Step out of the shadows (and into my life)
Marco
è cambiato.
Quando abbia cominciato a farlo, Jean di preciso non lo sa. Ma Marco lo ha
fatto.
Forse, è iniziato tutto la mattina in cui nel farsi scorgere a sonnecchiare sulla
poltrona logora accanto al suo letto, anziché corrugare la fronte in quel misto
di rabbia e disperazione che a Jean sembra dire ‘ma perché mi hai costretto
a tutto questo?!’ Marco ha azzardato un sorriso. Uno di quelli veri.
Ha steso le labbra, sollevato gli zigomi medicati, e – dannazione: non
ricordava neanche che aspetto avesse, il sorriso di Marco (né che gli piacesse
tanto da farlo arrossire come una vergognosa ragazzina innamorata).
O forse, ha avuto inizio già da qualche settimana. Già dalla volta in cui prima
di tornare ai suoi doveri, Marco ha smesso di artigliare la sua mano in quel
modo orrendo, e lui ha smesso di staccarla da sé lasciandogli in pegno quel
pezzo della sua anima che, per tutto il giorno, lo avrebbe reso una sorta di guscio
vuoto sino al momento in cui lo avrebbe rivisto, lì – su quel letto.
Con la stessa paura e la stessa voglia di impadronirsi della sua mano,
stringendola sino a fargli male.
Marco
adesso è cambiato.
Quando se ne sta seduto contro la testiera ferrea ad attendere con piglio
curioso di vedere i suoi (vani) tentativi di presentargli una frittata di riso
come quella di sua madre, anche chiedergli di assaggiare almeno le
parti non bruciacchiate, ha smesso di suonare come un ulteriore tormento.
Non lo avrebbe mai creduto.
Nei giorni in cui i raggi del sole penetrano dalle vetrate e camuffano le sue
fasciature rendendole quasi incandescenti; quasi come se nulla fosse mai
accaduto e le parti mancanti del suo corpo fossero ancora al loro posto, nascoste
da qualche parte, lì nella luce, a Jean piace credere abbia smesso anche un po’
di odiarlo.
Per non averlo lasciato morire sul fondo di quella lettiga dell’ospedale
distrettuale di Trost, o per non aver dato ascolto ai suoi ‘lasciami andare’
che gli avrebbero risparmiato tutto questo.
Per non aver saputo evitare che finisse lì, dilaniato in un angolo della
strada, insieme ai cadaveri di Trost che nessuno ha mai riconosciuto.
Per non averlo saputo proteggere.
Sì,
Marco è cambiato.
Ed è cambiato anche suo modo di recepire il mondo intorno a lui.
La sua espressione non è più la stessa quando vede la chiassosa figura della
caposquadra Hange alla porta.
La luce che brilla nel suo occhio libero dalle bende è adesso vivida e sospettosa
– certo, a volte, la guarda ancora come se temesse che possa pugnalarlo da un
momento all’altro, ma per lo meno, lo farebbe su questo pianeta.
Non su uno distante anni luce che nessuno dei suoi sforzi gli avrebbe permesso
di raggiungere.
“Facciamone un’ultima, su. Solo per precauzione.”
Sino
a poco tempo prima era ‘va bene, provo a fartene un’altra. Ma è davvero
l’ultima, per oggi.’, e un’espressione contrariata, tutta nuova, è andata a
rimpiazzare il sollievo che quella frase – e soprattutto, quella siringa – di
Hange erano un tempo in grado di evocare.
“Oh, andiamo, non mettermi il broncio come al solito. Ti ho già detto che è
l’ultima, una soltanto. Poi, basta con le iniezioni. Promesso!”
Jean
incrocia le braccia al petto, storce le labbra. “Gli aveva detto così la
settimana scorsa.”
Marco
non lo rimprovera neppure per aver usato quel tono supponente.
Eppure, Jean è abbastanza sicuro di aver perso il conto di quante volte abbia
preferito mordersi la lingua pur di non questionare l’originalità delle
terapie della caposquadra, persuaso dai gemiti e dallo sguardo di Marco,
desideroso – almeno da parte sua – di una tregua.
Adesso invece, si limita a farsi adagiare la testa sul suo grembo e a lasciarsi
accarezzare i capelli e a trovare consolazione anche in quella mano che Hange attarda
sul suo fianco più di quanto serva per scoprirlo e prepararlo.
“Ho
fatto male i miei conti, tutto qui—” dice poi, per niente sorpresa e per niente
intenzionata a staccare lo sguardo dal cilindro graduato che solleva
controluce.
O a far trapelare nulla della ricaduta della scorsa settimana.
Perché
Marco è cambiato, e probabilmente, Hange sa che sono cambiate anche le sue
sfide.
Chiudere i rapporti con il Marco-di-qualche-tempo-fa, fosse anche quello
di-una-settimana-fa, è una di quelle.
“Ah—"
Piagnucola
quando l’ago lo punge, soffia tra i denti quando lo stantuffo comincia lento a scendere.
La testa incassata tra le spalle, addenta il labbro inferiore tra gli incisivi
come a voler serrare in bocca tutte le parole che ancora tentennano venir
fuori.
E avrà sicuramente qualcosa che non va, dev’essere un po’ impazzito, Jean –
perché su quel viso aggrottato, su quei fiati rotti che scaldano il suo grembo più
del sole, Jean vede il Marco-che-non-era-Marco andare via e
restituirgliene uno che un ago ha ancora il potere di offendere.
E gli sta bene, non chiede altro. Quel Marco talmente agonizzante da non
accorgersi neanche dell’ingresso di un pezzo di metallo tra le sue carni
ormai, è solo nel passato.
“Finito,
ho finito—” strascica Hange, materna e comprensiva, insieme ad un’altra serie
di parole che a-questo-Marco servono a qualcosa, Jean ne è sicuro
– così com’è sicuro che il suo tamburellare tra le pieghe della nuca, lo
strisciare delle sue nocche sotto le palpebre umide, siano lì per qualcosa.
“Siamo
lamentosetti oggi, eh? Fino a poco tempo fa
attendevi con trepidazione questo momento, e adesso? Guardati! Quasi mi fulmini
con lo sguardo! Farei bene a fare attenzione o uno di questi giorni finirai per
farmela pagare.”
“Lamentosetti?!”
Non è offeso davvero: Jean sa che è solo un altro modo escogitato da Hange per
dirgli che è stato bravo, che ce l’ha fatta. Che diavolo,
diavolo, se è contenta.
Diavolo, se è orgogliosa di vederlo così diverso, così cambiato.
E anche se è abbastanza certo che questi non siano più i pensieri della
caposquadra, ma decisamente i suoi ormai, vederle piegare un ginocchio sopra il
materasso pur di sporgersi e continuare ad accarezzargli la schiena adesso che Marco
è di nuovo seduto e stretto a sé (perché adesso, sì - può di nuovo
sollevalo e stringerlo a sé) lo confonde.
E quasi, quasi, a Jean piace, essere confuso.
“Com’è andata ieri? Ho saputo che Moblit è riuscito a ritagliarsi del tempo per
farti fare della fisioterapia, è così?”
Quella di fare il giro del letto per deporre la siringa tra gli oggetti da
sterilizzare è solo una scusa per recuperare il suo viso.
Jean non può vederlo, ma lo immagina ancora imbruttito dall’affronto.
Sente
però Marco annuire contro la spalla, e non arretra quando Hange gli ravvia i
capelli della fronte e dalle tempie così piano che sembra quasi un modo per
chiedergli scusa.
Jean sente il proprio torace chiedere di rilasciare la boccata d’aria che
trattiene.
Del resto, le dita di Marco contro la sua spalla si sono ammorbidite, è un buon
segno.
Probabilmente, l’ha già perdonata.
“Allora
dovrò seriamente aver paura che prima o poi tu me la faccia davvero pagare.”
Il
suo scuotere vigorosamente la testa gli solletica un po’ il mento, ed è bello,
pensa Jean.
Scorre con le dita le ossa aguzze della sua spina dorsale, adesso meno aguzze
di quanto le ricordasse.
Affonda le labbra e il naso sul collo, si riempie i polmoni del suo odore:
anche quello è cambiato.
“Vi
farò portare il pranzo alle dodici.”
Jean solleva di scatto la testa, guarda di sbieco.
“Ah –no, penserò io a cucinare per lui, oggi sono di riposo!”
Sullo
stipite della porta, Hange si ferma.
Piega il collo di lato, guarda Jean, poi Marco. Storce le labbra.
“Oh,
Marco – mi spiace davvero per te.”
“Cosa—cosa
vorrebbe dire?!”
Prima
che possa finire di balbettare come un’idiota, Hange è già uscita.
E forse è un bene così.
“Jean—”
Perché
sarebbe oltremodo sconveniente, essere guardato mentre Marco allunga la mano
verso il suo mento e lo riporta a sé (come se avesse davvero bisogno di
riportarlo a sé – come se non bastasse sentire il suo nome, o anche il solo, raro
suono della sua voce, per richiamare ogni attenzione su di lui).
“A m-me
piace…come cucini.”
Lo fissa ancora un po’ in silenzio, quel visetto smagrito ma adesso luminoso.
Lo fissa, e lo trova così bello. Bello come non lo era da tempo.
Jean bacia la punta del naso. Lascia che un rossore colori la distanza che separa
le sue lentiggini tra loro.
“E se
ti piace come cucino, allora aspetta di vedermi mentre cucino. Vieni, ti
porto con me!”
Marco
solleva un sopracciglio, poco convinto di quello che ha appena sentito – e in
effetti, ne è poco convinto anche lui, ma decide di sorvolare.
Meglio continuare a guardare ancora Marco, e pensare a quanto sia cambiato.
Quando si discosta piano dalla mano che gli ha cinto intorno alla spalla, e
punta i talloni sul pavimento, Jean capisce che è proprio arrivato il momento
di rendergliene merito.
Fine
Note:
·
Fanfiction scritta per la ‘Ouch!
Challenge’ challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia – Non corretta, non betata.
·
Segue il filone what-if che
vuole Marco sopravvissuto a Trost (ma gravemente mutilato). Viene salvato da
Jean che riesce a farlo curare nell’infermeria interna del corpo di ricerca.
·
Ho scritto anche altri lavori al riguardo, li trovate
qui nel mio account. Headcanon condiviso anche con Joy.
·
Grazie per aver letto <3