Nella
foto, come immagino Hermann nel 1947.
L’attore
è Alexander Skarsgård, protagonista del film “La conseguenza”.
Capitolo
57
Di
svastiche, lustrini e vecchi valzer viennesi
“La
guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua
razionalità, la «comprendiamo». Ma nell’odio nazista non c’è razionalità: è un
odio che non è in noi, è fuori dell’uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco
funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo
capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia.”
Primo
Levi, Se questo è un uomo, 1947 (in Appendice, 1976)
Berlino,
25 aprile 1947
Non
ci sarebbe stato modo di sfuggire a ciò che i suoi avevano già pianificato.
Accettando l’invito e coinvolgendolo a una festa segreta di ricchi, nostalgici
nazisti, avrebbero giocato la loro ultima carta per convincerlo non tanto a
restare, quanto piuttosto a riabbracciare l’ideologia, forse, pensando e
sperando che qualcosa o qualcuno, o soltanto il ritrovarsi, riconoscendosi in
quel mondo gli avrebbe fatto cambiare idea.
Aveva
risposto subito con un diniego Hermann, giacché, in lui, v’era non solo il
rigetto verso quella gente ma anche la paura di un’eventuale ronda da parte
delle milizie occupanti e di finire nell’ennesimo guaio che avrebbe posticipato
la sua partenza. Il pensiero di tale eventualità lo angosciava ancor più del
ricordo delle violenze subite nel lager sovietico.
Da
bravo persuasore qual era, merito anche di una carriera da poliziotto, suo
padre non ci mise molto per convincerlo.
“Quella
gente, come la chiami tu, mi ha aiutato a ritrovarti e a tirarti fuori da Sachsenhausen.
Mi hanno prestato dei soldi”, incalzò Karl, sbattendo il pugno sul tavolo e,
ansimante, quietò poi il tono della voce, “che molti di loro non rivogliono
neanche indietro, perché sei sempre stato stimato e apprezzato.”
Se
con tali parole suo padre si fosse fermato, Hermann avrebbe dato lì per lì il
proprio assenso, rivestitosi per un lungo attimo stordente di quella tracotanza
della quale nel lager sovietico, tra umiliazioni e percosse, era stato
spogliato, invece continuò, infierendo su ciò che proprio non riusciva ad
accettare: “Anche dopo che è venuta a galla quella merda.”
Un
cipiglio irato gli incorniciò lo sguardo perso nel vuoto e, mentre si alzava,
lasciando stridere la sedia contro il pavimento, pur egli rispose sbattendo il
pugno sul tavolo, ma la profonda disperazione ne trattenne la forza che, di lì
a poco, avrebbe espresso chiudendo con violenza la porta della sua stanza.
La
gente di quel mondo cui anche Hermann aveva appartenuto, a differenza di suo
padre, era stata capace di perdonargli la storia d’amore con Sarah, giacché
essi non la ritenevano tale. Taluni lo avevano giustificato, definendola un
ricordo distorto per sfuggire alla dura realtà del lager sovietico, altri una
sbandata dovuta alla tensione per una guerra ormai persa, attribuendo a lei il
ruolo di valvola di sfogo per irrefrenabili pulsioni maschili e di maliarda
quale ritenevano fosse una donna ebrea, ma tutti, alla confidenza di Karl, ne
avevano irriso l’esagerazione.
Neanche
fosse stata l’ultima donna sulla faccia della terra, Karl non avrebbe violato, né
allora né mai, e neppure col pensiero, uno dei capisaldi dell’ideologia
nazionalsocialista, giacendo con un’appartenente alla razza impura, e si
stupiva della leggerezza e dell’ironia, talvolta sfocianti in volgari battutine,
con le quali i suoi amici affrontavano l’argomento.
Seppure
fosse risorto dalle rovine, il nazismo avrebbe avuto connotati diversi e Karl viveva
nella tacita e, a sua moglie, inconfessata malinconia, rimuginando dentro di sé
tal pensiero, consapevole che anch’egli era cambiato, giacché un tempo non
avrebbe mai e poi mai, e così schiettamente, confessato il reato di oltraggio
razziale compiuto da suo figlio.
Questi,
intanto, sciolse l’intreccio di dita e sollevò dal pavimento lo sguardo
corrucciato. Si alzò dal letto sul cui bordo era seduto e s’arrese al volere
dei suoi, sentendo il richiamo di quel mondo che pensò potesse corrispondere al
proprio cambiamento e dal quale, inconsciamente, desiderava ricevere ancora gli
onori.
Intenzionato
ad annunciare la sua decisione, si avvicinò in fretta alla porta della stanza e
impugnò la maniglia.
Un
maggiordomo in giacca bianca aprì loro la porta della sontuosa casa, una villa
fuori città che sembrava esser stata immune dalla furia della guerra e dove i
suoi abitanti, anch’essi rimasti incolumi dal conflitto, poi ignorati dalla
giustizia del dopoguerra, vivevano un tempo sospeso, in attesa della seconda
vita del nazismo, fra nostalgia del passato e palpitante aspirazione di fondare
un nuovo movimento politico che ne rianimasse l’ideologia.
In
smoking nero lucido con papillon, bretelle e fusciacca ad enfatizzare un fisico
asciutto e, adesso, con muscoli appena accennati, Hermann posò lo sguardo
incredulo sull’enorme drappo rosso con la svastica che sovrastava il camino di
una sala già gremita di persone eleganti e gaudenti e il suo cuore fremette,
scosso dal timore del passato che tornava e, al contempo, da un tremore di
nostalgia.
Incrociò
gli occhi di suo padre, due pozzi verdi, un tempo più
rassomiglianti ai suoi, ora velati dall’età in una mescidanza di malinconia e
severità, il quale, alla sua espressione interrogativa, rispose, ammonendolo
come se fosse un bambino: “Non dire nulla che ti faccia vergognare.”
Seppur
per motivazioni diverse, Sarah era il chiodo fisso di entrambi.
Consegnarono
i soprabiti e, procedendo nel sontuoso e immenso spazio della sala in stile
ottocentesco, sebbene fosse rimasto qualche passo indietro, Hermann poté notare
l’espressione corrugata di suo padre rilassarsi in un cordiale sorriso, mentre
s’avvicinava ai padroni di casa in primis, e all’altra gente poi, seguito da
sua madre che, anche lei sorridente, con indosso una gonna lunga fino al
ginocchio e coi capelli biondi tinti per l’occasione, pareva ringiovanire in
quel mondo.
Rimasto
indietro e distanziatosi dai suoi, Hermann si confuse fra la gente alla ricerca
di un angolo dove poter fare da tappezzeria e, con in mano una coppa di
champagne offertagli da un cameriere di passaggio, lo trovò nel più angusto
spazio della sala, tra la parete e il tendaggio di velluto color rosso
bordeaux.
Le
persone eran per lui come ombre sfocate, i loro discorsi filonazisti gli arrivavano
alle orecchie come un trambusto ovattato che s’elevava al vecchio valzer
viennese suonato dal grammofono.
In
una seconda coppa di champagne, affondò l’angoscia e il desiderio di un ritorno
al passato, suscitatigli da quel mondo e, sebbene la mente fosse in confusione
e l’animo in lotta, prevalse in lui la consapevolezza.
E
comprese Hermann l’impossibilità di sperimentare l’ebrezza dell’egocentrismo,
della superiorità e del potere, senza dover considerare un altro essere umano
inferiore e sopraffarlo. La scelta era tra il riabbracciare quel mondo in toto
o non farlo per niente e tornare a Sarah da uomo libero, liberato completamente
dal veleno del nazismo che, subdolo, s’insinuava ancora nelle sue vene, ma lui
non aveva alcun dubbio.
Al
di là dei pensieri che gli affollavano la mente, dinanzi al vuoto che i suoi
occhi fissavano, prese forma un’immagine di donna a lui familiare, di spalle,
in abito lungo color oro con lustrini e orlo a sirena stile charleston che le
aveva già visto indosso, nella consueta posizione asimmetrica e sensuale con
una mano sul fianco e il gomito proteso leggermente all’indietro, coi capelli
biondi raccolti in uno chignon impreziosito da un fermaglio gioiello, regalo
suo.
Conversava
con le altre donne che l’accerchiavano e che, quasi subito, avendolo
riconosciuto, con simultanei cenni del capo, la esortarono a voltarsi. Lo fece
e, fermatasi di lato, già gli mostrò un paio d’occhi azzurri, quelli
che un tempo Karl e Birgit sognarono per i loro nipotini, spalancati in greve
stupore.
Era
Else, la sua fidanzata storica.
“Ciao
tu, animale stanco,
sei
rimasto da solo, non segui il branco,
balli
il tango, mentre tutto il mondo
muove
il fianco sopra un tempo che fa
tikibombombom.
[…]
Mai più, è meglio soli che accompagnati
da
anime senza sogni pronte a portarti con sé, giù con sé.”
Levante,
Tikibombom