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Autore: Flying_lotus95    22/05/2022    1 recensioni
[Capitoli dal 1° al 9° revisionati]
Giappone, inizio anni'60. Un gruppo di sei ragazzi affronta le proprie vicende quotidiane, combattendo con un passato che non vuole lasciarli liberi. Mario Minakami è intenzionato a scoprire chi si cela dietro l'omicidio di Rokurota Sakuragi, l'uomo che sei anni prima aveva preso lui e i suoi amici sotto la sua ala e li aveva reintrodotti nella società, affrontando non poche difficoltà; Joe Yokosuka, meticcio, è alle prese con un passato ingombrante, una sorella da salvare, e un amore da proteggere; Tadayoshi Tooyama è un soldato delle Forze Armate del Giappone, sposato con la dolce Mina. Tra sensi di colpa e paure, dovrà affrontare i suoi demoni una volta per tutte...
Assieme ai loro ex compagni di cella, Ryuji Noomoto, Noboru Maeda e Mansaku Matsuuda, i tre si ritroveranno faccia a faccia ad affrontare un pericolo comune, che minaccerà il loro futuro, la loro "terra promessa".
[Leggera presenza OOC]
Genere: Azione, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: Lemon, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 5

 
 
-        Arcipelago delle isole Carolina, Oceano Pacifico, fine luglio, anno 20 dell’epoca Showa (1945) 

 
I bombardamenti si erano avvertiti incessantemente per giorni. I soldati non si erano fatti vedere neanche per un istante, troppo occupati ad ammazzarsi al fronte contro i nemici.
Mariya temette per l'incolumità del suo soldato, pregò notti intere affinché si potesse trovare al sicuro. 
Lei e poche altre donne rimaste si erano rintanate delle capanne, convivendo con la paura costante di essere arrestate dai soldati nemici. 
Era quasi l'alba e Mariya non aveva chiuso occhio nemmeno per un secondo.
Stringeva tra le mani la pistola che il giovane le aveva lasciato in custodia.
Avrebbe dovuto sparare soltanto se si fosse avvicinato qualcuno di sospetto, qualcuno che non rassomigliava neanche lontanamente ad un giapponese. 
Ma per la ragazza non vi era un meglio o un peggio. Anche se le avesse raggiunte un soldato giapponese, era probabile che le avrebbe assalite senza alcun riguardo, proprio come era successo nei mesi precedenti. 
Mariya non fu più sicura che avrebbe tollerato l'ennesima sopraffazione senza reagire. Aspettò con ansia il suo segnale segreto, un bussare ripetuto tre volte sul legno marcio della porta. 
Tese l'orecchio attenta, la canna della pistola appoggiata alla guancia, priva della sicura.
Accadde alle prime luci dell'alba.
Avvertì alcuni passi di marcia introdursi nel campo, Mariya non seppe quantificare quanti ne fossero. Si affacciò con cautela alla finestra, con la speranza di scorgervi il giovane che le aveva promesso di tornare, per scappare via insieme.
Fu grande la sua delusione e il suo terrore nel non riconoscere quelle divise. 
Quei soldati non erano giapponesi, parlavano tra loro una lingua incomprensibile. 
Quando sentì aprire la porta, puntò istintivamente la pistola contro l'uscio. Non la sapeva usare, ma almeno sperò che così li avrebbe intimiditi.
Due ragazze entrarono nella capanna spaventate, invocando il suo aiuto.
Erano entrambe coreane, Mariya non riuscì a capire cosa volessero dirle, ma quando vide fare loro quel gesto tipico fastidiosissimo, quello sfregare di mani convulso per chiedere un favore o un aiuto, Mariya indicò loro un covone di fieno. Le due si precipitarono a nascondersi, invitando anche lei. Ma Mariya le zittì portandosi un dito sulle labbra.
Udì grida di donne provenire dalle altre capanne, ipotizzò il peggio. Quei soldati sarebbero arrivati anche lì, era questione di minuti.
Chiuse gli occhi, la pistola stretta tra le mani, indecisa se uccidere i soldati o uccidere sé stessa. 
Pensò al suo amato soldato.
Pensò al suo amato figlioletto.
Pensò a sua sorella e suo padre, a quella famiglia che gli era rimasta accanto, nonostante tutto.
Pensò a come sarebbe stato bello vivere un futuro tutti insieme, lontani dalla guerra, dai pregiudizi, dal mondo intero.
Un rumore di passi avanzò verso la porta socchiusa. 
Mariya non ebbe tempo di elaborare, decidere sul da farsi.
Un respiro profondo, le mani che tremavano. 
I soldati erano ormai entrati, pochi passi e l'avrebbero raggiunta.
Non ci fu il tempo per pensare ad altro.
Mariya si palesò loro davanti, la pistola puntata verso di loro. 
Gli occhi bellissimi da cerbiatta infiammati come non lo erano mai stati prima.
Sparò vari colpi alla cieca, gridando fino a sgolarsi. Non ne uccise nessuno, ma ne ferì alcuni. 
Poi un colpo secco alla nuca, tutto intorno diventò improvvisamente confuso.
Prima di perdere i sensi, dedicò un ultimo pensiero alle uniche due persone che aveva davvero amato in quella breve vita disastrata.
 
Mario, figlio mio, mi dispiace tanto se non potrò vederti crescere.
Rokurota, amore mio, non ho mantenuto la nostra promessa.
Vivi anche per me, non arrenderti mai.
 
L'oblio inghiottì ogni cosa.
 

 
-        Kanazawa, Prefettura di Ishikawa, anno 35 dell’epoca Showa (1960)
 
“Mettere gli altri sempre prima
di ogni mia esigenza…”
 
 
La lampada sul comodino irradiò la stanza con una luce calda e confortevole. 
Seduta davanti allo specchio, Mina canticchiava una canzoncina a bocca chiusa, intenta a strizzare un batuffolo di cotone nell'olio profumato dai rametti di lavanda e i petali di rose.
Se lo passò sul piccolo seno nudo, con delicatezza, sul décolleté, sul collo e sulle spalle, con passaggi lenti e accorti. 
Seduta di fronte al mobiletto a ballerina, Mina scostò più volte lo sguardo dalla sua immagine riflessa, ridendo di sé stessa.
Le punte boccolate dei suoi capelli neri ricadevano sulle spalle sottili, ancora umide dal bagno recente. 
Il tamponare sulla cute quel tonico profumato era un rituale che aveva appreso da sua nonna. Le raccontava sempre che aveva cominciato a farlo da ragazza, appena sposata. Amava passarsi l'acqua di rose tra i capelli e sulla pelle, col fine di ammaliare il marito, il nonno di Mina, con quelle note profumate.
Sua nonna Chieko non si era mai fatta problemi a raccontarle anche dettagli intimi sul suo matrimonio, facendola arrossire vistosamente ogni volta. Con sua madre, invece, era impossibile anche solo pensare di accennare a discorsi del genere.
Fino al giorno prima che dicesse quel fatidico sì a Tadayoshi, si era sentita ripetere da sua madre Yuuko che da quel momento in poi avrebbe dovuto accondiscendere ad ogni desiderio e ad ogni capriccio del suo uomo. Doveva dimostrarsi devota e silenziosa, una moglie impeccabile. 
Questa responsabilità era caduta sulle spalle della povera Mina come un pesante macigno. Le erano mancati improvvisamente i giorni in cui poteva confidarsi con suo padre, in merito anche al suo futuro e ai suoi studi.
Prima di sposarsi, infatti, era una studentessa d'arte all'Accademia di Tokyo, una delle prime donne ad essere riuscita a passare il test e ad essere ammessa a pieni voti.
Ma dopo la morte di suo padre, tutto era cambiato a suo sfavore. Sua madre non aveva più avuto intenzione di mantenerla all'accademia, aveva deciso che era giunta l'ora per lei di farsi una famiglia e di diventare "utile" alla società.
«Tua sorella Masumi è più piccola di te, e già si è sposata e ha avuto due bambini», sua madre glielo aveva ricordato con estenuante insistenza, sottolineando costantemente il fatto che a ventiquattro anni non avesse ancora ricevuto nessuna proposta di matrimonio. 
 
Se non ti sposi adesso, non ti prenderà più nessuno e non potrai generare degli eredi. E non pensi a me e alla vergogna di dover giustificare ancora il tuo stato da nubile? A chi vuoi che interessi della tua passione per l'arte! Perfino al tuo futuro marito non gliene importerà affatto!
 
Le parole di sua madre l'avevano annientata a suo tempo, e continuavano a farlo anche nel presente, ricordandole quanto fosse incapace, in quanto donna e moglie. 
E si ritrovava così, ogni sera dopo il bagno, a cospargersi il corpo di profumo, con la vana speranza che Tadayoshi potesse notarla, potesse non restarne indifferente.
Mina era talmente presa da quei pensieri, da non accorgersi minimamente della carezza sulla schiena nuda, ruvida e dolce allo stesso tempo.
Avendo abbassato lo sguardo, non si era minimamente accorta che Tadayoshi era entrato in camera. Avendola vista col capo chino e le braccia strette al ventre, aveva temuto che avesse avuto un malore improvviso. 
«Stai bene?», Tadayoshi le si era accovacciato accanto, osservandola con estrema attenzione con quei suoi occhi scuri, impenetrabili.
Come intontita, Mina sollevò lo sguardo e si ritrovò faccia a faccia col marito, sussultando appena. Era talmente rapita da quelle iridi dure e fredde che la scrutavano, da non accorgersi di essere completamente esposta al suo sguardo.
Ci mise un po' a realizzare la cosa.
Alzò così l'asciugamano di spugna per coprirsi, arrossendo vistosamente. Suo marito era talmente silenzioso quando si muoveva in casa che non si accorgeva mai della sua presenza. 
«Non mi guardare, sono nuda» sussurrò Mina, aggiustandosi la lunga asciugamano bianca lungo il corpo magro e sottile.
Tadayoshi si allontanò lentamente da lei, facendosi peso sulle ginocchia per rialzarsi.
«Ti ho già vista nuda altre volte» rispose secco, con ovvietà, strofinandosi il naso.
E ogni volta diventi sempre più bella, pensò, distogliendo lo sguardo.
Mina però percepì altro nelle sue parole.
Che sia vestita o meno, non ti fa alcuna differenza, realizzò con amarezza.
«Potresti uscire? Dovrei vestirmi» chiese lei con gentilezza. 
Quasi sperò che il marito non le desse retta, e restasse lì ad imporre la sua presenza. Magari afferrandola per il collo e sbattendola sul letto, con l'intenzione di penetrarla da dietro, dando finalmente sfogo alla sua libido repressa.
Mina strinse le cosce a quel pensiero volgare, ma tanto agognato. Erano giorni che Tadayoshi le si negava senza darle una degna spiegazione.
«Ti aspetto di la'» e uscì dalla stanza, così com'era entrato. Lo sguardo perso altrove, men che meno su di lei.
Mina si portò le mani sul viso, rilasciando un lungo sospiro. La scossa di piacere che le era percorsa nel bassoventre a seguito di quel fugace pensiero l'aveva resa umida e sensibile. 
Cercò di calmare quei bollori improvvisi stringendosi nell'asciugamano, reclinando la testa all'indietro. 
«Non ci pensare, non pensare a queste cose» si disse, come un adolescente in piena tempesta ormonale.
Pensò alla tavola da preparare e alla cucina da riordinare. Alle normali faccende di casa sul quale riusciva ancora ad avere controllo, siccome sul suo rapporto con Tadayoshi tutto andava nella direzione opposta a quella desiderata. 
Riprese in mano il batuffolo, e continuò a tamponarsi l'acqua profumata sulla pelle.
L'ombra di quella carezza continuava, però, a scottarle sulla schiena.
 
La cena fu piuttosto tranquilla, come sempre. Tadayoshi apprezzò molto gli involtini di melanzana e lo yakisoba preparato dalla moglie. 
A Mina piaceva molto cucinare, anche se aveva imparato da pochissimo tempo. Aveva sempre osservato Ichika, la governante di sua nonna, mettersi all'opera ai fornelli, i suoi piatti rispecchiavano perfettamente la sua essenza: saporiti e accoglienti, proprio come lei. 
Mina si era sforzata molto affinché Tadayoshi l'apprezzasse almeno in questo. Visto che in altri ambiti non nutriva più alcuna speranza. 
Dal canto suo, a Tadayoshi piaceva la cucina di Mina. I primi mesi non era stata molto squisita, ma col passare del tempo, e col notare l'impegno e la devozione che la ragazza attuava nella preparazione delle pietanze, non poté fare a meno di supportarla con un sorriso e dei complimenti sinceri. 
Amava persino il modo in cui Mina gli preparava il bento con i resti della cena prima, sempre bello ordinato e con qualche rametto di muschio per decorazione.
C’era sempre qualcosa di artistico in ciò che sua moglie creava. 
Mina non gli parlava mai della sua vena artistica. Qualche volta l'aveva beccata a disegnare su uno sketchbook, ma quando lo sentiva arrivare, la vedeva mentre lo nascondeva prontamente sotto il cuscino del divano. Lui non aveva mai avuto il coraggio di sbirciare, sentiva che le avrebbe mancato di rispetto se si fosse solo azzardato a sfogliarlo senza il suo permesso.
Inconsciamente, temeva addirittura di trovarvi qualcosa al suo interno che avrebbe preferito non vedere.
Il ritratto di un uomo, forse. Un uomo che non era lui.
Un uomo dalle sembianze di un principe, bello come il sole, sorridente.
L'uomo che Mina avrebbe desiderato giustamente al suo fianco.
Percepì lo sguardo ricco di aspettativa di Mina addosso. Lo guardava con quei suoi occhi grandi e languidi, come se volesse estorcergli un giudizio riguardo ai piatti da lei cucinati.
Poggiò di sfuggita lo sguardo sulla mano destra, chiusa a pugno sul tavolo. La stessa mano con cui aveva carezzato la schiena di Mina soltanto pochi minuti prima. Il solo ricordo di quel contatto delicato gli mandava in pappa il cervello. Un gesto così intimo e personale non glielo dedicava da tempo, e aveva realizzato quanto gli mancasse sfiorarla a quel modo. 
«Piaciuta la cena?» azzardò Mina, distogliendolo dai suoi pensieri.
Gli occhi neri e grandi lo scrutavano attenti, in attesa di una qualche risposta.
Tadayoshi le sorrise, in quel modo impacciato che a Mina piaceva tantissimo.
«Tutto buonissimo, come sempre», rispose, schiarendosi la gola.
Mina distolse lo sguardo, spostandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, con aria compiaciuta. Si sentì scaldare il cuore a quell'affermazione. Poteva considerarla una magra consolazione, almeno.
Si alzò da tavola con l'intento di sparecchiare.
«Ti do' una mano!» si offrì di aiutarla Tadayoshi, già pronto a raccattare le bacchette e i piatti, ma Mina lo bloccò velocemente.
«Ci penso io, tu continua a guardare la televisione!» fece lei, poggiandogli gentilmente la mano sul polso del marito, accondiscendente. 
Tadayoshi l'accontentò inizialmente, ma poco dopo averla vista raggiungere il lavabo della cucina, l'aiutò ugualmente a sparecchiare.
Non era mai stato tipo da starsene con le mani in mano troppo a lungo. 
Aveva lasciato addirittura sua suocera di sasso quando ad una delle cene a cui erano soliti recarsi lui e Mina a casa sua, aveva aiutato a rassettare i piatti e a portarli in cucina ad Ichika, che lo guardò con due occhi enormi, colmi di sorpresa e gratitudine.
Per lui era sempre stata una cosa normalissima aiutare a sparecchiare, a svolgere i piccoli lavoretti in casa: quando viveva alla villa assieme a Rokurota, Setsuko e gli altri, ognuno di loro faceva la propria parte in casa. Non esistevano servi né serviti, ci si dava una mano vicendevolmente.
Donna Chieko ne era rimasta piacevolmente colpita, tanto da inondarlo di complimenti. 
Yuuko invece aveva guardato Mina di traverso. Secondo lei, era deplorevole il fatto che un marito normale potesse svolgere compiti che non erano di sua competenza, come dare una mano alle domestiche. L'ennesimo rimprovero velato che lanciava contro Mina senza che Tadayoshi potesse accorgersene. L'ennesimo macigno che contribuiva a soffocarla, a renderla schiava di sè stessa e delle sue insicurezze.
Mina però quella sera non protestò alla sua iniziativa. Averlo accanto non le provocava alcun fastidio. Il suo essere così silenzioso e riservato le faceva tremare il cuore senza motivo. Bastava la sua sola presenza a renderla serena ed agitata al tempo stesso. 
Dopo aver lavato lei i piatti e asciugati ed impilati lui nella credenza, Tadayoshi prese un panno per pulire le gocce d'acqua lasciate sulla superficie.
Mina si perse nel vedere quel braccio robusto muoversi con un'innata grazia, passando con delicatezza la mano sulla superficie. Per un brevissimo istante, Mina immaginò che al posto del lavabo, lui stesse carezzando la sua gamba e la sua coscia, con lo stesso fare lento e accorto.
La cosa le provocò brividi lungo tutto il corpo.
Sentì che doveva fare qualcosa, un minuscolo gesto, altrimenti avrebbe perso quell’occasione per sempre, irrimediabilmente.
Iniziò con una carezza languida lungo la sua schiena ampia e possente. A quel tocco, Tadayoshi la raddrizzò prontamente, quasi come se avesse ricevuto un ordine implicito da un suo superiore.
Sentì la mano di Mina scorrergli lungo la spina dorsale, con la delicatezza che sapeva contraddistinguerla. Tadayoshi ringraziò il cielo di darle le spalle in quel momento. Almeno poteva socchiudere gli occhi e dare libero sfogo alle sue emozioni senza essere visto.
Con le mani si appoggiò al lavabo, il panno bagnato ancora stretto tra le dita.
«Mina...» gli sfuggì il suo nome tra le labbra, pentendosene due secondi più tardi.
A quel richiamo, Mina gli si accostò maggiormente, aggrappandosi come un koala alla sua schiena. Le mani iniziarono a tirare su la maglietta del marito, scoprendo di poco la pelle ambrata dell'addome scolpito. 
«Sei bellissimo» soffiò Mina al suo orecchio, vezzeggiandoglielo con la punta del naso. Lo pensava davvero, e questo le provocò un forte rossore in pieno viso. Si era vergognata delle sue stesse parole, di quel suo modo di elemosinare attenzioni a suo marito. Neanche fosse stata una di facili costumi.
Tadayoshi la lasciò fare, sentirsela addosso a quel modo era piacevole, era da stolti negarlo. 
«Posso?», e le dita di Mina indugiarono sul lembo della maglietta, aveva tutta l'intenzione di sollevargliela, di vedere quanta più pelle possibile. 
Tadayoshi protestò internamente, sospirando in silenzio, consapevole. Si maledisse per non riuscire ad avere il coraggio di affrontare quella situazione di petto, pur di non vederla soffrire o farla sentire inadeguata.
Avrebbe dovuto svelare troppi altarini, rispolverare segreti che aveva giurato a sé stesso di trascinarsi nella tomba.
E non si sentiva ancora pronto a farlo.
Mollò la presa dal lavabo, sollevando le braccia. Mina lo prese come un invito a continuare.
Gli sfilò la maglietta con facilità, la sua schiena ampia e muscolosa le si stagliò dinnanzi, cancellando ogni cosa intorno.
Le guance di Mina presero fuoco a quella vista. Non sapeva bene come procedere, come avanzare senza risultare inopportuna o volgare. Lasciò semplicemente vagare le dita sottili lungo la riga sottile della spina dorsale, creando costellazioni unendo i pochi nei presenti sulla pelle. 
Tadayoshi continuò a dargli le spalle, ostinato. Se si fosse voltato, probabilmente avrebbe dato retta a quella sua parte animalesca che stava cercando di tenere a bada il più possibile.
Poco dopo, Mina si strinse alla sua schiena, poggiando la testa nell'incavo del suo collo. 
Una ventata di lavanda e rose lo colse in pieno, sedimentandosi poco lontano dal cuore. 
Il palmo che scottava ancora al solo ricordo del contatto di quella pelle diafana, la visione di quel corpo acerbo, ma desiderabile.
Decise allora di voltarsi, di cedere.
Che sarebbe finita in un rapporto rapido ed indolore o in un semplice abbraccio, preferì non importarsene.
Sua moglie era lì, che lo guardava con quei suoi grandi occhi di bambina, ricchi di aspettativa mista a paura. Stringeva convulsamente tra le mani la sua T-shirt, neanche avesse paura che le potesse svanire da un momento all'altro.
Se la tirò contro, con dolcezza. Le loro fronti si carezzarono appena, i loro nasi si sarebbero sfiorati con un soffio.
La pelle nuda delle braccia di Mina frizionò sul petto del marito, lasciando che i brividi le scorressero lungo la schiena senza ritegno.
Emanava calore, protezione. A Mina sembrò di percepire la presenza di suo marito attraverso la gonna. Dovette guardare a terra per non dare voce a quei desideri lascivi che le urlavano in testa.
Ancora pochi centimetri e la distanza tra le loro labbra sarebbe diminuita drasticamente...
Lo squillo del telefono in corridoio ruppe la magia che si era creata tra loro.
Mina si staccò a fatica da lui, il cuore pulsava così forte da farle male, più per l'imbarazzo che per l'eccitazione.
Tadayoshi avrebbe voluto darle una carezza di scuse, ma se la scostò leggermente di dosso, precipitandosi in corridoio senza degnarla di uno sguardo, con il ricordo tattile delle mani di sua moglie lungo la pelle ancora persistente. 
Quando rispose a telefono, Tadayoshi parlò a voce così bassa che, nonostante l'orecchio teso, Mina percepì poco e nulla da quella conversazione sull’uscio della cucina.
«Va bene Rurika, arrivo» mormorò Tadayoshi, poco prima di riattaccare.
Mina sentì qualcosa rompersi dentro, come un bicchiere di vetro che veniva scaraventato al suolo, frantumandosi in mille pezzi.
Ancora quel nome, realizzò.
Terminata la chiamata, Tadayoshi si recò in camera da letto in tutta fretta, Mina lo seguì a sua volta. Lo vide indossare la camicia e i calzoni con una certa fretta. Una strana ansia la colse improvvisamente.
«Dove vai?» chiese, con un filo di voce. Non era davvero sicura di voler conoscere la risposta. 
«Devo correre in caserma, hanno bisogno di me» fece lui, infilandosi gli scarponi con mala grazia.
Mina si strinse nella vestaglia di seta, inquieta.
«Cos'è successo di tanto urgente?» chiese lei, a bocca arsa. Il petto le faceva così male da mancarle il respiro.
L'aspettativa che suo marito potesse rifilarle una scusa per raggiungere quella Rurika la destabilizzò a tal punto da trattenere quasi a fatica le lacrime.
Tadayoshi ignorò totalmente la sua domanda, ma si fermò a guardarla sull'uscio della loro camera da letto, costernato.
«Non aspettarmi sveglia. Tornerò tardi, probabilmente all'alba. Va' a dormire» le ordinò a bassa voce, regalandole un bacio veloce sulla guancia accaldata.
Mina sentì le mani e le gambe tremare. Non era la prima volta che capitava che il marito ricevesse telefonate da quella donna e si precipitasse fuori casa, chissà dove.
Anche se Mina una risposta se l'era data eccome.
Soltanto la tua amante potrebbe chiamarti a quest'ora della notte. 
Preferisci precipitarti da lei, piuttosto che restare qui con me.
Maledisse inconsciamente il nome di quella donna, l'intimità che si stava finalmente creando era stata spazzata via come un colpo di spazzola piuttosto violento.
Talmente incontrollata fu la sua paura di perderlo, che corse verso di lui all'ingresso, rischiando d'inciampare nel gradino.
«Non andare».
Gli sfuggì dalle labbra, senza controllo. Gli prese il viso tra le mani, aggrappandosi a quel briciolo di compostezza che sentiva di perdere da un momento all'altro.
«È tardi, e non voglio restare da sola. Dì che non puoi andare, inventati una scusa! Per favore». Mina vomitò quelle parole con un’urgenza insolita, decisamente non nelle sue corde. Gli si aggrappò alla giacca, con aria implorante. 
Se quella maledetta non avesse chiamato, adesso noi…
«Ho ricevuto un ordine, Mina. Non posso sottrarmi, lo sai».
Tadayoshi fu duro nel dirglielo, lasciò che il soldato dentro di lui parlasse al posto suo. In parte era vero, aveva ricevuto un ordine, ma sarebbe stato troppo lungo per spiegarle i dettagli.
Mina lo guardò delusa, mordendosi il labbro inferiore nervosamente.
Tanta è la voglia di vederla…
«Hai ragione. Scusami, sono stata una sciocca», rispose mortificata.
«Dimentica tutto, per favore. Non so cosa mi sia preso».
Sono tua moglie, eppure non ho nessun potere su di te.
Una fitta dolorosa attraversò il petto di Tadayoshi. Si sentì un infame a trattarla a quel modo, a lasciarla così senza darle neanche uno straccio di spiegazione.
«Non è successo niente, non ti preoccupare» fu tutto quello che le riuscì a dire. Volle lasciarle una carezza, ma riuscì soltanto a scostarle i capelli dal volto, in un gesto maldestro della mano. Mina colse in ritardo le sue intenzioni, troppo presa a rimuginare sul suo atteggiamento infantile. 
Tadayoshi afferrò il berretto e le chiavi della jeep, e si diresse verso la porta.
Assecondò soltanto in quel momento il moto del cuore, che lo incitava a dedicarle un ultimo sguardo.
«Va' a dormire, Mina» le ricordò nuovamente, con più dolcezza nella voce, chiudendosi la porta dietro di sé.
Mina rimase impalata all'ingresso per diversi minuti buoni, stretta nella sua vestaglia. Dopodiché raggiunse il divano in soggiorno e lì si stese, abbracciando un cuscino al petto. 
Pianse tutte le lacrime che aveva in corpo, fino a sfinirsi. 
La T-shirt di suo marito abbandonata sul pavimento, stropicciata proprio come il suo animo. Come il coraggio che l'aveva investita e di cui restava solo un indumento abbandonato sul pavimento, senza cura.

 
“…non aspettare di mancarti
ad ogni mia partenza…”
 
 
* * *
 
 
Il soffitto era nero, così scuro che a Mario non fece alcuna differenza avere o meno gli occhi aperti.
Apriva e chiudeva le palpebre a ritmo alterno, mugugnando piano, seguendo i movimenti del corpo che s'inarcava a seconda delle scosse di piacere che lo scuotevano.
Con le mani stringeva i fianchi di Clara, possessivo, mentre, steso, la vedeva ondeggiare il corpo come un serpente richiamato dal suono di un flauto magico. Dal suo flauto, per la precisione.
Le punte dei capelli di lei gli solleticavano lo sterno, e i sospiri gli carezzavano la pelle con dolcezza indecente.
Un ruggito di piacere gli si bloccò in gola, mentre abbandonava la testa all'indietro, al limite.
Un ultimo sforzo, ed entrambi si lasciarono andare ad un ringhio di appagamento totale. Tornare a respirare fu inizialmente arduo.
La ragazza si stese mollemente addosso a Mario, stremata dall'amplesso. Lui ci mise un po' a recuperare lucidità e fiato, accogliendola comunque nel suo abbraccio. Il dorso della mano offesa tornò a bruciare a causa dello sforzo a cui l'aveva sottoposta.
Non che quel dolore fisico gli cambiasse qualcosa. Per il solo fatto di aver soddisfatto la sua sete di sesso, si sarebbe ritenuto per qualche ora in pace col mondo intero, quanto bastava per conciliargli il sonno.
Clara se ne stette accoccolata sul suo petto silenziosa, ancora ansimante, senza proferire parola.
Mario fu contento di restare in quel modo per dei minuti che sembrarono eterni, circondati da un silenzio interrotto solo dalla loro giustificata fame d'aria.
Le toccò i capelli con le dita ancora intorpidite, e prese a districare lentamente qualche ciocca, pensieroso.
Il loro incontro, cinque mesi prima, era avvenuto per caso.
Lei, assieme ad altre due sue colleghe infermiere, aveva affittato un appartamento nello stesso stabilimento dove viveva Mario. Lui l’aveva notata subito, sebbene fosse la meno appariscente delle tre. C’era stato sin da subito uno scambio di sguardi, inizialmente molto innocente, ma più passavano i giorni, e più quegli sguardi erano diventati persistenti, famelici. 
La prima volta che finirono a letto insieme era successo durante un giorno in cui si era preannunciato l’arrivo di un tifone.
Avevano corso entrambi sotto la pioggia, bagnandosi come due pulcini.
Una volta giunti nell’appartamento, l’adrenalina provocata dalla corsa, la voglia crescente di scaldarsi e di toccarsi a vicenda esplose senza preavviso in una confusione di mani e labbra, vestiti tolti a vicenda, con una fretta nervosa.
La passione era scoppiata violenta, come il tifone fuori dalle loro finestre. 
Era stato animalesco, aggressivo, soddisfacente.
Gli ansimi di piacere coperti dal fragore dei tuoni e lo scrosciare incessante della pioggia. 
Avevano trascorso un pomeriggio intenso, folle, inaspettato.
Dopo quell’episodio si erano evitati per diverso tempo, peccato che i loro corpi non ne avessero voluto sapere di rinunciare l’uno all’altra.
Per Mario era stato un diversivo soddisfacente, per Clara l'ebbrezza della novità, dell'esotico. La voglia crescente di gustarsi a pieno il proibito.
Passò del tempo prima che la loro “relazione” lasciasse spazio alla conversazione e alla conoscenza reciproca.
Avevano iniziato col diventare complici, colmando i loro rispettivi vuoti senza dirselo esplicitamente a vicenda.
«Tutto bene?» sussurrò la giovane in inglese, la guancia calda poggiata sul suo petto duro, interrompendo la scia di ricordi apparsa nella memoria di Mario come una pellicola cinematografica. 
«Sì, dai» ammise Mario, privo di dubbi.
Allungò una mano verso il pavimento, dove era caduto il pacchetto di sigarette.
Ma constatò a malincuore che era vuoto.
Sbuffò dal disappunto, portandosi la mano sana sul viso.
«Ben ti sta, così i miei capelli non puzzeranno di fumo» lo pungolò lei, mordendogli la pelle del collo senza fargli male. Mario si scostò sorridendo, pizzicandole una guancia. 
«I tuoi capelli hanno sempre un buon profumo, Clara-chan!».
La ragazza si limitò a sorridergli, accarezzandogli le labbra con le dita sottili.
«Sono contenta di vederti stare meglio, Mario» dichiarò, appoggiando il viso sulla mano sinistra. I lunghi capelli castano chiaro le ricadevano sul petto setosi ed abbondanti. 
Mario le scostò una ciocca dal viso, buttando l'occhio su quel petto che solo pochi minuti fa aveva strizzato tra le mani, voglioso. 
«Mi sarei ripreso più in fretta se tu ti fossi decisa a venirmi a trovare prima! Sono tre giorni che non ti fai vedere. Stavo valutando l'idea di buttare giù la porta del tuo appartamento» borbottò lui in risposta, con un sorriso sulle labbra e il suo inglese sgrammaticato.
Clara scostò lo sguardo timidamente. 
«Non ero sicura che volessi vedermi» si difese lei, tracciando ghirigori invisibili sul suo petto. «Quel giorno alla base sembravi stare davvero male. Mi sono spaventata».
Mario non potè darle torto.
Dopo il putiferio accaduto con Meg, si era risvegliato nella stanza di Lily: aveva perso i sensi davanti a lei e Jimmy. Clara l’aveva intravista poco prima di andarsene da lì, ma era troppo sconvolto per fermarsi a salutarla, come se niente fosse.
I giorni seguenti era rimasto in completo silenzio ed isolamento, non aveva proferito parola con nessuno. Non sapeva come avrebbe affrontato i ragazzi dopo quella scoperta agghiacciante, non sapeva come avrebbe affrontato la questione con Joe senza fargli perdere la lucidità. 
Non si era fatto vivo al Rainbow, Setsuko era andata a trovarlo, per accertarsi che stesse bene. Lui le aveva soltanto riferito che sarebbe voluto rimanere da solo per un po', che non c'era nulla da preoccuparsi. Voleva metabolizzare da solo quanto aveva appreso accidentalmente da Meg alla base americana.
Quella ragazza aveva visto in faccia l'assassino di Rokurota, e anche se farla parlare si sarebbe rivelata un'ardua impresa, Mario ci avrebbe provato e riprovato, anche a costo di farsi afferrare per pazzo.
Tra i deliri di Meg, poi, era anche uscito fuori quel nome, Attilio… 
Gli era rimasto talmente impresso che in quei giorni di solitudine lo aveva scritto ovunque pur di non dimenticarselo.
Si era scervellato affinché ricordasse dove potesse averlo già sentito, in precedenza. 
Poteva trattarsi di chiunque, un complice dei Sakuragi, un uomo senza scrupoli, un impostore a cui Rokurota aveva pestato i piedi…
Mario le aveva pensate tutte, ma nessuna di queste riusciva a trovare attinenza con la realtà dei fatti.
Quel muro di silenzio, solitudine e rimuginio che aveva eretto in quei giorni, era stato abbattuto dal bussare leggero di Clara alla porta del suo appartamento, quel pomeriggio.
Non c'era stato il tempo di scambiarsi convenevoli inutili. Mario si era accorto di quanto il suo corpo avesse avuto fame in quei giorni. Non propriamente fame di sesso, ma fame d'affetto, vicinanza.
Stringere Clara tra le braccia gli era servito per riacquistare contatto con la realtà, con ciò che lo circondava. Oltre ad annegare in quel mare di piacere e stordimento che ormai era diventato il suo porto sicuro.
«È vero, sono stati giorni particolari. Ma adesso va meglio, anche grazie a te» confessò Mario, pizzicandole dolcemente la spalla nuda. 
Clara gli sorrise, contenta.
«Non ce l'hai più con me, quindi?» mormorò, accoccolandosi al suo petto con fare stanco.
Mario guardò il soffitto a lungo, la mano offesa che continuava a carezzare la spalla di Clara con cautela, i tendini che tiravano e gli procuravano fastidio. 
«Perché pensi che ce l'abbia avuta con te?» chiese con sincerità. Il buio della stanza lo aveva reso più audace, più partecipe all'ascolto. Voleva sentirla parlare, magari solo così sarebbe riuscito a trovare un appiglio con la realtà, senza ritrovarsi a vagare nei meandri oscuri della sua anima in perenne tumulto.
Clara fece spallucce. «Non lo so. A volte sembri così inavvicinabile, fai quasi paura. Quando ti ho conosciuto, temevo che fossi il classico tipo abituato ad alzare la voce con chiunque. Pensavo fossi scorbutico e scostante». La mano ferita di Mario non smise di accarezzarla, le dita continuarono a vezzeggiarle la pelle con una delicatezza che non riconosceva, il più delle volte. 
«E adesso invece, cosa pensi?» incalzò, inspirando impercettibilmente. 
Clara non smise di disegnare ghirigori invisibili con l'indice sul suo petto.
«Non ho cambiato idea su di te» confessò, tamburellando l'indice poco sotto l'aureola rosa del capezzolo di lui.
«Ma sei diventato più gentile, almeno».
Mario rise in silenzio di quell'ovvietà. 
«Mi sento sempre più coinvolta emotivamente con te. Non posso negare che la cosa mi piaccia da morire».
Mario sbuffò una risata nasale, mordendosi il labbro inferiore con imbarazzo.
Non era abituato a ricevere carinerie dal nulla. Da Hanae le accettava soltanto perché ciò rientrava nel suo mestiere, anche se col tempo aveva imparato a discernere i complimenti veri da quelli artefatti. Giocare a fare l'amante gli riusciva di gran lunga meglio, ne entrava e usciva col massimo del piacere e il minimo delle stronzate. L'amore non era una cosa che gli si addiceva. Non era alla ricerca di protezione come Joe e né tanto meno si sarebbe accollato la responsabilità di un matrimonio combinato come aveva fatto Tadayoshi. Voleva essere uno spirito libero, solo così avrebbe ferito meno gente possibile, e avrebbe evitato scottature a sua volta.
«A modo tuo, sei una persona speciale, lo sento. Non ti piace mostrarlo, ma è così. Hai cuore, e si vede. Saresti quel tipo di figlio la cui madre si vanterebbe con chiunque» continuò Clara con tutta quella sfilza di elogi. 
Quell'ultima frase, però, smorzò pesantemente il sorriso di Mario, rintristendolo nel giro di un secondo. Non amava parlare di sua madre, di quella vecchia storia
«Mia madre è morta di parto. Non l'ho mai conosciuta. Quindi si è potuta congratulare poco a riguardo». Lo disse come se stesse parlando del tempo o di qualsiasi altra sciocchezza.
Clara sussultò a quella dichiarazione, mordendosi il labbro per l'imbarazzo.
«Oh, sorry, I didn’t know she was dead».
«Keep calm, no problem» tagliò corto Mario, e la cosa finì lì.
Neanche capì per quale motivo aveva sentito la necessità di dirlo. Di rivelarle una cosa tanto intima e personale.
L'unica donna che aveva sempre reputato degna come madre era stata la sua giovane zia, che dall'età di quattordici anni si era presa cura di lui con amore e dedizione. Mario avrebbe potuto dubitare della veridicità di molte cose, men che meno dell'affetto che Yuzuki provava per lui da sempre, da quando lo aveva preso in braccio la prima volta, urlante e dispettoso già in fasce.
Tuttavia, Mario aveva deciso che non ci sarebbe stato spazio per la malinconia quella sera. Gli sfuggì uno sbuffo divertito.
«Comunque, ne riparleremo quando ti mollerò di punto in bianco! Voglio proprio vedere se continuerò ad avere un cuore per te» provocò, portandosi il braccio sugli occhi.
«Tanto ti lascerò prima io» ribattè lei, sollevandosi dal suo petto per la prima volta quella sera.
Sì, Mario questo lo sapeva bene. 
«A quando la partenza?» chiese, sbirciando da sotto il braccio.
Clara si massaggiò il collo lentamente, dispiaciuta.
«Settimana prossima» dichiarò, a voce bassa. Essendogli di spalle, Mario non potè notare se fosse triste o semplicemente pensierosa.
«C'è ancora tempo allora per la scopata d'addio» buttò lì Mario con estrema nonchalance, portandosi anche l'altro braccio alla fronte. 
A quel punto, Clara si girò di scatto, con aria apatica.
«Non possiamo fare che sia questa la nostra scopata d'addio?» chiese, la voce allegra con una punta di malinconia presente. 
Mario corrucciò il viso, contrariato.
«Ma neanche per sogno!» proruppe, sollevandosi dal futon con un'innata leggiadria. «Non ho ancora dato il meglio di me con te!» sentenziò, raggiungendola dietro le spalle. Scostò le gambe per accoglierla tra le sue braccia, i peli scuri pizzicarono la pelle diafana delle cosce dell'americana. Clara rise al bacio che Mario le lasciò sulla guancia.
«E come la mettiamo se m'innamoro perdutamente di te?» fece lei, pizzicandogli sulla coscia dura. Mario sbuffò a quell'ipotesi, poggiandole svogliatamente il mento sulla spalla.
«Quello è un problema tuo» affermò, strusciando il mento contro la pelle nuda della spalla di lei. L'attrito del principio di barba le provocarono il solletico. 
«Vorrà dire che dovrò contenermi» riflettè poi, prorompendo in una smorfia di fastidio.
Clara non riuscì a trattenersi dal ridere.
Si alzò sulle ginocchia, per poi voltarsi alla volta del ragazzo, che la ammirava incantato. Irradiata dalla luce lunare, Clara le sembrò una creatura ultraterrena, magnifica.
Lei gli cinse le braccia lungo il collo, investendolo col suo profumo dolce e fruttato. I seni così vicini da poterli quasi leccare.
«Grazie per aver reso la mia permanenza qui… alquanto affascinante». 
A Mario parve che la voce le si fosse incrinata appena a quell'affermazione.
Le afferrò i fianchi ossuti con dolcezza, tirandosela contro. Poi le lasciò un bacio tra l'incavo dei seni, prendendosi tutto il tempo che voleva. Clara lo lasciò fare, aggrappandosi ai suoi capelli. 
Ripresero ad amarsi, con più lentezza di prima. Mario accompagnò con la mano sana i movimenti del bacino di lei, stringendole appena il gluteo con l'intento di frenarla nel percepire la sua fretta.
Desiderò allungare quel piacere latente, renderlo eterno, infinito. 
I ricordi di quel giorno, la voce di Lily e Jimmy che cercavano di calmarlo, il rimbombo di quella verità brutale ancora lì, nelle orecchie.
Non ho visto chi ha ucciso Rokurota-san.
Mario strinse gli occhi, voltando il viso lontano dallo sguardo ambrato di Clara.
Scopare per dimenticare, davvero una gran bella tattica. Peccato si rivelasse puntualmente poco efficiente.
Clara gli baciò la guancia ispida, scendendo sulla mandibola e poi lungo il collo. 
Mario strinse il lenzuolo con la mano offesa, fu una pessima mossa. Il dolore gli percorse i tendini come una scarica elettrica, ma non allentò la stretta.
Voleva provare dolore, voleva una ragione per piangere, per eruttare tutta la rabbia che aveva covato. 
Inutile dire che non raggiunse il risultato sperato. 
E così quella danza triste e sconsolata continuò per molto, senza versare lacrime e né sospiri. Ci pensarono i gemiti a coprire il rimbombo di qualsiasi pensiero molesto.
Un altro culmine raggiunto, un altro ringhio morto in gola. Dopodiché tutto tacque, tutto annegò nel buio della notte. Solo quella leggera brezza fruttata, emanata dalla chioma della straniera, continuava a persistere, ad accarezzare le narici di Mario con insistenza. Ed un nome che vorticava nella testa, senza trovare pace.
Attilio mi aveva detto di non dire niente.
Mentre le parole di Meg ripresero a fluire nella sua memoria, per un fugacissimo istante, Mario ripensò alla donna che gli aveva consegnato la rosa bianca fuori dal cimitero, a quegli occhi color dell'ambra che lo avevano scrutato con attenzione, senza risultare eccessivamente invadenti. 
Eloïse, Attilio… in comune avevano soltanto la particolarità dei loro nomi, apparentemente nulla sembrava legarli tra loro. A parte, forse, che entrambi avevano avuto a che fare con Rokurota in qualche modo. Era lui il punto d'unione fondamentale in quella stramba vicenda.
«Cosa c'entri tu con queste persone, Rokurota?».
Il mormorìo sfuggì alle labbra di Mario a tradimento, nel dormiveglia. Il cuore che ancora batteva nel petto dopo il piacere raggiunto. Clara già dormiva da un pezzo, per fortuna.
«Roku…rota…»
Si addormentò pronunciando il suo nome, affondando il naso nei capelli di Clara, coccolato da quelle note di frutta persistenti.
 

 
***
 

Quel bar in periferia era piuttosto gremito di gente, Tadayoshi poté constatarlo già dall'entrata. 
Lì dentro non vi era nessun giapponese, a parte qualche lavoratore stagionale.
Il bar Three Wishes era famoso in zona per essere il ritrovo dei meticci e degli stranieri, soprattutto dei coreani. 
I giapponesi preferivano starsene alla larga: dopo la guerra, guardavano con molta più diffidenza le comunità straniere, quelle formatesi prima e dopo lo scoppio della stessa.
In particolar modo vi era molta tensione con i coreani, alcuni di loro giunti in Giappone da clandestini. 
Tadayoshi si guardò intorno vigile, la mano poggiata sulla pistola, in caso di evenienza. 
Un lento soffuso stavano trasmettendo sulla pista, numerose coppie ballavano abbracciate sulle note di Anata to Watashi. La voce vellutata e allo stesso tempo potente della cantante sembrò rendere meno squallido e sinistro quel posto.
«Ehilà!» lo richiamò una voce femminile, nel riconoscerlo.
Tadayoshi si alzò di poco la visiera del berretto, e scorse una giovane con i capelli scalati e neri, una frangetta perfettamente simmetrica e il fisico da pin-up incastrato in un vestito nero a collo alto che evidenziava maggiormente le sue forme. Era appoggiata al muro, le mani intrecciate dietro la schiena.
La ragazza gli fece cenno di raggiungerlo, e Tadayoshi non se lo fece ripetere ulteriormente.
«Buonasera Rurika» la salutò, con tono professionale.
«Buonasera Soldato!» fece lei di rimando, ammiccante.
«Vieni con me. Ti stanno aspettando», dichiarò, dandogli prontamente le spalle, con sicurezza. Tadayoshi la seguì di riflesso, buttandosi sempre occhiate intorno.
 
«Come sta tua moglie?» chiese Rurika in tono confidenziale. Essendo di spalle, non notò il sussulto che prese in contropiede l'altro. Se ripensava a come aveva trattato Mina poche ore prima, iniziava a provare un certo fastidio alla bocca dello stomaco. 
«Uhm, bene, grazie» rispose secco, schiarendosi subito dopo la gola, per mascherare l'imbarazzo crescente.
«Non vi stavate facendo le coccole quando ti ho chiamato, vero? In tal caso, ti chiedo umilmente scusa per averti rovinato i piani» commentò Rurika, con una punta d'ironia nella voce.
Tadayoshi scosse il capo con imbarazzo.
«Avevamo solo finito di cenare» liquidò lui, senza aggiungere altro.
Omise deliberatamente il fatto che, dopo mesi, avrebbe voluto darsi un’altra possibilità con lei, stringendosela tra le braccia senza dover pensare alle conseguenze.
Lo sguardo implorante di Mina continuò a perseguitarlo.
«Di solito chiami Mario per questa faccenda...»
«Non me lo nominare!» lo bloccò la tipa, alzando con enfasi una mano mentre scendeva le scale che portavano allo scantinato.
«Saranno più di due settimane che non si fa vivo... se la starà spassando alla grande con quella troietta americana da quattro soldi!» commentò velenosa, Tadayoshi colse anche un pizzico di risentimento nelle sue parole.
«Mollare me di punto in bianco per quel manico di scopa... il tuo amico c'ha proprio dei gusti di merda, lasciatelo dire!» concluse asciutta Rurika, invitando Tadayoshi ad abbassare il capo, onde evitare una botta indesiderata in piena fronte a causa del soffitto abbassato.
«Ero fermo ad Hanae… mi cogli di sorpresa con questa novità» puntualizzò Tadayoshi, aggrottando la fronte divertito. 
Lui si era interessato poco alle vicende amorose di Mario, non sapeva neanche che si stesse frequentando con una ragazza americana. Gli venne da ridere al pensiero che l'amico mal sopportasse tutto ciò che riguardava l'America, eccezion fatta per le sue donne. 
«Hanae è un'altra storia, Tadayoshi… avrei compreso di più se mi avesse accantonato per lei, ma per quella lì… trovi che se ne sia innamorato? Non è mai durata tanto a lungo…».
Rurika continuava a scendere le scale, restando impassibile, nonostante l'evidente fastidio che provava per l'argomento.
Tadayoshi aprì bocca per replicare la sua, convinto del fatto che l'amico di sempre non fosse minimamente intenzionato a cercarsi storie serie, quando nella sua visuale, apparirono due persone, intente a risalire la loro stessa rampa di scale. Avevano l'aria di essere piuttosto giovani, di gran lunga più piccoli di lui.
«Andate già via, mocciosi?» chiese Rurika, sorpresa nel ritrovarsi il primo della fila quasi accanto alla spalla. 
Il ragazzo col berretto sugli occhi e qualche filo liscio di capelli che gli ricadeva lungo le orecchie la fissò in silenzio per qualche secondo. A Tadayoshi diede l'impressione che fosse un po’ urtato.
«Qua abbiamo finito» decretò il ragazzo. Anzi, a giudicare dal tono di voce, Tadayoshi si accorse che in realtà il giovanotto con il berretto in testa e la salopette da lavoro che aveva risposto a Rurika era una ragazza.
Il giovanotto che le stava dietro era indubbiamente maschio, però.
«Di poche parole come sempre, eh, Eva Bruno?» la pungolò Rurika, mettendosi una mano sul fianco, provocativa.
La ragazza dall’aria mascolina si limitò a fissarla, schioccando la lingua, scocciata. 
«Non abbiamo tempo da perdere noi, Rurika Ikeda» le fece il verso, continuando a risalire le scale, e lanciando a Tadayoshi uno sguardo di fuoco, di sfida. 
Il soldato rimase talmente scosso che non udì il timido Buonasera dell'altro ragazzo che era rimasto dietro, e che voleva mostrarsi quantomeno cortese rispetto alla compagna. 
«Le chiedo scusa… mia sorella ha sempre questo modo un po’ arrogante di porsi… ma è una brava ragazza» la difese il ragazzo, toccandosi la visiera con fare impacciato, mordendosi il labbro inferiore. 
Tadayoshi notò un particolare rilevante: quel ragazzino non era giapponese. Non aveva tratti asiatici, così come sua sorella. La cosa lo stupì abbastanza.
«Emilio! Muovi il culo!» lo riprese Eva, fredda e senza troppi giri di parole. Il giovanotto, dopo l'ennesimo inchino e l'ennesimo congedo, seguì la sorella, affrettando il passo sulle scale.
Quando si furono allontanati, Tadayoshi scambiò con Rurika uno sguardo pieno di interrogativi.
«Chi sono?» chiese, sollevando un sopracciglio. Rurika gli diede nuovamente le spalle.
«Nulla d'importante, capitano» chiosò, saltellando velocemente gli ultimi gradini.
Giunsero davanti ad un portone di metallo. Rurika lo aprì con fatica, spingendo in avanti aiutandosi col corpo.
Si aprì davanti a loro una stanza spoglia, senza finestre. Al centro della stanza vi era un tavolo enorme, con alcune sedie vicino, alcune mezze rotte. Su una di esse, a cavalcioni, era seduto Jeoffrey, pensieroso, il mento poggiato sulle braccia. 
Di fronte a lui, Lily era poggiata col bacino al tavolo, a braccia conserte. Si voltarono entrambi al cigolio sordo provocato dall'apertura del portone. Lily sorrise affabile alla volta di Tadayoshi, il quale ricambiò imbarazzato. Non si era aspettato la sua presenza lì.
La luce al neon della lampadina appesa al soffitto rendeva i loro volti spettrali.
«Eccolo il nostro capitano!» una terza voce ruppe quel silenzio religioso in cui si era arenato l'abitacolo.
Tadayoshi riconobbe la fisionomia imponente del comandante Hagino, anche lui in borghese.
Come da abitudine, Tadayoshi lo salutò con il saluto militare, dritto come un tronco.
«Suvvia, Tadayoshi! Ti conosco da quando eri un moccioso così, e poi qui siamo tra amici...» Hagino lasciò volutamente in sospeso la frase, rivolgendo uno sguardo glaciale alla volta dell'americano, che lo ricambiò apatico, ma a muso duro.
«Ancora devo capire a cosa ci serve la tua presenza qui» ringhiò il comandante con aria di sfida verso un Jeoffrey attento e guardingo.
«Sai bene che non posso lasciare la base senza un permesso valido. Jeoffrey si è offerto di accompagnarmi» lo giustificò Lily, pacata. Quel teatrino non era nuovo agli occhi di Tadayoshi: era risaputo l'astio che Hagino covava nei confronti degli americani, anche a causa di vicende personali che lo avevano coinvolto.
Sua sorella Eri era stata venduta a loro per sanare i debiti di famiglia dopo la guerra e Hagino non aveva potuto fare nulla a riguardo, se non sopportarne il peso ingoiando innumerevoli rospi. 
«Voglio sperare non sia solo una scusa per allungare le mani» accusò velatamente il comandante, poggiando entrambe le mani sulla superficie legnosa del tavolo, lo sguardo puntato dritto nel ghiaccio delle iridi di Jeoffrey.
Lily in risposta gli puntò contro uno sguardo pregno di rimproveri e ammonimenti, bloccandolo lì sul posto. Hagino osò fronteggiare i suoi occhi da cerbiatta, pentendosene subito dopo. Quegli occhi non gli erano mai stati del tutto indifferenti, erano stati la sua condanna e la sua salvezza. Avrebbe accettato qualsiasi cosa da quegli occhi, persino l'odio. Si sarebbe lasciato inchiodare al suolo da quello sguardo così deciso e ammaliante, si sarebbe lasciato calpestare senza ritegno.
«Vedi di non esagerare, Eichi», Lily pronunciò quella frase con calma piatta, senza temere alcun tipo di conseguenze, sfrontata.
Hagino deglutì, poi tossicchiò con la scusa di interrompere quel contatto visivo che gli stava facendo diventare troppo stretto il cavallo dei pantaloni.
Tadayoshi assistette inerme a quella scena, improvvisamente si sentì di troppo. 
In quella fermezza e sicurezza che la donna emanava, rivide per un solo, singolo momento il profilo impassibile e composto di Rokurota. Quei due erano davvero ormai diventati una cosa sola con il tempo. Se le cose fossero andate diversamente, avrebbero potuto essere una coppia incredibile, invincibile agli occhi di tutti.
Da ragazzino, inconsciamente, Tadayoshi aveva sognato di avere un legame così con qualcuno. Totale, ma anche forte e indissolubile.
«Torniamo a noi» tagliò corto Hagino dirigendosi verso un plico di fogli battuti a macchina, ben nascosti in una libreria di metallo.
Tadayoshi si accorse però dell'assenza di qualcuno in quella stanza.
«Il dottor Tenko non verrà stasera?» chiese, indispettito dalla sua assenza.
«Rurika ha chiamato anche lui in ospedale, ha risposto Setsuko. A quanto pare era impegnato in sala operatoria. 
Ma non è un problema, stasera non abbiamo bisogno di intermediari» dichiarò Hagino, porgendo il plico a Lily, invitandola silenziosamente a controllarne il contenuto.
«Segna i nomi che t'interessano. Quelli avranno la precedenza» le comunicò a bassa voce. A Tadayoshi parve che vi fossero scuse celate in quel tono sommesso.
Lily lo ringraziò gentile, prendendo i fogli in mano, guardandolo dall’alto in basso.
Scrutò attenta i nomi scritti su quella lista, alcuni li pronunciò a bassa voce per imprimerli meglio nella memoria.
Non appena individuò i nomi interessati, prese una lapis rossa, abbandonata lì sul tavolo, e li cerchiò, marcando bene il colore sulla pagina.
«Questo è il fratello di Hiah, subito dopo ci sono la moglie e i due figli, la bambina di undici e il bambino di otto anni» dichiarò Lily, con fare sicuro. Riconsegnò il plico ad Hagino, che annuì alle sue dichiarazioni.
«Quattro passaporti e quattro documenti che devono avere la precedenza, dunque» sottolineò lui, buttando un'occhiata a quei nomi, carezzando distrattamente col pollice i cerchi rossi del lapis.
Nel frattempo, con la coda dell'occhio, Tadayoshi notò Rurika in procinto di accendersi una sigaretta, appoggiata al muro in religioso silenzio.
«Don't smoke here, please» chiese gentilmente Jeoffrey alla volta della ragazza, indicando impercettibilmente Lily con lo sguardo azzurrino. La donna sorrise appena a quella premura. Hagino parve invece non prendere bene quel suo gesto di galanteria. Gli puzzava di marcio.
«Oh, I'm sorry, ehm... maledetta abitudine» scherzò Rurika, togliendosi la sigaretta dalle labbra. 
Anche Tadayoshi rise alla sua risposta. Ripensò ancora una volta agli epiteti che lei aveva affibbiato al suo amico scapestrato soltanto qualche minuto prima.
Era talmente preso dai suoi pensieri, da non accorgersi della vicinanza del comandante Hagino, a pochi centimetri da lui.
«Dai questa lista a Ryuji, e digli che i nomi segnati in rosso devono essere pronti in tre giorni, gli altri tra una settimana esatta» ordinò Hagino, tornando ad assumere il suo solito fare altero, da uomo di guerra.
Tadayoshi prese in mano il plico, annuendo con decisione.
«Ryuji mi maledirà nel vedere tutti questi nomi» commentò, sollevando un sopracciglio. La prospettiva di preparare tutti quei documenti per l'arrivo di tutte quelle persone dalla Corea era un'impresa alquanto ardua. Per fortuna, potevano contare sull'aiuto e la discrezione di diverse persone, come Yoshida e i suoi figli, il signor Hayakawa, il loro barista, e la vedova tanto amica di Mansaku, Mitsuki.
Le autorità giapponesi gestivano il traffico degli sbarchi delle navi clandestine provenienti dalla Corea. Durante lo smistamento, erano stati numerosi i casi di violenza perpetrati dai soldati giapponesi ai danni dei migranti. Puntavano soprattutto sulle donne e sulle ragazze, le quali, dopo averle abusate e tenute ammassate in dei capannoni nei pressi del porto, venivano rivendute come prostitute o portate a servire nelle case degli ufficiali. Nessuno poteva reclamarle in terra straniera, poiché senza validi documenti non potevano appellarsi ad alcun diritto.
Erano come dei fantasmi senza nome e senza identità, in una terra che non era la loro casa e il loro rifugio.
Quella storia agghiacciante andava avanti dai tempi precedenti alla guerra, e dopo la guerra civile scoppiata in Corea nel ‘50, gli arrivi dei clandestini si erano intensificati notevolmente. 
Il corpo fantoccio militare giapponese si era sentito in dovere di sfogare la propria frustrazione su di una popolazione inerme, ferita. 
Ma quel che più aveva agghiacciato maggiormente, era stata l’indifferenza dell’opinione pubblica, che tendeva a “giustificare” l’atteggiamento dell’esercito giapponese, essendo composto perlopiù da gente di strada, ex-detenuti e affiliati della yakuza. Nulla che richiamasse agli antichi splendori dell’esercito imperiale, invidiato dal mondo intero e represso in un battito di ciglia dall’incedere punitivo degli Stati Uniti.
Rokurota era venuto a conoscenza di questi orrori per purissimo caso, proprio per aiutare alcune ragazze, compagne di Lily, a ricongiungersi con i propri famigliari, scampati alla guerra. O almeno, questo era ciò che Tadayoshi e i ragazzi sapevano a riguardo.
Da allora, assieme ad Hagino, si era buttato a capofitto in quella missione, cercando di aiutare a far entrare nel Paese quanta più gente bisognosa possibile.
Per questo era fondamentale possedere un documento che risultasse valido alle autorità di controllo. Il coreano che si sarebbe trovato in possesso di esso, avrebbe avuto un lasciapassare che gli avrebbe permesso la libertà. 
Dopo la morte di Rokurota, Hagino aveva continuato a gestire lui il traffico e l'entrata dei coreani clandestini al porto della loro cittadina. 
«Confido in Ryuji, quando si ci mette, non lo ferma nessuno. Ricordo ancora come Rokurota si vantava della sua efficienza, tutto orgoglioso ed impettito» commentò Hagino, dando una pacca sulla spalla del suo giovane capitano. 
«Sarebbe fiero di voi, oggi». A quella frase, Tadayoshi arrossì appena.
Lily invece si schiarì la gola nel sentir nominare quel nome, portandosi una mano al petto. Portava al collo due anelli uguali infilati a mo’ di ciondolo; se li strinse con forza tra le dita.
«Se non hai più bisogno di me, andrei. Sono piuttosto stanca» s'intromise lei, invitando Jeoffrey ad alzarsi dalla sedia picchiettandolo sul braccio.
Il marine non se lo fece ripetere due volte.
Hagino la seguì con lo sguardo, rapito dalla sua silhouette magra, ma abbondante su alcuni punti. Si appellò a quel briciolo di contegno che gli era rimasto per non cadere in ginocchio davanti a lei.
«Sta' attenta» le disse, puntando lo sguardo fugacemente sul suo fondoschiena.
Nel vedere Jeoffrey poggiarle una mano sulla spalla, Hagino si morse un labbro per la frustrazione.
«Non ti azzardare a toccarla, sporco yankee» sibilò, Rurika e Tadayoshi sobbalzarono all'unisono.
Lily si voltò verso il comandante, rivolgendogli un sorriso beffardo.
Jeoffrey si limitò a rimettersi le mani in tasca, passivo.
«Dacci un taglio con le tue paranoie, Eichi. Non gli avrei chiesto di accompagnarmi se non mi fidassi ciecamente di lui» dichiarò la donna, stanca ma combattiva come sempre.
«O ti devo ricordare che anche lui era uno dei suoi migliori amici, oltre te e Kensuke?» La voce le uscì rotta, senza controllo. «Il fatto che si sia riuscito a guadagnare il suo rispetto non ti dice nulla?», affermò ancora, il pugno destro serrato, mentre con le dita dell’altra mano sfregò quei due anelli che portava al collo. Non due semplici anelli, due fedi.
Il disappunto di Hagino raggiunse i massimi storici. «Lui vedeva il buono ovunque e si fidava troppo velocemente di chiunque. E si è vista la fine che ha fatto».
Le sbattè in faccia quelle parole apposta. Non voleva davvero ferirla, voleva soltanto metterla in guardia. Non avrebbe accettato di perdere anche lei, soprattutto lei.
«Se tocchi Jeoffrey offendi la sua memoria, Eichi. E mi dispiace, ma questo non te lo concedo!». Nonostante la stanchezza, Lily apparve agli occhi di tutti talmente minacciosa da incutere un timore indicibile.
Tadayoshi ipotizzò quanto potesse farle ancora male quell'assenza, a distanza di anni. Anche se quel nome non era stato menzionato, Tadayoshi poteva immaginare perfettamente a chi Lily stesse facendo riferimento. In quegli occhi da cerbiatta, l'amore incondizionato nei confronti di Rokurota continuava a bruciare incessantemente, senza darle tregua.
Tadayoshi si sentì in dovere di intervenire, di appianare gli animi, in qualche modo.
«Comandante, se le mie parole possono valere qualcosa... Jeoffrey piace addirittura a Mario, pensate un po'! Ed è risaputo il suo astio nei confronti degli americani! Vorrà significare pur qualcosa, no?».
La pronuncia di quel nome venne accolta in modo diverso da tutti i presenti nella stanza. 
Rurika stralunò gli occhi, divertita. Jeoffrey sogghignò grattandosi la punta del naso, e Lily abbassò lo sguardo, intenerita da quelle parole. 
Per un breve momento, le sue iridi dolcissime incontrarono quelle scure e torve di Tadayoshi. Se le sentì addosso come una carezza materna, ricca di gratitudine.
«Mario ha poca presa a riguardo! Deve ben volerlo per forza» dichiarò Lily, stringendo il braccio dell'americano, sorridendogli amichevole.
Hagino li fissò accigliato, ma preferì soprassedere. Non era quello il momento e la sede giusta per affrontare quell'argomento.
«Ad ogni modo, se vengo a sapere qualcosa-»
«Puoi dormire sonni tranquilli, comandante! Jeoffrey ha molto di meglio da fare che pensare di farsi una sveltina insipida con una puttana vecchia e inacidita come me!» lo interruppe Lily, riacquistando vigore nelle sue parole.
Tadayoshi non poté fare a meno di ammirarla per quel coraggio che dimostrava a tutti, a testa alta, senza mostrare mai segni di cedimento.
Avrebbe voluto dirle di non essere troppo dura con sé stessa, che anche lei aveva valore in quanto persona e in quanto donna. Era semplicemente il minimo, per tutto quello per cui era passata, per ciò che le era accaduto.
Hagino rimase di stucco nel sentirla proferire quelle parole.
«La prudenza non è mai troppa, cara Lily» si concesse Hagino, ricomponendosi nella sua attitudine di soldato. 
Si limitò a congedare entrambi, rigido.
Rurika li seguì, incitando Tadayoshi a fare lo stesso con un movimento del capo.
Ma lui gli fece segno di proseguire, e la ragazza, fatte spallucce, imboccò anche lei la direzione delle scale.
Rimasti soli, Hagino si portò una mano sul volto, esausto.
«Doveva andarsene da quel posto dopo la morte di Rokurota, proprio come ha fatto Eri. E invece resta ancora lì, a farsi mettere i piedi in testa da questi pezzi di-»
«Lily-san sa quello che fa. Lei sa bene che non avrebbe abbandonato le sue ragazze. Significano tutto per lei» sottolineò Tadayoshi, con garbo.
Hagino non poté dargli torto. 
Lily, a quelle ragazze, ci teneva più della sua stessa vita. Lo testimoniava il fatto che gli fosse venuta a chiedere esplicitamente una mano per assicurarsi che i familiari di Hiah, una delle sue protette coreane, ottenessero il passaporto senza intoppi. Era la prima richiesta che gli rivolgeva dopo essersi tolta di mezzo tre anni prima da quella faccenda. Ad Hagino ribolliva il sangue al solo pensiero che Rokurota avesse dato vita a tutto questo soltanto per amor suo.
Quell'amico che aveva ammirato e invidiato al tempo stesso non aveva smesso di essere presente tra di loro. Ed era diventata una situazione sfiancante, insostenibile.
«In ogni caso, come sempre, acqua in bocca in caserma, soprattutto col sergente Mori» concluse Hagino, dando una pacca sulla spalla del più piccolo.
«Non c'è bisogno che me lo ricordiate» asserì Tadayoshi, sebbene il pensiero di dover nascondere qualcosa al sergente lo turbava altamente. Ma le conseguenze in cui sarebbero incappati sarebbero state ben peggiori. La condanna per alto tradimento non gliela avrebbe risparmiata nessuno.
Con il plico tra le mani, si diresse verso l'uscita, lasciandosi dietro il suo comandante, a braccia conserte, che l'osservava con aria fiera.
 
Una volta fuori dal Three Wishes, Tadayoshi s'incamminò verso la sua jeep, ma notò che la camionetta militare di Jeoffrey era ancora lì fuori parcheggiata.
Si avvicinò, per pura curiosità.
Vide Jeoffrey e Rurika fumare e conversare in inglese. Essendo lei nata ad Honolulu da padre giapponese e madre nativa hawaiana, sapeva destreggiarsi perfettamente tra le due lingue, e possedeva anche una certa parlantina sciolta, completamente opposta alle donne giapponesi, sempre miti e di poche parole. 
All'interno della camionetta, Tadayoshi scorse Lily, seduta al lato del passeggero, in completo silenzio. 
In quel momento, il soldato decise di porgerle un saluto prima di tornare a casa.
Bussò così al finestrino, facendo sussultare Lily sul sedile. Le si dipinse un sorriso mite sul volto non appena lo riconobbe.
«Ehi, Tada!» lo salutò lei, con dolcezza, intenta ad abbassare il vetro del finestrino.
«Tratta bene quei documenti, mi raccomando» gli ricordò, civettuola.
Tadayoshi sorrise teneramente a quella richiesta. Nonostante il buio della notte, la luce dei lampioni irradiava abbastanza la strada semideserta.
Notò che la matita sul volto di Lily si era sciolta appena sotto gli occhi, anche il rossetto era leggermente sbavato. 
«Tutto apposto?» chiese Tadayoshi, non aspettandosi alcuna risposta in cambio. Aveva già captato quale potesse essere il motivo di tanta tristezza.
«Sì, sono sbadigli molesti, non sono più così giovane come una volta» mentì Lily, strofinandosi elegantemente le dita sulla guancia, per cancellare la traccia di quelle lacrime sgorgate a tradimento.
Eh si, io continuo ad invecchiare... a differenza tua.
Lily tirò su col naso, voleva cancellare l'eco di quel pensiero dalle orecchie.
-Mi devi dare una bambina, eh!
-Non lo comandi tu il genere, mio caro!
-Ma si dice che mentre fai l’amore e pensi intensamente al sesso del bambino, poi quello si avvera. Quindi ho pensato intensamente che avremo una bambina!
-Quanto sei scemo!
Nel ricordare questo semplice scambio di battute, Lily alzò il suo bel sguardo verso il tettuccio della vettura. La notte annientava ogni sua resistenza, rendendola debole, vulnerabile ai ricordi.
Si stupì nel vedersi porto un fazzoletto bianco, ricamato ai bordi con l'azzurro chiaro. La donna guardò negli occhi il ragazzo, interdetta.
«Non mi devi spiegare nulla. Faccio finta che siano solo sbadigli» le disse, con un sorriso tirato, comprensivo.
Lily gli sorrise a sua volta, consapevole di essere stata sgamata spudoratamente. Prese il fazzoletto tra le mani, si soffiò il naso e si pulì le guance leggermente sporche di matita sciolta. Lo fece con lentezza, rimanendo ferma e composta.
Appoggiato alla portiera, Tadayoshi la osservò con attenzione. Fin da quando l'aveva vista la prima volta cinque anni prima, mai si sarebbe aspettato di coglierla in un momento tanto intimo e personale, raccolto.
«Mi dispiace che le parole del comandante ti abbiano ferita prima. Ho cercato di-»
«So rimettere Eichi al suo posto, quando esagera. Non sembra, ma la cosa mi diverte» lo tranquillizzò Lily, a suo modo, mostrando la linguetta con aria sbarazzina. Quel gesto fece sorridere di cuore Tadayoshi.
Nel ripiegare il fazzoletto, Lily lesse le iniziali ricamate sopra a mano: una T e una M dell'alfabeto latino intrecciate tra loro, sembravano completarsi l'una con l'altra.
Sorrise a quella vista, carezzando con le dita quelle iniziali bellissime, ricamate con tanto amore e delicatezza.
«È stata Mina a farlo?» chiese, puntando i suoi occhi da cerbiatta con fare indagatore sul viso sorpreso di Tadayoshi.
«Sì, le piace fare queste cose» ammise lui, imbarazzato. Tutti i suoi fazzoletti, anche quelli malandati, avevano ritrovato nuova vita nelle mani di sua moglie, rattoppati e imbellettati con un’arte sopraffina. 
«Percepisco il suo affetto in questo ricamo» affermò Lily, incantata da quel piccolo lavoretto artigianale.
«Tua moglie è una ragazza d'oro, Tadayoshi. Oltre che bella, intendiamoci!» incalzò, restituendogli il fazzoletto con aria grata.
«Non farla preoccupare, non se lo merita», Lily si sentì in dovere di rivolgergli quelle parole, aveva avuto come il presentimento che quel ragazzo volesse sentirsi dire proprio quelle parole lì. Voleva sentirsi incoraggiato a non demordere, a non lasciarsela scappare tra le mani.
Tadayoshi si riprese il fazzoletto, stringendolo forte tra le dita.
«Sono io che non merito lei. Forse».
Tadayoshi buttò fuori quella verità con naturalezza, senza imporsi filtri.
Lily, come Rokurota a suo tempo, sapeva sempre come toccare le corde giuste con lui. Conosceva in parte i motivi di tante paure e tanti pensieri che affollavano la mente di Tadayoshi, a tal punto da stordirlo.
«Non voglio sentirti dire tali fesserie! Un ragazzo migliore di te non si trova in giro con facilità» lo rimproverò bonariamente Lily, picchiettandolo sulla mano che stringeva il fazzoletto. 
«E poi... lui so che sarebbe stato contento di saperti sposato. Magari gli sarebbe anche piaciuto vederti diventare papà» scherzò poi, genuina. Proprio non ce la faceva quella sera a pronunciare il suo nome. Tadayoshi sorrise a sua volta, anche se flebilmente.
L'argomento "figli" era un'altra delle questioni in sospeso che non aveva il coraggio di affrontare con Mina.
«Non so se ne voglio. Di bambini, intendo».
E anche quella verità scomoda gli scivolò tra le labbra, senza preavviso.
Lily gli sorrise, comprensiva. Gli prese il mento tra le dita, costringendolo a guardarla negli occhi, proprio come aveva fatto tante volte in passato, per farsi confessare qualche marachella combinata dai suoi amici.
«Sono sicura che ti verrà naturale. Ti hanno dato filo da torcere quei monelli dei tuoi compagni, e sei sempre riuscito a metterli in riga! Figurati con un figlio tuo: sarai un padre magnifico» lo incoraggiò Lily, sicura di ciò che affermava.
Tadayoshi esplose a ridere alle sue parole, grattandosi fra le sopracciglia.
Secondo Lily, lui rientrava perfettamente nei parametri del marito e padre perfetto. Peccato solo che lui fosse troppo annebbiato dai dolori del passato per potersene rendere conto.
Da parte sua, Lily poté solo pregare che Mina, con la sua pazienza e il suo amore, riuscisse a fargli aprire gli occhi, e a fargli vivere il mondo da un'altra prospettiva.
Se lo augurò davvero, dal profondo del suo cuore. 
«Fossi in voi due, mi metterei già all’opera per mettere al mondo una bella nipotina! Così accontenteremo qualcuno lassù… ovunque si sia andato a cacciare» decretò la donna, con un sorriso rassegnato, ma delicato, regalando un buffetto sulla guancia di Tadayoshi.
«Già è un miracolo se non sono finito di nuovo in carcere per parare il culo a tutti loro, con una figlia femmina poi, non oso immaginare!» ed immediatamente ripensò alla retata di poche sere prima, e alla sera che allontanò Mario dalla villa dei Sakuragi, in preda ai fumi dell'alcol. Era vero, gli avevano dato filo da torcere, ma non si era mai tirato indietro, né pentito di essere corso in loro aiuto.
Dopotutto, quegli scapestrati erano l'unica famiglia che gli era rimasta.
«Tu? Integerrimo soldato? Se incarcerano te, a qualcun altro dovrebbero dargli la pena capitale» commentò sarcastica Lily, portandosi due dita alla base del naso, arricciandolo per il riso. 
Un viso familiare, perennemente imbronciato e spavaldo, si fece largo nei pensieri di entrambi.
«Meglio che vada ora. Ci si vede, Lily-san» e finalmente Tadayoshi si sollevò dalla portiera, alzando una mano in segno di saluto.
Ma Lily gli bloccò l'altra mano ancora poggiata sulla portiera, prima di congedarlo.
«Hai notizie di Mario?». Fu più forte di lei. 
Dopo esserselo visto svenire davanti agli occhi, Lily aveva rischiato di collassare anche lei a sua volta.
Non seppe dire con certezza cosa o chi le avesse dato la forza di reagire e portarlo nella sua stanza, al sicuro da sguardi indiscreti e chiacchiere inopportune.
Gli era rimasta accanto tutto il tempo, con il cuore in gola e le mani che tremavano. Jimmy e Jeoffrey le avevano detto che non c'era nulla di cui preoccuparsi, che Mario aveva solo bisogno di riposarsi. Fu davvero dura allontanarla dal suo capezzale.
Non aveva smesso neanche un istante di carezzargli la fronte, e zittire i suoi deliri. 
Solo in serata si era risvegliato e, come se niente fosse, aveva lasciato l'alloggio di Lily, cercando di non incappare in nessuno nel suo cammino. 
Lei lo aveva intravisto da lontano, ma non lo aveva fermato. Non ne avrebbe avuto il diritto, dopotutto. Mario ormai era un adulto, era diventato un uomo. Non aveva bisogno di stargli col fiato sul collo più del dovuto.
Si era solo limitata ad avvisare Setsuko, nel caso si recasse da lei, come era prevedibile. Attraverso la cornetta del telefono, Lily aveva percepito i sospiri stanchi di Setsuko alle sue parole. Aveva accuratamente evitato di rivelarle la causa principale del malessere del giovane.
Talmente era presa da quei pensieri, da non percepire addosso lo sguardo indagatore di Tadayoshi.
«Non ho avuto modo di vederlo ultimamente... quando passerò al Rainbow per consegnare la lista, gli dirò di chiamarti» la rassicurò, accennando un sorriso sbilenco.
Lily scosse il capo alle sue parole.
«Non ce n'è bisogno. Mi basta sapere che stia bene. L'ultima volta alla base...» e lasciò scemare la frase, indecisa se parlarne o meno, almeno con Tadayoshi.
Lui la scrutò in volto, ansioso di saperne di più.
«È successo qualcosa al campo base?» chiese, iniziando a preoccuparsi. Da Mario si sarebbe aspettato qualsiasi alzata di testa.
Ma Lily preferì tacere sulla questione. Era meglio non alzare un polverone su quella faccenda e neanche lei si sentiva in vena di affrontare un altro argomento riguardante Rokurota.
«No, niente di importante. Mario si era sentito poco bene, tutto qua» lo liquidò, senza aggiungere altro.
Tadayoshi annuì, anche se poco convinto.
«Chiederò comunque al Rainbow. Ti riferirò se saprò qualcosa» decretò infine Tadayoshi, deciso.
Lily lo osservò con cipiglio soddisfatto.
«Che soldato affabile che sei! E nutri ancora dubbi sulla tua persona» lo prese in giro con il suo solito fare mellifluo e seducente.
Tadayoshi arrossì vistosamente, la cicatrice sullo zigomo tornò a pizzicargli la pelle. 
«Vai di corsa a casa da tua moglie, su! Non perdere altro tempo con una vecchiarda come me» lo canzonò Lily, il viso sereno e rilassato, sempre bellissimo.
Tadayoshi colse in pieno le sue parole. In cuor suo, sperò di trovare Mina a letto a dormire. Ma conoscendola, l'avrebbe invece trovata sul divano, impegnata a ricamare o disegnare pur di ammazzare l'attesa, nonostante le avesse detto categoricamente di non aspettarlo in piedi.
«Agli ordini, capo» rispose Tadayoshi, l'animo un po' più libero rispetto a poco prima.
Si allontanò dalla vettura, alzando la mano in segno di saluto anche a Rurika e Jeoffrey, che ricambiarono amichevoli.
Lily lo seguì con lo sguardo fino a vederlo partire con la sua jeep. E in cuor suo lo invidiò. Lo invidiò perché avrebbe trovato qualcuno ad aspettarlo al suo ritorno.
Nel suo alloggio, invece, non ci sarebbe stato nessuno ad attenderla. 
Solo quella copertina color panna, che avrebbe stretto al petto, bagnandola nuovamente con le sue lacrime.
-Ma mi dici perché sei così fissato a volere a tutti i costi una bambina?
-Perché un maschio l’ho già avuto. Quindi muoviti e fammi vedere la mia bambina!
-La nostra bambina, screanzato! L’aspetto io, mica tu!
-Ma io ho contributo!
-Non c’entra niente!
 
Lily si passò una mano sul ventre piatto, vuoto.
Morto, come il suo grande amore.
Una lacrima scese ugualmente, nonostante le palpebre chiuse.
 
 
* * *
 
 
Tadayoshi fece attenzione a non fare rumore nell'inserire la chiave nella toppa della porta.
Aveva dovuto aspettare che il Rainbow chiudesse i battenti intorno alle quattro di mattina, per consegnare la lista a Ryuji. Comunicò per filo e per segno la consegna fatta dal comandante, segnalando l'urgenza di quei quattro nomi cerchiati in rosso. Dopo varie smorfie di smarrimento, Ryuji si accollò il dovere, garantendone il successo a mani basse.
Tornò a casa che fuori albeggiava.
Non appena mise piede nell'ingresso, fece ancora più attenzione a non inciampare nelle sue stesse scarpe. 
Passò di soppiatto davanti alla porta che dava in salotto. Sulla poltrona vicina alla porta finestra, Mina era seduta a gambe incrociate sul divano, una sigaretta accesa tra le labbra, tutta presa a disegnare qualcosa sul suo sketchbook.
Aveva i capelli raccolti in una crocchia scomposta, e un maglioncino di lana che le ricadeva lasco sulla spalla sinistra, mostrando la camicia da notte di seta che portava al di sotto. 
Tadayoshi rimase a fissarla per dei minuti interi. Non gli capitava mai di beccarla tanto rilassata e a suo agio. 
In sua presenza era sempre composta e misurata, impeccabile. 
Nel vederla così in disordine, immersa nel suo lavoro, con le mani sporche di grafite, libera, si sentì sollevato, sereno in qualche modo.
Avrebbe voluto vederla sempre così, libera di muoversi e comportarsi come voleva, senza dovergli dare conto o sentirsi costretta a compiacerlo al limite dell'ossessione.
Tadayoshi si guardò bene dall'interromperla, ma i suoi propositi di non disturbarla andarono in frantumi nell'andare a sbattere fragorosamente nel mobiletto in corridoio, facendo cadere due o tre gingilli piazzati lì per decorazione.
Odiava quel mobile, lo trovava ingombrante ed inutile. Ma era stato un regalo di sua suocera, sarebbe sembrato brutto lasciarlo nel deposito o buttarlo via.
Imprecò tra i denti, quando si sentì richiamato dalla voce preoccupata di sua moglie. Sentì dei passetti veloci sul pavimento e se la ritrovò davanti, intenta a sistemarsi il maglioncino e a ravvivarsi i capelli nervosamente.
«Non ti ho sentito rientrare» esclamò la moglie e si portò le mani annerite davanti alla bocca, come una bambina timida.
Tadayoshi la guardò per intero, non perdendosi neppure un dettaglio di quel corpo magro e dalle forme piccole. 
«Ti avevo detto di non aspettarmi in piedi» replicò, un po' duro nella voce, piegato in avanti nel tenersi il ginocchio accidentato.
«Non avevo sonno» ribattè Mina, con le mani sporche davanti la bocca. «Mi sono persa a fare altre cose».
Dopo che Tadayoshi se n'era andato la sera prima e lei si era ridotta in lacrime sul divano, il sonno l'aveva colta in preda alla stanchezza del pianto. 
Non aveva dormito a lungo, si era risvegliata nel giro di due ore scarse. 
Si era asciugata il viso, legata i capelli alla bene e meglio, e dopo aver preso la scatola del bento di Tadayoshi, vi aveva inserito ciò che era rimasto della cena, preparando qualche tramezzino di contorno nel mentre.
Finita quell'operazione, a Mina poi era venuta una gran voglia di disegnare, e si era rannicchiata sul divano, senza accorgersi del passare delle ore e del sopraggiungere del mattino.
«Ti sei fatto male? Ho sentito una tale botta...» constatò Mina, avvicinandosi cauta al marito, ancora piegato in avanti.
«No no, è tutto appost- Ahi!» Tadayoshi non finì nemmeno la frase, che avvertì una fitta di dolore al ginocchio. Il legno di quel mobile contro cui era andato a sbattere era tanto pregiato quanto resistente e duro.
Mina corse verso di lui, tenendosi sempre una mano alla bocca, mortificata.
«Vieni, ti accompagno in camera» disse, afferrando il braccio di suo marito. Rendendosi conto che non riusciva a sollevarlo vista la sua mole, lo afferrò con entrambe le mani, girando il viso dall'altra parte. Non voleva alitargli in faccia l'odore di sigaretta.
Tadayoshi si drizzò in piedi, nonostante il dolore riusciva a camminare.
«Non è nulla di grave, tranquilla» la rassicurò, tra varie smorfie di fastidio e dolore.
Camminò appoggiandosi al muro, mentre Mina lo seguiva come un'ombra, attenta ad afferrarlo non appena lo avesse visto vacillare.
Raggiunsero il letto senza troppi problemi.
Appena Tadayoshi si sedette, Mina gli alzò la stoffa del pantalone per constatare che non ci fosse nulla di anomalo sul ginocchio. Lo tastò in più punti, con fare pratico. A Tadayoshi scappò qualche imprecazione, seguita dalle scuse della moglie, che continuava a mantenere il capo abbassato.
Mentre la vedeva tutta presa da quelle precauzioni, Tadayoshi la fissò intensamente. Senza volerlo, ritornò al dialogo fatto con Lily soltanto poche ore prima.
 
Tua moglie è una ragazza d'oro.
Un ragazzo migliore di te non si trova in giro con facilità.
Non so se ne voglio. Di bambini, intendo.
Sarai un padre esemplare.
 
Era cosciente del fatto che Mina come madre sarebbe stata perfetta. Con le sue accortezze, il suo modo di ascoltare, guardare, proteggere in qualche modo...
Lei sarebbe stata una madre meravigliosa, senza ombra di dubbio.
Lui... lui faceva fatica ad immaginarsi come un buon padre. Se solo ripensava alla sua infanzia e al suo patrigno, gli saliva in petto un disgusto senza pari.
Tadayoshi lo aveva tenuto in conto. Lo aveva saputo da sempre che da lui non sarebbe mai provenuto nulla di buono.
Non avrebbe mai voluto assistere al momento in cui Mina, esasperata e arrabbiata, avrebbe potuto urlare contro il loro figlio, rinnegandone la nascita, perché troppo simile al padre. Talmente simile da farle salire il disgusto...
Era meglio se abortivo sedici anni fa! Mi sono pentita di averti messo al mondo!
Quelle frasi, pronunciate da sua madre anni prima, non avevano mai smesso di tormentarlo, di fare così male.
«Non credo ci sia qualcosa di rotto. Al massimo ti uscirà un liv-» Mina si bloccò nel vedere il viso contrito di Tadayoshi. Aveva gli occhi serrati e il respiro usciva tremolante dal naso, e sembrava che stesse per scoppiare a piangere da un momento all'altro. 
Si sporse così verso il marito, cercando di richiamare la sua attenzione. Si dimenticò del suo alito che sapeva di sigaretta.
Quell'aroma pungente solleticò comunque le narici di Tadayoshi, ma la fragranza di lavanda la percepì molto più intensamente.
«Tadayoshi, cosa c'è?» chiese timidamente Mina, carezzandogli una guancia. Con le dita sporche, macchiò la cicatrice sul suo zigomo. Ne disegnò il profilo con l'indice, carezzandogliela come sempre. Ma l'altro non la guardò, continuò a restare con gli occhi chiusi, distante anni luce da quella stanza e da lei.
Mi dispiace Lily-san, Rokurota-san.
Non ne voglio figli, non voglio che mi rassomiglino.
«Tadayoshi...»
Un colore lillà si figurò nella sua mente, dietro le palpebre chiuse.
Il colore dei campi di lavanda.
Da bambino, sulla strada che lo portava a scuola, ne vedeva immense distese in sella alla sua bicicletta. Gli donavano sempre pace e tranquillità.
Improvvisamente, rivide sè stesso a sedici anni, un mese prima di compierne diciassette.
I pugni serrati e insanguinati, il fiatone, l'uniforme liceale macchiata del sangue del suo odiato patrigno.
Lo sguardo spaventato di sua madre, mezza nuda e delirante.
 
Mi sono pentita di averti messo al mondo...
 
Il taglio fresco che bruciava sullo zigomo, bagnato dalle lacrime che ne seguirono, che si mescolarono al sangue che sgorgava indisturbato. 
Era stato per miracolo che il coltello non avesse preso l'occhio.
Fu una disgrazia l'essere rimasto ancora vivo, a fissare sua madre, con il kimono sfatto e i capelli in disordine, guardarlo disperata, fragile, inerme. 
Tadayoshi non odiava sua madre, non l'aveva mai fatto.
Odiava sè stesso, la sua esistenza.
Il fatto di essere nient'altro che un peso.
Di essersi rifugiato in un castello di bugie...
«Amore mio...»
Quella voce familiare e dolcissima, accompagnata da una carezza, lo riportò al presente, lontano da quei ricordi dolorosi, che ferivano come artigli affilati.
Quando riaprì gli occhi, Tadayoshi si ritrovò il volto di Mina a pochi centimetri dal suo. Non era truccata, aveva i capelli in disordine e gli occhi gonfi di sonno e pianto, eppure ai suoi occhi parve la creatura più bella e più pura del mondo.
Si sentì un verme ad aver maltrattato quell’angelo del paradiso, ad aver messo dei paletti tra loro senza darle uno straccio di spiegazione.
Spontaneamente, poggiò le mani sui suoi fianchi, invitandola a mettersi a cavalcioni sulle sue gambe. 
Mina si lasciò condurre spaesata, abbandonata alle sue braccia. 
La pelle nuda delle cosce sfregò sulla ruvida consistenza dei pantaloni del marito. Mina si sentì così esposta da avvampare vistosamente in viso.
Era molto più spoglia di Tadayoshi, e quell'evidenza le provocò diversi pensieri contrastanti, un misto di eccitazione e timore. Tadayoshi la manteneva per i fianchi, possessivo. A Mina girò la testa per un secondo.
Avvicinò il volto al suo collo, e lo annusò. Fu più forte di lei, volle sentire se oltre a quell'amato aroma di muschio bianco trovasse traccia di qualche altra nota di profumo.
Se quella Rurika avesse lasciato tracce di sè sui vestiti e la pelle di suo marito.
Quel nome non aveva smesso di tormentarla per tutta la notte.
Cercò persino di disegnarne i tratti, immaginandola seguendo i gusti personali di Tadayoshi.
Voleva dare un volto alla sua rivale, voleva figurarsela per rilasciare tutti quei brutti pensieri impressi sul foglio, intrappolati tra quei rapidi tratti di matita, in modo che non la perseguitassero più di tanto.
Uscirono fuori tanti volti, tante mani, tanti sguardi, tutti diversi, tutti bellissimi e irrealistici.
Tadayoshi si scostò, cercando il suo sguardo. Mina si sentì inchiodata da quegli occhi così duri e scuri, perdersi in quel mare nero pece gli risultava sempre troppo facile.
Fu tutto talmente rapido che Mina non riuscì a realizzarlo prontamente.
Tadayoshi le sfiorò le labbra, premendo le proprie contro quelle di Mina con delicatezza.
Il cuore della ragazza perse più di un battito a quel gesto. Non si era aspettata tanta vicinanza da parte di Tadayoshi così all'improvviso.
Appena notò, però, che il bacio si stava intensificando, Mina si scostò come scottata dalle sue labbra, portandosi le dita alle labbra.
Tadayoshi la guardò interdetto, non ebbe modo di chiedere spiegazioni. Mina lo precedette.
«Ho fumato prima. Il mio alito puzza di tabacco, potrebbe darti fastidio» si giustificò lei, rossa in viso per la vergogna.
Aveva preso quell'abitudine una volta entrata in accademia. Non era una fumatrice incallita, per lei fumare sigarette era stato più che altro un simbolo di emancipazione all'epoca. Le sue colleghe lo facevano e si davano arie da donne adulte e consapevoli, Mina voleva imitarle il più possibile. Voleva darsi arie da grande, dimostrando a sua madre che era adulta ed indipendente. Ma un pacchetto di sigarette non era bastato a cambiarle un destino già imposto.
La reazione di Tadayoshi fu alquanto inaspettata per Mina.
«Anche il mio alito puzza di tabacco a volte. Perchè dovrei infastidirmi per così poco?» affermò Tadayoshi, dopo aver prodotto una risata canina. 
Mina avrebbe voluto ricambiare i suoi sorrisi, ma non ci riuscì.
Si sentiva come se avesse compiuto una mancanza imperdonabile.
«Di solito non è ciò che fanno le donne per bene» mormorò Mina, affranta. 
Tadayoshi abbassò lo sguardo di pochissimo, contenendo il suo disappunto.
Dovresti smetterla di dare corda alle dicerie di tua madre.
Avrebbe dovuto dirglielo, impartirglielo come ordine, magari finalmente le avrebbe dato retta. 
Ignara delle sue riflessioni, Mina abbracciò timidamente il marito, nascondendo il viso nell'incavo del suo collo.
«E poi non è molto salutare. Non dovresti essere tanto accondiscendente su questo punto» aggiunse, poggiando la guancia sulla spalla di Tadayoshi. Un velo di tristezza coprì i suoi occhioni neri e gentili.
Sarebbe stato ipocrita da parte sua rimproverarle un'abitudine da cui era assuefatto da molto più tempo di lei.
Anche se conosceva bene le imposizioni ridicole dei mariti sulle loro mogli che circolavano al tempo. Persino su quanto lunghe dovessero essere le gonne o su quanto spesse dovessero essere le calze di nylon dovevano mettere bocca. Era una cosa comune, ma per quanto gli riguardava, Mina poteva anche andare in giro vestita con degli stracci, se era lei stessa a desiderarlo. 
Ad ogni modo, Tadayoshi non s'impose oltre, non replicò. Si strinse contro il corpo sottile di sua moglie, che sembrò quasi sparire nelle sue grandi braccia muscolose.
Si stese sul letto di schiena, carezzando con la mano il maglioncino che ricopriva la schiena e le spalle di Mina. 
Lei lo avvertì come un gesto calmo, di pace totale. La grande mano di suo marito che le massaggiava lentamente la schiena normalmente l’avrebbe eccitata vergognosamente. Ma in quel momento la rese soltanto più pacata e tranquilla, rilassata.
«Tra poco farà giorno. Devi prepararti» mormorò Mina, prorompendo in uno sbadiglio inaspettato.
Di colpo, tutto il sonno perso nelle ore precedenti l'assalì prendendola di soprassalto.
«Ssh! Dormi, non pensare a me» la zittì Tadayoshi in un sussurro. 
«Ma tu devi-»
«Dormiamo, ti dico. Se faccio tardi in caserma non è un problema» dichiarò Tadayoshi, la voce ridotta ad una linea sottilissima.
Mina si accoccolò meglio tra le sue braccia, facendo scivolare l'orecchio poco sopra il suo petto.
«Tadayoshi?»
«Uhm?»
«Rurika è più bella di me?»
Quella frase lo colse di sorpresa, facendogli sgranare gli occhi di botto.
Mina si era talmente rilassata tra le sue braccia, da porgli quella domanda con un'ingenuità senza precedenti, senza provare paura.
Anche il sonno aveva contribuito a dissiparle quel timore che le aveva roso il fegato per tutta la notte.
Tadayoshi nel frattempo si morse un labbro dal fastidio. Non aveva minimamente messo in conto che Mina avesse potuto sentire dalla sua bocca il nome di Rurika, quando lei lo aveva chiamato per raggiungerlo al Three Wishes.
«Mina, i-io...»
Stava lì lì per farlo. Stava per confessarle ogni cosa. I documenti, i clandestini provenienti dalla Corea, il loro modo di assicurare a queste persone e alle loro famiglie un futuro, e che Rurika non era affatto un pericolo, non per sua moglie almeno...
Ma il buon senso prevalse, ancora una volta. 
Tadayoshi non avrebbe mai rischiato di trascinare Mina in pericolo, preferiva di gran lunga che lo sospettasse fedifrago piuttosto.
«Mi sta bene così».
Tadayoshi girò il capo verso quello appoggiato di Mina. Si diede dello stupido interiormente.
«Se riesce a darti quello che io non riesco a darti, sono contenta così».
C'era una pesante tristezza mista a rassegnazione nelle parole di Mina. 
Tadayoshi rimase impietrito per dei minuti che parvero ore infinite.
Metabolizzare quelle parole era dura. In un altro momento, avrebbe riso di pancia a quell'affermazione, ma lì non c'era assolutamente nulla da ridere.
Sua moglie si sentiva inutile, invisibile, e lui non era minimamente capace di affrontarla e rivelarle che non era solo un suo problema. 
Anche lui si sentiva sbagliato, più di lei. Quando moriva dalla voglia di fare l'amore con lei, e il ricordo raccapricciante di quel giorno fatale gli ritornava in mente, soffocandolo senza pietà, assieme a tutte le stronzate compiute solo per fare dispetto alle persone che gli stavano accanto, che avrebbero solo voluto aiutarlo a trovare la propria strada.
Se Mina avrebbe dovuto liberarsi da quelle catene imposte in famiglia, lui si sarebbe dovuto liberare da delle catene molto più resistenti che si era costruito da solo, con le sue stesse mani. Era una situazione incresciosa, e non faceva nulla per porvi alcun rimedio.
Infine non disse niente, si limitò solo ad accoglierla meglio tra le sue braccia. 
Non esiste nessuna Rurika, sciocchina.
La donna che a-... l'unica donna a cui tengo sei tu.
Rimasero così, abbracciati in quella posizione fino a mattino inoltrato. 
Mina dormiva serena, accoccolata al petto di suo marito. Tadayoshi non chiuse occhio invece, vagando con lo sguardo sul soffitto, i mobili della stanza, mentre i capelli di Mina gli solleticavano il viso.
Intorno vi era pace e silenzio, e solo il cielo sapeva quanto ne avesse avuto bisogno in quel momento.

 
“…Rimanere un passo indietro
in ogni situazione…”
 
 
* * *
 
 
I soldati sulla camionetta erano tutti intenti a chiacchierare tra loro. L' idea di affrontare quell'addestramento fuori porta li aveva eccitati più del dovuto.
Iwasaki non smetteva di blaterare di quanto già le mancasse la sua fidanzata Aimi, ricevendo in automatico gli sfottò degli altri commilitoni. Katsuya ascoltava distratto le sue lamentele, aveva altro per la testa. 
Aveva aspettato quelle due settimane di addestramento da mesi, aveva davvero desiderato allontanarsi dal grigiore persistente delle mura di casa sua. 
Sua madre quella mattina lo aveva salutato come sempre, aggiustandogli il colletto più volte e riempiendolo di raccomandazioni.
Katsuya avrebbe voluto dirgli che non aveva più cinque anni, ma la lasciava sempre fare. Sua madre era una donna calorosa per natura.
Suo padre invece gli aveva solo rivolto un freddo saluto prima di uscire. Nessuna raccomandazione, nessun dialogo superfluo. 
Anche in casa sua l'ex generale Hitomura continuava a comportarsi come se stesse in caserma. Per Katsuya quell'eredità, a volte, pesava più del piombo. 
«... quando la rivedrò!» continuava a lagnarsi Shunichi al suo fianco, mentre la camionetta incespicava in qualche buca della strada, facendo sobbalzare vistosamente i soldati al suo interno.
«Vedrai come te la dimentichi subito la tua amata!» esordì un'altra recluta alla volta di Shunichi, attirandosi un'occhiataccia da quest'ultimo.
«Io sono un uomo fedele!» sentenziò, gonfiandosi il petto con orgoglio. «Non vedo l'ora di sposarla e di passare il resto della mia vita con lei! Magari con due o tre figli, chissà...»
L'interno della camionetta per poco non esplose con tutti i soldati.
Fragorose risate irruppero senza riguardo tra di loro, rivolgendosi qualche pacca con complicità.
«Ma per fare i figli ti devi allenare! Ora che andiamo a Toshinori scegliti una bella coreana con cui intrattenerti!» lo incoraggiò la recluta, ammiccando con aria lasciva.
«Magari portati dietro Muso Lungo, così lo sciogliamo un po'» continuò un altro, asserendo alla volta di Katsuya.
Il giovane guardò interdetto chi l'aveva chiamato in causa, accigliandosi maggiormente. Quei discorsi lo mettevano sempre a disagio.
«Lasciatelo stare! Hitomura non è uno sporcaccione come voialtri!» lo difese Shunichi, cingendogli con un braccio le spalle. Gli altri li fissarono con aria di burla, più che decisi a non mollare la presa sulle loro vittime.
«Allora facevate prima a restare a casa con la vostra mammina! Da domani si va a caccia di coreane!» affermò una terza recluta, ricevendo l'approvazione immediata dal resto del gruppo.
Nel frattempo, Tadayoshi seguiva i loro discorsi in silenzio, a braccia conserte e a testa bassa. 
Non erano una novità per lui tali battute discutibili, eppure non era mai riuscito davvero a farci l'abitudine. Non condivideva molto l'idea che i soldati avevano sulle donne, considerandole come oggetti. Non che c'entrasse qualcosa il fatto che fosse un uomo sposato, semplicemente non sopportava tanta superficialità riguardo a quella faccenda. 
Avrebbe volentieri fatto volare qualche ceffone, se solo non fosse un capitano che doveva mantenere quel suo lato manesco a bada.
«Perchè poi proprio coreane?» chiese ingenuamente Katsuya, corrucciando la fronte. Qualcosa gli si era agitato dentro, un misto tra disgusto e disagio incalzante che gli vorticava nelle viscere.
«Perchè fanno poche storie e sono delle grandissime zoccole, le migliori sul mercato! Per delle briciole di pane te lo leccherebbero fino a fartelo diventare liscio come il marmo!» un'altra risata fragorosa coinvolse l'intero veicolo, eccezion fatta per Tadayoshi, Shunichi e Katsuya.
Quest'ultimo in particolare venne investito da un moto di nausea improvviso. 
«Vacci piano con questi commenti, Fukuda!» Tadayoshi pronunciò quel rimprovero in modo calmo ed incolore, assente quasi. Ma nonostante ciò, ebbe il potere di zittire quelle risate, in un modo così naturale da lasciare tutti senza parole. 
«Il capitano Tooyama ha ragione! Siete solo dei cani arrapati, dovreste vergognarvi! Andiamo ad addestrarci, mica a divertirci nei bordelli!» Shunichi ruppe il silenzio pesante che si era creato, dando man forte a Tadayoshi. Quest'ultimo increspò le labbra impercettibilmente, uno spasmo improvviso che aveva tutta l'aria di essere un sorriso appena nato.
«Possiamo fare benissimo entrambe le cose, no? Prima il dovere e poi...» Il soldato concluse la frase con un gesto inequivocabile della mano, innescando l'ilarità di tutti.
Ma a Tadayoshi e ai suoi due sottoposti non veniva affatto da ridere.
«Cosa c'è capitano? Hai paura che tua moglie venga a sapere che le metti le corna con altre signorine più belle di lei?» Tadayoshi voltò lo sguardo verso il caposquadra Murata, che sorrideva beffardo e compiaciuto della sua stessa triste battuta.
Avrebbe voluto mandarlo a quel paese, ma lasciò perdere. Non aveva intenzione di dargli alcuna soddisfazione. 
Non c'era molta differenza di età tra loro due, ma Murata aveva sempre guardato Tadayoshi con astio e disprezzo. Aveva mal digerito anche la sua improvvisa promozione a capitano, che a suo dire era avvenuta soltanto in seguito al suo matrimonio con Mina. Infatti era stato proprio il sergente Mori a fare da garante per la loro unione.
Per Murata era stato piuttosto semplice collegare entrambe le cose verso un unico fine.
«Toglimi una curiosità: tua moglie è così brava a letto da farti passare la voglia di svagarti con qualche altra bellezza, o ti ha fatto passare definitivamente la voglia di scopare, perché è una racchia senza precedenti?» 
Murata lo disse apposta, con cattiveria. Non si premurò neanche di nasconderlo più di tanto.
In risposta, Tadayoshi rimase chiuso nel suo silenzio, fissandolo con aria minacciosa.
Sciacquati la bocca quando parli di mia moglie, idiota.
«Capisco perchè Mori ti ha dato la promozione... per premiare il tuo immenso coraggio! Sinceramente, chi se la sarebbe sposata una così? Hai avuto fegato Tooyama, non c'è che dire!» continuò velenoso Murata, ignorando totalmente l'aura oscura che si propagava intorno al suo commilitone sedutogli di fianco.
Tadayoshi strinse i pugni così forte da affondare le unghie nel palmo delle proprie mani. 
Mina poteva non essere una bellezza classica, era abbastanza alta e con poche forme, ma a Tadayoshi andava bene così. Ciò che le trasmetteva con i suoi gesti e le sue parole, la sua totale devozione e attenzione ad ogni particolare, non avrebbe saputo come descrivere i sentimenti che provava a riguardo. Provava solo tanta pace e calore nel solo sentirsela accanto. Il fatto poi che lui non facesse nulla per dimostrarle la benché minima gratitudine o interesse plateale nei suoi confronti, perdendosi tra le sue pare mentali, era un'altra storia.
«Semplicemente non dò importanza a certe cose. Come ha detto Iwasaki, stiamo andando a Toshinori per addestrarci. Per il resto, posso ritenermi totalmente soddisfatto».
Non menzionò Mina, non sottolineò nessun argomento in particolare, non ce n'era stato bisogno.
Il messaggio arrivò dritto in faccia a Murata, che rispose schioccando la lingua, infastidito.
Tadayoshi percepì di aver vinto quella battaglia, sorridendo leggermente tra sé e sé. Subito dopo avvertì un leggero calcio alla caviglia, e nell'alzare di scatto lo sguardo per controllare chi fosse stato, incontrò il sorriso caloroso di Shunichi, facendogli gesti di vittoria senza preoccuparsi troppo delle occhiate imbarazzate che Katsuya gli stava rivolgendo. A quel punto a Tadayoshi fu impossibile trattenere il sorriso. Persino la cicatrice sotto l'occhio sinistro si era distesa, non tirava neanche. 
Ma ritrovò presto il contegno.
«Non farlo più» minacciò con voce grossa, ma con l'ombra di quel sorriso grato ancora presente sul suo volto.
Shunichi abbassò il capo con fretta in risposta, guadagnandosi anche uno scappellotto dietro la nuca da parte di Katsuya.
Il viaggio, tra curve e avvallamenti, proseguì senza ulteriori intoppi.
 
 
* * *
 
«Signorina Mina, il dakgalbi è pronto!»
Ichika la richiamò dalla cucina, pulendosi soddisfatta le mani sul grembiule. 
Mina alzò la testa annuendo sorridente, invitando sua nonna Chieko a sedersi con lei a tavola.
«Faccio da sola, mia cara! Le gambe mi funzionano ancora» replicò l'anziana, con aria pimpante. Mina la lasciò fare, conosceva perfettamente sua nonna dal vedersi bene dal contraddirla.
Tutto era nato da una telefonata che stesso donna Chieko aveva fatto alla nipote quella stessa mattina.
Era bastato che Mina le avesse riferito accidentalmente che Tadayoshi sarebbe rimasto lontano da casa per due settimane, per autoinvitarsi assieme alla sua governante Ichika, portandosi dietro buste spropositate di cibo.
Si sentivano spesso telefonicamente, Mina andava anche a trovarla quando non aveva troppo da fare in casa. Chieko le chiedeva spesso come procedesse la vita matrimoniale, di suo marito e di altre cose inerenti al quotidiano, talvolta aggiornandola anche su qualche pettegolezzo riguardo persone che Mina conosceva di vista o per niente.
Mina l'ascoltava sempre con grande piacere; nonostante i suoi quasi ottant'anni, Donna Chieko era rimasta una donna lucida, arzilla ed indipendente. Non andava molto d'accordo con sua nuora Yuuko, la madre di Mina; non le era andato giù il fatto che avesse obbligato sua nipote a rinunciare ai suoi studi d'arte per farla sposare a forza con uno sconosciuto.
Tuttavia, quando però aveva conosciuto Tadayoshi, Chieko ne era rimasta colpita: nonostante l'aura minacciosa che emanava, aveva intuito subito che non era una cattiva persona. Non c'era stato bisogno di intavolare una conversazione, le era bastato soltanto osservarlo bene per capire che la sua Mina sarebbe stata al sicuro con lui e, perchè no, l'avrebbe resa sicuramente felice. 
Purtroppo, però, conosceva bene il carattere remissivo della nipote, assieme alle sue insicurezze e alle sue paure inculcategli per tutta una vita da Yuuko.
Finché suo figlio era stato in vita, il padre di Mina, la ragazza era sempre riuscita a ritagliarsi i propri spazi senza problemi, grazie all'appoggio incondizionato del padre. Ma dopo la sua scomparsa, per Mina in quella casa era cominciato l'inferno.
«Mangiamolo tutto finché è caldo!» esclamò Ichika, ponendo la pentola fumante sul ripiano apposito in legno. 
La tavola sembrava imbandita per ospitare un esercito. Ichika non si risparmiava mai quando si metteva ai fornelli.
Mina inspirò lentamente il delizioso profumo che fuoriusciva dalla pentola, leccandosi le labbra con gusto.
«Quanto mi era mancato il tuo dakgalbi, Ichika!» esclamò la giovane, quasi commossa.
«Non avete idea di quanto la signora mi abbia stressato affinché oggi ve lo preparassi, signorina!» rispose Ichika, iniziando a preparare una porzione piuttosto abbondante. 
«Peccato che Tadayoshi-kun non ci sia, avrebbe assaggiato anche lui questa bontà» esordì donna Chieko, con aria furbetta.
«La prossima volta, nonna. Magari se Ichika mi lascia la ricetta glielo preparo io» propose Mina, celando nel cuore la tristezza che l'aveva assalita nel sentir pronunciare il nome di suo marito.
Era partito presto, all'alba.
Mina gli aveva preparato come sempre il bento e il borsone, aggiustato la giacca sul petto e lasciatogli un bacio a stampo sulle labbra, intimidita.
Tadayoshi l'aveva semplicemente salutata con un bacio sulla fronte, senza dirle una parola. 
Stava facendo il bucato quando aveva ricevuto la telefonata di sua nonna, intorno a mezzogiorno.
Non poté negare a sé stessa che la presenza di Ichika e di sua nonna in quella casa le facesse bene. Con loro si sentiva libera di parlare di Tadayoshi senza temere giudizi o ansie di vario genere, come invece puntualmente succedeva con sua madre.
Se continuate di questo passo, alla fine finirà per ripudiarti, le aveva confessato un giorno Yuuko, allarmatasi al solo pensiero.
Il ripudio... il solo sentirne parlare, a Mina le si accapponava la pelle dalla paura e dalla vergogna.
«Che ne dite se una domenica di queste invitiamo a pranzo anche i ragazzi del Rainbow?» propose donna Chieko piena di brio.
Ichika e Mina si scambiarono uno sguardo divertito. 
Per Chieko, tutti quei ragazzi erano diventati automaticamente parte della famiglia. In particolar modo, le piaceva stuzzicare Mario, sempre sboccato e musone. Ogni volta che si recava al Rainbow per fare colazione, non perdeva occasione per battibeccare con lui, tra le risate generali del resto del gruppo. Lo considerava senza ombra di dubbio il suo preferito.
«Perchè no? Sarebbe una bella idea, mia signora! E poi al signorino Tadayoshi farà senz'altro piacere» incalzò Ichika, soffiando sul pezzettino di pollo brasato che manteneva con le bacchette.
Mina annuì di rimando, umettandosi le labbra.
«A proposito...» esclamò poco dopo Chieko, pulendosi le labbra sul tovagliolo macchiandolo di rossetto, «Come vanno le cose tra te e tuo marito? Aggiornaci un po', mia cara, se ci sono anche novità piccanti sono bene accette, lo sai!» gongolò l'anziana, sistemandosi l'acconciatura con le dita rugose smaltate di rosso. «Io non sono tua madre. Con me puoi parlarne liberamente» la incoraggiò Chieko, sorridendole amorevolmente.
Mina arrossì appena. 
Era vero, sua nonna aveva una mentalità piuttosto aperta rispetto alle donne della sua età, molto più morigerate e composte di lei.
Chieko Miyasugi era una donna molto rispettata in città; il suo potere era pari, se non addirittura superiore, a quello di Atsumichi Sakuragi. Non vi era mai stata apparentemente guerra tra loro, entrambi si erano ben guardati dal pestarsi i piedi a vicenda, ma quando si ritrovavano nella stessa sala, per motivi mondani o del tutto casuali, si percepiva una sottile elettricità nell'aria.
Sistematasi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, Mina sentì il bisogno di rivelare i suoi timori ad entrambe. Aveva bisogno di un loro riscontro, di un loro parere spassionato sulla questione che da giorni la tormentava senza sosta.
«Ho il sospetto che Tadayoshi mi tradisca».
Sganciò quella bomba con il cuore in mano, timorosa. 
Le reazioni delle altre due alla notizia furono quasi simili: Ichika sgranò gli occhi, rimanendo con il boccone metà in bocca e metà mantenuto tra le bacchette, mentre sua nonna per poco non si strozzò con l'acqua che aveva appena bevuto.
«Ma cosa dite, signorina?» esclamò Ichika, portandosi una mano davanti alla bocca piena, stupefatta.
Mina abbassò lo sguardo, mordendosi la lingua tra i denti.
«Non è possibile, Mina!» affermò poi donna Chieko, portandosi una mano sul petto, cercando di riacquistare la compostezza perduta.
«Quel ragazzo non ti farebbe mai una cosa del genere! Ti porta troppo rispetto, e non è uno sciocco!» continuò la donna, sicura delle sue parole. 
Ichika e Mina la guardarono, l'una con sguardo d'approvazione, l'altra con aria rassegnata e mesta.
«Beh, non mi stupirei, nonna» rispose Mina, mantenendo sempre lo sguardo basso. Strinse con le dita la stoffa della gonna, nervosamente.
«Sono circa quattro mesi che noi... che lui...» concludere quella frase per Mina fu veramente dura. Si vergognava di ammettere che suo marito la evitava durante l'intimità, probabilmente perchè non le piaceva abbastanza, perchè lei non era abbastanza.
«E poi il nostro è stato un matrimonio combinato. Ci sta che sia rimasto colpito da qualcuna che rispecchiasse maggiormente i suoi gusti».
Mina fece una gran fatica a buttare fuori quella verità. Anche se era un'ovvietà plausibile, quel fastidio alla bocca dello stomaco lo nutriva ugualmente.
Non era mai stata una persona gelosa, e non ne faceva particolarmente una questione di buon costume, come avrebbe invece fatto sua madre: era soltanto l'idea di saperlo avvinghiato tra le braccia di un'altra donna, di immaginarlo mentre moriva di piacere tra le gambe accoglienti di un'estranea più bella e più affascinante, che la irritavano a tal punto da torcerle lo stomaco.
«Non dire queste sciocchezze, figliola! Cos'avresti tu in meno rispetto a qualcun'altra, eh? Sei una bella ragazza, composta, gentile... e poi sei un'artista» esclamò con enfasi donna Chieko, piena d'orgoglio nei riguardi della nipote. 
Ma Mina non era in vena di approvare tutti quei complimenti, nonostante non dubitasse della buona fede della nonna.
«Non tocchiamo questo argomento, nonna! Io non sono un'artista» la zittì Mina, un po' dura nella voce, ferita.
Chieko le rivolse uno sguardo mesto e comprensivo.
«Questo è quello che tua madre ha voluto farti credere... Ricordo ancora i pomeriggi che passavi a disegnare distesa sul tatami! E come correvi, tutta sporca di tempera in faccia, verso tuo padre, che rimaneva sempre estasiato da ciò che creavi!». 
A donna Chieko le si ruppe leggermente la voce nel nominare il proprio figlio. Mina glielo ricordava molto, anche lui era buono e mite di carattere. 
L'esposizione alle radiazioni della bomba del 1945 gli aveva provocato una tubercolosi ossea piuttosto aggressiva. Heizo Miyasugi se n'era andato troppo presto, poco dopo la fioritura dei ciliegi, nella primavera del 1958, a soli cinquantasette anni.
Aveva fatto appena in tempo a vedere la sua secondogenita Masumi sposata ed incinta di due gemelli. Mina invece non era riuscita a completare il ciclo di studi. Nonostante la promessa fatta a suo padre, Mina non era riuscita a continuare la sua vita universitaria a Tokyo. 
Chieko ci era rimasta molto male, come era rimasta male all'idea di vederla costretta in un matrimonio che l'avrebbe resa schiava e remissiva più di quanto già non fosse.
«Ma non sono più una bambina ormai. Sono una donna sposata, e vivo in funzione del mio matrimonio, giusto o sbagliato che sia» puntualizzò Mina, trattenendo a stento il magone provocato dal ricordo di suo padre. A distanza di due anni, le mancava ancora tanto. Forse le sarebbe mancato sempre.
Chieko scambiò un’occhiata furtiva alla volta di Ichika, che la ricambiò prontamente.
«Dovresti parlargliene a tuo marito, Mina.»
«Di cosa?»
«Della tua passione dell'arte. Sono certa che Tadayoshi-kun si venderebbe gli occhi pur di farti continuare a studia-»
«Non esiste! Non voglio sentirmi derisa e umiliata anche da lui!» 
Mina era davvero spaventata al solo pensiero. Al pensiero di venir rimproverata da Tadayoshi riguardo i suoi disegni, di venir rimessa al suo posto in maniera non molto carina.
«Posso farti una domanda, nipote mia?» chiese ad un tratto donna Chieko, fissandola torva in viso. Mina si sentì le guance in fiamme.
«Certo» acconsentì, con voce tremante e sguardo basso.
«Hai mai provato a vedere tuo marito senza l’influenza del giudizio di tua madre?».
Era una domanda dura, difficile, ma Chieko l'aveva posta per il suo bene, per renderla consapevole.
Sì, Mina aveva provato a guardare Tadayoshi senza sporcarlo con i giudizi insensati di Yuuko, e aveva scoperto sentimenti strani, piacevoli e scabrosi al tempo stesso.
Quello che non riusciva ad esprimere a parole, lo buttava su di un foglio e lasciava che la mano tracciasse il suo volto, lo modellasse e lo modificasse a seconda dei movimenti dettati dal cuore.
Fece un gesto di cui, conoscendosi, si sarebbe tormentata nei giorni a venire, anche se sapeva che poteva fidarsi di sua nonna.
Si alzò dal tavolo, sollevò il cuscino del divano dove teneva nascosto il suo sketchbook. Lo aprì sulle pagine interessate e lo porse a sua nonna, senza proferire parola. Chieko lo prese tra le mani con fare accorto, elegante.
Vide disegnati tre volti uguali, in tre diverse posizioni: una a tre quarti, l'altra di profilo, l'altra frontale. Il dettaglio che colpì l'anziana fu la bellezza imperfetta che emanavano tutti e tre, ma in particolare il volto frontale: lo sguardo era basso, sommesso. Un gioco di ombre perfetto. 
Sotto lo zigomo sinistro era presente una cicatrice scura, disturbante. Eppure, ciò che trasmise a Chieko non fu paura o repulsione, bensì tenerezza e smarrimento.
Fece per cambiare pagina, quasi per riflesso, ma Mina le bloccò la mano, intimorita. 
«Lasciateci vedere, signorina» intervenne Ichika, poggiando una mano sulla spalla della giovane. A Mina non restò che ritrarre la mano, deglutendo dall'imbarazzo.
Nella pagina successiva, Tadayoshi era rappresentato mentre dormiva a sonno pieno, steso a pancia in su, le narici lievemente dilatate. Sembrava mantenere la sua aria concentrata anche nel sonno. Il busto scoperto, un braccio sopra la testa e l’altro adagiato sull’addome scolpito. Un lenzuolo morbido gli copriva la vita e metà coscia sinistra. Dava tutta l’aria di sembrare un dio greco addormentato su lenzuola di nuvole, colto in flagrante da una ninfa di passaggio che lo stava spiando dietro ad un cespuglio.
Chieko carezzò con le dita quel disegno. Dentro di sé, benedì il dono di sua nipote: nel corso della sua lunga vita, mai aveva avuto la sensazione tattile di poter davvero toccare con mano qualcosa di astratto come l'amore. Perché di amore si trattava, non c'era alcun dubbio. E se non lo era, si avvicinava moltissimo ad esso.
«Tadayoshi ha visto questi disegni?» chiese Chieko, con aria solenne.
Mina scosse il capo, umettandosi le labbra.
«Dovrebbe vederli» dichiarò la donna, chiudendo l'album con gentilezza.
«Dovrebbe vedere quanto perfetto appaia ai tuoi occhi. Che, se permetti, è anche la stessa visione che ho io di lui!» ammiccò Chieko, prorompendo in una risata argentina.
Mina ed Ichika sorrisero alle parole della donna, estremamente compiaciuta di ammirare i progressi artistici della nipote, nonostante l'arresto forzato. 
«È così che lo vedo» ammise Mina, con un fil di voce, impaurita. Ichika le carezzò la schiena, incoraggiante.
«È così che vedo mio marito. E mi vergogno da morire se ci penso. Soprattutto se penso che ha perso la testa per questa Rurika...»
«Chi è Rurika?» chiesero all'unisono donna Chieko e la sua governante, sconcertate.
Il rossore sulle guance di Mina aumentò notevolmente.
«Una donna che chiama spesso qui a casa, e chiede di lui. Non appena telefona, il più delle volte nel cuore della notte, Tadayoshi si precipita fuori di casa» mormorò Mina, mortificata. Come se il presunto tradimento del marito dipendesse solo dalla sua accondiscendenza.
Chieko aggrottò la fronte, contrariata.
«Ci dev'essere una spiegazione» indagò l'anziana, poco incline al credere che il tanto apprezzato genero tradisse in maniera così bislacca ed evidente la sua adorata nipote.
«Lo avete per caso detto a Yuuko-san?» domandò Ichika, scrutando il volto della più giovane con apprensione.
«Per l'amor del cielo, ci manca solo che mia nuora venga a saperlo, e allestiremo il teatro Nō in grande stile!» sbraitò donna Chieko, infastidita. Lanciò uno sguardo di puro rimprovero alla nipote, picchiettando l'indice rugoso sul tavolo.
«Perchè non lo sa ancora, non è vero, Mina?» si volle accertare l'anziana, onde evitare ripercussioni indesiderate.
«No, certo che no» Mina scosse il capo titubante. Se si fosse azzardata a parlarne con sua madre sarebbe stata la fine per la poca autostima che le era rimasta.
Prima l'avrebbe accusata di aver causato lei stessa tale disgrazia, poi l'avrebbe implorata a sopportare tutto in silenzio, come una brava moglie dev'essere portata a fare.
«Allora facciamo in modo che non lo venga a sapere affatto» decretò Chieko, afferrando il manico del suo bastone da passeggio, decisa. 
«Anche perchè non abbiamo la certezza assoluta che Tadayoshi-kun ti tradisca... fatico davvero a crederlo» incalzò poi, sempre più sicura delle sue parole.
Ichika convenne con la sua padrona. 
Anche a lei parve strano che Tadayoshi si fosse potuto macchiare di una tale mancanza di rispetto. Nonostante lo sguardo duro e teso, Ichika aveva saputo scorgere un barlume di gentilezza nel suo sguardo e nei suoi gesti. Proprio come Chieko, era rimasta positivamente colpita dalla sua persona. Quando pensava che la madre di Mina aveva acconsentito alle nozze solo per vedere la propria figlia sistemata davanti alla società, per poi guardare con disprezzo l'uomo a cui la stava affidando, Ichika se n'era dispiaciuta all'istante. 
«Perchè non prova a parlarne con lui, signorina?» propose, poggiando una mano su quella sottile della giovane, incoraggiante.
Mina abbassò il volto, pensierosa. Anche se avesse affrontato con Tadayoshi l'argomento, una piccola parte di lei avrebbe temuto che lui non sarebbe stato sincero con lei fino in fondo. E lo avrebbe fatto non per cattiveria, ma probabilmente per non ferirla.
Quel nome lei non se l'era immaginato, Tadayoshi l'aveva pronunciato diverse volte a telefono, in più occasioni. E in più occasioni l'aveva lacerata dentro, si era sentita le viscere sminuzzarsi senza tregua.
«Potrei provarci» mormorò, allargando un sorriso bello, ma spento.
Giusto in quel momento, il bollitore fischiò sul fuoco, facendo precipitare Mina in cucina.
Nel frattempo, le due donne si sedettero vicine a confabulare sulla sorte di quel matrimonio dal destino incerto.
«Dobbiamo indagare su questa cosa, Ichika» mormorò donna Chieko alla sua governante, che annuì prontamente.
«Ma voi credete davvero che questa Rurika sia l'amante del signorino Tadayoshi?»
«Poche volte mi sono sbagliata sulle persone. Ma se quel giovanotto dovesse deludermi... sarebbe un immenso dispiacere per la mia nipotina» sussurrò l'anziana, puntando il suo sguardo d'ossidiana liquida verso le spalle di Mina, intenta a versare l'acqua calda sulle foglie di thè. 
Chieko ci teneva tanto a Mina. A volte si era trovata a pensare se avesse potuto fare qualcosa per farla continuare a studiare, per farla restare lontana dall'ambiente soffocante di casa sua... 
Se Chieko si fosse imposta maggiormente, andando anche contro le resistenze che la stessa Mina si era imposta, perchè troppo debole e affranta per andare contro il volere della madre, probabilmente sarebbe potuta diventare un'artista rinomata, una donna libera ed indipendente, felice.
Per quel motivo donna Chieko pregò in cuor suo che l'incontro avvenuto con Tadayoshi non fosse stata una perdita di tempo, ma un nuovo inizio, un nuovo punto di partenza per sua nipote. Nuova forza da cui attingere e vivere la propria vita come avrebbe desiderato.
Con questa speranza nel cuore, donna Chieko accolse con un sorriso radioso la giovane nipote intenta a servirle il thè con un'innata eleganza di cui era del tutto inconsapevole.
Resti sempre una Miyasugi, non te lo scordare, pensò la signora con orgoglio.
Il resto del pomeriggio trascorse leggero, tra risate, pettegolezzi e chiacchiere di circostanza.
In loro compagnia, Mina non pensò a Tadayoshi o a Rurika neanche un solo istante.
 

 
* * *

I primi giorni di addestramento passarono abbastanza velocemente, per la fortuna di Tadayoshi.
Lui e Murata si erano divisi le giovani reclute da addestrare e seguire per tutta la permanenza a Toshinori, nella base militare abbandonata durante la guerra.
Guarda caso, a Tadayoshi erano capitate le reclute più indisciplinate e irruente, eccezion fatta per Katsuya e Shunichi, che si erano incaponiti a restare nel plotone assieme al loro capitano preferito.
O per meglio dire, era stato Shunichi a trascinarsi dietro un Katsuya riluttante, come sempre.
Ma quei pochi giorni furono decisivi per mettere alla prova il temperamento ferreo del neo capitano.
Era bastato davvero poco per mettere in riga quei discoli dei suoi sottoposti, richiamandoli all'ordine senza sosta, a volte anche subendo invasioni di campo da parte di Murata e i suoi commilitoni.
Tadayoshi sapeva che lo stava facendo apposta. Gli avrebbe dato filo da torcere per tutta la durata della permanenza, e lui sarebbe dovuto rimanere buono e zitto, onde evitare di farsi sopraffare dalla rabbia e rischiare un richiamo scomodo da parte del sergente Mori o del comandante Hagino.
Ingoiò ogni punzecchiata e continuò a dare in testa ai suoi ragazzi, come se niente fosse. Come se Murata non stesse lì ad aspettare un suo passo falso da un momento all'altro, puntandogli contro la sua spada di Damocle.
D'altro canto, Tadayoshi aveva dalla sua un allenamento di sei anni, se così poteva definirsi, a forza di correre dietro a quegli scalmanati dei suoi amici. Un plotone di marmocchi indisciplinati in divisa non gli faceva paura, sebbene alcuni di loro fossero poco più piccoli di lui. Aveva semplicemente deciso che sarebbe stato sé stesso, alzando la voce e mollando qualche scappellotto quando necessario. Proprio come aveva fatto qualcuno con lui e prima di lui.
Un soldato dall'aria spavalda e gli occhi grigi sempre pieni d'affetto. 
Un soldato che li aveva lasciati improvvisamente alle porte dell'estate.
 
La locanda era piuttosto chiassosa quella sera. 
Tavolate di ubriachi cantavano a squarciagola tirandosi contro le povere cameriere ed inservienti che passavano di lì per versare il vino o sistemare la tavola.
Quel luogo a Tadayoshi non gli ricordava neanche lontanamente il Rainbow.
Lì la gente si divertiva, ballava, beveva e mangiava in totale libertà e tranquillità. Noboru, Ryuji e Mario non avrebbero mai permesso disordini e fastidi da parte dei clienti sul personale. 
In quella locanda invece tutto sembrava essere concesso, senza porsi alcun limite.
I soldati seduti con lui al tavolo chiacchieravano del più e del meno, Fukuda e compagni ridevano a crepapelle, inebriati dallo shochu e dal sakè fermentato.
Anche Iwasaki aveva alzato il gomito, ma più beveva, e più piangeva parlando della sua fidanzata, assillando il povero Katsuya, scocciato a morte.
Tadayoshi condivideva con lui il suo stesso stato d'animo: avrebbe preferito rintanarsi nella sua stanza, al piano di sopra, e nascondersi sotto le coperte del futon, sperando che il sonno lo accogliesse quanto prima.
Era la quinta sera che alloggiavano in quella locanda poco fuori Toshinori. Ormai i soldati conoscevano addirittura per nome le cameriere che li servivano. Alcune se l'erano pure portate nelle loro stanze fino a mattino inoltrato.
Tadayoshi era così preso dai suoi pensieri, che non si accorse del braccio che per poco non gli sfiorò la guancia destra.
«Oh, chiedo scusa» fece una vocina sottile, accennata.
Tadayoshi alzò gli occhi verso la proprietaria di quella voce. Non fu tanto la frase in sé a colpirlo, ma la lingua in cui venne pronunciata. 
Non c'era alcun dubbio, era coreano.
Una ragazza dal viso di porcellana, tondo e roseo come una pesca, si stagliò nel suo campo visivo. Non rideva, né ammiccava, guardava seria davanti a sé mentre versava il sakè nel bicchiere di Tadayoshi con una grazia immane, delicata. 
Doveva essere piccolina d'età, dimostrava sedici, diciassette anni al massimo.
L'aveva vista soltanto di profilo, eppure Tadayoshi avrebbe potuto già affermare che la ragazza in questione era talmente bella da fargli mozzare il fiato. 
Un lieve alito di lavanda gli stuzzicò le narici.
Deglutì nel ritrovarsi a pensare a sua moglie.
Chissà cosa stava facendo in casa, tutta sola... 
«Serve altro, signore?» fece la ragazza coreana, chinando il capo verso Tadayoshi, completamente incantato dai suoi occhi. Erano opachi, l'iride non lo si riusciva a distinguere: due perle nere incastonate nel bianco guanciale dell'occhio.
Tadayoshi scosse il capo, frastornato. Una donna tanto bella in vita sua non l'aveva mai vista prima.
La ragazza fece un leggero inchino col capo, per poi ritirarsi. Lui non poté fare a meno di seguirla con lo sguardo. Lei se ne accorse, spostandosi una ciocca di capelli sfuggita alla treccia morbida e corposa.
Avrebbe continuato a guardarla incantato, se non fosse stato per Murata che lo distolse con poca gentilezza da quell’incanto.
«Che ne dici capitano? Ti piace?» gli si avvinghiò al collo Murata, con una bottiglia di vino in mano. L'odore di alcool cancellò definitivamente la traccia di lavanda che lo aveva intontito. 
«Che?» fece Tadayoshi, grattandosi il naso facendo una smorfia. 
«La puttanella coreana che ti ha servito il sakè» affermò il caposquadra, barcollando sulle sue stesse gambe. Se non si fosse mantenuto a Tadayoshi sarebbe caduto col sedere a terra senza troppi complimenti.
«Ho visto come la guardavi... te l'ha fatto diventare duro, dì la verità!».
Tadayoshi preferì non rispondergli. Non gli sarebbe uscita dalle labbra una risposta cortese, lo sapeva.
«Se chiedi il favore al padrone della baracca, te la svenderebbe per pochi spiccioli per una sera! Le coreane trombano che è una meraviglia» sghignazzò Murata, trangugiando altro alcool dalla bottiglia.
Tadayoshi non riuscì a non esserne disgustato.
«Grazie del pensiero, ma non sono interessato» tagliò corto, muovendo la mano in un gesto di puro fastidio.
Murata stralunò gli occhi, passandosi il dorso della mano sulla fronte.
«Sei proprio patetico, capitano! Preferisci le seghe a questi doni del cielo!» e nel dire ciò, toccò non molto gentilmente il sedere di una giovane cameriera intenta a raccogliere qualcosa da terra. La ragazza s'inchinò per poi affrettarsi ad allontanarsi. 
«Non sai che ti perdi, amico mio! Altro che quel cesso ambulante di tua moglie!» e un'altra fragorosa risata scoppiò nei timpani del povero Tadayoshi, sempre più stizzito.
Si allontanò poi barcollando, raggiungendo i suoi commilitoni ad un altro tavolo.
Tadayoshi si portò una mano sulla fronte, esausto. 
Aveva ripreso finalmente fiato, quando ad un certo punto Katsuya lo richiamò preoccupato.
«Capitano Tooyama, Iwasaki sta per vomitare!» affermò con occhi sgranati.
Tadayoshi dovette appellarsi a tutte le sue restanti forze per non sfracellare la testa di Iwasaki e compagnia cantante alla roccia più vicina.
«Forza, portiamolo fuori!» e se lo caricarono in spalla, lui a sinistra e Katsuya a destra, incamminandosi verso l'uscita.
 
Iwasaki aveva vomitato anche l'anima. 
Anche gli altri commilitoni di Tadayoshi erano piegati in due, mentre si reggevano a fatica al muro, rimettendo senza sosta.
Katsuya era l'unico rimasto apparentemente sobrio, Tadayoshi ne fu parzialmente sollevato.
Sapeva che sarebbe sboccato di lì a poco, voleva maledire Murata e quelle reclute piantagrane che facevano l'esatto opposto di ciò che si era fatto promettere ad inizio serata, ossia di non bere eccessivamente e di andare a letto presto, siccome l'indomani mattina aspettava loro l'addestramento. 
Dovette arrendersi all'evidenza che i suoi ex compagni del carcere fossero decisamente più trattabili di loro. E per arrivare a pensare che un soggetto problematico come Mario in confronto a loro fosse un agnellino, voleva dire soltanto una cosa: Tadayoshi non ne poteva davvero più. Non ne poteva più delle ripetute frecciatine di Murata riguardo il suo matrimonio, e del fastidio che provava ogni volta che offendeva Mina con quei termini inappropriati. Lasciava correre soltanto per non innescare liti, per farla finita il più velocemente possibile. Murata non si meritava la sua attenzione. 
Eppure, una piccola parte di sè avrebbe voluto spaccargli il naso senza nutrire alcun pentimento. Avrebbe voluto dimostrare a lui e a sé stesso che quella promozione se l'era guadagnata con il sudore della fronte, e non per aver accettato un matrimonio combinato. 
Murata non sapeva assolutamente niente a riguardo.
In preda all'esasperazione più profonda, quell'aroma di lavanda gli carezzò nuovamente le narici con dolcezza, quasi volesse donargli sollievo nell'animo.
Tadayoshi si ritrovò ad inspirarlo a pieni polmoni, annusando così anche l'odore acre e fastidioso di vomito che regnava lì intorno, ma non se ne importò più di tanto. 
Quel buon profumo gli ricordava Mina, i suoi batuffoli di cotone imbevuti di quell'unguento profumato che cospargeva sulla pelle dopo il bagno... 
Quanti desideri impuri aveva nutrito quelle sere! Quanto avrebbe voluto leccarla, assaporare la sua pelle morbida, morderle i piccoli seni per stuzzicarla, chiedendole con voce roca come e dove le piacesse essere baciata...
Se avesse seguito i suoi istinti, avrebbe fatto l'amore con lei almeno ogni sera. Ma la ragione e la paura erano sempre state più forti.
Nel voltarsi, riconobbe la giovane che gli aveva servito il sakè soltanto pochi minuti prima. 
Stava buttando un secchio d'acqua e sapone sul selciato, coprendo così la puzza di vomito. Sembrava affaticata nonostante il bel viso inespressivo. Un'altra ragazza vicino a lei portava dei panni puliti verso una scalinata esterna. La ragazza dal profumo intenso di lavanda fece per seguirla, quando si voltò inavvertitamente verso il soldato, colto in flagrante a fissarla con il suo solito sguardo duro. 
La ragazza porse un leggero inchino, a cui Tadayoshi rispose di rimando.
«Moon! Aiutami a sistemare le lenzuola di sopra, per favore» la richiamò gentilmente la compagna, dalle scale.
Si allontanò così a piccoli passi, portandosi via quel profumo tanto caro a Tadayoshi.
«Capitano, che facciamo?»
Come risvegliatosi da un sogno, il capitano tornò al presente grazie al richiamo di Katsuya.
«Portiamolo di sopra!» e si trascinarono uno Shunichi riluttante e controvoglia all'interno della struttura.
 

 
* * *
 

Era la terza sigaretta che fumava di fila.
Appoggiato sul davanzale della finestra nel corridoio, Tadayoshi si era completamente perso ad osservare il cielo limpido, scevro di nubi, ma in compenso ricco di stelle.
Aveva ricordato i tempi in cui andava a prendersi di soppiatto le Camel lasciate incustodite da Rokurota sul comodino della cucina, dividendosele poi con gli altri di nascosto, per poi venire beccati e messi puntualmente in punizione. Non consisteva in nulla di che, se non nell'aiutare Setsuko a dare una mano in casa per una settimana intera.
Davvero nulla in confronto alle punizioni corporali che avevano subito in carcere costantemente. 
Quella pausa da tutto Tadayoshi l'aveva bramata con un'insistenza prepotente. Aveva bisogno di staccarsi per riprendere in mano le redini della situazione. 
Erano passate soltanto poche settimane da quando era diventato capitano, nemmeno lui era riuscito a spiegarsi i motivi di quella promozione. Sentiva di non meritarla affatto, per questo motivo non aveva detto nulla ai ragazzi, nonostante fosse consapevole del fatto che ci sarebbero potuti rimanere male. 
Quando Mina lo aveva saputo, invece, ne era stata contenta. Gli si era gettata al collo come una bambina, con le lacrime agli occhi. Fu colto talmente tanto di sorpresa da non riuscire a ricambiare il suo abbraccio gioioso. Non era abituato a quei gesti plateali d'affetto. Nemmeno sua madre, per quanto fosse stata una donna affettuosa e gentile, era stata tanto espansiva con lui. Dopo il carcere, aveva rimosso ogni cosa. Ogni carezza, ogni parola dolce; come se lui una madre non l'avesse mai avuta. E nonostante lei lo avesse cercato dopo la scarcerazione, era troppo il risentimento che il ragazzo covava nei suoi confronti.
Senza volerlo, si portò due dita sulla crosta della cicatrice, sotto lo zigomo sinistro.
Erano passati cinque anni, eppure al solo ricordo, quella maledetta tornava ogni tanto a pulsare e fare male, anche se era un dolore provocato dal ricordo, non era reale.
Quando Mina lo vedeva triste o rabbuiato, gliela baciava spontaneamente. Come se in cuor suo sapesse, immaginasse quanto gli avesse fatto male.
Riceveva quei baci anche quando la respingeva, quando non voleva morire dentro di lei e si rintanava sotto la doccia fredda, che gli feriva la pelle come tante lame acuminate. Non si toccava, si fissava soltanto. Poggiava la fronte sulle piastrelle della doccia e aspettava. Aspettava che gli si afflosciasse, a volte restava lì sotto per ore intere. Addirittura, una sera, Mina dovette tirarlo fuori da lì con la forza, spaventata a morte. 
Era talmente freddo che sembrava stesse rischiando l'ipotermia. La moglie lo aveva avvolto in delle coperte calde e se lo era stretto contro, incurante di bagnarsi i vestiti e il letto. 
Lui, grande e grosso, protetto dalle esili braccia di sua moglie.
Era stato per quelle piccole premure, per quei gesti silenziosi, che Tadayoshi aveva iniziato a provare qualcosa di diverso dall'affetto. 
Il destino l'aveva unito a lei ancor prima che i loro cuori s'incontrassero, si conoscessero a vicenda. Eppure, nonostante ciò, il solo guardarsi la fede all'anulare gli provocava un moto di fastidio al petto incontrollato. Gli ricordava costantemente che aveva realizzato tutto il contrario di ciò che realmente avrebbe voluto. 
O che forse pensava di aver voluto.
Spense il mozzicone sul davanzale, buttando la cicca dalla finestra.
Mentre si stava dirigendo verso la sua camera, una domestica di mezz'età gli intimò di fare attenzione, aveva appena lavato a terra e rischiava di fare un bello scivolone. Tadayoshi la ringraziò per la cortesia e lei, in tutta risposta, gli augurò una buona serata, sorridendo con un leggero imbarazzo.
Solo in seguito Tadayoshi avrebbe capito cosa celasse davvero quel sorriso.
 
Non appena aprì la porta, Tadayoshi pensò di aver sbagliato stanza.
Seduta sul materasso, trovò proprio la giovane cameriera che lo aveva servito al piano di sotto, voltatasi nell'udire la porta aprirsi senza preavviso. 
Moon, ricordava fosse quello il suo nome.
«Ehm, chiedo scusa! Devo aver sbagliato sta-»
«Capitano Tooyama?» lo richiamò la giovane, alzandosi timidamente da quel giaciglio. Tadayoshi rimase interdetto per qualche minuto buono.
«Si?» disse, ancora frastornato. Moon avanzò lentamente verso di lui, a piedi scalzi, indugiando sull'obi del kimono blu scuro.
Un vago senso di disagio si dilagò nel petto di Tadayoshi. Non si era aspettato una sorpresa del genere. Sperò che qualcuno dei suoi uomini non gli avesse giocato un brutto scherzo.
«Posso fare qualcosa per-»
La frase venne troncata di netto, a causa dello stupore che lo colse improvvisamente. Moon si slacciò l'obi con grazia e il kimono le cadde di dosso, scivolando sul tatami senza fare rumore. Era completamente nuda, esposta allo sguardo di Tadayoshi.
Era bella, questo ormai era assicurato. 
«Perdonami, non capisco»
«Mi è stato detto che volevate compagnia» dichiarò la ragazza, portandosi le mani sul pube, quasi a voler nascondere quella sua parte intima allo sguardo di quello sconosciuto che le incuteva timore, nonostante tutto.
«Io- i-io sono a vostra disposizione, capitano» continuò, non cambiando minimamente espressione. Si spostò solo la grossa treccia da una spalla all'altra, porgendo un inchino al cospetto del soldato. 
Tadayoshi non poté fare a meno di guardarla, nonostante la stanza fosse poco illuminata. Una folata familiare di lavanda investì il suo olfatto per l'ennesima volta quella sera.
Cazzo.
Moon si fece sempre più vicina, arrivando a toccare la divisa di Tadayoshi, stringendosela tra le dita. Per riflesso, l'altro l'afferrò per le braccia, con l'intento di allontanarla. Come incantato, non distolse lo sguardo dalle sue nudità acerbe. Si sentì un vero infame, un fedifrago. 
Il contatto con la sua pelle morbida non diminuì la tensione che si era creata in quella stanza. 
Così vicina, le sembrò pallida, leggermente costipata. Senza darlo a vedere, notò che si massaggiò impercettibilmente il bassoventre, poco sotto l'ombelico. Aveva le forme morbide, non era molto alta, e i seni erano piccoli e rosei, leggermente più tondi e pieni rispetto a quelli di Mina. La lunga treccia le ricadeva sulla spalla destra, morbida e un po' sfatta.
«Ti senti bene?» non poté evitarlo, gli venne dal cuore. La giovane increspò leggermente il viso a quella domanda, come se non fosse affatto abituata a quel tipo di richiesta.
«Sì, signore» fece lei, puntando le sue due perle nere lontano dagli occhi torvi di Tadayoshi, come a volergli nascondere altro.
Osò un passo in avanti, alzandosi sulla punta dei piedi. Raggiunse indugiando le labbra di Tadayoshi, e le baciò a stampo. Non fu un bacio passionale, tutt'altro. Sembrava piuttosto un gattino intento a bere da un piattino qualche goccia di latte.
Tadayoshi non rispose a quel bacio, le sue labbra rimasero serrate e strette, il cuore che tremava dalla vergogna e l'imbarazzo.
Quel forte profumo di lavanda rischiava davvero di farlo impazzire, di fargli fare un gesto di cui poi si sarebbe pentito da lì in avanti. Se solo avesse trovato chi gli aveva giocato quel brutto scherzo, Tadayoshi gli avrebbe spezzato sicuramente tutte le ossa che aveva in corpo.
«Aspetta!» Tadayoshi scostò il volto, cercando di non apparire brusco nè violento. La coreana non mosse un solo muscolo in protesta.
«Tu... tu sei bellissima» confessò poi, sentì l'urgenza di sottolinearlo, di farglielo presente. Moon recepì il messaggio senza battere ciglio, apatica.
«Tuttavia... io... non posso. Anzi, non voglio stare con te» lo disse cercando di apparire il più onesto e sincero possibile. 
Era vero, lei non gli era indifferente. Ma non sarebbe stata una ragione valida per passare una notte con lei. 
Non sarebbe incappato di nuovo nello stesso errore.
Non avrebbe lasciato decidere agli altri cosa avrebbe voluto fare davvero.
«Vi ho mancato di rispetto? Sono stata maleducata?» Per la prima volta, la voce della ragazza s'incrinò leggermente, preoccupando Tadayoshi più del normale.
Quell'unico lume acceso nella stanza rendeva la pelle di quella ragazza cinerea, malaticcia.
«No, non è questo il punto. Tu... tu sei a posto, è solo che... ecco vedi, sono sposato» e gli mostrò, in preda al panico, la fede d'oro all'anulare. Per la prima volta, ringraziò il cielo di non averla tolta come faceva di solito quando doveva allenarsi. Temeva di perderla, per questo la custodiva nel suo armadietto, nella tasca interna della sua giacca a vento, avvolta in un fazzoletto. Nonostante a volte la considerasse un fardello, prima di tornare a casa non dimenticava mai di rimetterla al dito.
In quei giorni però non aveva mai sentito la necessità di togliersela. 
«Non ponetevi alcun problema» convenne la giovane, sempre con pacatezza, mai con arroganza e con l'atteggiarsi tipico di una prostituta. 
Tadayoshi stesso non aveva mai pensato che lo fosse, prima di quel momento.
«Potete anche fingere di stringere vostra moglie tra le braccia. Sono abituata».
Quell'affermazione Tadayoshi l'avvertì aspra, fastidiosa. Corrucciò il viso senza volerlo. L'istinto di scappare via a gambe levate da quella stanza iniziò a stuzzicarlo insistentemente.
Non lo aveva ancora fatto perché, per qualche via traversa, quella ragazzina le ricordava sua moglie. Lo stesso profumo, gli stessi occhi...
No, no! Così non va, Tadayoshi!
«Davvero, io non-»
«Mi abbracci, capitano. Mi accolga tra le sue braccia. Farò tutto ciò che desidera» sussurrò la giovane, a pochi centimetri dalle sue labbra.
Un altro bacio a fior di labbra, un'altra lappata delicata, non invasiva, sulle labbra strette di Tadayoshi. 
Il profumo di lavanda gli stava completamente annebbiando il cervello.
Ripensò a qualche sera prima, quando seduto sul suo letto matrimoniale, Mina lo aveva implorato quasi allo stesso modo.
Sento che stavolta andrà bene. Proviamoci.
La dolce voce di sua moglie gli rimbombò nelle orecchie, mentre la giovane sconosciuta aveva preso a baciargli il mento e il collo. Voleva scostarsela di dosso, quello che stava per succedere era da considerarsi sbagliato sotto molti punti di vista. Non era solo il fatto che fosse un uomo sposato, non aveva mai tradito Mina e mai lo avrebbe fatto, e non ne faceva un discorso di apparenze. Tadayoshi ci teneva davvero a lei, sebbene le sfuggisse sempre, facendole intuire costantemente il contrario. Aveva davvero troppa paura di affrontare quel tipo di sentimenti, quel senso totale di abbandono e fiducia nei confronti di una persona che riteneva così importante. Si sentiva immeritevole di tutte quelle attenzioni.
Improvvisamente, sentì la ragazza sussultare. Non fu un buon segno.
Tadayoshi spalancò le palpebre, preoccupato. Si era aggrappata a lui con aria sofferente, le dita strinsero sulla sua divisa, il viso nascosto nella sua spalla, contratto in una fitta di dolore.
«Che c'è? Cos'hai?» chiese immediatamente Tadayoshi, stringendosi contro il corpo di Moon senza volerlo. Aveva notato che aveva perso forza nelle gambe, che stava per svenire.
L'accompagnò docilmente nella caduta, mentre lei non mollò la presa dalla sua camicia.
«Ahi... mi fa male» soffiò la coreana, aveva iniziato a tremare vistosamente.
Un odore acre e ferruginoso solleticò il naso di Tadayoshi. Nel calare lo sguardo sul suo corpo, notò un rivolo di sangue fuoriuscirle tra le gambe, macchiandole l’interno coscia. 
«Che vergogna! Che vergogna...» Si lamentò Moon, portandosi le mani sul viso, con l'intento di coprirselo. 
Tadayoshi rimase senza parole, sgomento di fronte a quella scena.
«Cosa ti succede? Dove ti fa male?» disse, cercando di poggiare la mano enorme e callosa sul suo ventre morbido e caldo. 
«NO! Non mi toccate!» si dimenò Moon, spaventata. Si sentiva troppo debole per rialzarsi ed allontanarlo. Iniziò a respirare a fatica, stringendosi con le braccia l'addome dolorante. 
Tadayoshi si allarmò davvero a quella vista. Era talmente in preda al panico da non risultare abbastanza lucido per analizzare correttamente la situazione.
Doveva fare qualcosa, non poteva restarsene lì a non fare nulla.
«Stai tranquilla, va tutto bene» si affrettò a dirle, levandosi la giacca militare per coprirle il corpo nudo. Se la strinse forte al petto, massaggiandole con foga la schiena tremante, per darle calore in qualche modo.
«Non mi tocchi capitano, potrei sporcarle la divisa...» la voce di Moon era ridotta ad un filo sottile.
«Non dire sciocchezze!» ribadì lui, baciandole la fronte per controllarle la temperatura. Scottava tantissimo.
Voleva andare a chiamare aiuto, ma non se la sentiva nemmeno di lasciarla lì da sola, sul pavimento, con tutto quel sangue che le sgorgava in mezzo alle gambe.
Non ci pensò su oltre.
Se la caricò in braccio, incurante del fatto che avrebbe potuto sporcarsi la camicia e i pantaloni col suo sangue.
 
Si mise a girare per il pianerottolo come una trottola impazzita, nascondendosi alla vista dei suoi stessi uomini.
Avrebbe dovuto dare loro troppe spiegazioni, e non era in vena di inventarsi frottole, almeno non con loro. Peggio ancora se si fosse trattato di Murata. A quel punto, qualcuno avrebbe dovuto trattenerlo per le braccia e le gambe per non spedirlo al Creatore nel giro di pochi secondi. Qualcosa dentro gli suggeriva che avesse spinto lui Moon a recarsi nella sua stanza.
Fortunatamente, la donna che aveva incontrato poco prima di raggiungere la sua stanza era nelle vicinanze di un'altra camera, intenta a pulire l'ampio finestrone del corridoio.
Quando vide la giovane nuda tra le braccia del soldato, coperta soltanto dalla sua giacca militare e le cosce insanguinate, si allarmò all'istante.
Tadayoshi cercò di spiegarle quanto successo, tentando di restare fermo e stabile, nonostante il viso pallido e il fiatone.
Una volta tornati in camera e fatta stendere Moon sul letto, la domestica non ci mise molto a capire che alla giovane erano venute le mestruazioni.
Tadayoshi esalò un sospiro di sollievo. Aveva temuto qualcos'altro di peggior natura. Si diede dello sciocco.
La domestica le procurò delle pezze pulite e delle fasciature per tenergliele ferme, ritagliandole da pezzi di stoffa che teneva conservata in un cassetto, per le emergenze. Tadayoshi stette al fianco della ragazza tutto il tempo, in silenzio, senza dare fastidio.
La domestica rimase sbalordita da tanto silenzio ed accortezza.
«Siete il primo uomo che non impazzisce di fronte al ciclo di una donna» manifestò la domestica, colpita dal suo comportamento.
Tadayoshi arrossì appena, non sapeva se considerarlo come un complimento o una presa in giro. 
Il ciclo mestruale per gli uomini era un tabù difficile da digerire, nonostante fosse una caratteristica necessaria alla sopravvivenza della specie. Ma le credenze a riguardo delle donne in periodo di mestruo erano molteplici, alcune addirittura discriminanti.
«Mia madre stava spesso male a causa del ciclo mestruale. Qualche volta le dovevo cambiare io le pezze, perciò non ne sono infastidito. Ne comprendo il disagio».
Era vero, sua madre non riusciva nemmeno ad alzarsi a volte, tanto forti erano i dolori che il ciclo le provocava.
Non c'era stato spazio per il riserbo e il pudore tra di loro, all'epoca. Prima che arrivasse il suo patrigno, era solo lui l'uomo di casa, aiutare sua madre non era mai stato per lui un peso troppo eccessivo. Neanche quando la difendeva dalle male lingue che la volevano una poco di buono, perché sola con un figlio a carico, tornando a casa con il volto tumefatto e il sangue che gli colava dal naso.
Se papà fosse tornato dalla Manciuria, li avrebbe messi a posto lui, affermava con orgoglio, mentre sua madre gli medicava le ferite con aria paziente, serena.
Solo in seguito avrebbe poi appreso che le speranze a cui si era aggrappato fin dall'infanzia erano solo una montagna di illusioni.
Dopo averle sistemato le bende e fatto indossare uno yukata pulito, la domestica li lasciò soli.
Si era proposta di riaccompagnare la ragazza in camera sua, ma Moon si era rannicchiata su sè stessa come un riccio.
Temeva le conseguenze che le avrebbe inflitto il padrone se avesse lasciato quella stanza prima dell'alba.
«Può restare qui con me, non è un problema. Per qualsiasi cosa la vengo a chiamare» decretò Tadayoshi con aria seria. La domestica provò una strana sensazione al petto. Qualcosa di molto simile al sollievo. 
Quel soldato non le sembrava un essere reale, era una benedizione in carne ed ossa. Non si era mai permesso, in quel lasso di tempo, di alzarle la voce e impartirle ordini in modo sgarbato, come le capitava piuttosto spesso, soprattutto in circostanze simili. Tadayoshi aveva osservato tutto in silenzio, stringendo ogni tanto la mano della fanciulla.
Dopo essersi limitato a congedare la signora e a raccomandarle riserbo sull'accaduto, Tadayoshi si sedette al fianco della giovane, che continuava a tremare per la febbre, la paura e la vergogna.
«Mi dispiace tantissimo, capitano» mormorò la giovane, la voce aveva smesso da tempo di essere piatta ed incolore. Tremava anche lei.
«Posso ancora rimediare, se lo desidera» e allungò una mano dolcemente verso il cavallo dei pantaloni del soldato.
Ma Tadayoshi sollevò prontamente la coscia, piegando il ginocchio e stringendo quella piccola mano tra le sue. 
«Non ti azzardare» la minacciò, ma non con cattiveria. Suonò più come una rassicurazione implicita.
«Non ne avevo bisogno prima, figurati adesso» e le carezzò la lunga treccia morbida lentamente, in automatico. Poi passò alla guancia, pizzicandogliela con fare paterno. Ma si irrigidì all'istante poco dopo.
Si vergognò di tutta quella vicinanza fisica, pensò che la ragazza avrebbe potuto fraintendere, restarne impaurita.
Ma la giovane gli afferrò la mano e gliela strinse forte, incoraggiante. 
Tadayoshi si sentì agitato, senza spiegarsi il perchè.
«Non voglio farti del male» si ritrovò a precisare, col cuore in gola.
Dai racconti di Joe, Tadayoshi ricordava che molti dei clienti con cui aveva avuto a che fare, all'inizio erano gentili, poi mostravano tutto il loro viscidume, dando libero sfogo ai loro più bassi istinti.
Mai avrebbe pensato di ritrovarsi dall'altra parte, dal lato del predatore. Anche se in realtà, quella spiacevole sensazione lo perseguitava da sempre. 
Come fosse stato un richiamo del sangue.
«Lo so» disse lei, con aria serena.
«Lei mi ricorda il mio papà».
Tadayoshi fu quasi sicuro che gli si fermò il cuore per secondi che parvero ore interminabili.
«Anche lui era un soldato, un capitano bello e gentile. È morto al fronte, durante la Hanguk jeonjaeng».
«Oh...» fu tutto quello che riuscì a dirle.
Qualcosa scese lungo la guancia dura di Tadayoshi, una lacrima solitaria.
Piangeva raramente, mai davanti a qualcuno. Preferiva mostrarsi burbero e forte, senza fragilità. Ma quella mocciosa quella sera lo stava bersagliando su ogni fronte, distruggendo qualsiasi muro. Cosa avesse sciolto il suo cuore, di preciso, non seppe spiegarselo.
«Ti chiami Moon, vero?» le chiese, buttando giù il groppo che gli si era formato in gola. Quella commozione improvvisa lo aveva preso in contropiede.
«Sì, signore» soffiò lei, accoccolandosi maggiormente sulla sua coscia.
«Quanti anni hai?» ebbe paura a porle quella domanda.
«Quindici».
Una bambina. Ho fantasticato sulla pelle di una bambina. Sono un lurido schifoso.
Non poté fare a meno di pensarlo, sebbene a dividerli ci fossero soltanto otto anni di differenza.
Moon gli raccontò che era arrivata in Giappone sei mesi prima, assieme a sua sorella maggiore, Yeom-Gi. I soldati li avevano smistati, portandosi via la più grande. Di lei non aveva saputo più nulla.
Moon venne mandata in una casa di tolleranza come inserviente. Qualche settimana dopo era riuscita a scappare e aveva raggiunto la locanda dove attualmente lavorava. Ma aveva dovuto pagare un prezzo troppo alto per ottenere quell'impiego. 
Il padrone della locanda le aveva detto che non avrebbe assunto una ragazza vergine. Così Moon si era lasciata prendere impunemente, allontanando disgusto e rigetto e cacciando fuori tutta la forza di cui era capace. 
Era stata brava - aveva detto a Tadayoshi -, non aveva pianto nè invocato il nome di sua madre o di sua sorella. 
Aveva sopportato in modo pacato, a denti stretti. 
Soltanto il mese successivo si era accorta che il ciclo mestruale ne aveva risentito. Da allora, soffriva fisicamente il doppio del dolore normale ogni volta che capitava quel momento del mese.
Tadayoshi ascoltò quel racconto sbigottito, con una rabbia dilagante nel petto.
Ripensò a tutte quelle famiglie in fuga dalla povertà della Corea, uomini, donne e bambini che s'imbarcavano alla ricerca di un futuro migliore.
Per una volta, si sentì davvero utile alla causa. Con il loro doppio gioco, avevano ridato una speranza a quella gente, anche se il metodo usato non era dei più legali. Tadayoshi avrebbe voluto tirare via da lì anche Moon, avrebbe voluto farle riabbracciare sua sorella e sua madre, fargliela pagare a chiunque le avesse torto un solo capello.
Anche quella leggera brezza di lavanda sembrava voler sostenere i suoi pensieri. Ripensò fugacemente a Mina, a cosa avrebbe pensato lei di tutta questa storia, se solo avesse trovato il coraggio di parlargliene, invece di lasciarle credere che la stesse tradendo con Rurika.
«Avete detto di essere sposato, giusto?» Tadayoshi fu preso in contropiede alla domanda della fanciulla. Annuì incerto, mentre Moon osservava la sua fede luccicare all'unico lume acceso nella stanza.
«Avete figli?» chiese lei, alzando i grandi occhioni scuri verso quelli duri e scontrosi del soldato.
«Non ancora» sentenziò, con una leggera incertezza nella voce.
«Mmh» fece Moon, riflessiva.
«Sento che lei potrebbe essere proprio un bravo papà» ammise, distogliendo subito lo sguardo da Tadayoshi, che rimase immobile a quel commento in un primo momento, poi scoppiò in una risata strana, nervosa.
«Non credo proprio» commentò, sarcastico.
Questo fatto che chiunque scorgesse in lui arie di padre affabile e premuroso gli provocava uno strano sentimento, tra l’irritato e il divertito.
«I vostri figli sarebbero fortunati a ritrovarsi un genitore come lei, capitano» confessò la ragazza, la voce impastata dal sonno.
Tadayoshi le poggiò una mano sulla fronte.
Sarà la febbre a renderla tanto loquace.
E nel frattempo, le parole di Lily tornarono a ronzargli nelle orecchie...
Sarai un padre esemplare.
Più ascoltava quella frase, più tutto gli risultava uno scherzo architettato ai danni della sua persona. Neanche fosse una piccola ripicca ancestrale, giunta un po' in ritardo.
 

 
* * *
 

Il mattino seguente Tadayoshi si risvegliò grazie al canto degli uccellini che proveniva dalla finestra. Si era addormentato seduto, ricurvo su sè stesso. Sentì i muscoli della schiena protestare, costretti per tutta la notte a quella posizione. Moon dormiva accanto a lui, rannicchiata come una conchiglia, la mano ancora stretta nella sua. 
Russava leggermente, il viso aveva ripreso colore.
Assecondando l'ennesimo moto incontrollato, Tadayoshi le carezzò la fronte, tastando col pollice sulla pelle levigata e morbida. Era calda, ma non scottava pericolosamente come la sera prima.
Alzatosi cautamente dal materasso, coprì la fanciulla con una coperta, e fece attenzione a non svegliarla mentre usciva dalla stanza. Una volta fuori, incrociò nuovamente la domestica, che le riferì gli ultimi sviluppi della situazione. 
Tadayoshi si fece raccomandare di far preparare un'abbondante colazione per Moon, e se le avessero fatto domande, la pregò di lasciargli credere ciò che più gli conveniva. 
Dopodiché si recò al piano di sotto, verso il lavabo pubblico, sotto al portico.
Si sciacquò viso e nuca a lungo, come a volersi depurare da tutta la rabbia che le era montata subito dopo essere uscito dalla sua stanza.
Aveva incrociato anche il proprietario della locanda, un uomo grosso e dall'aria viscida. Si trattenne a fatica dal non sputargli in faccia con disprezzo.
Rise al pensiero che Mario o Noboru non si sarebbero trattenuti dal farlo.
Mentre si sciacquava il viso con l'acqua fresca, ritornò con la mente a quando Moon gli aveva rivelato che era stato Murata ad avvicinarla e pagarla per trascorrere la notte con lui. 
Lei inizialmente aveva cercato di opporsi, non sentendosi troppo bene, e avrebbe preferito evitare. Ma il caposquadra l'aveva minacciata di andarsi a lamentare con il padrone della baracca, e che lei non aveva alcun diritto di rifiutarsi, in quanto sporca coreana. Quando Moon gli aveva riportato quelle parole era calma, inespressiva. Tadayoshi invece si era indignato a tal punto che dovette appellarsi a tutte le sue forze per non soccombere all'ira. 
Gli era stata venduta una ragazzina per una notte, e non aveva neanche il coraggio di indignarsene pubblicamente.
Per tutto il tempo, aveva provato una strana sensazione allo stomaco, come se gli fosse stato toccato qualcosa di prezioso, qualcosa di molto simile all'istinto protettivo che capitolava ogni volta che qualcuno se la prendeva con Mario, Joe o gli altri della combriccola.
Doveva solo ingoiare lo schifo che aveva provato e sopportare, ancora.
Per il bene di quella divisa in cui credeva, per non far preoccupare Mina e gli altri. 
E per quel ragazzino sbattuto in carcere che stava cercando di mettercela tutta, soltanto per mantenere una stupida promessa. 
Che forse, tanto stupida non lo era affatto.
 
Al terzo giro del campo fatto in corsa, Iwasaki era stremato. Più volte si fermava per riprendere fiato, e di conseguenza, Katsuya lo incitava a correre, onde evitare che venisse ripreso dal loro capitano.
«Forza, continuate a correre! Dovete smaltire la sbornia di ieri sera!» li punzecchiò Tadayoshi, con evidente sarcasmo. Un vociare di brontolii e lamentele si sollevò assieme alla polvere prodotta dalla corsa. 
«Poche storie! Dopo vi aspettano le flessioni» ribadì Tadayoshi, voltandosi verso di loro, intento a correre all'indietro. «Sapevate benissimo che non siamo venuti a divertirci! Quindi, gambe in spalla, e allenatevi fino all'ultima goccia di sudore» sentenziò, superandoli di poco.
«Al capitano ieri sera dev'essere andata alla grande per essere tanto arzillo stamattina!» commentò Fukuda, tra un sospiro e l'altro. Iwasaki e Katsuya lo fissarono interdetti.
«Ieri sera è andato da lui una di quelle cameriere coreane... dev'essersela scopata fino a stamattina» sghignazzò, scuotendo il capo. Katsuya non indagò oltre sul fatto, Iwasaki invece ci restò male a quella notizia.
«Non ci credo!» dichiarò, con il cuore in gola. «Il capitano è sposato!»
«Embè? Solo perchè è sposato deve tenerselo stretto nei pantaloni? Mica sono tutti casti e puri come te, Iwasaki!» intervenne Yamato, a corto di fiato.
Tadayoshi non si era perso nemmeno una loro battuta nel frattempo. Avrebbe voluto spiegare loro che tutta l'adrenalina che gli circolava in corpo era data dalla voglia di sfondare a suon di pugni Murata, ma soprassedette a riguardo.
«Zitti e continuate a correre, scansafatiche!» ordinò, lo sguardo dritto davanti a sè, sulla strada battuta.
 
Si fermarono nei pressi di un ruscello.
Alcuni soldati si tolsero gli scarponi e s'immersero nell'acqua fresca, schizzandosi tra di loro come dei bambini in gita scolastica.
Anche Tadayoshi ne aveva approfittato per riempirsi la borraccia e buttarsi un po' d'acqua sul viso accaldato. Nell'accovacciarsi, notò una lieve macchiolina scura sulla stoffa del pantalone, all'altezza del ginocchio.
Non si era cambiato dalla sera precedente, doveva trattarsi del sangue di Moon. Si era sporcato quando l’aveva sollevata da terra, senza fare troppi sforzi. Davvero gli era sembrato di tenere tra le braccia una bambina.
S'inumidì il pollice con la saliva e se lo passò sulla macchia, con cipiglio nervoso.
Ad un tratto, il sole sembrò coperto da qualcosa, o meglio da qualcuno.
Shunichi gli si accovacciò di fianco, facendogli prendere un colpo.
«Iwasaki, diamine! Ma che ti viene in mente?» sbraitò Tadayoshi, portandosi una mano al petto.
Shunichi parve mortificato di aver quasi fatto infartare un suo superiore.
«Sono costernato, capitano! Ma le dovevo chiedere una cosa della massima urgenza!» si scusò Shunichi, unendo gli indici tra loro.
«Vedi di non rompere il cazzo al capitano!» intervenne Katsuya, avvicinandosi ai due con la giacca legata alla vita per le maniche.
«Guarda che lo so che muori dalla voglia di saperlo anche tu!» brontolò Shunichi, guardando di traverso l'amico, che gli sbuffò in risposta.
Tadayoshi invece guardò di traverso tutti e due.
«Cos'è che volete sapere?» domandò, truce come sempre.
Shunichi gli si avvicinò maggiormente, trascinandosi anche Katsuya verso il basso.
«Girano voci, capitano» bisbigliò Shunichi, guardandosi intorno per non attirare pubblico molesto. Tadayoshi iniziò a sospettare su cosa potesse vertere tanta curiosità. Si massaggiò il naso, desolato.
«È vero che ieri sera vi siete intrattenuto con una giovane cameriera?» chiese Shunichi, rosso come un peperone.
«Ma di cosa t'impicci?» lo ammonì Katsuya, con aria severa.
«Potrà fare quello che vuole? Come ti viene di fargli il terzo grado?» l'invettiva di Katsuya celava un profondo imbarazzo. Era curioso anche lui, ma non aveva certo la stessa faccia tosta condita d'ingenuità del compagno, tale da chiedere certe cose ad un suo superiore.
«Tu che ne sai, Iwasaki?» indagò Tadayoshi, cercando di tenere a bada il nervosismo latente.
Shunichi si umettò le labbra prima di rispondere.
«Fukuda e gli altri... ne parlavano stamattina» confessò, grattandosi la nuca.
Katsuya distolse lo sguardo, fissando l'acqua scorrere indisturbata.
Tadayoshi inspirò profondamente, serrando i pugni. 
Prendersela con Iwasaki non avrebbe portato a nulla di concreto. La sua ira crescente era tutta per Murata e per il suo poco tatto in tutto.
Forse un po' ne provava anche verso sè stesso.
«Perdonami, Iwasaki, ma a te cosa importa?» La voce uscì dura, senza controllo. Lo stesso tono di voce che usava quando puntualmente si ritrovava a discutere con i ragazzi riguardo a qualche cazzata che avevano commesso.
Shunichi si drizzò sulla schiena, inquieto.
«Ecco, nulla in verità, capitano. E solo che...» e qui si fermò per prendere fiato «-che vostra moglie è una persona dolcissima, e non merita di essere trattata così!». 
La voce gli scappò più alta del previsto. Katsuya si guardò attorno, sperando che nessuno lo avesse sentito.
Tadayoshi si portò una mano in faccia, tra l'allibito e il divertito. Era la prima persona, oltre i suoi amici, a difendere a spada tratta Mina. 
«Ma come ti viene? Così lo metti in imbarazzo!» lo rimproverò Katsuya, rimasto più sgomento di Tadayoshi dinnanzi a tanta sfacciataggine.
«Chiedo scusa se mi sono permesso, capitano! E che vostra moglie è stata così gentile con Aimi alla festa in caserma, che mi è diventata subito simpatica, a differenza delle altre mogli e amanti degli alti ufficiali! Nessuna che si fosse degnata di scambiare due chiacchiere con la mia Aimi! E invece, Mina-san le ha fatto compagnia tutta la sera, senza farla sentire di troppo!» ricordò Shunichi con immensa ammirazione ed affetto, riportando i fatti con aria sognante, infantile.
Tadayoshi sapeva a cosa stesse facendo riferimento la recluta.
La festa che si era tenuta in caserma era una specie di galà indetto dagli alti ufficiali, in cui oltre all'invito allungato anche ai loro tanto odiati nemici americani, era anche l’occasione per far conoscere le mogli e le compagne dei soldati delle Forze Armate.
Era successo il mese scorso.
Tadayoshi teneva ancora vivido nella mente il bel vestito indossato da sua moglie: lungo con lo spacco, pieno di paillettes argentate. Per far risaltare il seno, Mina si era messa dei cuscinetti sotto di essi, rendendo visivamente un bell'effetto tondo. I capelli erano raccolti in un'acconciatura semplice, uno chignon morbido ma composto. Tadayoshi se l'era divorata con lo sguardo per tutta la sera. 
Non era così bella da far girare la testa a chiunque, ma possedeva un fascino particolare, grazioso, magnetico. E a Tadayoshi andava bene così, le piaceva da morire che non fosse perfetta per il mondo, ma che lo fosse per lui soltanto. 
E sì, l'aveva vista chiacchierare con la giovane fidanzata di Iwasaki per tutta la sera. Non le aveva mai tolto gli occhi di dosso, ma neanche si era avvicinato a lei per sussurrarle all'orecchio quanto fosse incredibilmente bella. 
Aveva scoperto a poco a poco quanto Mina nascondesse doti speciali, e quanto speciale lei stessa potesse risultare agli occhi degli altri. Se solo fosse stato più bravo con le parole, più motivante come lo era Rokurota, non si ritroverebbero a sfuggirsi a vicenda, nascondendosi dietro le loro stupide paure.
«Venite qui, tutti e due» ordinò allora Tadayoshi alle sue due reclute, che gli si avvicinarono con aria circospetta, preoccupata.
«Tra me e quella ragazza non è successo niente. Non m'interessa che ci crediate o meno, preferirei soltanto non alimentare ulteriormente chiacchiericci inutili. Tutto chiaro?» affermò Tadayoshi con estrema fermezza. 
Katsuya e Iwasaki si scambiarono uno sguardo d'intesa, il secondo abbozzò un sorriso.
«Lo sapevo che non avreste mai tradito vostra moglie, capitano! Siete solo un po'...»
«Un po' cosa?» chiese Tadayoshi, corrucciato.
«Un po' chiuso. Ma siete una brava persona» e nell'affermare il concetto, gli mollò una pacca sonora dietro le spalle, facendolo per poco precipitare nel ruscello sottostante, se non si fosse mantenuto per le mani al terreno.
Katsuya e Tadayoshi lo guardarono con occhi di fuoco.
«Torna ad allenarti! E preferibilmente con la bocca cucita e le mani ferme!» gli ordinò puntandogli un dito contro pregno di minaccia.
«E ringrazia il cielo che hai a che fare con me. Qualcun altro ti avrebbe già fatto rapporto per tanta insolenza!»
Shunichi scattò sull'attenti, per poi alzare i tacchi e raggiungere gli altri, andando addosso ad un povero Katsuya senza volerlo.
Il ragazzo si sbilanciò, ma non perse definitivamente l'equilibrio.
Qualcosa però cadde dalla tasca del suo giubbotto. Un piccolo sacchettino di stoffa blu fece capitombolo nell'erba fresca.
«Hitomura, ti è caduto qualcosa» disse Tadayoshi, indicando col mento l'oggetto.
In un primo momento, Katsuya non pensò fosse diretto proprio a lui l'avvertimento, ma nello scorgere il sacchetto blu a terra, sbiancò.
Lo afferrò impacciatamente, e se lo infilò nella tasca dei pantaloni con una certa fretta. 
«Meglio se raggiungo gli altri anch'io» tossicchiò, passandosi una mano sotto al naso. 
Sulle prime, Tadayoshi trovò strano quel gesto. Ripensò accidentalmente alla piastrina di Joe e al fatto che proprio lui l'avesse ritrovata e non avesse segnalato neppure il ritrovamento a qualche suo collega. Non che volesse accusarlo di cleptomania o altro, ma negli ultimi tempi aveva assunto un atteggiamento strano, sospetto.
Avrebbe dovuto stare più attento in futuro, anche riguardo al traffico di documenti del Rainbow. Meno notizie trapelavano, meno gente ne era coinvolta e meglio sarebbe stato, per tutti loro.
Ancora una volta, ripensò a Mina. L'ultima persona che avrebbe voluto coinvolgere in quella faccenda spinosa.
Le mancava, e avrebbe voluto dirglielo.
Doveva dirglielo, altrimenti sarebbe impazzito.
 

 
* * *
 

Tadayoshi fissò l'apparecchio telefonico appeso al muro come incantato.
Provava un miscuglio di emozioni constrastanti: da un lato voleva sentire Mina, dall'altro invece voleva scapparsene a gambe levate.
Poi prese coraggio e afferrò la cornetta del telefono.
Fece roteare la ruota dei numeri abbastanza frettolosamente, carico di aspettativa.
Gli squilli dall'altro lato non durarono molto. La voce metallica ma sempre gentile di Mina lo colse impreparato.
«Pronto, casa Tooyama» rispose sua moglie, sembrava assonnata. Tadayoshi la immaginò affaccendata in cucina, con i capelli raccolti in una crocchia scomposta, tutta sporca di farina, intenta a preparare chissà quale piatto che gli avrebbe poi fatto assaggiare, una volta tornato.
«Pronto, Mina?» Tadayoshi non ebbe bisogno di specificarsi, Mina lo riconobbe immediatamente.
«Tadayoshi! Sei tu? Come stai?» fece lei, animandosi di colpo. Tadayoshi la immaginò mentre si sistemava una ciocca dietro l'orecchio e si rassettava il grembiule, come se lui fosse stato lì davanti a lei, a guardarla.
«Va tutto bene, non preoccuparti» la rassicurò, grattandosi la punta del naso.
Quanto le era mancata la sua voce, ed erano passati solo sei giorni dall'ultima volta che si erano visti e sentiti!
Tadayoshi si chiese come avrebbe fatto a resistere un'altra settimana ancora senza di lei, senza quella sua aura mite che le aleggiava intorno come una benedizione.
«Come sta andando l'addestramento?» chiese lei, timida. 
«Alla grande! I ragazzi sono tutti molto disciplinati, l'aria di Toshinori sembra ammansirli abbastanza!» mentì spudoratamente il soldato. Non voleva impensierirla più di quanto già non lo fosse. 
Tergiversò su Murata, non voleva dirle che era stato più volte sul punto di fargli saltare tutti i denti che si ritrovava in bocca.
Mina sospirò dall'altro lato. Probabilmente aveva captato qualcosa nel suo troppo entusiasmo. 
«Avete fatto un giro per il paese?» chiese, accondiscendente.
«Mmh, no… siamo sempre così stanchi a fine giornata che alle nove di sera già crolliamo nei nostri letti!»
Beh, tecnicamente io sì. Il resto... fa come gli pare.
Preferì tergiversare anche su quello. 
Il ricordo del corpo nudo di Moon, immobile davanti a lui, era ancora impresso nella sua memoria. Avrebbe voluto parlare di lei a Mina, dirle che gliel'aveva ricordata molto, che aveva il suo stesso profumo di lavanda addosso. E che se quella sera avesse ceduto e messo da parte la ragione, lo avrebbe fatto solo perché non faceva altro che pensare a lei. Le sarebbe venuto dentro gridando il suo nome, e si sarebbe sentito un vigliacco, un essere orribile, che non avrebbe meritato perdono.
«Tu, invece? Come procedono le tue giornate?».
Mina tossicchiò prima di rispondere.
«Sento spesso la nonna. Sai, è venuta a trovarmi l'altro giorno, assieme ad Ichika. Abbiamo mangiato il dakgalbi. Davvero buono! Quando torni te lo devo far assaggiare» gli raccontò poi timidamente, ma allegra.
«Mia nonna ha detto anche che vorrebbe invitarci da lei a pranzo una domenica, assieme ai ragazzi! Per lei ormai siete tutti dei nipoti acquisiti!» gli disse anche, tracotante d'affetto.
Non aveva idea di quanto quelle parole avessero scaldato il cuore in tumulto di suo marito. 
Per uno come lui, sentitosi sempre come un peso, e rifiutato dapprima dalla propria famiglia e poi dalla società, il calore che donna Chieko relegava a lui e alla sua cricca scalmanata lo faceva sentire bene, oltre a provocargli una violenta nostalgia per Rokurota.
«Accetto solo se facciamo sedere Mario a tavola vicino a tua nonna! Immagino già le risate» scherzò Tadayoshi, non riuscendo a trattenersi dal ridere.
Anche Mina rise dall'altro capo del telefono.
«Voleranno piatti e bicchieri, mi sa!» commentò, ridendo al solo pensiero.
Tadayoshi sospirò nel sentirla ridere così serenamente.
Dal vivo non succedeva quasi mai che ridessero così tanto insieme. Era un evento più unico che raro.
«Mi manchi» ed era vero. Mina le mancava più di quanto gli piacesse ammettere.
«A-anche tu. Mi manchi anche tu».
Mina fu presa alla sprovvista, il cuore gli era schizzato in gola così, dal nulla.
«Fatti sentire più spesso» lo pregò sommessa, con voce tremula. 
Tadayoshi strinse le labbra in una linea sottile a quella richiesta.
«Ci proverò. Tu vedi di non strafare intanto a casa. Riposati un po'». Glielo disse sperando che almeno così le desse retta.
«Va bene. Allora aspetto una tua chiamata. A presto».
«A presto» e interruppe svelto la comunicazione.
Dopo quella telefonata si sentì molto più invogliato ad affrontare quelle reclute scalmanate e le continue ingiurie di Murata. 
 

 
* * *
 
Quei giorni lontano da Tadayoshi furono piuttosto ardui da affrontare per Mina.
La notte non dormiva affatto, si girava e rigirava nel letto, combattendo contro l'insana voglia di afferrare il telefono e chiamarlo nel cuore della notte per sentire la sua voce, per sentirsi dire di andare a dormire e di non sprecare quelle ore di riposo a crogiolarsi inutilmente.
Durante il giorno si sfiniva, puliva due o tre volte tutte le stanze della casa, mangiava velocemente un parco pasto e poi si sedeva sul divano ad ammirare il nulla.
Non aveva nemmeno voglia di disegnare, non aveva ispirazione. Il sonno la coglieva di soppiatto nei momenti meno opportuni, e al settimo giorno praticamente si era ritrovata a dormire all'in piedi come un cavallo.
Sua nonna Chieko l'aveva rimproverata riguardo tale condotta.
«Se continui così finirai per farti solo del male! Va bene che vuoi tenerti occupata, ma pensa anche a riposarti! Non voglio avere una nipote esaurita» si era lamentata l'anziana con lei per telefono. 
Mina sapeva che aveva ragione, ma allo stesso tempo si sentiva smarrita, persa.
Anche se la ragione le faceva pensare che non ci fosse assolutamente nulla di cui preoccuparsi, l'ansia la divorava viva. 
La paura che suo marito incontrasse qualcun'altra, vivesse una notte di vera passione tra le braccia di un'altra donna, la consumava come una candela accesa.
Era un pensiero che la tormentava ossessivamente, senza la minima cura. 
Quella telefonata ricevuta al settimo giorno di lontananza la rianimò leggermente. Sentirsi dire di riguardarsi e di non strafare fu come ricevere infinite carezze su tutto il corpo... baci in posti sconosciuti, proibiti... 
Puntualmente, Mina si era ritrovata a scacciare quei pensieri allo stesso modo in cui si scaccia una mosca fastidiosa, avvampando dalla vergogna per essere capace di trasportare tutto su di un piano sconcio e irriverente, senza imporsi alcun controllo.
All'alba dell'ottavo giorno, colse finalmente il ripetuto invito che sua nonna le aveva posto già da un po' di tempo, ossia di raggiungerla al Rainbow per fare colazione insieme.
Titubante e stanca, aveva accettato ugualmente la sua proposta.
 
L'aria mattutina le solleticò il viso con gentilezza. Era da tanto che Mina non si trovava a passeggiare a quell'ora per strada, da sola. 
Le vennero in mente le mattinate frenetiche passate a correre avanti e indietro per seguire i corsi di pittura e anatomia, le chiacchierate in giardino con gli amici dell'accademia, le sigarette che accompagnavano i thé e i caffè, tra sorrisi e tanti sogni per quel futuro tanto temuto ed agognato...
Mina realizzò che uscire di casa le aveva fatto bene. Ricordare i bei tempi trascorsi a Tokyo le aveva ridato un po' di serenità, di pace interiore.
Se pensava che adesso tutta la sua concentrazione si basava su di un marito di cui non poteva assicurarsi la sua totale fiducia, ma a cui nonostante tutto teneva tantissimo, un po' per devozione, un po' perché i suoi gesti silenziosi, le sue accortezze, avevano fatto breccia nel suo cuore più di quanto le piacesse ammettere, le veniva da sorridere.
Gli voleva bene, ma a volte era davvero difficile stargli accanto e non stare male. Senza volerlo, Tadayoshi aveva alzato mura così spesse da tenerla lontana, senza darle una spiegazione plausibile.
Raggiunse la porta del Rainbow e la aprì con facilità, sebbene fosse una vetrata grossa e pesante.
Ad accoglierla ci fu uno scalmanato Shigeo, pimpante ed allegro come se non avesse passato l'intera nottata a scorrazzare avanti ed indietro per la grande hall del locale.
«Buongiorno, signorina nipote!» esclamò il bambino, inchinandosi con riverenza. Mina sorrise genuinamente a tutta quell'affabilità.
«Buongiorno a te, Shigeo-kun» ricambiò Mina, inchinandosi a sua volta.
«Quanto siete bella stamattina, signorina nipote! Quasi quasi vi faccio la corte!» dichiarò Shigeo, gonfiandosi il petto con orgoglio.
Mina rise e arrossì contemporaneamente a quel complimento inaspettato ricevuto da un bambino di soli otto anni.
«Sai quanti cereali sottomarca ti devi mangiare prima di uscire con una donna tu? Non dare fastidio ai clienti, soprattutto a certi clienti...» Quella voce annoiata e scorbutica Mina l'avrebbe riconosciuta tra altre mille simili.
Mario poggiò la mano guantata sulla testolina di Shigeo, scuotendogliela con forza. 
A Mina parve stanco, provato. I suoi occhi da cerbiatto erano spenti, tristi. La lingua invece era rimasta tagliente, viva come sempre.
«Non solo dobbiamo sorbirci la vecchia ogni mattina, adesso anche la nipote?» fu il saluto molto cortese che Mario dedicò a quella che avrebbe dovuto considerare sua cognata. 
Mina abbassò lo sguardo, schiarendosi la gola. A quelle frasi Mina non sapeva mai come tenergli testa. Col tempo aveva capito che Mario non era cattivo, e che tutta quella scontrosità celava una sensibilità infantile, di cui probabilmente lui stesso se ne vergognava.
«Sempre il solito cafone!» si aggiunse una terza voce, più gentile e canzonatoria.
Anche quella voce Mina avrebbe potuto riconoscerla facilmente. 
Joe le si avvicinò gentile, sorridendole deliziato. Nonostante la stanchezza, i suoi occhi azzurri erano gentili e calorosi, a Mina gli pareva di ammirare la vista di un angelo ogni volta che se lo ritrovava davanti.
«Non dargli retta, Mina-chan! È da un paio di giorni che fa l'offeso con tutti e blatera stupidaggini» spiegò Joe, incrociando le braccia al petto, puntando l'acquamarina dritta nel castano caldo dell'amico. 
Non capiva perché in quei giorni lo evitasse come la morte. Mario era sparito per giorni senza dare spiegazioni, e poi era riapparso più immusonito e rabbuiato del normale.
Joe pensò c'entrasse Lily in qualche modo, ma il solo nominargliela, avrebbe soltanto peggiorato quella già precaria situazione.
 «L'americana con cui dormiva è tornata a casa, e lui ora si sente so-» Shigeo non finì mai quella frase, sentendosi tirare un orecchio con poca grazia dal più grande, lì dietro di lui.
«Marmocchio, tu parli troppo!» lo zittì Mario, scontroso.
Joe e Mina risero di fronte a quella scenetta.
«Vieni Mina-chan, quello è il tavolo di tua nonna. Non ci fa sedere nessuno, a parte Junko per farla studiare» la guidò Joe, spostandogli la sedia con fare galante, da gentiluomo.
«Vedi, Mario? Prendi esempio da Joe, da lui le donne non scappano, perchè non si comporta da scimmia in calore come fai tu!» lo canzonò Junko, trattenendo a stento le risate. Aveva delle occhiaie vistose sotto le palpebre, ma non aveva perso la voglia di sorridere e punzecchiarlo.
Il ragazzo la fissò in cagnesco, bofonchiando imprecazioni a bassa voce.
«Non dovresti andare all’università, tu?» la richiamò lui, facendo boccacce. Non aveva l’animo per reggere alle battute quella mattina, ma con la lingua lunga che si ritrovava, sapeva sempre come difendersi.
«Povero gabbiano, hai perduto la compaaagna!»* rincarò la dose Shigeo, cantando quella vecchia canzone popolare che sembrava essere stata scritta apposta per Mario, agitando le braccia minuscole imitando il gesto delle ali in volo.
«Voi due se non sparite stamattina!» inveì Mario alla volta dei due fratelli, che gli dedicarono boccacce e risate sguaiate.
Shigeo continuò a cantare il resto della canzone, supportato da Joe e Junko, che lo assecondarono con enfasi nelle strofe.
Mario si portò una mano sugli occhi, meditando su vendette da attuare di lì a poco, spazientito.
Mina non poté fare a meno di ridere, nonostante tutta la stanchezza accumulata nei giorni precedenti. Le guance le tiravano, ma quel teatrino era stato come un balsamo per il suo cuore. Quelle poche volte che si era recata lì si era sempre sentita a casa, al sicuro.
«Oh, vedo che stamattina vi è in corso un concerto!» 
Mina si girò di scatto nel riconoscere la voce allegra e sbarazzina di sua nonna, sottobraccio alla sua fedele governante e con la mazza da passeggio nell'altra mano.
Shigeo le corse incontro festante, felice di vederla.
«Buongiorno, signora nonna!» la salutò il bambino, abbracciandola. 
«Shigeo! Fai piano, potresti farla cadere!» intervenne la sorella, cercando di placare lo slancio vitale del più piccolo verso donna Chieko. 
«Tutto apposto figliola! Che il cielo benedica tutta questa energia!» decretò la donna, carezzando i capelli neri e corti del bambino. Shigeo sorrise malandrino mostrando i denti da latte bene in vista.
«Conosce la canzone del povero gabbiano che piange la compagna? A Mario piace tanto!» e si voltò verso il diretto interessato, dedicandogli la miglior linguaccia del suo repertorio.
«Certo che la conosco! Com'è che fa Ichika?» ed iniziò a mormorare la strofa, appellandosi alla propria memoria, aiutata dalla governante, tra le risate allegre di Joe, Junko e Shigeo, e le sonore sbuffate di Mario per contorno.
Mina non riuscì a credere a ciò a cui stava assistendo.
Sua nonna era sempre stata una donna eccentrica, lo sapevano tutti. Ma vederla scherzare e giocare ancora come fosse una bambina le rallegrava il cuore. Come se non avesse mai avuto macigni sul cuore e lutti da compatire.
Mina avrebbe voluto possedere anche solo un briciolo della forza e dell'indipendenza di sua nonna. Se avesse ereditato il suo carattere, forse Tadayoshi non avrebbe avuto bisogno di rifugiarsi da qualcun'altra...
«Oh, bambina mia, sei arrivata?» La salutò Chieko calorosamente. Mina si lasciò baciare la fronte dalle labbra raggrinzite e tinte di rossetto di sua nonna.
«Ragazzi, fate con comodo! Intanto mi siedo che le mie povere ossa reclamano pietà» affermò l'anziana, sedendosi alla destra della nipote.
«Ad una certa età l'idea dell'ospizio dovrebbe essere presa in considerazione» blaterò Mario, fingendo di armeggiare dietro al bancone con aria indifferente.
«Suvvia Mario, sei ancora troppo giovane per ritirarti in un ospizio! Il cielo è pieno di belle gabbianelle...» rispose impettita la donna, ammiccando alla volta di Junko, che arrossì appena.
Mario invece stralunò gli occhi, troppo inviperito per notare quel segnale che la donna aveva lanciato alla sua amica.
Quel dettaglio però non sfuggì a Mina, che guardò con aria interrogativa la nonna ed Ichika, mentre entrambe si scambiavano sguardi d'intesa.
Chissà di quanti pettegolezzi erano a conoscenza senza che lei ne sapesse nulla, perchè troppo occupata a giocare a far la moglie perfetta chiusa tra le sue bellissime quattro mura.
«Ecco il suo thé con i pasticcini che le piacciono tanto, donna Chieko! Mansaku ve li ha fatti trovare freschi appositamente» le servì Joe, sorridente e premuroso come sempre. 
Donna Chieko ed Ichika guardarono la colazione con aria soddisfatta e riconoscente.
«Questo è aromatizzato alla lavanda, Mina-chan. Il preferito di Tadayoshi» aggiunse poi rivolto a Mina, guardandola negli occhi, con quel suo solito fare seducente che gli usciva naturale.
Mina rimase paralizzata a quella scoperta: non aveva minimamente immaginato che a suo marito piacesse quel tipo di bevanda. Quando preparava il thè a casa, Tadayoshi lo beveva raramente. 
Ebbe improvvisamente come la sensazione che Joe glielo avesse detto apposta, come se le avesse letto dentro e volesse tentare di rincuorarla. Voleva calmarle quei tumulti che le agitavano l'animo fino a stordirla.
Allora rivolse un sorriso grato al biondo, cercando di non lasciarsi prendere alla sprovvista dalla commozione imminente.
Tuttavia, quel tepore rassicurante durò il tempo di un minuto esatto.
 
Fuori dal locale si avvertì uno strano rombo di motore. Una motocicletta aveva parcheggiato lì di fronte.
Mario allungò il collo per scorgere da dove provenisse quel rumore, e nel riconoscerne la fonte, sgranò gli occhi terrorizzato.
«Merda!» esclamò, dirigendosi verso la cantina. «Non vi azzardate a fare il mio nome, intesi?» minacciò il ragazzo, puntando un dito contro Joe e Junko, che si fissarono straniti.
Poco dopo fece la sua entrata una ragazza affascinante, vestita di un tubino nero ed una giacca di pelle bianca, tacchi a spillo vertiginosi ed un paio di occhiali scuri abbastanza vistosi.
Nel toglierseli, rivelò la presenza di numerose efelidi sulle gote piene. 
Era ben truccata e i capelli avevano un taglio molto occidentale. 
Mina la guardò sbalordita. Sembrava fosse uscita da una di quelle riviste che ogni tanto leggeva la sera, tra una pausa e l'altra. Anche donna Chieko e la sua governante rimasero di stucco nel vedersela davanti.
«Buongiorno a tutti, ciurma!» salutò la giovane, sistemandosi i capelli. 
A Junko e Joe fu chiaro adesso il motivo della fuga di Mario. Il secondo scosse il capo divertito.
«Buongiorno a te, Rurika! Ti vedo in gran forma» la salutò Junko, pulendosi le mani bagnate su uno strofinaccio. 
Nel sentire quel nome, Mina ebbe un sussulto. 
Non poteva essere vero. 
Non poteva essere lei. 
La donna che aveva cercato di non disprezzare con tutta sè stessa.
«Come sempre, baby» commentò Rurika, appoggiandosi al bancone del bar, mettendo ancor più in evidenza il suo bel décolleté.
«Il tuo amico è andato a nascondersi di sotto non appena ti ha vista» gli rivelò Junko, intenta a pulire un bicchiere di vetro.
Alzò appositamente la voce, per farsi sentire da Mario, nascosto giù in cantina.
«Può nascondersi dove gli pare, tanto non lo vado a cercare! Non mi voglio intossicare stamattina» decretò la ragazza, portandosi due dita sulla radice del naso, premendo forte.
«Posso avere un caffè bello forte, Hayakawa-san? Sono distrutta» dichiarò con enfasi la ragazza al loro barista, sventolando una mano sul viso come per darsi aria.
Mina non smetteva di fissarla, atterrita. C'era qualcosa in quella ragazza che la intimidiva: era prorompente, sensuale, sboccata. Praticamente tutto il suo esatto opposto. 
E poi, quel petto degno di nota: il suo a malapena si vedeva da sotto i vestiti.
«Signora, ho sentito bene poco fa?» bisbigliò Ichika all'orecchio della sua padrona, che sorseggiava indisturbata il suo thé, puntando lo sguardo sottile sulla fantastica silhouette di Rurika.
«Non può essere quella Rurika... sarà una coincidenza» riflettè donna Chieko, picchiettando un dito rugoso sull'estremità del bastone.
Mina non riuscì a seguire il ragionamento di sua nonna. La sua mente era solo piena d'immagini assurde e oscene, i cui protagonisti indiscussi erano Rurika e Tadayoshi. Immaginò le infinite posizioni in cui quella donna si metteva pur di compiacerlo, e suo marito che la guardava voglioso, senza alcuna esitazione.
Quelle immagini le bruciarono il petto di dolore. 
Prima di allora, Mina non si sarebbe mai aspettata di provare così tanta gelosia nei confronti di un'altra donna. Pensava ingenuamente di esserne esente, che nulla avrebbe mai scalfito la sua pace interiore. 
Rurika aveva abbattuto mura così forti da lasciarla scoperta, esposta alle intemperie, alle sue stesse paure ed ansie.
Sua nonna si accorse subito del suo cambio d'umore, e cercò invano di tranquillizzarla.
«Non è detto che sia lei, Mina! E anche se fosse, non è detto che abbia davvero una storia con tuo marito!» affermò l'anziana, convinta di ciò che diceva. 
Ma Mina era altrove, non riusciva a pensare ad altro.
«Non posso competere con lei... non posso» si ritrovò a mormorare, come in trance.
Ci credo che Tadayoshi corra da lei tutte le volte che chiama. 
È così sensuale, così accattivante... in confronto, io non sono assolutamente nessuno!
In quell'istante, pensò che sarebbe stato meglio se non l'avesse mai incontrata.
Non era più soltanto un disegno che poteva scarabocchiare e accartocciare.
Rurika, il suo più grande incubo, era in carne ed ossa, in tutto il suo splendore, lì davanti a lei, mentre le rinfacciava silenziosamente quanto fosse attraente, quanto sapesse fare la femmina sia fuori che dentro al letto. 
Si strinse nel suo cappotto di camoscio, in un insulso gesto protettivo. 
Il thé alla lavanda si era ormai raffreddato, era diventato imbevibile.
Aveva allungato le mani tremanti verso quella tazza bianca decorata con motivi ad onde colorate. Vi si era aggrappata ad essa come ad un'ancora, un salvagente buttato lì da qualcuno mosso a pietà per lei. 
La rabbia arrivò a distorcerle perfino il gesto gentile che Joe aveva fatto per lei poco prima. Un gesto, secondo la sua visione, dettato dalla pena, non dall'affetto.
È il thè preferito di Tadayoshi. Aromatizzato alla lavanda.
Mina sarebbe voluta scoppiare a piangere dal nervoso, ma si trattenne solo per decenza. Poi arrivò la stoccata finale.
«Oh, ma Tadayoshi è tornato dall'addestramento?» chiese Rurika alla volta di un Joe intento ad accendersi una sigaretta. 
A Mina venne un leggero capogiro nell'udire il nome di suo marito pronunciato con tanta confidenza da quella sconosciuta.
Come ti permetti di chiedere di mio marito senza porti alcuno scrupolo?
Serrò i denti in una morsa stretta e increspò le labbra.
«Che io sappia no. Dico bene, Mina-chan?» Joe rivolse quella conferma a Mina senza alcun secondo fine, ma si spaventò nel notare il volto completamente stravolto della ragazza, quasi si stesse per sentir male.
Rurika voltò lo sguardo verso la diretta interessata. Al tavolo, le tre donne risposero al suo sguardo con tre differenti espressioni: Ichika con sconcerto misto a compostezza, donna Chieko sorrise mostrando tutta la sua faccia tosta e Mina mantenne lo sguardo fermo verso la tazza di thé, buttando solo ogni tanto lo sguardo verso quella dea scesa in terra.
«Oh» esclamò Rurika, alzandosi dal suo sgabello, portandosi le mani dietro la schiena. Mina sentì addosso il suo sguardo indagatore, lo avvertì pesante, invasivo.
«Così sei tu la famosa Mina» esclamò nuovamente la ragazza, eccitata.
Donna Chieko ed Ichika si scambiarono uno sguardo interrogativo.
«Come, prego?» rispose Mina, afferrandosi a quel poco coraggio che le era rimasto. Magari era vero, magari era tutto un equivoco. 
Rurika conosceva Tadayoshi esattamente come conosceva tutti gli altri.
Doveva fidarsi di suo marito, doveva...
«Sei tu la famosa moglie di cui non parla mai».
Non era una domanda. Era un'affermazione, un dato di fatto. 
Tadayoshi non parlava mai di lei. Era come se non fosse mai esistita nella sua vita. Dopotutto, il loro non era stato un matrimonio d'amore. Era stato un contratto da firmare, che ora li teneva legati l'uno all'altro senza via di fuga. Almeno per lei.
«Quindi esisti! Se non gli facciamo domande esplicite, lui non spiccica mai-»
Mina si alzò sbattendo violentemente entrambi le mani sul tavolo, facendo sobbalzare sua nonna e la sua governante, e la stessa Rurika, avvicinatasi al tavolo per vederla meglio. 
Era troppo. Tutto questo per lei era diventato assolutamente troppo. 
Non solo quella donna si divertiva con suo marito, ma aveva avuto anche la faccia tosta di marcare il territorio, di renderla una nullità agli occhi di sua nonna e degli amici del marito.
Si, esisto, lurida screanzata. E Tadayoshi è mio, solo mio!
Si guardò la fede sull'anulare. L'oro luccicava rispecchiando i raggi solari che filtravano dall'enorme finestrone che illuminava la hall.
«Cosa c'è Mina? Non ti senti bene?» chiese donna Chieko, sfiorando il braccio della nipote con cautela.
Mina tremava vistosamente, aveva il volto paonazzo e gli occhi schizzati di sangue. Doveva andarsene da lì, il più presto possibile. 
Se non lo avesse fatto, avrebbe giurato di mettere le mani al collo a quella donna, perdendo ogni dignità e contegno.
«Scusatemi nonna, Ichika-san... devo andare di corsa a casa, non mi sento molto bene» e nel dire ciò, rovistò nella pochette e cacciò due biglietti da cinquecento yen, che poggiò sul tavolo con le mani che le tremavano vistosamente.
«Grazie della colazione nonna, ma offro io oggi!» disse prima di raggiungere disperatamente la porta con il rischio d'inciampare e farsi male.
Aveva lasciato quei soldi per scusarsi, per ripulirsi di poco la faccia, compromessa indelebilmente dopo quell’episodio.
Rurika assistì sbigottita alla scena, guardando prima Mina e poi l'anziana e la sua governante, sedute ancora a quel tavolo. 
«Che cos'ho detto di male?» si giustificò la ragazza, facendo spallucce.
Donna Chieko decise che avrebbe colto la palla al balzo una volta per tutte. Se Mina non aveva il coraggio di affrontare la realtà, allora lo avrebbe fatto lei per la nipote.
«Perdonate mia nipote! In questi giorni è tanto stanca. Poi, il marito le manca terribilmente…» lo disse osservando Rurika dritta negli occhi, cercando di cogliere qualsiasi sfaccettatura, il più piccolo cambiamento.
«... in quella casa grande, tutta sola, senza Tadayoshi-kun si sente spaesata».
La reazione che ebbe Rurika a riguardo lasciò lei ed Ichika di stucco.
«Ma poverina! Non pensavo... che carina però, si preoccupa per il marito, ci sta!».
Donna Chieko si meravigliò nel non percepire alcuno scherno dietro le parole di Rurika. Anzi, sembrava davvero costernata, vicina in qualche modo a Mina.
«Ero curiosa di vederla, perché davvero Tadayoshi non ne parla mai! Ero convinta fosse bruttina, poco interessante... invece ha un viso grazioso, particolare direi!» ammise Rurika, annuendo più volte.
«Mia nipote è bellissima, proprio come lo ero io alla sua età!» sentenziò donna Chieko, alzando il mento con orgoglio. «Avevo una scia di uomini pronti a farmi la corte, mio marito ne era disperato! Però poi sapevo sempre come rassicurarlo...» e ammiccò complice alla volta di Rurika, che inaspettatamente colse subito il doppio senso nelle parole dell'anziana.
«Una donna giapponese di larghe vedute! Più unica che rara. Incominciate a piacermi» decretò la giovane, portandosi le mani curate sulle curve sinuose dei fianchi.
«Guardi che non interessa a nessuno sapere delle avventure erotiche vissute con suo marito! Ne facciamo volentieri a meno, grazie!» brontolò Mario, riapparso magicamente alle spalle di Rurika, con una busta in mano, rivolgendo uno sguardo gelido a Junko, che lo osservava con dispetto.
«Qua si lavora per te e nemmeno un "grazie". Vergognati» mormorò poi a Rurika, porgendole la suddetta busta di soppiatto, che lei prese con altrettanta nonchalance. 
«Tu meriteresti solo calci in culo. Traditore» borbottò offesa Rurika, sistemandosi la busta nella giacca.
Appena Mario notò il posto vuoto rimase spaesato.
«Dov'è finita sua nipote?» chiese alla volta dell'anziana, fingendo poco interesse.
«È andata via. Non si sentiva troppo bene» si limitò a commentare donna Chieko, non aggiungendo altro, per il momento.
«Tu anche, sei stata troppo diretta. L'avrai spaventata» commentò Junko a Rurika, portando via la tazza di Mina, ancora piena di thè.
Rurika fece una smorfia di disappunto nel frattempo.
«Non tutti sanno cogliere il tuo modo di fare. Non siamo ad Honolulu qui» continuò Junko, controllando poi se nel suo borsone ci fossero tutti i libri che le sarebbero serviti per la lezione di quella mattina.
Donna Chieko però voleva vederci chiaro in tutta quella storia. Continuava a credere fermamente che Tadayoshi non tradisse Mina con nessun'altra, però era davvero curiosa di capire la natura del legame tra quella bella ragazza e suo "nipote acquisito", come le piaceva chiamarlo.
«Mi permetta, Rurika-san, ha un momento?» fece l'anziana, mostrando con la mano il posto vuoto lasciato dalla nipote.
Rurika titubò leggermente a quella richiesta, ma l'idea di scambiare quattro chiacchiere con quella vecchietta attempata le stuzzicò l'interesse.
«Anche due!» affermò, sedendosi al tavolo accavallando le belle gambe ricoperte da calze di nylon sottilissime, quasi trasparenti. 
Nel compiere quel gesto, alzò la gamba destra con fare provocatorio verso Mario, puntandogli quasi in faccia la bella scarpa di vernice elegante.
«Ammira quello che hai perso, bifolco!» disse lei con aria teatrale, guadagnandosi l'occhiataccia storta di Mario.
Ichika fissò quelle gambe rapita. Non aveva mai visto prima d'ora qualcuno mostrarle senza il minimo indugio durante i suoi quarantotto anni di vita. 
«Mi dica tutto» esclamò Rurika, sistemandosi meglio sulla sedia, poggiando il mento sulle dita intrecciate.
Chieko le dedicò un’occhiata furbetta, poggiando anch’essa il viso sul pugno della mano.
 
Ho sbagliato a venire. Avrei fatto meglio a restarmene a casa.
Mina pensò quelle cose mentre camminava frettolosamente per strada, scontrandosi ogni tanto con qualche passante che le ostruiva il passaggio.
Il viso elegante di quella Rurika continuò a tormentarla, a rinfacciarle quanto lei fosse nettamente superiore.
Sei tu la famosa moglie di cui non parla mai.
Erano parole di scherno? Offese gratuite? 
Come avrebbe potuto o dovuto interpretarle?
Ma la furia più grande in quel momento era tutta rivolta a suo marito.
Sei uno stronzo, Tadayoshi. Un perfetto stronzo! Per te questo matrimonio non ha mai contato niente! Stupida io che per un attimo ho creduto potessimo andare oltre ad un semplice contratto firmato.
Che potessi guardarmi in modo diverso.
No! Rurika è di gran lunga meglio di me, non è vero? 
Ci credo che poi tu non abbia voglia di toccarmi, dopo aver giaciuto con una dea simile!
E poi, come un fulmine a ciel sereno, ripensò alla sera in cui dormirono abbracciati di mattina presto sul loro letto. Lei che non aveva chiuso occhio per tutta notte per aspettarlo, e lui uscito chissà dove per incontrarsi con quella ragazza.
Se riesce a darti quello che io non riesco a darti, sono contenta così.
Mina si diede della stupida per averlo anche solo pensato.
Si rese conto di quanto fosse stata bugiarda e sciocca. Pur di non perderlo, avrebbe accettato qualsiasi cosa in silenzio, proprio come sua madre avrebbe voluto. 
Ma Mina non voleva questo. Non voleva dividere suo marito con nessun’altra donna.
Voleva essere lei l'unico pensiero di Tadayoshi, l'unica preoccupazione, l'unico desiderio. 
Si vergognò dei suoi stessi sentimenti, li trovò ripugnanti, infantili.
Si accasciò al muro con la schiena, aveva camminato troppo velocemente ed aveva il fiatone. Voleva scappare lontano da quella situazione che le opprimeva il petto e le impediva di respirare.
Le gambe iniziarono a cederle, scivolando a poco a poco al suolo.
Mina non riuscì più a trattenere i singhiozzi, scoppiò a piangere come una bambina, rannicchiandosi e nascondendo il volto rigato dalle lacrime.
Si sentì impotente, messa letteralmente con le spalle al muro. 
Tutta quella rabbia, quel risentimento l'avrebbero fatta impazzire prima o poi.
Maledì il nome di suo marito, e maledì sé stessa, per essere stata tanto concessiva.
Si sentì male all'idea che avrebbe dovuto continuare a reprimere tutto, per paura delle conseguenze che ne sarebbero derivate. 
La paura di essere ripudiata, l'umiliazione che avrebbe gettato sulla famiglia, l'onta che l'avrebbe perseguitata a vita... 
Avrebbe dovuto convivere con quella realtà, anziché affrontare la questione e farsi anche umiliare, se necessario. 
Mina non riuscì a vedere nessuna via d'uscita, nessuna luce in quel tunnel buio e freddo.
Realizzò che avrebbe dovuto soltanto sopportare, seguire il corso degli eventi in silenzio, e sperare che la situazione virasse in suo favore.
Se non poteva avere voce in capitolo in quella situazione, tanto valeva sopprimere tutto e andare avanti, come aveva sempre fatto. Come aveva imparato a fare dopo essere rimasta sola, dopo la morte di suo padre. sbattuta con violenza contro un muro d'indifferenza.
Che il cielo mi dia la forza, pensò la giovane, il volto sconvolto dalle lacrime e il cuore ferito, lacerato.
Se mai prima di allora si era chiesta come fosse possibile amare e odiare tanto una persona allo stesso tempo, adesso ne era certa.
Col tempo, ne sarebbe stata capace anche lei. Sarebbe stata capace anche lei a destreggiarsi nell'arte dell'indifferenza, fino ad estraniarsi completamente. 
Fino a fingere benissimo che non avrebbe fatto più male.

 
“…camminare sopra un vetro
piuttosto che chiedere un favore…”
(Alex - Senza chiedere permesso)

 
 
*Il verso è tratto dalla canzone di Gianni Celeste, “Tu comm'a me”. Per questioni di trama, la canzone in questione è diventato un brano enka, ballata tradizionale giapponese in voga fino agli anni ‘70 del Novecento.
 

//Revisionato in data 20/12/23//
 
Ehilà, eccomi di nuovo su questi schermi! XD
Ho aggiornato molto prima del previsto, e mi scuso sin d’ora se vi siete beccati il capitolo TadayoshiCentric!, ma su di lui avevo delle cose da dire, e forse mi sono lasciata anche prendere un po' la mano :D 
È il capitolo più lungo che ho scritto finora, a differenza del precedente, su Tadayoshi e Mina non avrei più smesso di scrivere. 
Sono soddisfatta del risultato finale, non è perfetto, ho cercato di aggiustarlo come meglio ho potuto, ma sono riuscita a scrivere quello che volevo e come lo volevo. 
Come sempre, vi ricordo che i cenni storici che ho inserito, (a parte la guerra di Corea che è esistita davvero) sono tutti da considerarsi verosimili, e prettamente funzionali alla trama. 
In questo capitolo gli equivoci e i colpi al cuore non mancano, come avete potuto notare XD 
Non mi dilungo troppo, il capitolo già è stato lungo da sorbire! Ringrazio in anticipo i coraggiosi che lo apprezzeranno, nonostante la lunghezza. 
Vi saluto, buona lettura, à bientôt!
   
 
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