ciò non toglie che… Bella» mi chiamò Rosalie con un sorriso appena aprii gli occhi.

Mi portai una mano alla testa. Mi girava e pulsava dolorosamente. La cannula della flebo non c’era più, al suo posto solo un cerotto. Rapidamente, mi coprii la pancia con entrambe le mani. Non faceva più male pensai con… sollievo.

Sollevai lo sguardo sulle mie sorelle vampire, e vidi le loro espressioni serene, i sorrisi sui loro volti. «No, non l’hai solo sognato» mi rassicurò Alice.

Sibilai, sconvolta. «Com’è stato possibile?».

Rosalie rise, una magnifica risata calda e femminile «Non lo sappiamo davvero, è…assurdo, e Carlisle è il più sconvolto di tutti noi, anche se è fermamente convinto che tu abbia ragione».

«Convinto?» domandai agitata, passando con lo sguardo fra di loro. Volevo che ne fosse certo. «Alice, tu non vedi nulla?».

La vampira contrasse la sua espressione, pronta a parlare, ma fu subito interrotta dalla sorella.

«Non ancora. È troppo presto per averne la certezza, ma sono sicura che presto tutto si farà più chiaro» intervenne Rosalie con un sorriso rassicurante.

Mi sollevai per mettermi seduta, ma la testa mi girava tantissimo, tanto che ricaddi fra i cuscini.

«Piano, sei stanchissima» mi bloccò, «hai dormito solo qualche ora. Non vuoi riposare ancora?».

«No» farfugliai, prendendo un lungo respiro per calmarmi. «Ho bisogno di sapere. Dov’è Edward?».

Non appena pronunciai il suo nome mio marito fece il suo ingresso nella stanza. Nello stesso istante Rosalie ed Alice scomparvero come lui, in un batter d’occhio, e mio marito si materializzò davanti a me e si chinò ad accarezzarmi il viso, facendomi sussultare. Si bloccò. «Scusa. Troppo in fretta».

Scossi il capo e posai una mano sulla sua. Mi sembrava molto più tranquillo, pacato, come non lo era stato da tempo, eppure elettrico e frenetico. «Io» mormorai, non riuscendo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi dorati «come facciamo ad esserne certi?».

Senza dire una parola avvicinò una mano alla mia pancia, in basso, e la posò delicatamente. Fremetti al suo tocco, che doveva essere freddo ma che in quel punto mi sembrava che fosse alla mia stessa temperatura. Quella era già una risposta, ma volevamo entrambi di più, glielo leggevo negli occhi. «Sai cosa dovremmo fare» mi rispose serio.

Abbassai lo sguardo sul copriletto, tentando di farmi coraggio. «Dovrò venire in ospedale».

Strinse le labbra, sposando il viso per ricercare il mio sguardo. «Non è solo questo, Bella. Per avere la certezza della gravidanza basterebbe un’analisi delle urine o del tuo sangue, ma Carlisle ne è già piuttosto sicuro» disse con certezza, facendomi sussultare.

Annuii, ancora sconcertata da quell’idea. Una gravidanza.

«Ma per avere la certezza che…» si bloccò, spostando rapidamente lo sguardo in cerca delle migliori parole «se vogliamo fugare ogni ragionevole dubbio sul fatto che sia mio ci sarà bisogno dell’altro».

Presi un respiro, spaventata dalla piega che stava prendendo la conversazione. «Non ne ho bisogno. Io sono certa che sia tuo» balbettai.

Sospirò, provando a sembrare ragionevole. «Lo so, capisco cosa intendi. Ma capirai che…» spalancò gli occhi, sconvolto dalle sue stesse parole «non è mai successo che un vampiro avesse un figlio».

Strinsi la mano sul suo braccio. «Magari non è mai successo che un vampiro facesse l’amore con un umana».

Mi sorrise, carezzandomi la guancia con il dorso della mano. «Probabile. Ma vuoi davvero credere a questa incredibile storia solo sulla fiducia?». Stavo per rispondere di sì, preoccupata dagli esami a cui mi sarei dovuta sottoporre, quando aggiunse, più delicatamente, quasi a voler evitare di turbarmi «non è solo questo. Carlisle vuole datare la gravidanza e capire quanto è grave la minaccia di aborto».

Sospirai, arrendendomi mal volentieri alla logica dei suoi pensieri. «Capisco».

«Davvero?» domandò ansioso, poi aggiunse molto cautamente «Per farlo ha bisogno almeno di un’ecografia e una vista, cose che…» esitò, guardandomi di sottecchi e studiando la mia reazione «lo so, potresti trovare fin troppo invasive nel tuo stato emotivo attuale».

Strinsi le labbra, preoccupata. Fin troppo invasive. Tremai e mi portai una mano alla pancia. «Carlisle ieri sera ha detto che… i farmaci che ho assunto potrebbero aver fatto male al bambino» deglutii preoccupata.

Edward annuì, guardandomi attento negli occhi. «È così, ma non lo sapremo finché non faremo gli esami necessari».

Sospirai, perdendomi con la mente nell’immaginazione del nostro bambino. Nostro figlio. Non potevo credere fosse vero. «È davvero così importante, poi? Penso che lo amerei a prescindere, anche se vorrei con tutto il cuore che stesse bene».

Edward mi sorrise, e anche se era teso per un attimo si permise di far uscire tutta l’emozione che provava sul suo volto. «Penso che lo amiamo già».

Tremante risposi al suo sorriso, permettendomi di far uscire dai miei occhi provati delle lacrime di gioia. «Diventeremo genitori, davvero?».

«Lo spero. Ma» continuò, sapendo di dover insistere dove io continuavo ad essere evasiva «abbiamo davvero bisogno di sapere tutto il possibile, non solo per il bambino. Se davvero questo miracolo si stesse realizzando, sarebbe senza dubbio una gravidanza straordinaria. Abbiamo bisogno non solo di capire come sta questo bambino, ma anche come stai tu, come sta reagendo il tuo corpo a questi cambiamenti» mi prese entrambe le mani e le strinse con dolcezza fra le sue «hai dei sintomi molto importanti, sei molto stanca e provata, e come se non bastasse la gravidanza è iniziata in un momento estremamente delicato della tua vita».

Sospirai, distogliendo lo sguardo dal suo volto. Serrai le palpebre. «Mi stai dicendo che non ho scelta, vero?».

Sentii le sue mani irrigidirsi. «Non voglio mai, mai più che pensi nella tua vita che non avrai scelta» mormorò, con un tono sommesso, spaventato di potermi aver turbato «sto solo dicendo che è arrivato ora, forse troppo in fretta, il momento di dover prendere questa decisione. Mi dispiace» disse, accarezzandomi le mani con i pollici.

Mi volsi nuovamente a guardarlo, a osservare il suo viso da eterno ragazzo che racchiudeva la saggezza di centocinque anni di vita usata con tutto il cuore ad imparare ad amarmi. Non potevo deluderlo. Avevo paura, ma sentivo che dovevo cogliere quell’occasione miracolosa che mi era stata donata per fare un passo avanti e per liberarmi del mio passato. Annuii. «Va bene» mormorai con un piccolo sorriso.

Mi carezzò il viso, sorridendo a sua volta. «Sei l’umana più forte che conosca».

Sorrisi più ampiamente. «Non conosci molti umani Edward» lo presi in giro.

«Sei anche la più simpatica» scherzò di rimando, sollevandosi per lasciarmi un leggero bacio sulle labbra. «Hai fame? Hai bisogno di una mano per prepararti?».

«Di questo ce ne occupiamo noi, se non ti dispiace» disse Rose, comparendo sullo stipite della porta con Alice.

«Va bene?» mi chiese conferma Edward.

Annuii. «Sì, vai. Non ci vorrà molto».

In un attimo era accanto alla sorella. Mi fece sussultare vederli muovere di nuovo così in fretta, ma non dissi nulla. Per loro doveva essere davvero una sofferenza muoversi a passo umano. Era solo un’altra cosa a cui mi sarei dovuta riabituare.

Edward si chinò a mormorare qualcosa a Rosalie, così vampirescamente piano che non riuscii a capire. La sorella annuì, concentrata. Alice si voltò a fissarli di sottecchi, quasi fosse contrariata. Sentii un brivido attraversarmi mentre pensavo che stessero parlando di me, ma non dissi nulla. Era giusto che anche loro avessero dei segreti.

Cautamente mossi le coperte da un lato e feci per alzarmi dal letto. Mi fermai un attimo: la testa mi girava tantissimo.

«Bella» mi chiamò Alice, venendo a sostenermi per i polsi «ce la fai tesoro?».

«Sì» sussurrai, adattandomi rapidamente a quella posizione «voglio solo andare a fare una doccia veloce».

Edward sollevò un sopracciglio, osservandomi. Fece per dire qualcosa ma fu interrotto da Rosalie.

«Me ne occupo io, tranquillo. Vai pure a… sistemare il resto».

Annuì.

Sentii un fruscio di vento e un altro rapido freschissimo bacio sulle labbra. Mi dovetti aggrappare ad Alice per non cadere in terra in preda ad un nuovo capogiro. «Questo non aiuta affatto» balbettai.

«Tesoro» mi chiamò Rosalie «bevi un bel bicchiere d’acqua, ti aiuterà» disse, facendo comparire un bicchiere d’acqua fresca davanti a me «ed è anche passata l’ora delle tue medicine» aggiunse, e nella sua mano sinistra comparve la mia compressa di antidepressivi.

La guardai, prendendo con una mano il bicchiere ed esitando.

Sentii la presa di Alice farsi più forte sulle mie braccia e mi voltai a guardarla. «Tu avevi previsto che avrei smesso presto» mi ricordai, rammentando solo allora dello stupore sul viso di Edward e Carlisle quando Alice gli aveva raccontato della sua visione. Che motivo poteva esserci allora per sospendere così presto la terapia? Adesso cone la storia della gravidanza, era tutto diverso.

Annuì, sollevando un sopracciglio quasi con aria di sfida. «Sì, è così».

Rosalie sospirò seccamente. «Bella» disse, facendo un passo avanti nella mia direzione «non puoi sospendere la terapia così bruscamente. Ti farebbe stare molto male».

«Ma Rosalie» provai a protestare, portandomi delicatamente una mano alla pancia «Carlisle ha detto che fa male al bambino».

«Tesoro» mi disse, venendomi ancor più vicina e carezzandomi un braccio «capisco le tue preoccupazioni, davvero. Ma il tuo bambino non può stare bene se tu non stai bene. Questi antidepressivi» continuò, mettendomi la compressa in mano «li prendono molte donne in gravidanza con disturbi d’ansia e attacchi di panico, ed hanno solo pochi effetti collaterali, molto minori dei benefici che ti daranno. Ti prometto che eviteremo i sonniferi, che sono quelli più pericolosi. Va bene?».

Sospirai, stringendo la mano in cui tenevo la compressa. Capivo il discorso di Rosalie, ma non volevo ancora rischiare di fare del male al bambino, non più. «Io…» esitai.

«Oggi sarà una giornata molto delicata» continuò persuasiva «è possibile che dei ricordi ritornino alla mente e che…».

«Rosalie» la fermò Alice, serena nella sua totale serietà.

Tremai.

«Alice» sibilò di rimando. «Si è raccomandato» sussurrò a voce bassissima.

Ansimai. «Io» deglutii «va bene, tutto okay. Vado a fare la doccia» dissi prendendo la compressa e mandando giù l’acqua. Posai il bicchiere sul comodino e marciai fra le due sorelle e i loro sguardi pesanti. Non sapevo e non volevo sapere cosa stesse accadendo. «Ho bisogno di un po’ di privacy per favore» aggiunsi, chiudendomi la porta del bagno alle spalle. Sollevai la tazza del water e sputai la compressa che avevo fra i denti. Presi dei lunghi respiri, mi carezzai la pancia e sperai di aver fatto la scelta giusta.  

Riuscii a prepararmi completamente da sola dopo tanto tanto tempo. Quando finii di lavarmi ed asciugarmi i capelli mi guardai nello specchio e realizzai che in realtà non ero mai stata sola. Che anche quando Jacob mi aveva rapita e mi sentivo persa avevo un pezzettino di Edward dentro di me. Sorrisi, sconvolta e meravigliata, guardando la pancia ancora completamente piatta. Forse potevamo davvero ricominciare ad avere una vita normale, pensai emozionata.

Quando uscii dalla stanza trovai, perfettamente piegati sul letto del tutto riordinato, due cambi di vestiti, con i loro rispettivi completi intimi e scarpe corrispondenti. Per un attimo pensai che mi volessero lasciare scegliere, ma poi mi chiesi se non avesse a che fare con lo strano comportamento di Alice e Rosalie quella mattina.

Scossi il capo. Chissà cosa gli passava per la mente. Guardai con malinconia il completo con i jeans e la morbida maglietta di cotone abbinata e mi sfiorai da sotto l’accappatoio l’interno coscia. Mi dava ancora un po’ di fastidio. Con un sospiro dovetti decidermi ad indossare il vestito bordò, di jersey, decisamente fuori dal mio stile, ma almeno abbastanza semplice da non farmi sentire a disagio.

Qualcuno bussò alla porta. «Posso?» mi disse Alice, entrando.

Annuii. «Certo».

Mi sorrise, scrutando il mio abbigliamento. «Rosalie lo aveva detto, ma volevo che sapessi che potevi tornare alla normalità, se avessi voluto».

Mi guardai, studiando il vestito che avevo addosso. «Grazie».

Scrollò le spalle. «Hai fatto tutto da sola. Lascia che ti sistemi i capelli, ci metterò un attimo e farò una cosa semplice».

Le sorrisi, andandomi a sedere sul bordo del letto. «Grazie mille Alice. Per tutto, per essermi stata accanto».

Ridacchiò e si fece per un attimo seria, venendo alle mie spalle per acconciarmi. «Edward si è molto arrabbiato per le mie visioni inesatte, quando ha creduto che ti fossi suicidata con i sonniferi».

«Lo immagino» mi rabbuiai «mi dispiace».

Lei sorrise, come se fosse già acqua passata. «Avevo visto il vostro bacio nella pioggia, e quanto sareste stati contenti oggi. Alla fine è successo. Ma, Bella, riguardo ai calmanti» disse, terminando la treccia francese e voltandosi a guardarmi negli occhi «non costringermi a mentirgli ancora. Oggi ti coprirò, ma poi digli la verità se non vuoi prenderli».

Sussultai, colpita. Mi ero quasi dimenticata che era praticamente impossibile tenere qualcosa nascosto ad Alice. Poi annuii, colpevole. «Hai ragione».

Sorrise ancora e mi diede un piccolo buffetto sulla guancia. «Andiamo. Ti sta aspettando».

Dabbasso c’era solo Esme, che mi aveva preparato una merenda da mangiare dopo che avessi fatto il prelievo. Mi spiegarono che Jasper ed Emmett erano andati a fare ricerche per trovare informazioni sulla procreazione fra vampiri. Esme trattenne a stento la sua gioia e la sua emozione, abbracciandomi solo come una madre può fare.

Quando fui sul sedile posteriore della Volvo mi strinsi a Edward, sperando che mi sarebbe bastata la sua vicinanza e il mio coraggio per non avere un attacco di panico quel giorno così difficile. Sperai che il bambino stesse bene, che riuscissi a portare avanti la gravidanza e che il mio corpo fosse sufficientemente forte per farlo. E cercai di non pensare a come per scoprire tutte quelle cose mi sarei dovuta sottoporre a delle attenzioni che volevo evitare per il resto della mia vita.

Ero estremamente fiduciosa della paternità del bambino, per quanto fosse incredibile, ma anche se questo mi diceva che Jacob non era andato fin in fondo, con me, non poteva cancellare il senso di violazione che mi sentivo addosso. Come potevo pensare di poter ricevere quel genere di attenzioni da qualunque essere umano o vampiro? Già farsi visitare da Rosalie era stato così atroce, umiliante e imbarazzante. Farlo ancora… mi sembrava una tortura.

Edward posò la mano sulla mia, che avevo portato in grembo. «Tutto bene?»

Annuii rapidamente e mi volsi a guardare verso il finestrino. «Come mi guarderà la gente? Cosa penserà?» domandai, mal celando la mia agitazione e cercando di dirottarla comunque su ciò che mi preoccupava meno.

«Ehi tranquilla, non ti devi preoccupare di questo» sussurrò, scrutandomi preoccupato. «Sarò sempre con te e nulla potrà farti del male. Concentriamoci sul bambino».

Presi un grosso respiro. Non potevo fargli capire di essere già così agitata. Feci un piccolo sorriso. «Hai ragione».

In pochissimo tempo ci ritrovammo all’ingesso dell’ospedale di Forks. Edward mi aiutò a scendere dall’auto, poi mi mise una mano attorno ai fianchi, guidandomi nell’edificio insieme a Rosalie, mentre Alice andava a parcheggiare.

Appena entrammo si sentì forte l’odore di alcol misto a candeggina. Storsi il naso.

«Nausea?» mi chiese Edward, fermandosi a scrutarmi.

«Non ho mai sopportato l’odore che c’è negli ospedali» risposi evasiva, facendomi guidare verso l’accettazione.

L’ospedale era pieno di gente e questo mi diede molto più la nausea di quanto non facesse l’odore. Mi sentivo pallida e agitata, e il mio stato peggiorò quando mi accorsi delle occhiatine di stupore e sorpresa che mi riservava la gente di Forks. Era una cittadina troppo piccola. In un attimo mi ritrovai a pensare che non potevo controllare tutte le persone che erano in quella stanza, i loro movimenti, gli spazi così ampi, tutte quelle porte e mi diedi della stupida per non aver preso i farmaci che, lo sapevo, avrebbero scacciato almeno quei pensieri.

Edward mi fissò di sottecchi, intuendo immediatamente il mio stato. «Vieni, andiamo in un posto più tranquillo» mi disse, stringendomi forte fra le sue braccia e guidandomi fra i corridoi. “Patologia ostetrica e ginecologica, gravidanza e puerperio” diceva l’intestazione del reparto in cui stavamo entrando. Voltammo rapidamente in una stanzetta adiacente ad un corridoio con molte porte “Ambulatori”. Era ora di pranzo e sedute sulle sedie c’erano meno di una decina di persone, la maggior parte donne con grossi pancioni accompagnate dai propri mariti o dalle proprie madri.

«Il Dottor Cullen in chirurgia. Il dottor Carlisle Cullen è atteso d’urgenza in chirurgia» gracchiò una voce negli altoparlanti.

Alice si sedette su una sedia di plastica di fronte a quella in cui eravamo io e Edward «Stavo per dirvelo, ci impiegherà un po’».

Sospirai, mentre Edward mi aiutava a togliere il giaccone. Mi accarezzò le guance arrossate per lo sbalzo termico.

«Vado a chiedere se intanto le fanno il prelievo, così potrà mangiare qualcosa» disse Rosalie ad Edward. Sollevò lo sguardo su di me, sorridendo per confortarmi. «Va bene tesoro?».

Annuii, faticando a prendere le redini della mia mente. Con lo sguardo passai in rassegna tutte le persone presenti nella stanza, memorizzando le loro posizioni, i loro volti e accorgendomi delle loro occhiate nei miei confronti.

Nella stanza entrarono altre due persone, due uscirono e una porta sbatté. Trasalii, di nuovo angosciata. Sentivo di non avere alcun controllo su quel posto che non conoscevo.

«Signora Cullen» mi chiamò un’infermiera, uscendo dalla porta di uno degli ambulatori.

Mi sollevai in piedi rapidamente e per fortuna Edward mi raggiunse sorreggendomi perché mi sentivo tremare da capo a piedi. «Scusa» balbettai «non mi è mai piaciuto il momento di farmi pungere dagli aghi».

Mi fissò, scrutandomi. «Lo so». Sapeva che era molto più di quello. «Vengo anche io».

«Sei sicuro?» domandai preoccupata.

Crucciò le sopracciglia. «Pensavo che avessimo chiarito il fatto che il tuo sangue non mi dà più alcun problema ormai».

«Lo so, ma» mi voltai a fissare le sue sorelle, tese nelle posizioni vampire per quanto fingessero totale indifferenza «ci sarà il sangue di molte altre persone lì».

Sorrise della mia premura. «Sono andato a caccia ieri, e se posso resistere al sangue della mia cantante posso resistere a quello di chiunque altro».

Sospirai, poi annuì.

«Entra solo la paziente» disse la donna quando ci avvicinammo.

Edward sorrise, rilassato. «Si fidi, entro anche io».

Mi dovetti adattare a stare in un'altra stanza che non conoscevo, e questo mi causò un po’ di agitazione. Per fortuna eravamo solo io, Edward e l’infermiera grassoccia. Stetti stesa sullo scomodo lettino tutto il tempo e non guardai neppure per un attimo l’ago.

Quando Edward fu abbastanza sicuro che non sarei svenuta tornammo nella sala d’attesa, ma la situazione era completamente cambiata. Adesso era completamente piena e il viavai di gente era aumentato così tanto che molti erano in piedi. Riconobbi i volti di un paio di persone che avevo visto a scuola e figli di commercianti del posto. Mi fissavano e mi parve quasi che il brusio aumentasse alla mia vista. Era un gesto così inequivocabile essere in quel posto? Anche loro si sarebbero chiesti di chi fosse il bambino? Mi guardai intorno rapidamente in cerca delle porte, ma non riuscivo a visualizzare via di fuga con tutta quella gente.

Mi sentivo pallidissima e un sudore freddo stava cominciando a imperlare la mia fronte, mentre sentivo un ronzio nelle orecchie. «Edward» lo chiamai, sofferente, tentando inutilmente di minimizzare il mio stato. «Io…» presi un respiro, angosciata. Non volevo avere un attacco di panico, non così presto, non lì in pubblico. «Ho bisogno di un posto più tranquillo».

Mi strinse rapidamente per i gomiti prima che potessi cadere a terra. Mi trascinò piano verso il bagno lì vicino e Alice e Rosalie ci raggiunsero rapidamente. «Shh, tranquilla, va tutto bene» mi rassicurò, trattenendomi contro il suo corpo e avvicinandomi al lavabo per sciacquarmi il viso con l’acqua fresca.

Ansimai in cerca d’aria. «Mi sento svenire» farfugliai pianissimo, faticando a sorreggermi ai bordi del lavello.

«No, no, tranquilla, ti tengo io. Shh» mi rassicurò, trattandomi per la vita e carezzandomi la schiena con movimenti circolari.

Rosalie mi venne vicino, e tirò fuori una bottiglietta d’acqua fresca dalla borsa. «Tieni, questo ti aiuterà».

«Cos’è?» domandai tremante.

Crucciò le sopracciglia. «È solo acqua».

In quel momento accadde qualcosa. Edward s’immobilizzò e s’irrigidì e si voltò con un ringhio verso Alice. «Davvero?» ruggì.

Lei sostenne il suo sguardo con serietà. «Lo ha deciso da sola».

«Vi avevo detto di assicurarvi che prendesse i calmanti!» esclamò arrabbiato «Guarda in che stato è adesso, forse le verrà anche una crisi d’astinenza per il dosaggio che faceva!».

«Mi dispiace» singhiozzai, peggiorando il mio stato «scusami, è colpa mia. Non volevo fare altre cose che facessero male al bambino» piansi, piegandomi sulla pancia «pensavo di farcela. Non prendertela con Alice».

Edward stette in silenzio e mi strinse più forte finché non smisi di piangere e mi calmai. Rosalie, tesa e arrabbiata almeno quanto il fratello, convinse Alice ad uscire dal bagno e lasciarci soli per un po’. Calmarsi fu difficile, e mi costrinsi con tutte le forze a concentrare i miei pensieri vorticosi su una singola cosa positiva, come mi aveva insegnato Rosalie durante la psicoterapia. Alla fine mi sentivo spossata, ma la testa non girava più e l’angoscia era passata.

«Bevi» mi disse Edward, porgendomi la bottiglietta «e mangia qualcosa» aggiunse, passandomi il sandwich che mi aveva preparato Esme.

Lo afferrai, tremante, preoccupata della stabilità del mio stomaco. Presi un morso, poi esitai prima di prenderne un altro. «Sei arrabbiato con me?» domandai roca, fissandolo di sottecchi.

«No, Bella, sono solo dannatamente preoccupato». Trasalii del tuo tono serio, e lui capì che avevo bisogno di altro in quel momento. Voleva dirmi che se avevo avuto un attacco di panico solo per essermi trovata fra la gente di Forks sarei potuta morire quando fosse arrivato il momento della visita, che ormai la sertralina non avrebbe fatto effetto in tempo, che probabilmente mi avrebbero dovuto dare le benzodiazepine, che avevano molti più rischi per la gravidanza e che odiava dannatamente lo stato semi-catatanico in cui mi mettevano. Non lo fece. Mi carezzò la guancia e disse «So che volevi fare qualcosa di buono per il nostro bimbo, ma se tu stai male starà male anche lui, molto più che per gli effetti collaterali del farmaco. Capisci?».

Annuii, piena di sensi di colpa, e gli tesi la mano con il palmo aperto.

Sospirò, e prelevò dalla borsa di Rosalie una compressa di antidepressivi, mettendomela sulla mano. Sperava almeno nell’effetto placebo. La verità era che forse era proprio lui, il vampiro, ad avere bisogno delle benzodiazepine per affrontare quello che stava per avvenire.

La mandai giù, davvero questa volta, senza esitazione, e poi finii il mio sandwich.

Rosalie aprì la porta del bagno. «Carlisle sta arrivando. Ha detto di andare nella…».

«Stanza 3. Arriviamo» finì Edward.  

Mi pulii la bocca dalle briciole con una mano e mandai giù un altro sorso d’acqua. «Mi aspetti fuori? Ho bisogno di usare il bagno un secondo».

«Preferirei aspettarti qui» replicò, fermo nell’androne del bagno.

In quel momento una donna molto incinta entrò nel bagno, e si fermò un attimo alla vista di mio marito nel bagno delle donne. Esitò, incerta, sgranando gli occhi. Avevo quasi dimenticato che effetto facesse sul genere femminile.

«Ci metterò pochissimo. Sto bene» aggiunsi a voce più bassa, dandogli un piccolo bacio sulle labbra e costringendolo suo malgrado ad uscire.

Usai i pochi minuti umani che mi erano stati concessi, e quando uscii dalla toilette mi presi un minuto per sciacquarmi ancora il viso con un po’ d’acqua fresca. Guardai i miei occhi riflessi nello specchio, come se così potessi anche leggere ed analizzare i miei pensieri confusi. Sapevo cosa stava per accadere, e sapevo che non sarebbe stato difficile solo per me. Lo sarebbe stato anche per Edward e Carlisle e gli altri membri della famiglia. Attraverso quella difficoltà, però, c’era una promessa enorme. Mi portai entrambe le mani alla pancia. Era una Grazia così grande avere una nuova vita affidata, una nata dall’amore vero e puro fra me e mio marito, una cosa che non avrei mai sperato di avere nella mia esistenza. Sentivo che proprio superare la mia più grande e più che giustificata paura era l’atto d’amore che dovevo fare.

Non aver paura, pensai, e non mi stavo riferendo a me stessa. Carezzai di nuovo quel miracolo impossibile. Non so come avrei dovuto trovare la forza di sopportare quello che stava per accadere e il modo di renderlo più semplice possibile anche agli altri. Dovevo fidarmi di loro.

Entrammo con Edward mano nella mano in una stanzetta d’ambulatorio per le visite. Era piccola, ma piuttosto confortevole. C’era la macchina per le ecografie e un lettino ginecologico. Ebbi un brivido, ma non dissi nulla.

Carlisle mi stava attendendo con Rosalie, mentre Alice, dissero, era tornata a casa. Speravo che stesse bene. Carlisle era ottimista, lo vedevo dal suo viso disteso e dalla pace che aveva nello sguardo, ma al contempo anche molto teso. No, non doveva essere semplice neppure per lui. «Bella» mi chiamò, sorridendomi ed indicandomi la sedia davanti alla scrivania «come ti senti?».

Sorvolai sull’attacco di panico avuto nell’ultima ora e facendo come mi diceva mi accomodai con Edward sulle sedie «Sto molto meglio di ieri, la pancia non mi ha più fatto tanto male. Però» aggiunsi cautamente «mi sento molto debole».

Mio suocero annuì con un sorriso rilassato, aprendo una cartellina con dei fogli stampati e ruotandoli in modo che fossero nella mia direzione. Iniziò a spiegarmi, indicando con l’indice i valori stampati sul foglio «Hai l’emoglobina un po’ bassa, che vuol dire che sei un po’ anemica, ma questo già lo sapevamo» iniziò a spiegarmi con un sorriso, scambiandosi un’occhiata con Edward – certo che lo sapevano, famiglia succhiasangue - «anche le tue proteine nel sangue sono un po’ basse, probabilmente perché sei un po’ denutrita, e hai qualche lieve squilibrio elettrolitico, cioè diciamo dei tuoi sali nel sangue, ed è compatibile con il fatto che hai vomitato molto ultimamente» disse, continuando a voltare pagina «queste» aggiunse, con un sorriso ampio che nascondeva appena una punta di tensione «sono le tue betaHCG, l’ormone che ci dice che sei incinta».

Mi portai una mano alle labbra, emozionata. Era proprio così allora.

Edward mi accarezzò la schiena con la mano e capii che anche lui era commosso. Ma lo vedevo, era ancora molto nervoso.

«Francamente ragazzi sono sorpreso quanto voi» continuò Carlisle, e sentii che stavano per arrivare le note dolenti «capite che non possiamo fermarci qui. Per avere una diagnosi di gravidanza certa è indispensabile avere una correlazione ecografica a questo dato poiché seppur raramente capita che un aumento delle betaHCG sia dovuto ad altre cause. Non possiamo lasciare lo spazio ad alcun dubbio. In più» continuò passando lo sguardo fra me ed Edward, includendolo cortesemente nel discorso come se lui non potesse leggergli d’un fiato tutti i pensieri, «abbiamo bisogno di sapere che l’embrione si sia impiantato correttamente, vedere che sia formato correttamente e quanto sia grande per sapere con esattezza quando sia stato concepito».

«Quindi dobbiamo fare un’ecografia» conclusi.

«Sì» aprì e chiuse le mani, poi le posò sulla scrivania. Non lo avevo mai visto così incerto. «Non è detto che basti per soddisfare tutte le nostre domande. Forse non mi basterà usare una sonda transaddominale ed è estremamente probabile che ci sia bisogno di fare una visita ginecologica» disse, guardandomi con attenzione.

Annuii pianissimo, senza distogliere lo sguardo dal suo.

Cauto ma deciso continuò «Abbiamo diverse opzioni, ed ognuna ha le sue criticità. Può farlo una ginecologa, è una mia amica ed è molto brava; ma non conosce la tua storia e se scegliessi questa opzione ti suggerirei di raccontargliela per poter essere a tuo agio con lei. Inoltre ci potrebbero essere dei problemi perché non sappiamo cosa può avere di straordinario questa gravidanza. Può farlo Rosalie» disse, voltandosi a guardare la figlia che era sempre rimasta silenziosa e sorridente al suo fianco «penso che con lei ti sentiresti a tuo agio. Purtroppo sarebbe la sua prima visita ostetrica in assoluto e seppur non metto in dubbio che possa essere molto brava non so se riuscerebbe a darci tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno. L’altra opzione è che lo faccia io» concluse, e non elencò né pro né contro.

Non ce n’era bisogno perché li sapevo molto bene. Era un medico vampiro con 300 anni di esperienza che conosceva benissimo la mia storia, il mio vissuto e la straordinarietà di quello che stavo vivendo ma… era Carlisle.

«Cosa pensi?» mi domandò Edward stringendomi la mano fra le sue.

Feci un piccolo sorriso, davvero il massimo che riuscissi a concedermi, sperando di riuscire ad alleggerire almeno la loro tensione. «Possiamo iniziare con l’ecografia?».

«Certamente» disse mio suocero rispondendo al mio sorriso.

Mi fecero sistemare sul lettino, le luci nella stanza vennero abbassate e mi bastò alzare un pochino la maglietta ed abbassare di qualche centimetro i collant. Il gel mi sembrò alla stessa temperatura della mia pelle nella parte più bassa della pancia.

Appena posò la sonda sulla mia pelle tutti e tre i vampiri s’irrigidirono.

«Che succede?» domandai preoccupata, tentando di sollevarmi per guardare lo schermo.

«Aspetta, stai giù» mi tranquillizzò Edward, al mio fianco. I suoi occhi erano ampi e non si staccavano dallo schermo. Suo padre ruotò leggermente lo schermo verso di me. Era sconvolto, come gli altri.

«Bella, questo» iniziò lentamente, la voce controllata nonostante lo stupore «come puoi vedere è il tuo utero, con le ovaie» continuò, muovendosi ai lati ed indicando le immagini grigie «Questo» continuò, inquadrando un ovale completamente bianco e scintillante, che faceva sfarfallare l’immagine sullo schermo «presumo che sia il sacco amniotico».

«Incredibile» sibilò Rosalie sconvolta.

«Presumi? Cosa è incredibile? Che significa?» domandai agitata.

«Il bambino non si vede, ma quella dev’essere proprio la sua cameretta» disse Carlisle con un sorriso stupefatto.

Passai con lo sguardo da lui a mio marito, per nulla soddisfatta da quella spiegazione.

«Faglielo vedere» disse Edward, porgendogli la mano.

«Ecco» disse, mettendo un po’ di gel sulla mano del figlio «i tessuti si confrontano sulla base dell’ecogenicità, cioè di quanto siano chiari o scuri sull’ecografo. Gli stessi tessuti hanno la stessa ecogenicità. Vedi» fece, poggiando la sonda sulla sua mano. Tutto lo schermo divenne completamente bianco e scintillante, pieno di sfarfallii.

«Oh mio Dio» sussurrai sconvolta. Le lacrime cominciarono ad uscire dagli occhi senza che le potessi controllare. «Allora è proprio così» singhiozzai, guardando Edward.

Annuì, guardandomi meravigliato, lasciando sciogliere un po’ la sua tensione. «È nostro figlio».

Scossi il capo, stupefatta. Nessuno di noi riusciva a credere come fosse possibile.

«Riesci a settare i parametri in modo da vederci dentro?» chiese Rosalie, mentre il padre armeggiava con gli innumerevoli tasti dell’ecografo.

«Ci sto provando, ma non sembra che cambi nulla purtroppo».

Rosalie scosse il capo, nervosa. «Chiamo Jasper ed Emmett, magari hanno scoperto qualcosa».  

«Se non possiamo vederlo come facciamo a sapere che stia bene?» domandai preoccupata, e capii solo allora il motivo della loro tensione. Chi poteva dirci che lì dentro c’era un bel bimbo sano? Chi poteva dire che sarebbe stata una gravidanza come le altre? E chi che lì dentro ci fosse un bambino controllabile, più umano che come uno dei bambini immortali?

Sospirai. Era quello allora. Eppure già sentivo che in quel cerchio bianco luminoso era chiuso un pezzo del mio cuore, qualunque prezzo mi fosse costato darlo alla luce, qualunque cosa avesse fatto, qualunque sembianza avesse avuto.

«Sono sicura che stia bene, sapete?» mormorai dopo un po’. «Penso che quella “casetta” come la tua pelle sia forte come la tua, Edward, e che lo proteggerà».

Mi sorrise debolmente, posando la fronte sulla mia. Era felice di sentirmi, dopo tanto tempo, così fiduciosa, ma le domande che mi ero posta erano le stesse che c’erano nel suo cuore e la sua preoccupazione non diminuiva.

«Sono d’accordo con te Bella» mi disse Carlisle, rassicurandomi. Lo vedevo, avrebbe così tanto voluto guardare quel bambino, avere la sicurezza scientifica che stesse bene e che non mi avrebbe fatto male, ed essere semplicemente felice per noi «penso che i farmaci abbiano potuto attraversare la barriera emato-placentare, ma che il bimbo sia stato abbastanza forte. Però» aggiunse cautamente «c’è una discreta area di distacco amnio-coriale».

«Cosa vuol dire?» domandai preoccupata.

«Non ti agitare, capita a molte donne nel primo trimestre» mi sussurrò ad un orecchio mio marito.

Carlisle annuì. «È quello che ti dicevo riguardo alla minaccia d’aborto. Però» esitò «dato che siamo riusciti ad ottenere così poche informazioni dall’ecografia, adesso penso che sarebbe davvero importante visitarti».

Trattenni il fiato. Mi stava dicendo che doveva farlo lui, lo sentivo. Mi misi seduta sul lettino, asciugandomi la pancia dal gel con il fazzolettino che mi aveva porto. Mi girava la testa e non era per il cambio di posizione. Avevo così tanti pensieri, così tanta paura. Una gioia molto grande richiede un sacrificio molto grande, mi aveva detto una volta Carlisle.

Annuii. «Va bene Carlisle, penso che dovresti farlo tu».

«Va bene» annuì a sua volta «ti lascio un po’ di privacy» mi disse, sistemandomi il paravento in modo che mi potessi spogliare e sistemare il telino pulito attorno alla vita.

Edward mi aiutò a scendere dal lettino. «Hai bisogno di una mano?» mi domandò, incerto.

Lo vedevo così agitato, speranzoso ma consumato dalla preoccupazione, e per di più così spaventato che ancora non lo volessi lì con me in quel momento così delicato e terrorizzato che potessi avere un altro attacco di panico. «Non ne ho bisogno» gli risposi, prendendogli le mani e guardandolo negli occhi «ma resta, ti prego» gli chiesi con estrema fiducia. E per la prima volta ringraziai mentalmente Carlisle di non averlo annoverato fra i miei possibili “medici”. Non avrei mai potuto incasinare ancora di più la mia vita sentimentale e sessuale con lui.

«Sei sicura?».

«Ti prego».

«Va bene» mormorò con un piccolissimo sorriso.

«Ehi» lo chiamai ancora «non aver paura. È un miracolo, è il nostro bambino. E fino a prova contraria voglio pensare che stia bene, che crescerà e nascerà come un bambino normale. O quasi».

«È l’“o quasi” che mi spaventa» scherzò debolmente, facendo trapelare tutta la sua ansia.

«Se la parte che ti spaventa è quella che puoi avergli dato tu non farti spaventare. Perché tu sei meraviglioso e non puoi dargli niente che non sia meraviglioso. Capito?» dissi con decisione.

Prese un respiro e si chinò ad abbracciarmi forte, fino quasi a farmi male. Non dissi nulla e restituii l’abbraccio con la stessa intensità umana.

«Dimmi quando sei pronta, non metterti fretta» mi disse Carlisle mettendosi i guanti ed usando un tono molto formale. 

Strinsi le mani ai bordi del lettino. Non sarei mai stata pronta. Edward, la mio fianco, mi costrinse a sciogliere la presa e prese una delle mie mani fra le sue. Annuii leggermente quando pensai di avere abbastanza controllo sul mio corpo.

«Prova ad essere più rilassata possibile, non ti farò male».

Provai a fare come mi diceva e a cercare di non andare in iperventilazione. Volevo davvero farcela, volevo davvero rendere le cose facili a Edward e Carlisle, volevo dimostrare che la gravidanza mi aveva cambiata e che la speranza mi aveva guarita.

Solo dopo due secondi ero così tesa che un dolore fortissimo era esploso dentro di me. Chiusi gli occhi nella speranza di calmarmi, ma servì solo a riempirmi la tesa di immagini, le peggiori che potessi evocare in quel momento. Non riuscivo a muovermi, ma gli occhi mi si riempirono di lacrime e tutto il mio corpo era duro come una pietra.

Carlisle si fermò immediatamente.

Edward si tese al mio fianco, agitato.

Ero così dispiaciuta di non essere riuscita nel mio intento che mi sentii quasi peggio. «Mi dispiace, faceva male» sussurrai debolmente, mentre le lacrime continuavano a tradirmi.

«Non è colpa tua, Bella» ribattè mio marito. Mi strinse la mano fra le sue «amore mio, non è neppure lontanamente colpa tua, come può esserlo? Shh, calma. Shh, va tutto bene. Sei bravissima. Sei stata bravissima» mormorò al mio orecchio, facendo calmare i miei piccoli singhiozzi.

Quando fui un po’ più calma tirai su con il naso, carezzandomi la pancia. «P-possiamo riprovarci?» balbettai.

«Ti prego, diamole delle benzodiazepine» fece mio marito a Carlisle, supplicandolo.

«No» sussurrai contrariata.

«Bella» mi chiamò mio suocero, molto seriamente «forse ne hai davvero bisogno. Potrebbero aiutarti molto in questa circostanza».

«Mi hai detto che gli fanno male» replicai preoccupata.

«È vero, ma ti ho detto anche che il bambino sembra forte, e tu ora ne hai molto bisogno, Edward ha ragione» cercò di convincermi, persuasivo.

Ansimai. Non potevo, non potevo ancora mettere il mio benessere davanti a quello di mio figlio, non senza provarci davvero. «Vi prego, fatemi provare un’ultima volta» li supplicai, certa della sofferenza che avrei causato anche a loro se avessi fallito ancora.

«Bella» provò ad insistere Carlisle, ma sorprendendomi fu Edward a bloccarlo.

Scosse il capo. «Riproviamoci se è quello che desideri» disse piano, guardandomi con intensa serietà.

Fu difficile quasi come la prima volta, ma non feci lo stupido errore di chiudere gli occhi. Non fui per niente rilassata, fece male, ma durò davvero poco e abbastanza da permettere a Carlisle di raccogliere tutte le informazioni che gli erano necessarie senza dovermi drogare.

Alla fine eravamo tutti e tre molto, molto, più sollevati.

Edward mi strinse forte come se non volesse lasciarmi andare più, facendomi accoccolare sul suo petto mentre il padre, tranquillo, ci parlava.

«La datazione della gravidanza è compatibile con le dimensioni del tuo utero, cioè dovresti essere di circa otto settimane e la data presunta per il parto se…» esitò, cauto «la confrontiamo con una gravidanza normale, è l’otto maggio. Per fortuna non ci sono grandi modificazioni a livello della cervice uterina. Vuol dire che la minaccia di aborto non è così grave come poteva sembrare all’inizio, ed è un’ottima notizia. Ti darò del ferro, degli integratori elettrolitici, delle vitamine e una dieta approssimativa, perché sei molto magra e hai bisogno di prendere peso. Ti prescriverò anche delle iniezioni di progesterone da fare ogni 3 giorni a partire da oggi. Dovrai stare a riposo per un mesetto, evitare ogni ansia e stress e prendere gli antidepressivi. Aspetta» mi interruppe quando feci per ribattere «so che è un tuo desiderio interromperli, ma se lo farai all’improvviso starai molto male e con te il bambino. Se davvero è un tuo desiderio non prenderli più dovrai scalare la dose secondo uno schema che ti darò. D’accordo?».

Annuii, contro la maglietta di Edward. Era stata una lunga giornata e mi sentivo stanchissima, ma le sorprese non erano finite.

«Ho parlato con Jasper» esclamò una trionfante Rosalie rientrando nella stanza.

Sentii il corpo di Edward tendersi sotto il mio e mi voltai a guardarlo, preoccupata.

Ma era, per la prima volta… sinceramente felice.

«Hanno trovato delle fonti in Sud America» iniziò Rose eccitata «è stato tremendamente difficile, e sono solo leggende, ma parlano di bambini veri che crescono a differenza dei bambini immortali. E hanno trovato storie che raccontano di alcune donne che sono state quasi venerate per essere sopravvissute all’“assalto degli immortali”, aver partorito il loro figlio ed essere diventate le anziane dei villaggi» spiegò entusiasta.

Carlisle si sollevò in piedi, estasiato. «Che speranza abbiamo che siano fondate?».

Rosalie scosse le spalle, volgendo lo sguardo su di noi, emozionata. «Che speranza avevamo che succedesse? Eppure è così, è successo».

Mio marito nascose il viso nel mio collo, ispirando tutto il mio odore e abbracciandomi, pieno di gioia e un po’ di sollievo. «Tu sei meravigliosa e non puoi dargli niente che non sia meraviglioso. È la parte che gli darai tu che non mi spaventa».

Tornammo a casa. Io, Edward, e nostro figlio. Edward sapeva che era stata una giornata lunghissima ed ero distrutta e voleva portarmi a letto, ma gli avevo detto che mi faceva piacere stare un po’ in auto con lui, solo io e lui. O meglio. Noi tre. Sorrisi, accarezzandomi la pancia e contemplando quel piccolo pezzettino freddo e duro di pelle.

«Scusami» disse Edward, accostando davanti alla farmacia di Forks «vado a prendere quello che ci serve, te la senti di rimanere in auto?» chiese speranzoso.

Sorrisi debolmente. «Certo, vai, non sarò sola» dissi dandogli un lieve bacio, prima di farlo uscire sotto la perenne pioggia di Forks.

Era ovvio che non volesse farmi uscire. Il mio apprensivo marito. Eppure era stato così attento da chiedermelo. Mi sistemai meglio sul comodo sedile, chiudendo gli occhi e rilassandomi; ero devastata dalla stanchezza, e per di più, nonostante le insistenze di Rosalie, non ero riuscita a cenare. Mi ricordai di una cosa importante che volevo dire a Edward.

Lui tornò in un istante e mi porse un sacchetto di cartone, mentre intanto si toglieva il giaccone bagnato e lo metteva sul sedile posteriore. I suoi capelli scuriti dalla pioggia erano magnifici e le gocce che si erano fermate fra quei fili bronzei sembravano rugiada.

Arrossii a quei pensieri e senza sforzarmi di contenere un sorriso, osservai il sacchetto che avevo fra le mani, tanto per distrarmi dalla contemplazione della sua immagine. Caspita… erano tutti medicinali? Ci guardai dentro, e ciò che vidi mi fece inorridire, tanto che lo richiusi velocemente e lo abbandonai sul sedile posteriore, reprimendo un conato di vomito. Siringhe.

«Mi dispiace» mi prese in giro Edward, che aveva silenziosamente assistito alla scena.

Lo fissai di sottecchi, sfregandomi la natica dove ancor ami faceva male. Poi, con gesti ingenui, in modo che non si potesse insospettire, presi la chiave e la sfilai dalla toppa.

«Che stai facendo?» mi chiese perplesso.

Gli sorrisi, insolente, «Macchina mia, guido io».

«Bella» mi richiamò «sai che non ci metterei nulla se volessi riprendermi le chiavi, vero?».

«Ma non lo farai, vero?» dissi sperando di essere convincente e che il battito del mio cuore non mi tradisse.

Sospirò, perplesso, alzando gli occhi al cielo. «Va bene…».

Ci scambiammo le posizioni e io misi in moto.

Vidi Edward squadrarmi preoccupato.

«Rilassati, o prima di arrivare i capelli ti diventeranno bianchi».

Bofonchiò qualcosa, a cui non badai. Avevo in mente solo una meta: casa nostra. Non ci badai neppure quando mi diceva che stavo sbagliando strada, e quando gli feci presente che mi stava innervosendo si zittì, limitandosi a fissarmi con la sua espressione contrariata.

Espressione che mutò radicalmente, lasciando spazio allo stupore a alla felicità, quando capì che mi stavo dirigendo a casa nostra. «L’hai fatto apposta?» mi chiese ammirato.

«Già» dissi, arrossendo e parcheggiando l’auto.

Lui mi fece voltare verso il suo viso, guardandomi negli occhi. «Ti amo».

«Ti amo anch’…».

Un trillo potente mi fece trasalire. «Bella! Siete arrivati finalmente!» esclamò Alice uscendo di casa. Rosalie la guardava contrariata dall’uscio, scuotendo il capo.

Risi, sollevata. «Ecco dov’era finita».

Trovai Edward a fissarmi, un sorriso commosso sulle labbra.

«Cosa?» domandai imbarazzata, abbassando il viso.

«Tu. È bello sentirti ridere ancora». A velocità vampiresca mi aprì la portiera, tendendomi una mano «Adiamo Bella, andiamo a casa».

L’afferrai. «A casa».

 

 

   
 
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