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Autore: Adeia Di Elferas    16/07/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bernardino si permise di tirare un sospiro di sollievo quando, finalmente, riconobbe il palazzotto in cui era ospite assieme a Sforzino e a Bossi. Aveva fatto più tardi del previsto e già rimpiangeva di non aver pregato il fratello, la sera prima, di coprirlo in qualche modo, nel caso in cui non fosse riuscito a tornare prima che Fortunati potesse venirlo a sapere.

Di certo a quell'ora il piovano doveva essere su tutte le furie... L'aveva intravisto vicino al palazzo della Signoria, poco prima, ma il fatto che fosse là e non intento a cercarlo significava molto poco.

In fondo il fiorentino era lì con il preciso compito di presenziare all'elezione del Gonfaloniere, e se fosse venuto meno a quell'impegno di certo avrebbe dovuto sopportare le ire della Leonessa di Romagna, che non sopportava di vedere ignorato un suo espresso ordine. In confronto, le rimostranze che avrebbe fatto a Fortunati per averle perso un figlio in giro per i bassifondi di Firenze non doveva essergli sembrata una colpa tanto grave... Un figlio, pensò il piccolo Feo – pur sentendosi ingiusto verso la madre – che la Tigre non aveva mai curato più tanto nemmeno quando erano a Forlì...

Arrivato al portone, capì che il suo arrivo era stato preannunciato alla guardia e tanto gli bastò per aspettarsi il peggio.

“Grazie a Dio...” boccheggiò Bossi, quando vide arrivare Bernardino, sgualcito e scapigliato come non mai: “Grazie a Dio..!”

Sforzino, che si dava un contegno maggiore del frate, guardò il fratello più piccolo e scosse il capo, commentando: “Frate Lauro ha ragione: dobbiamo ringraziare Dio se sei tornato sano e salvo! Ci stavamo preoccupando tantissimo.”

“Però nessuno è venuto a cercarmi.” fece il Feo, non riuscendo a frenare la lingua.

Bossi, di norma compassato e sempre sorridente, era una maschera di disappunto: “Ma come..! Ma vi sentite, quando parlate?! Ma come avremmo potuto..! Stavamo aspettando che Fortunati...”

“Non ve ne faccio una colpa.” si affrettò ad aggiungere Bernardino, ancora troppo soddisfatto per la notte passata fuori, per arrabbiarsi davvero davanti ai rimproveri di un frate e di un fratello che aveva appena tre anni più di lui: “In fondo a Forlì sparivo per delle giornate intere eppure nemmeno mia madre se ne dava pena...”

Frate Lauro, che aveva convissuto con la Leonessa e i suoi figli solo dopo il loro arrivo a Firenze, non volle esprimersi, ma gli bastò vedere l'espressione di Sforzino per rendersi conto che il Feo non mentiva del tutto.

“Ebbene...” fece il religioso, facendo del suo meglio per ritrovare la sua proverbiale calma: “Ora andate a sistemarvi, che siete tutto disordinato... Quando... Quando rientrerà il piovano, diremo che siete rientrato all'ora prevista e non ne parleremo mai più.”

Bernardino, sorpreso dal cavarsela tanto facilmente, annuì e scappò in camera, per fare come gli era stato chiesto. Nel pomeriggio, però, quando infine Francesco rientrò con il nome del nuovo Gonfaloniere, che sarebbe rimasto in carica a vita, ossia Pier Soderini, dovette fronteggiare di nuovo le proprie responsabilità.

“Che cosa hai fatto stanotte? Dove sei stato?” gli chiese, con apprensione il piovano, seduto davanti a lui, una mano sullo stomaco, forse nel tentativo ultimo di placare il bruciore che saliva dietro allo sterno, sintomo chiarissimo dell'agitazione che ancora non lo aveva lasciato.

Bernardino si sentiva sotto processo. Si guardò la punta dei piedi e poi osò sollevare appena lo sguardo verso quello di Fortunati, ma, nel momento stesso in cui lo incontrò, arrossì violentemente e si trovò per qualche secondo con la bocca asciutta.

“Ti ho fatto una domanda.” fece allora l'uomo, che, proprio per rendere più loquace il ragazzino, aveva fatto in modo di trovarsi da solo con lui.

“Niente...” sussurrò il Feo, sollevando una spalla: “Ho solo... Fatto un giro per la città.”

Non poteva certo raccontare nei dettagli la notte che aveva passato all'avventura, non a un piovano che, a sentire i suoi fratelli Galeazzo e Bianca, era anche l'amante della loro madre...

Aveva trascorso le ore che dal tramonto l'avevano portato a una nuova alba, muovendosi tra i bassifondi di Firenze. Era rimasto stregato nel vedere come le strade mal frequentate di una città così grande somigliassero in modo strano a quelle più strette e meno popolose di Forlì. Aveva spiato, origliato, visto e sentito cose di ogni genere. Si era mescolato agli imbonitori, agli ubriachi, alle meretrici e ai loro clienti, scoprendo cose che fino a quel momento aveva solo osservato da lontano o sentito raccontare da altri.

Aveva corso molti rischi, ne era pienamente consapevole, e aveva avvertito sulla pelle il brivido del pericolo e aveva sentito sulle labbra il gusto del proibito. Aveva la sensazione cocente e stordente di essere cresciuto molto più in quella notte che nell'arco degli ultimi due anni.

Era ancora un ragazzino, anzi, molti lo consideravano solo un bambino, ma dodici anni – che avrebbe compiuto quel novembre – non erano poi così pochi, nel suo mondo di strada. Era cresciuto tra la gente più svariata, tanto che a cinque anni, quando era andato a vivere alla rocca con la madre e i fratelli, gli era subito stata stretta quella realtà fatta di regole e orari. L'impronta che gli aveva dato la periferia gli era rimasta nel sangue e non se ne sarebbe mai andata. Quella notte il richiamo dei bassifondi l'aveva chiamato e gli aveva infuso nuova linfa vitale...

“Davvero non è successo nulla che io debba sapere?” chiese ancora Fortunati, spiazzato dalla reticenza del ragazzino, da cui si era aspettato, per spavalderia, un resoconto molto più dettagliato.

Il Feo si accigliò, ricordandosi come, appena prima dell'alba, fosse corso a San Lorenzo, sulla tomba di Giovanni Medici. Alla sua lapide aveva raccontato tutto, ogni dettaglio, in un bisbiglio frenetico, reso forte dal fatto che una tomba non avrebbe potuto giudicarlo e sperando, in qualche modo, che il buon fiorentino che era riuscito, anche se per poco, a colmare il vuoto lasciato da suo padre Giacomo potesse davvero ascoltarlo. Giovanni, pensava Bernardino, avrebbe capito e non l'avrebbe né criticato né gli avrebbe fatto la morale. Avrebbe capito e basta...

“No, non è successo nulla.” rispose il Feo, ricordandosi come, dopo essere uscito da San Lorenzo e aver raggiunto la piazza della Signoria, si fosse perso un paio di volte, facendo fatica a ritrovare il palazzotto, meta per lui ancora troppo poco familiare per permettergli di ritrovarla in fretta.

“Bene...” soffiò a quel punto il piovano, premendosi la punta delle dita contro le tempie: “Non ne discuteremo oltre. Una cosa, però, devi promettermela.”

Il ragazzino si fece tutto orecchie, ansioso di scoprire quale fosse il fio da pagare per non incorrere in qualche punizione.

“Tua madre non dovrà mai saperne nulla.” concluse Francesco, deglutendo rumorosamente.

“Va bene.” accettò subito Bernardino, pensando tra sé che probabilmente sarebbe stato il piovano stesso, alla fine, a rompere il silenzio e a raccontare tutto alla Tigre, ma poco importava, anzi, il Feo quasi sperava che lei lo venisse a sapere, in modo che, nello sgridarlo, gli dedicasse del tempo e, ancor di più, dell'attenzione.

 

“Secondo voi il fatto che Soderini in questi giorni sia ancora ad Arezzo è controproducente? Lo penalizzerà, ai fini dell'elezione?” chiese Galeazzo, che, da un paio d'ore, stava ragionando assieme alla madre circa la situazione generale.

La villa di Castello era stranamente calma, quel giorno. Caterina e il figlio erano nel cortile a parlare, i servi latitavano e l'assenza di Bernardino, Sforzino e Bossi faceva sì che non volasse una foglia.

“No, no, non credo che per lui sia un male, anzi.” rispose la Sforza, passandosi un momento la mano sulla fronte sudata.

Era già fine settembre, eppure il caldo non demordeva. Se non fosse stata così decisa ad aspettare il rientro di Fortunati con le notizie da Firenze, avrebbe forse cercato di eludere la lassa sorveglianza di quelle ore, per cercare un po' di fresco nel bosco.

“E come mai non è una cosa controproducente? Per lui non sarebbe meglio essere presente alla votazione, per ricordare a tutti di votarlo?” chiese il Riario, concentrato, ben deciso a capire fino in fondo quel genere di ragionamenti che di certo, un giorno, gli sarebbero stati utili.

Con pazienza, la Leonessa si sistemò un po' sulla sedia e, guardando verso il terreno, rispose: “Il fatto che adesso sia ad Arezzo, a battersi, per così dire, affinché gli invasori restituiscano tutto il dovuto a Firenze, lo rende agli occhi dei fiorentini una sorta di paladino. Sembra, anzi, che si sacrifichi, mettendo da parte il suo tornaconto personale mancando, appunto, all'elezione, pur di fare il suo dovere. Di certo i suoi amici avranno insistito moltissimo su questo punto.”

Galeazzo annuì, soddisfatto dalla spiegazione e come sempre molto colpito dall'acume della madre, che sembrava in grado di cogliere ogni sfumatura al volo.

“Mia signora...” la voce di Creobola interruppe il dialogo tra madre e figlio e Caterina si voltò verso la serva, che le porgeva una piccola missiva.

“Grazie.” disse, prendendola e poi congedò all'istante la domestica, che, prima di tornare nella villa, si sentì in dovere di fare un'aggiunta.

“Messer De Marzi voleva leggerla per primo, ma io mi sono opposta, essendo indirizzata a voi, malgrado provenga dal convento che non si può nominare...” spiegò Creobola, aspettandosi un cenno di riconoscenza che, in effetti, la Tigre le concesse.

“Quell'uomo crede di avere il monopolio delle notizie che riguardano Bianca...” sbuffò Caterina, aprendo la missiva con un gesto secco: “Come se ormai io e te non sapessimo dove si trova... Anzi, mi sa che lo ha capito anche quell'intrigante di Creobola...”

Mentre spiegava il piccolo foglio e vi ci riconosceva la grafia ordinata e ampia della figlia, la donna provò una piccola stretta allo stomaco. Era così distratta dal resto da non aver pensato minimamente che quella poteva essere la lettera che le annunciava la nascita di un nipote.

Le bastarono poche righe, però, per capire che non era così. La figlia le parlava sommariamente del suo stato di salute tutto sommato buono e le chiedeva di far avere in qualche modo – magari tramite Gian Piero Landriani – sue notizie a Troilo De Rossi. La pregava anche di chiedergli a che punto fossero i permessi per le nozze e di aspettare, stante la situazione del momento, che sgravasse, prima di fissare una data, in quanto ormai la gravidanza era quasi al termine e sarebbe stato meglio aspettare la nascita del bambino, prima di convolare a nozze. Chiudeva con un post scriptum in cui domandava di riferire all'emiliano anche il suo amore, immutato e accresciuto, anzi, dall'attesa.

“Le manca...” sussurrò Caterina tra sé, richiudendo la lettera e guardando un momento verso il cielo terso.

Galeazzo aveva capito di chi parlasse e all'improvviso tutti i giochi di potere di Firenze e dei potenti d'Italia gli parvero poca cosa, dinnanzi alle difficoltà che sua sorella stava affrontando per cercare la felicità.

“Ci sono novità?” chiese il ragazzo e la madre non ebbe problemi a riassumergli per intero il contenuto del messaggio.

Il ragazzo ascoltò tutto con un'espressione grave in volto e poi attese che la madre gli chiedesse apertamente cosa ne pensava, prima di porre la domanda alla quale, più di tutte, non riusciva a trovare da solo una risposta.

“Perché Bianca e il De Rossi dovrebbero aspettare a sposarsi? Se il figlio nasce quando sono già marito e moglie non è meglio? In quel modo sarebbe legittimo e...” iniziò a dire lui, allargando un po' le braccia.

Facendosi vento con il messaggio, la donna scosse il capo e spiegò: “Il tuo ragionamento sarebbe giusto in tanti altri casi, ma se, per tutti i motivi economici e politici di cui abbiamo già parlato, vogliono che il loro matrimonio venga scambiato dai più come una sorta di indennizzo per il De Rossi, che riceverebbe una moglie e, in dote, per così dire, la legittimazione delle sue terre, capisci che sarebbe complicato spiegare come mai la sposa sia partoriente a poche settimane, o anche meno, dal matrimonio...” dopo una brevissima pausa, la Tigre riprese: “Un conto sarebbe stato se il De Rossi fosse riuscito a sistemare tutto mesi fa... Invece hanno fatto la frittata e hanno pensato solo dopo a come toglierla dal fuoco...”

Galeazzo, che non aveva mai sentito la madre parlare in quel modo della gravidanza di Bianca, comprese per la prima volta quanto quella situazione la mettesse in difficoltà. Anche se aveva fatto tutto quello che era in suo potere per sostenere la figlia, senza – per quello che ne sapeva lui – mai rimproverarla per la sua incoscienza, era evidente, in quel momento, quanto la Sforza fosse in pensiero.

“A questo punto – provò a dire il Riario, schiarendosi la voce – sarebbe meglio che nascesse una femmina, giusto?”

In effetti, Caterina era d'accordo con lui. Una femmina sarebbe stata più semplice da inserire in un secondo momento in famiglia, specie perché non sarebbe rientrata nell'asse ereditario del titolo e delle terre...

“Sì.” annuì: “Sarebbe la cosa più facile da gestire... E poi, se anche tra qualche anno venisse presentata come loro figlia legittima e riconosciuta a tutti gli effetti, cambierebbe poco gli equilibri della famiglia e quindi potrebbe diventare un pettegolezzo destinato a spegnersi in poco tempo...”

“Mia sorella però è convintissima di aspettare un maschio.” Galeazzo non avrebbe voluto dirlo, ma quella considerazione gli era scivolata fuori dalle labbra prima che potesse avvedersene.

Caterina lo guardò per un momento, mentre il sole, che andava abbassandosi, lanciava delle strane ombre sul cortiletto della villa.

“In quel caso – soppesò la donna, accigliandosi – sarà nostro compito aiutarla ancora di più, perché sarà tutto più difficile.”

In realtà la Leonessa si era già prefigurata quello scenario. I casi erano sostanzialmente tre. In primo luogo, ciò che riteneva più semplice nell'immediato, ma meno vantaggioso in un futuro era che Bianca portasse il bambino con sé a San Secondo e lo crescesse o come un figlio adottivo o come un figlio naturale del marito, preso con sé per pura pietà umana. In quel caso, una volta cresciuto, il bambino avrebbe incontrato molte difficoltà a integrarsi in modo giusto...

In secondo luogo, si poteva far sì che Bianca restasse a Firenze, almeno per qualche anno e, appena il piccolo fosse cresciuto abbastanza da poter barare sulla sua età, farla andare a San Secondo, mentendo sulla giusta data di nascita del pargolo. In quel caso un ostacolo era ovvio e insormontabile: la Riario non avrebbe mai accettato – almeno, la Tigre ne era abbastanza certa – di privarsi dell'uomo che amava per il bene del figlio, benché maschio e benché primogenito.

In ultima analisi arrivava lo scenario che più di tutti coinvolgeva la Sforza e chi viveva con lei: tenere il bambino a Firenze, lasciando che Bianca andasse a San Secondo e inscenare dopo qualche tempo una sua gravidanza. Dopo un soggiorno necessario presso la madre a Firenze, sarebbe tornata dal marito dicendo ai sudditi e ai notabili di San Secondo che l'erede sarebbe rimasto dalla nonna fino a una certa età. A quel punto, al momento giusto, sarebbe bastato farlo rientrare a San Secondo.

Ovviamente quest'ultimo progetto aveva a sua volta un limite, che poteva essere enorme, così come facilmente aggirabile: per far tornare il conto delle date e delle età, Bianca e Troilo avrebbero dovuto evitare gravidanze per almeno tutto il primo anno di matrimonio... In tutta onestà, Caterina aveva qualche dubbio sulla determinazione della figlia in tal senso...

“Chiederete davvero a Gian Piero di fare da tramite con il De Rossi?” domandò Galeazzo, quando si rese conto che la madre si stava perdendo nei suoi pensieri al punto da non ricordarsi nemmeno più di essere in sua compagnia.

La donna, infatti, lo guardò stranita, mettendosi qualche istante, prima di collegare le parole e rispondere: “Io... Non lo so...” poi, tra il serio e il faceto, buttò lì: “Potrei mandare Creobola, non credi? Con tutta la voglia che ha di impicciarsi dei nostri affari...”

 

“Non possiamo non accettare.” disse, con una certa ostinazione, Ranuccio Ottoni: “La richiesta è legittima, il Valentino ci manda rassicurazioni di ogni tipo e non abbiamo motivo di dubitare di lui.”

Giulio Cesare, seduto accanto alla figlia Emilia, guardava il genero come se fosse un insetto da schiacciare. Avrebbe voluto rinfacciargli come, in estate, Oliverotto da Fermo avesse marciato su Camerino e non su Matelica – città degli Ottoni – solo perché Ranuccio era un infido raccomandato, che, facendo pesare la sua parentela comune con un Fogliani, aveva convinto Oliverotto a cambiare piani e attaccare Camerino.

Tuttavia, ancora provato dalla sconfitta e fisicamente incapace di imporsi, il Varano sollevò lo sguardo verso Emilia e poi, con tono remissivo, provò a dire: “Il figlio del papa si è preso gioco di tutti, perfino di Vitellozzo Vitelli, a cui aveva promesso Arezzo, e a cui, invece, ha lasciato un pugno di mosche... Perché non dovrebbe prendersi gioco anche di noi?”

“Io...” fece l'Ottoni, apparendo un po' più confuso: “Ecco, io... No, non si prenderà gioco di noi perché, prima di tutto, ci ha convocati a Urbino e non a Roma.”

“Dal momento che Urbino è caduta nelle mani dei Borja, è come andare a Roma...” fece notare Giulio Cesare, ma subito tacque, perché il genero, più giovane e più in forze, si era alzato in piedi per far valere la sua superiorità.

“Urbino è Urbino! E con tutti i problemi che ha al momento il Valentino, non credo proprio che si metterà a imbrogliare anche noi!” sbottò l'uomo, sollevando in aria un dito, mentre la moglie, Emilia, teneva gli occhi bassi, avvezza a quel genere di sfuriate: “Con la popolazione che sta per insorgere a San Leo, figuriamoci se oserà torcere a qualcuno di noi un solo capello! Si troverebbe a fornire agli scontenti un motivo concreto per attaccarlo!”

“Va bene, faremo come credi.” cedette il Varano, stanco e demotivato: “Ma ricordati quello che quest'uomo ha fatto a gente più importante e valorosa di te.”

Siccome Ranuccio appariva contrariato, ma anche dubbioso, Giulio Cesare, puntellandosi contro il tavolo si alzò.

“Sto parlando della Tigre di Forlì, tanto per dirne una... Quella donna era un diavolo, eppure il Borja ne ha fatta una schiava. Avevano un accordo coi francesi, di trattarla da regina, ma da quello che so l'hanno portata a Roma in catene d'oro e lui se n'è servito come avrebbe fatto con una sgualdrina di strada... Eppure i francesi non hanno mosso un dito!” fece l'anziano, cercando dentro di sé la forza per imprimere vigore a ogni sua frase.

“La Tigre di Forlì è ancora viva e fa la signora a Firenze.” gli fece notare l'Ottoni: “Se il Valentino l'avesse trattata come dite voi, di certo ora non sarebbe viva per raccontarlo.”

“Come credi tu... Io ormai sono vecchio.” tagliò corto il Varano, pensando che, almeno, i suoi figli, Annibale e Venanzio, erano carcerati a Cattolica, ma per il momento lontani dalle mire del Borja.

“Andremo a Urbino e basta.” concluse Ranuccio, restando seduto al tavolo, mentre il suocero lasciava la stanza con passo zoppicante: “Non mi inimicherò il Duca Valentino solo per i vostri pregiudizi da vecchio...”

 

“Allora?” Caterina non diede nemmeno tempo ai figli, Sforzino e Bernardino, di salutarla, rivolgendosi subito a Fortunati.

L'uomo le sembrava più provato del previsto e, complice la sera, che era più scura del solito a causa delle fitte nubi che si stavano addensando a coprire la luna, il suo volto le suggeriva che qualcosa fosse andato incredibilmente storto, nelle due giornate trascorse a Firenze.

Mentre frate Lauro, diplomaticamente, faceva sì che i due ragazzini tornati con loro lo seguissero, in modo da lasciar parlare con calma la madre e il piovano, questi si accigliò e si schiarì la voce, per annunciare: “Hanno scelto Soderini.”

“Be', è un bene, per noi, no?” chiese a quel punto la Leonessa, sentendo alle sue spalle anche lo sguardo interrogativo di Galeazzo.

Non capiva il tono funereo che Francesco aveva usato, né la sua espressione torva che ancora in quel momento gli rendeva il viso più spigoloso. Solo dopo qualche secondo si rese conto che gli occhi preoccupati del fiorentino continuavano a correre a Bernardino che, ancora sotto l'ala di Bossi, restava in attesa di poter salutare come voleva la madre.

“Mentre eravate in città è successo qualcosa?” chiese la Sforza, collegando tutti gli indizi.

La sincronia con cui il frate, il piovano e Sforzino risposero con un sonoro 'no', le fece capire di aver centrato appieno il problema. Tuttavia, da quel che poteva vedere, Bernardino era tutto intero, e così anche gli altri. Di certo, pensava, se il guaio fosse stato grosso o irreparabile, gliene avrebbero parlato, a costo di adirarla... Doveva quindi trattarsi di qualcosa che aveva finito per aggiustarsi da sé e quindi Caterina preferiva smettere all'istante la sua indagine.

“Va bene...” soffiò, rendendosi conto di come tutti, specie i due adulti, tiravano un sospiro di sollievo nel vederle accettare tanto facilmente quella risposta: “Torniamo alla questione Soderini...”

“Che ne dici se ne parliamo tra un momento? Vorrei prima sistemarmi un po'... Faceva molto caldo e il viaggio non è stato molto confortevole...” borbottò Fortunati, indicando i propri abiti impolverati: “Nel frattempo, se vuoi, puoi salutare loro e...”

La Leonessa annuì e gli sussurrò, appena udibile: “Vai in camera mia e aspettami lì.”

Il fiorentino, le orecchie rese aguzze dal desiderio per lei, sempre latente e pronto a risvegliarsi, annuì appena e poi si scusò con tutti dicendo: “Vado nei miei alloggi a rinfrescarmi...”

La Tigre, intanto, salutò Sforzino con gentilezza, chiedendogli come fosse stata la processione. Il Riario, ancora entusiasta, le descrisse la Tavola di Nostra Donna di Santa Maria Impruneta e le parlò di come gli inni sacri fossero stati declamati con fervore e tante altre cose a cui Caterina prestò solo mezzo orecchio, avendo però cura di annuire di quando in quando e porre domandine di circostanza che diedero al figlio l'illusione di essere stato ascoltato.

Bernardino, intanto, si avvicinò al fratello Galeazzo, anticipandogli che aveva molte cose da raccontargli. Per farlo, però, gli disse che voleva aspettare che fossero soli, per non far arrabbiare la loro madre, dato che tutto aveva fatto, fuorché rispettare i divieti che gli erano stati imposti.

Il Riario non commentò, aspettò, anzi, che il Feo venisse salutato dalla Tigre e poi chiese il permesso di accompagnarlo in stanza, per aiutarlo a cambiarsi.

La Leonessa, ben felice di liberarsi poco per volta di tutti e di poter quindi andare da Fortunati, li incitò a fare come dicevano e, anzi, aggiunse che non sarebbe scesa a cena, perché troppo stanca, e che, quindi, avrebbero discusso meglio del breve soggiorno a Firenze la mattina dopo.

“Allora, cosa devi raccontarmi?” chiese Galeazzo, mentre lui e il fratello arrivavano in cima alle scale.

L'altro stava per rispondere, ma si rese conto che il Riario era distratto da qualcosa. Ne seguì lo sguardo e così facendo vide anche lui il motivo di tanta distrazione: la solita serva, quella che Galeazzo aveva sempre trovato bella, la stessa che aveva in parte disprezzato nel saperla facile preda di Ottaviano per pochi denari, stava per incrociarli.

Quando passò loro accanto, la ragazza fece una mezza riverenza e continuò a camminare veloce, senza voltarsi, come, invece, fece Galeazzo.

“Se vuoi – sogghignò Bernardino, mentre ripresero il cammino verso le loro stanze – ti spiego io come si fa...”

“Ma cosa ne vuoi sapere tu!” lo zittì il Riario, cedendo all'irritazione che provava sempre quando veniva toccato l'argomento: “Sei solo un bambino!” chiuse – o, almeno, cercò di chiudere – la questione, riecheggiando in parte le parole che Bianca gli aveva detto l'ultima volta che si erano visti.

“Pensala come vuoi...” fece spallucce il Feo: “Ma sappi che a Firenze si possono imparare tante cose...”

 

Caterina aprì la porta della sua camera senza annunciarsi e dentro trovò Fortunati, ancora vestito di tutto punto, seduto alla scrivania, apparentemente distrutto dalla stanchezza.

“Si può sapere che cosa è successo di tanto... Pesante... Da averti ridotto così?” chiese la donna, avvicinandosi al piovano, adesso veramente preoccupata.

L'uomo scosse il capo, ma, nel momento stesso in cui incrociò gli occhi verdi della sua innamorata, cedette, venendo meno alla promessa fatta con se stesso di tacere per sempre sull'accaduto: “Non so come sia successo, ma Bernardino ha passato fuori la notte, rientrando solo stamattina all'alba...”

La Tigre ci mise qualche istante a metabolizzare la rivelazione. Frenò sul nascere la rabbia: in fondo era stata lei stessa a mettere in conto una simile evenienza, lasciando che il più turbolento dei suoi figli seguisse Sforzino in città. Mantenendo magistralmente una facciata di calma, sollevò un sopracciglio e si avvicinò ancor di più al suo amante, inducendolo ad alzarsi.

Dandogli un veloce bacio sulle labbra, gli disse: “Bernardino direi che sta bene. Forse ha corso qualche rischio, ma è andato tutto bene. Basta, non pensarci più. L'hai riportato a casa: sei stato bravo.”

Il piovano, che più di tutto aveva sperato nel perdono istantaneo della Sforza, ma che non si era creduto degno di tanta grazia, rimase attonito, ma subito accettò i baci che la donna gli offriva, che andavano quasi a suggellare il patto di non parlare mai più di quel piccolo incidente di percorso.

Caterina avrebbe voluto parlare di tante cose, soprattutto chiedere ogni dettaglio dell'elezione di Soderini, domandare se alla Signoria ci fosse stato anche Lorenzo e, se sì, come avesse reagito a ogni cosa, ma la sua fame atavica si stava risvegliando e, dopo due giorni di attesa, qualche ora in più non le sembrava poi uno sforzo immane...

Francesco, stanco, confuso e a dir poco sollevato da come si stavano mettendo le cose, non si oppose alle silenziose richieste della sua donna e, anzi, per una volta tanto andò oltre l'assecondarla, prendendo l'iniziativa e dimostrandole come non mai quanto la volesse.

A notte fatta, la Leonessa giaceva ancora insonne tra le braccia di Fortunati. Stava pensando alla frenesia con cui si erano presi l'un l'altra, un'urgenza che, da che poteva ricordare, non avevano mai conosciuto.

Nemmeno il fiorentino riusciva a prendere sonno, tormentato, però, da pensieri ben diversi. Fissava il soffitto buio e, intanto, accarezzava lentamente il braccio della milanese, domandandosi se, ormai, sarebbe mai stato in grado di vivere senza di lei. Aveva sconvolto così tanto la sua vita, le sue priorità e le sue convinzioni...

“Caterina...” sussurrò, mentre gli tornavano in mente le insinuazioni beffarde di Machiavelli: “Se non lo sapessi, tu potresti credere che io sia il tuo amante?”

“No, non lo penserei.” rispose senza esitazioni la Tigre, per poi aggiungere, con cautela: “Ma se vuoi che la cosa si sappia, possiamo far sì che non sia più un segreto... Non sarebbe un problema, per me.” mentì.

“No, no, mi sta bene che non lo sappia nessuno.” fece subito lui, chiedendo poi, intento a seguire un filo logico tutto suo: “Non mi ami, vero?”

Spiazzata da una simile domanda, la Leonessa volle dare comunque una risposta veritiera e ponderata. Era felice di aver vicino Francesco, molto felice. Gli voleva bene, lo trovava desiderabile e lo riteneva un uomo su cui fare affidamento. Volendo essere onesta, però, si rendeva conto di non amarlo come aveva amato altri... Il sentimento che nutriva per lui non era nemmeno lontanamente paragonabile a ciò che aveva provato per Giovanni, figurarsi per Giacomo... Per la precisione, non si poteva assimilare nemmeno a ciò che aveva provato per altri uomini, come Manfredi o – si vergognava ad ammetterlo – Pirovano...

“Sono molto legata a te.” concluse Caterina.

L'uomo capì ciò che la Sforza non aveva voluto dirgli apertamente. Anche se riteneva importante ciò che li univa, non poteva fingere di non capire quanto poco la Leonessa l'amasse, rispetto a come aveva amato altri uomini in passato.

“Però... Per te non è un peso, avermi qui, vero?” chiese teso Francesco, il cuore che batteva più forte: “Non dividi il letto con me solo per... Non lo so, per... Tenermi buono... Vero?”

La mezza risata, sincera, che scosse la Sforza smorzò fin da subito l'ansia di Fortunati, ma ancora di più lo fecero le sue parole: “Ascoltami... Se per me fosse un peso, ti assicuro che non ti sarei saltata addosso appena siamo rimasti soli, va bene? Io ho bisogno che tu sia qui. E non solo perché sei un uomo e basta, ma proprio perché sei tu. Mi servi e non voglio rinunciare a te, né a nessun aspetto del legame che ci unisce.”

Abbastanza rilassato, nel sentirsi indicare come indispensabile, il fiorentino non riuscì a trattenersi dall'aggiungere: “Se mai per te diventasse un peso, se per qualche motivo non volessi più giacere con me, voglio che tu me lo dica subito.”

“Va bene, te lo farò sapere.” accettò la Tigre, quasi intenerita dall'insicurezza di Francesco, un'insicurezza che in altri uomini l'avrebbe solo fatta arrabbiare: “Ma sappi che non succederà.”

Rinfrancato, l'uomo la strinse a sé e ne accettò le labbra e il respiro caldo, inebriato all'idea di non essere l'unico ad apprezzare quella vicinanza così estrema e per lui ancora così nuova e ricca di scoperte.

“Adesso parlami di Soderini.” sussurrò Caterina: “Voglio sapere tutto, ogni dettaglio, chi c'era e chi ha detto cosa.”

Fortunati, che sarebbe stato pronto a passare il resto della notte a perdersi in lei, fece un paio di sospiri e poi cominciò a raccontare per filo e per segno ogni cosa, senza tralasciare nulla, sicuro che alla fine del suo resoconto sarebbe stato premiato con un altro slancio di passione, perché quella era la cifra della sua donna, e non l'avrebbe cambiata con nessun'altra.

   
 
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