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Autore: Deirbhile    21/06/2022    2 recensioni
Dalla storia:
“Magari è vero che le persone non sono mai come sembrano, Pirandello aveva perfettamente ragione. Ognuno di noi indossa una maschera. Solo che fino ad ora ero convinta che l'unica che usasse Roberta Della Corte fosse una maschera esfoliante per liberare i pori” constatò Chiara.
Chiara e Roberta sono due liceali qualunque: a Chiara piace leggere e studiare, stare in mezzo alla natura e portare i capelli rossi legati in una treccia. A Roberta piace ostentare la sua bellezza statuaria, mostrarsi in centro a fare shopping con il suo ragazzo e nascondere i propri pensieri in fondo all'alcol.
E allora perché, dopo quattro anni passati ad odiarsi, sentono lo strano desiderio di capirsi a vicenda?
Fra amiche iperprotettive, genitori sempre assenti, scontri diretti e qualche attacco di panico, Chiara e Roberta capiranno finalmente che c'è qualcuno disposto a cicatrizzare le loro ferite.
[STORIA CONCLUSA]
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Epilogo

Ci siamo, cari lettori. Eccoci arrivati alla fine della lunga storia di Chiara e Roberta, che mi hanno accompagnato in questi anni di transizione, con cui sono cresciuta, e che lascio ora come mie coetanee, come amiche con cui mi sono confrontata, formata e scontrata. Ho amato scrivere ogni capitolo di questa storia, ed ho amato ricevere recensioni da ognuno di voi. Vi ringrazio per essere rimasti con me tanto tempo. A presto, forse, con altre storie, con altri nomi. Mi farebbe immensamente piacere.

Con amore,

Deirbhile

 

**

Chiara era uscita dall’ospedale con largo anticipo quel pomeriggio, dopo aver strappato al suo capo reparto il permesso di andar via ad un orario decente, adducendo la scusa piuttosto banale di una tubatura rotta e della necessità di gestire il traffico degli operai nella nuova casa in ristrutturazione.

Il dottor Gelli, dall’alto del suo compassato metro e ottanta, aveva accordato quel permesso con silenziosa disapprovazione, mentre già Chiara faceva retro-front verso il locale degli armadietti in cui gli specializzandi tenevano camici e cambi di vestiti, con un sorriso trionfante in volto. L’afa di luglio riempiva le sale, dava a tutti un’aria più fiacca, ma lei si sentiva elettrica, non riusciva a stare ferma. Afferrando un paio di cartelle cliniche, fu più che felice di avere davanti una sfilza di pazienti da controllare per quella mattina.

-       Allora, è oggi il giorno? – aveva chiesto Alice, sua collega e compagna delle disavventure in reparto dall’inizio degli studi in medicina.

Chiara aveva annuito, sbattendo forte la porta del suo armadietto arrugginito, ed aggiustandosi i capelli corti ad uno specchio antistante. Li aveva tagliati da poco, ma non ne era convinta: le arrivavano sotto le orecchie, in una massa fulva di onde spesso disordinate, che si passava da un lato all’altro del volto a seconda del suo umore.

-       Fammi gli auguri, ti prego- aveva sospirato, passando in rassegna alla pelle bianca delle sue guance, alle occhiaie da sonno e alle ciocche scarmigliate da giornate di intenso lavoro – vado via alle quattro, il generale mi ha accordato il permesso.

Alice aveva represso una risatina, guardandosi intorno divertita.

-       Shh, potrebbe sentirti! E poi che fine farebbe la tua futura carriera da primaria?

Chiara aveva alzato le spalle, dirigendosi a grandi passi verso il corridoio, infilandosi il suo candido camice da lavoro.

-       Ci sto quasi ripensando- aveva grugnito, appuntandosi al petto un cartellino con su scritto Dott.ssa Chiara Torri, specializzanda in psichiatria.

Ora, alle quattro e dieci, lasciandosi alle spalle l’ospedale, non poté fare a meno di lasciarsi andare a quel senso di piacevole panico che l’aveva pungolata durante tutto il giorno. Nel piazzale antistante al policlinico, individuò la sua ammaccata Ford magenta (eredità e regalo di Benedetta, che aveva dovuto separarsene per ragioni pratiche ma era incline al sentimentalismo più conservatore), e fece scattare le porte.

Si guardò ancora una volta allo specchietto retrovisore. Il profilo asciutto, vagamente teso, gli occhi lucenti contornati da un lievissimo strato di trucco. Avrebbe voluto tornare a casa per cambiarsi, farsi una doccia e darsi una sistemata ai capelli, ma non poteva rischiare di incontrare Roberta, di ritorno da lavoro. Avrebbe voluto dirle tutto, prima ancora che vedesse la sorpresa, perché non ce la faceva più a tenerle nascoste le continue incursioni nel suo laboratorio (col beneplacito del socio di Roberta), le strane manovre ordinate agli operai che si stavano occupando della loro nuova casa. Aveva in mente un grande piano per lasciarla senza parole, e per rimediare agli ultimi mesi di assenze, ritardi, permanenze ad oltranza in ospedale ed impegni mancati.

Per la buona riuscita del tutto, però, c’era bisogno di discrezione e fuggevolezza. Aspetta ancora un po’, pensò Chiara, non sapendo se si stesse rivolgendo a sé stessa o a Roberta, ne varrà la pena. Discrezione e fuggevolezza. Cose in cui, pensò con uno sbuffo, non era forse mai stata brava.

-       Pronto- disse ad una voce maschile al cellulare, prima di mettere in moto - ci sono, sto passando ora. Avete liberato tutto?

**

-       Allora, signor… Manzi- lesse Roberta da dietro le sue lenti tonde, alzando un sopracciglio a quel cognome familiare- che cosa ha scelto di approfondire in storia dell’arte?

Il volto cereo di uno studente di quinta liceo le si parò davanti in una strana inversione del tempo, come se d’un colpo anche lei avesse di nuovo diciotto anni e si trovasse di fronte alla commissione del suo esame di maturità. Sperò che quel pensiero non trapelasse, e cercò di rimanere impettita nel suo ruolo di commissaria esterna, mentre pensava che con ironia in dieci anni era passata dalla parte degli aguzzini senza nemmeno rendersene conto.

-       Ho scelto Picasso- balbettò lui, per poi iniziare a sciorinare una serie di informazioni biografiche, in modo pedante e quasi lamentoso.

Roberta alzò leggermente gli occhi, preparandosi all’ennesima sfilza di domande che aveva già fatto quella settimana. Cos’hanno tutti con Picasso? si chiese e, annoiandosi un po’, fece finta di sbarrare meticolosamente i parametri di giudizio su un foglio stampato.

Quando anche l’ultimo candidato fu esaminato e la commissione fu prosciolta, uscì insieme ai suoi colleghi per prendere un caffè e fare un giro nelle classi dei suoi alunni, dell’istituto comprensivo dell’edificio accanto. Era sicura che stessero facendo un buon lavoro, ma non poteva esimersi dal sentirsi un po’ tesa: era il primo anno che una sua classe affrontava l’esame finale, ed in più senza lei come commissaria interna, il che segretamente la preoccupava.

-       So che i tuoi ragazzi stanno facendo un ottimo lavoro-

A quelle parole, quasi evocate dai suoi stessi pensieri, Roberta si voltò e afferrò velocemente il caffè pronto dal distributore automatico. Arrossì quando vide che si trattava della professoressa Neri, Claudia, la collega di letteratura dell’altra sezione. Quella donna aveva un che di magnetico, l’aveva sentita più volte declamare insieme alle sue classi battute per il laboratorio di teatro antico, e tutti a scuola – lei compresa – ne erano in qualche modo affascinati.

-       Beh, mi solleva sentirtelo dire. A dirti la verità sono più in ansia io di loro- rispose, spostandosi di lato per lasciar spazio alla collega.

Due monetine tintinnarono nel distributore, un rumore meccanico e stridente annunciò l’arrivo di un altro espresso decaffeinato.

-       Vedrai che andrà tutto bene. Sei stata un’ottima insegnante per loro, lo sai. Mi hanno parlato molto della tua ultima mostra. Li hai ispirati- disse casualmente la professoressa Neri, allungando una mano inanellata ad afferrare il suo bicchiere.

La mostra che Chiara non ha ancora visto, pensò con amarezza Roberta. Si avviò in silenzio verso il cortile, mentre la collega la seguiva.

-       E hai ispirato anche me- continuò quella, lanciandole un’occhiata piuttosto eloquente.

Roberta ingurgitò imbarazzata il suo caffè. Nel silenzio del cortile rimbombavano le voci delle ultime commissioni riunite in scrutinio, e sporadiche urla di esultanza da parte di studenti che avevano concluso i loro colloqui.

-       Davvero?

Claudia strinse gli occhi in un modo a metà fra il divertito e il sorpreso. Roberta fissò per un momento i suoi bracciali tintinnanti, i suoi capelli bruni racconti in una crocchia, il suo leggero vestito a fiori. Si sentì pervadere da un improvviso senso di malinconia, prese un altro sorso fissando oltre i cancelli, dove le macchine procedevano sonnolente.

-       Non dovresti dubitare del tuo talento-

Roberta pensò che avrebbe dovuto sentirsi felice, perfino lusingata di quella avance non richiesta. Eppure, sentiva qualcosa stridere nelle sue giornate, il meccanismo perfetto della sua vita incepparsi di tanto in tanto, lasciandola sola, impantanata di una palude di apatia per giorni interi.

Era un’insegnante stimata, di tanto in tanto esponeva con vecchi amici di università nelle gallerie dei centri vicini, aveva un minuscolo laboratorio che condivideva con un collega artista, pagato con faticose ore extra dando lezione di disegno a ragazzi delle medie. Negli ultimi mesi, però, si sentiva sempre più stanca, sempre più irascibile: aveva l’impressione che Chiara le stesse sfuggendo, che dietro i suoi folli orari di lavoro ci fosse qualcosa che non andasse nella loro relazione, che si stessero perdendo. Si era gettata a capofitto nei suoi progetti senza pensarci, ma le litigate gelide e le notti passate senza dormire non erano diminuite, togliendole la poca energia che non impiegava nel suo lavoro.

Non sei mai a casa, non ti riconosco più, mi sembra di essere sola in questa relazione. E le lacrime di Chiara, il suo stress, le sue levatacce la mattina, la sua inavvicinabilità nei giorni con pazienti difficili. Tutto era diventato all’improvviso insopportabile, sotto il peso dei ricordi malinconici di tempi migliori, di quando si divertivano senza pensieri negli anni dell’università, nell’estate dopo la loro laurea. Non è colpa mia se devo lavorare tanto, non puoi capire, non sei tu che ci lavori in quell’ospedale. Nell’ultimo anno, le cose erano andate gradatamente peggiorando: Chiara era sempre stata una ragazza ambiziosa, ma ora sembrava totalmente fagocitata da un proposito di successo quasi distruttivo. Roberta non riusciva bene a vedere a fondo nei suoi desideri, ultimamente, ma qualcosa le diceva che quella frenesia e quell’ansia di riuscire nascondessero in fondo un insistente senso di inadeguatezza. Il circolo vizioso però non si spezzava, e loro due si allontanavano lentamente ciascuna sulla propria orbita.

Dopo qualche convenevole chiacchiera, Roberta salutò con un sorriso timido la collega e si allontanò, lasciandola forse interdetta (aveva la netta impressione che Claudia ci provasse con lei, di tanto in tanto), mentre si incamminava verso casa. Avrebbe parlato ai suoi studenti un altro giorno. Si sentiva improvvisamente senza energie, e non voleva farsi vedere così dai suoi amati alunni.

Pensava ai viaggi che aveva condiviso con Chiara, alle avventure in vacanza in posti sperduti, di cui non parlavano la lingua, alle cene che erano seguite quando aveva fatto coming out con la sua famiglia, prima freddamente cordiali, poi gradualmente più piacevoli. Ci erano voluti anni per costruire il futuro che volevano, anni di duro lavoro, di solitudine, di distanza. Quando Chiara aveva superato il test di medicina si era dovuta trasferire a cinque ore da casa, e Roberta aveva deciso di affittare con altri due studenti di storia dell’arte un minuscolo appartamento vicino alla migliore accademia delle belle arti nel paese, che da lei ne distava tre in macchina. Avevano deciso senza difficoltà di separarsi, in virtù di opportunità migliori, ma c’erano stati momenti difficili, in cui il futuro della loro relazione era stato in bilico. Avevano sempre tenuto duro, erano sempre riuscite ad andare avanti.

Adesso, però, da giovani donne, si presentavano di fronte altre difficoltà: la convivenza, la monotonia, le piccole scaramucce da coppia sposata, lati del loro carattere che venivano fuori quasi per la prima volta, dettagli che prima erano sembrati insignificanti e che ora assumevano una rilevanza quasi spaventosa. Le gelosie insensate di Chiara (che serbava particolare rancore verso Claudia, a cui Roberta sospettava si sentisse inferiore per chissà quale astrusa ragione), i silenzi di Roberta, che non era capace di litigare ma solo scappar via per restare finalmente in pace con sé stessa, le conseguenti prese di posizione di Chiara, che non sopportava di lasciare una discussione a metà. E la casa nuova, in cui avrebbero dovuto trasferirsi di lì a qualche mese, che aveva sempre problemi e ritardi, le litigate per le sporadiche (ma ancora presenti) ingerenze della famiglia di Roberta, per dove trascorrere le ferie, per chi dovesse portare dal veterinario il gatto.

Roberta ripensò a tutte queste cose, e, mentre girava le chiavi nella toppa di casa, le venne in mente che era passato quasi un mese da quando lei e Chiara avevano fatto l’amore l’ultima volta, e una morsa le prese lo stomaco, mentre desiderava che Claudia fosse Chiara e Chiara Claudia, e che potessero tornare, almeno per un momento, all’intensità dei loro primi corteggiamenti. Che potessero lasciarsi tutto alle spalle, lavoro, responsabilità, ansie, e solo tornare- solo per un giorno- a quando si vedevano di nascosto nelle roventi estati liceali. A quando si scoprivano per la prima volta, a quando si volevano senza vedere nient’altro. Momenti di stanchezza si alternavano a momenti di urgente bisogno che Chiara fosse con lei, che non la lasciasse mai, che le promettesse che sarebbero state sempre insieme.

-       Chiara, sei a casa?

L’ingresso era vuoto, animato solo dal passo felpato del loro gatto grigio, un micione di otto chili, che venne a salutarla strusciandosi contro le sue gambe.

-       Già- gli disse, - è a lavoro.

Attraversò a piedi scalzi il salotto, sfiorando il parquet bucherellato e il tappeto persiano, mettendo a posto qualche libro che il gatto aveva tirato giù dalla loro enorme libreria. Da quanto tempo lei e Chiara non leggevano un po’ insieme?

Stava per prendere un bicchiere d’acqua in cucina, ancora assorta in questi pensieri, quando un foglio vergato a mano attirò la sua attenzione.

Quest’invito per richiedere la sua partecipazione alla prima retrospettiva dell’artista Roberta Della Corte, in data odierna, alle ore 18.00. E’ gradita conferma.

L’indirizzo indicato, pensò aggrottando la fronte Roberta, era l’indirizzo della nuova casa.

-       Che strano- disse, -Qualcuno è in vena di scherzi.

 

**

Chiara aveva appena finito di sistemare l’ultima tela contro il muro immacolato, quando sentirono dei rumori d’auto provenire dal cortile antistante. Gettò un’occhiata di panico a Benedetta, che per l’occasione era tornata in città dalla provincia vicina – dove lavorava come avvocato tributario in uno studio piuttosto conosciuto- e pregò con gli occhi che, in caso di emergenza, sapesse come aiutarla a salvare la situazione. Benedetta, d’altro lato, aveva sempre un asso nella manica.

-       Siamo pronte? - chiese alla sorella, avvicinandosi con fare circospetto.

Tutt’attorno a loro, gli operai che avevano duramente lavorato durante il giorno alla nuova casa si stavano lentamente disperdendo, lasciando spazio a quella bizzarra mostra d’arte improvvisata.

Alle parteti, prima completamente spoglie, ora c’erano affissi disegni, quadri, schizzi di volti- tutti inconfondibilmente recanti il marchio e la firma di Roberta.

-       Direi che qualche minuto e ci siamo. Come vanno le luci? - domandò di rimando Chiara.

Benedetta fissò per un momento Guido, il collega con cui Roberta divideva il laboratorio, che le diede un’okay silenzioso. I primi faretti illuminarono la stanza vuota, gettando fasci morbidi di luce sui disegni alle pareti.

-       Ci siamo. Vado a controllare che sia tutto a posto fuori-

Chiara ringraziò mentalmente la calma e l’efficienza di sua sorella maggiore e, dopo aver sistemato l’ultima opera, si allontanò per fissarla per bene.

Era la raffigurazione, con colori pastello tenui e delicati, di un paesaggio campestre stilizzato, con alberi da frutto e un cielo azzurro puntellato di nuvole. Aveva sempre pensato che Roberta avesse talento, ma evidentemente non si era mai resa conto di quanto i suoi lavori avessero assunto un tono serio, professionale, un marchio inconfondibile e riconoscibile dal tratto, dalle forme delicate, dai temi ricorrenti. Guardandosi attorno, sorrise nel vedere come alcune cose- in Roberta- non fossero mai cambiate: i primi disegni liceali, fra cui quelli che lei stessa aveva scorto per la prima volta in gita a Vienna, avevano già il segno di una mano precisa, consapevole, con un messaggio ben chiaro da esprimere. C’era il pesco che aveva dipinto durante uno dei loro primi pomeriggi insieme, mentre Chiara l’aveva osservata con il desiderio di avvicinarsi e baciarla, quando avevano finito per cospargersi di colore con sommo divertimento di entrambe. C’era persino il suo ritratto, quello che aveva scorto nel buio la notte del loro primo bacio, quello contro cui Roberta l’aveva spinta per avventarsi sulle sue labbra, durante la canzone di Bruno Mars.

Roberta è un’artista, pensò, e si rese conto di quanto ultimamente si fosse persa tanto di lei: le sue lezioni, i suoi progetti sempre più estesi, con sempre più persone al seguito, le sue idee improvvise nei fine settimana liberi. Da quando aveva smesso di dipingere in casa ed aveva affittato uno studio tutto suo, si era quasi sentita privata di quell’armonia che Roberta dava agli spazi, quella calma profonda che infondeva all’ambiente ogni qual volta stesse lavorando ad una nuova tela.

Finalmente, quando tutto fu pronto, tirò un sospiro di sollievo, e vide Benedetta invitare le prime persone arrivate ad entrare, indicando loro un piccolo rinfresco, muovendosi con eleganza nella stanza vuota adibita a mostra. Tutt’attorno, i lavori di Roberta brillavano, facevano da veri protagonisti. Guido aveva fatto un ottimo lavoro come allestitore.

I colleghi di scuola e di lavoro di Roberta iniziavano a disporsi con curiosità attorno ai quadri, commentando le luci soffuse, la bellezza del tramonto che entrava dalle finestre senza vetri, che dava a tutto un’aura più essenziale, più austera. Chiara notò che c’era anche Claudia Neri, la professoressa di lettere, e cercò di non storcere la bocca quando quella iniziò a girare attorno ai disegni della sua compagna come se ne fosse ipnotizzata. In fondo, si disse, non posso biasimarla.

E poi, dopo qualche minuto, eccola.

Roberta arrivò trafelata, con le chiavi della macchina ancora in mano e la camicia con cui era uscita quella mattina, i capelli neri tenuti da un lato, un lieve strato di sudore sulla fronte bianca. A Chiara venne in mente quando, il primo giorno di scuola del loro quinto anno, era entrata con la stessa impacciata foga in classe: la sua aria da eroina greca, quei magnetici occhi blu, non l’aveva mai abbandonata.

Quando la vide, al centro della stanza, Roberta sembrò bloccarsi e realizzare, improvvisamente, quello che stava succedendo.

Fu allora che Chiara parlò, sentendo il cuore che le batteva furiosamente in petto.

-       Benvenuti alla prima retrospettiva di Roberta Della Corte, - esordì, richiamando l’attenzione del pubblico con voce squillante, - artista di cui ho avuto la fortuna di scoprire i primi lavori dieci anni fa, quando eravamo compagne di liceo. Da allora, non ha mai smesso di stupirci. Grazie, Roberta, per essere una persona meravigliosa e d’ispirazione continua.

Le andò vicino, vedendo che aveva gli occhi evidentemente lucidi, mentre tutti applaudivano.

-       Ti amo - aggiunse. E la baciò delicatamente su una guancia, indicandole timida, con una mano tremante, la sala allestita.

 

**

-       Ma ti ricordi quando ci siamo baciate per la prima volta? –

La voce molle di Chiara risuonò nella loro stanza da letto come un’eco morbida, come se fossero sul fondo di un lago. Dalla finestra, entravano i pigri rumori della notte d’estate, il frinire dei grilli del giardino comunale e, di tanto in tanto, il verso dei cani dei vicini, che facevano tremare di paura il loro grosso gatto fifone. Roberta se ne stava distesa sul fianco, in silenzio, accarezzando lievemente la schiena nuda della sua compagna.

-       Certo che me lo ricordo. Ti ho sempre mentito, quando ti dicevo di non ricordarmi nulla di quella notte.

Chiara rise divertita, fissando su di lei un paio di occhi irriverenti, di finto biasimo.

-       Quando hai bussato alla mia porta, la mattina successiva, ero terrorizzata. Mi sono detta Oddio, che succede se si ricorda tutto? Mi batteva così tanto il cuore che stavo per svenire dal panico.

Roberta roteò gli occhi, dandone della drammatica. Poi prese ad accarezzarla con più delicatezza il collo, la radice dei corti capelli rossi, le clavicole.

-       Avevamo diciotto anni- sospirò, rapita, fissandola negli occhi senza nessun’altra emozione nella voce se non una placida, soddisfatta calma.

-       Diciassette.

Risero e si avvicinarono, facendo frusciare le lenzuola.

-       Mi dispiace tanto, per tutto quello che è successo fra di noi negli ultimi tempi. Quando ho visto Claudia mi sono detta che sono tanto fortunata ad averti, è evidente quanto quella donna ti voglia- disse Chiara, non senza una nota di fastidio.

-       È un peccato allora che io voglia solo te.

Chiara la guardò, con un’improvvisa tenerezza, e le sorrise abbassando gli occhi.

-       Non litighiamo mai più, per favore- mormorò, stringendosi a lei, nascondendo la testa fra i suoi capelli.

Roberta le diede un lieve bacio sulla fronte.

-       Te lo prometto, almeno fino a domani.

Chiara le diede uno schiaffetto e rise. Poi, dopo un attimo di silenzio, si avvicinò per baciarla delicatamente sul collo, risalendo la linea della sua mascella, avvicinandosi lentamente alle sue labbra rosse. Con uno scatto, si portò su di lei e, facendo scivolare via le lenzuola, si avvicinò al suo visò finché i suoi capelli non sfiorarono le sue spalle nude. Roberta sospirò e Chiara riprese a baciarla più avidamente, cercando le sue mani per stringerle, scoprendo leggermente i denti sulla sua pelle delicata e lasciandole una scia di segni.

-       E questo?

-       Sono una donna gelosa, lo sai- si alzò, con un’espressione maliziosa, per poi essere ritrascinata giù fra le braccia di Roberta.

  
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