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Autore: Adeia Di Elferas    22/07/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Michelotto non aveva alcuna intenzione di mettersi a fare l'attore, perciò aveva chiesto a un paio di suoi uomini di convincere l'Ottoni e il Varano ad accettare la sua proposta.

I due uomini erano entrambi perplessi, anche se Ranuccio, più giovane e più spaventato, sembrava quello più propenso a seguire il consiglio di lasciare seduta stante Urbino per raggiungere la più sicura rocca di Pergola, a poche ore di cammino da lì. Giulio Cesare, invece, appariva già stravolto dal viaggio affrontato per giungere fino a lì da Matelica e, soprattutto, non sembrava molto convinto da quel progetto.

“A Pergola – disse a quel punto il Corella, la voce un po' roca e la pronuncia spagnola che risentiva molto dei lunghi silenzi che osservava – incontrerete il Duca di Valentinois.”

“Ci aspetta là..?” chiese l'Ottoni, gli occhi che si allargavano, e il sorriso che prendeva forma sulle sue labbra.

“Sta raggiungendo quella rocca da Imola...” spiegò Miguel, spazientito, ma deciso a continuare, avendo trovato, probabilmente la chiave di lettura di quell'insulso individuo: “Vuole cenare con tutti voi, per discutere meglio di ogni cosa...”

In realtà il Valentino davvero si stava dirigendo – almeno così la sapeva Michelotto – verso Pergola, ma non certo per il piacere di cenare con Giulio Cesare da Varano. Lo preoccupavano troppo le tensioni che stavano nascendo nell'Urbinate e si era convinto che quella rocca, così isolata e ben protetta, fosse il luogo ideale per raccogliere le idee. Per il momento non c'erano ancora stati clamorosi incidenti, ma Cesare aveva imparato a farsi cauto, quando si trattava del fervore popolare... Un paesano inferocito, sosteneva, uccideva i prinicipi molto più facilmente di chiunque altro. Inoltre era davvero curioso di vedere in volto il 'vecchio pazzo' che aveva cercato di combatterlo solo qualche settimana prima, per difendere Camerino.

“Va bene, ci andiamo. Partiamo subito!” accettò Ranuccio, ottenebrato dalla speranza di poter incontrare un uomo come il Borja e poter entrare nelle sue grazie, guadagnandosi un posto alla tavola da cui tutti sembravano intenti a mangiare.

“No.” disse fermò Giulio Cesare, ma poi, capendo in fretta che il suo volere non sarebbe stato rispettato, si grattò il mento e mosse un paio di passi incerti, prendendo tempo: “Sono vecchio... Se facessi un viaggio di otto ore adesso, ne morirei...”

Il Corella pensò tra sé che se le parole del vecchio signore di Camerino erano veritiere, si sarebbero risparmiati una fatica in più, ma gli ordini di Cesare erano stati molto chiari: il Varano doveva arrivare a Pergola vivo.

“Allora partirete domattina.” tagliò corto Miguel: “Stanotte riposate. Vi farò preparare una cena degna del vostro rango.”

Non trovando altre scuse plausibili, Giulio Cesare deglutì e, fissando il genero e la figlia con rancore, quasi a voler dire loro apertamente che li disprezzava per averlo messo in balia dei capricci del Valentino, disse: “Sia come volete... Che Dio abbia pietà di noi.”

 

Le giornate si stavano facendo più corte e più fresche. Di certo Caterina si era aspettata un inizio di ottobre più rigido, ma a sentire Lauro Bossi il freddo sarebbe comunque arrivato presto e, con esso, anche la pioggia e poi la neve.

“Sono le mie ossa a dirmelo.” ripeteva, quando qualcuno osava domandargli come potesse esserne così sicuro.

Quella mattina la Tigre si era messa seduta nel cortiletto della villa, assieme a Fortunati. Non le piaceva molto mettersi lì, alla mercé dei pettegolezzi e degli sguardi di tutti i servi che, puntualmente, si affacciavano dalle finestre, ma in casa le pareva che ci fosse l'aria troppo chiusa. E poi, stando lì, poteva tenere d'occhio Bernardino che correva come un pazzo, mentre faceva esercizio con Galeazzo.

Il maggiore voleva insegnargli qualche trucco che aveva imparato a Forlì dai soldati, ma il ragazzino, scoppiante di energie, pareva solo intenzionato a correre e a fare la lotta, quando il fratello cercava di fermarlo.

La Sforza, in fondo, era contenta che il Feo si sfogasse a quel modo. Avrebbe compiuto a breve dodici anni, eppure era già incontenibile. L'ultimo breve soggiorno in città, poi, sembrava avergli dato una nuova linfa, che lo rendeva ancor più ingestibile e sfuggente.

Galeazzo, invece, alla madre appariva sempre più compassato e trattenuto. Anche se nell'esercizio fisico sapeva sciogliersi e si dimostrava anche molto bravo, si dimostrava molto controllato sia nell'esultare quando riusciva a battere in qualcosa il fratello, sia nell'esprimere il proprio nervosismo nei confronti della caotica ribellione del Feo.

Più ne guardava il viso, inoltre, più la Sforza si trovava a ragionare su dettagli che fino a quel momento non aveva mai considerato appieno, o, più probabile, che aveva il più delle volte finto di ignorare...

Presa com'era dall'osservare i due ragazzi, Caterina non si era accorta di essere a sua volta osservata dal piovano.

L'uomo la guardava con insistenza, le gambe accavallate e una mano sul mento. Sapeva, o, almeno, credeva di sapere cosa fossero i figli, per la Leonessa. Nei suoi occhi poteva leggere la confusione che albergava sempre in lei nel ragionare sulla sua prole. Era ancora così netta, malgrado tutto...

Non riuscendo a trattenersi, vedendola quasi spaventata, l'uomo le posò una mano sulla spalla, facendola addirittura sussultare. Voltandosi verso di lui, la Tigre scosse il capo e poi, accigliandosi e tornando a fissare i figli, deglutì.

“Che c'è?” domandò Francesco, mentre la donna si sottraeva al suo tocco.

“Nulla.” mentì lei.

“Spiegami.” insistette Fortunati.

“Queste manie da confessore... Non per forza bisogna dirti sempre tutto solo perché sei un piovano!” sbottò la Leonessa, ma tenendo la voce bassa, per non farsi sentire dai figli che, impegnati nei loro esercizi, non si erano nemmeno accorti che i due adulti stavano parlando.

“Se vuoi, io sono qui ad ascoltarti.” insistette l'uomo.

“Tu non hai mai conosciuto Girolamo...” iniziò lei, abbassando in fretta le difese.

“No.” ammise il fiorentino, anche se avrebbe voluto aggiungere che gli sembrava quasi di conoscerlo, dopo tutto ciò che aveva sentito sul suo conto.

“Galeazzo...” sussurrò la donna, con un'evidente espressione di sofferenza: “In viso un po' gli somiglia.”

Il piovano percepì appieno il dolore che quelle parole nascondevano. Non sapeva come reagire, dato che non si era aspettato, in un momento di relativa calma come quello, di trovarsi ad affrontare un tema così complicato.

“Ogni volta in cui Girolamo mi ha messa incinta – prese a dire la Leonessa, non staccando mai lo sguardo da Galeazzo che, in quel momento, cercava di far ripassare al fratello le parate basse e quelle alte – io ho cercato di perdere il figlio che portava in grembo. Correvo, cavalcavo, tiravo di spada, bevevo e mangiavo come mi pareva... Volevo morissero prima ancora di nascere.”

Francesco non diceva nulla, le fauci del tutto secche. Non riusciva ancora a far pace con il lato violento della donna che amava, ma con quel racconto capiva come non mai quanto fosse parte integrante del suo essere, anche se erano state le circostanze a instillarglielo.

“Sforzino, addirittura, l'ho quasi ucciso davvero...” sussurrò Caterina, ricordando quel lontano giorno in cui era stata a un passo dal bere una pozione che di certo l'avrebbe fatta abortire, malgrado la gravidanza già avanzata.

“E ora?” chiese Fortunati, aspettando di vederla calmarsi un istante.

“Ora so che sono figli anche miei.” ammise la donna: “Con gli anni ho... Ho imparato ad accettarli, a non pensare al modo in cui sono venuti al mondo. Certo, con Ottaviano è tutto più difficile. E anche con Cesare...”

Il piovano sapeva che la donna non avrebbe mai ammesso di essere arrivata ad amare buona parte dei figli che aveva rifiutato fin da neonati. Bastava pensare alla stima che mostrava per Sforzino e i suoi studi, alla tenera fierezza con cui difendeva Bianca e le sue scelte, anche quelle meno condivisibili, e l'indiscutibile orgoglio che Galeazzo le accendeva nel petto tutte le volte in cui si comportava secondo i suoi insegnamenti.

“Non è facile essere madre di figli nati senza amore.” parafrasò alla fine la Leonessa: “E adesso c'è anche la questione di Bianca... Mia figlia è a un passo dal parto e non è nemmeno sposata. Il più delle volte cerco di non pensarci, ma quando mi capita, non puoi immaginare come mi senta...”

Fortunati annuì e poi schiuse le labbra, per dire qualcosa in difesa della Riario, ma quando la Tigre riprese, si rese conto che non ce n'era bisogno.

“Lei dice di amare quell'uomo, e ne sono certa. Sa quello che fa, ha sempre avuto la testa sulle spalle e se le ho permesso di fare le esperienze che voleva fare è stato proprio perché fosse in grado di scegliere da sola la piega da dare alla sua vita. Eppure non riesco a non chiedermi se non abbia fatto un errore gigantesco...” sospirò Caterina, appena udibile sopra il vociare di Galeazzo e Bernardino che, sudati e sfiniti, si davano alla lotta libera nella polvere del cortiletto: “Troppe cose possono andare storte e io... Fatico a fidarmi di un uomo che non conosco, come quel De Rossi... È così più vecchio di lei...”

“Lui è più vecchio – confermò il piovano, capendo l'inconscio collegamento che la Sforza aveva verosimilmente fatto con Girolamo Riario che, se non ricordava male, aveva una ventina d'anni più di lei, una differenza simile a quella tra Bianca e Troilo – ma Bianca l'ha scelto e, da quello che posso sapere, non le ha fatto sgarri e da mesi interi tribola affinché si possano sposare nel modo più vantaggioso e decoroso possibile. Vuoi fargli una colpa perché ha ceduto alle grazie di tua figlia anzitempo? Be', ti assicuro che io per primo ora so quanto sia difficile trattenersi...”

“No, non gliene faccio una colpa.” rispose subito la milanese: “Tanto più che credo sia stata Bianca quella che l'ha voluto di più, quindi...”

“Tra un paio di giorni devo andare a Firenze perché i Salviati mi vogliono parlare di persona – fece a quel punto Fortunati – se vuoi, già che faccio il viaggio, ti accompagno da Giovannino e poi da Bianca... Poi ti manderò qualcuno per il rientro.”

“Sì.” ribatté subito Caterina, cogliendo al volo l'occasione di quelle due visite, per lei tanto agognate.

Mentre Francesco le sorrideva benevolo, i due ragazzi si sollevarono da terra e si pulirono un po' i vestiti. Erano accaldati e stremati. Borbottarono tra loro qualcosa riguardo l'acqua fresca da bere e il Riario accennò al desiderio di un bagno rinfrescante.

Il piovano, notando come la Tigre fosse tornata a osservare con aria critica il figlio più grande, fingendo di parlare in modo casuale, esclamò, in modo che solo lei lo sentisse: “Hai ragione quando dici che non so che volto avesse tuo marito, benché conosca Ottaviano che, a detta di tutti, è la sua copia... Ma posso comunque dirti a chi somiglia davvero Galeazzo.”

Il Riario in quel momento si stava asciugando la fronte e stava ascoltando Bernardino, che parlava concitatamente di un paio di mosse di lotta usate poco prima.

Anche mentre era in quella posizione di ascolto, alla Sforza pareva simile a Girolamo, perciò, sollevando un sopracciglio, chiese, scettica: “A chi?”

“A te.” rispose l'uomo, mentre lei inclinava appena la testa di lato, proprio come anche Galeazzo stava facendo in quel preciso istante nel valutare un'esclamazione sopra le righe del giovane Feo: “E guarda! Guarda – quasi esultò il piovano – avete le stesse movenze! Avete lo stesso naso, lo stesso fisico, calcolando la differenza di genere e di età... E anche se i suoi occhi sono di un verde più pieno e i suoi capelli di un biondo più scuro, mi spiace contraddirti, ma Galeazzo è proprio un tigrotto! Altro che Girolamo...”

Indecisa se credere o mano alla buonafede di Fortunati, la donna si rabbonì un po' e, dopo aver dato ai figli il permesso di farsi preparare un bagno dai servi, lasciò il suo sgabello, avviandosi a sua volta alla porta per rientrare alla villa, e borbottò, mal celando un sorriso: “Se lo dici tu...”

 

Il castellano della fortezza di San Leo guardò verso il basso, aggrappandosi al bordo di pietra dei camminamenti. Dapprima aveva fatto finta di non sentire le grida e le bestemmie, ma adesso aveva sentito nettamente un uomo urlare come se fosse stato ferito a morte.

Sotto i suoi occhi una bolgia infernale si agitava come un covo di vipere. Riconosceva i suoi uomini, di stanza alla fortezza, e dei paesani delle campagne, vestiti di stracci e armati in modo fortunoso.

“Che succede?!” tuonò, capendo che non si trattava né di un attacco formale, né di una ribellione rivolta alla fortezza, quanto più una sorta di rissa allargata cui avevano preso parte indistintamente soldati e villani.

“I vostri uomini – gridò proprio uno dei contadini – credono di poter fare con le nostre donne quel che vogliono!”

“Le meretrici lavorano per chi le paga!” contrattaccò uno dei soldati: “Se noi paghiamo più di voi, è ovvio che preferiscano noi! Che gli puoi dare tu, pezzente? Una crosta di pane secco?!”

Come un fuoco riattizzato da mille ferri, il caos riprese e il castellano, questa volta, per farsi sentire dovette dar ordine di sparare in aria un colpo di falconetto.

Il frastuono fece finalmente calare il silenzio: “Basta così! Ordino ai miei uomini di lasciare in pace le donne di San Leo: tanto più che abbiamo le nostre, di meretrici, che ve ne fate di quelle di questi poveracci?”

Ci fu del brusio, poi ancora qualche spintone e poi, come se quella sola frase fosse bastata a placare gli animi di tutti, i contadini di presero i loro feriti e altrettanto fecero i soldati e ciascuno tornò da dove era partito.

Il castellano era rimasto interdetto, nel riuscire a sedare la rissa tanto facilmente. Si era aspettato di dover sbraitare e minacciare, di dover scendere a patti... Dai suoi uomini poteva anche aspettarsi ubbidienza, ma dai villici...

“Questa cosa non mi convince...” disse al suo luogotenente, rientrando: “Teniamo d'occhio la situazione. Si sono placati troppo in fretta...”

La notte trascorse tranquilla e il mattino seguente il castellano si sentiva ottimista. Se fino all'alba non c'erano stati nuovi intoppi, né s'era accesa voglio di vendetta da parte di nessuno, era verosimile che l'episodio si fosse chiuso davvero con tanta facilità da potersene dimenticare presto.

Anche la mattina trascorse senza particolari novità, e solo verso il mezzogiorno, quando il castellano era intento a mangiare qualcosa nei suoi alloggi, uno dei soldati di guardia andò a chiamarlo per dirgli che c'era una novità.

“Alcuni villici – spiegò l'armigero – sono alla porta della fortezza e dicono di avere un dono per voi.”

“Un dono?” chiese l'uomo, asciugandosi i baffi e sollevando un sopracciglio: “E perché mai mi avrebbero portato un dono? E poi di cosa si tratta?”

“Dicono che vogliono ringraziarvi per come ieri avete richiamato all'ordine i vostri soldati e per come abbiate deciso in fretta in favore loro, decretando che le donne di San Leo spettano a chi abita qui e non ai soldati.” riassunse la guardia.

Al castellano parve una motivazione strana, per quanto coerente con l'atteggiamento avuto già il giorno prima dai contadini, tuttavia qualcosa gli faceva pizzicare la nuca, così chiese di nuovo, con maggior forza: “Ho capito, ma di cosa si tratta?”

“Non lo so...” ribatté il soldato, chiedendosi come mai il suo capo non accennasse nemmeno ad alzarsi da tavola: “Ma sembra che sia qualcosa di molto pesante... è un carretto chiuso e per trascinarlo ci hanno attaccato molti buoi...”

“Si tratta di derrate alimentari?” chiese, quasi tra sé, il castellano, ragionando su cosa mai dei poveracci potessero voler regalare a una fortezza militare.

“Forse...” rispose il soldato, con un'alzata di spalle: “Il carretto è uno di quelli che si usa anche per il grano...”

Con un sospiro, indeciso se essere felice o meno di quell'imprevisto, il castellano finalmente si alzò e, presa per sicurezza la spada, se la affibbiò al fianco. Andò fino ai camminamenti, per guardare giù e contò subito una ventina di contadini – più o meno gli stessi che il giorno prima avevano fatto baruffa coi suoi armigeri – e un carro veramente grande, trainato da una mezza dozzina di buoi.

“Che volete, villici?” chiese, con voce ferma.

“Vi abbiamo portato grano e quella poca frutta che ancora avevamo!” rispose quello che guidava il carico.

“E anche un po' di vino!” esclamò un secondo.

“Per la vostra magnanimità e la vostra giusta mano!” fece eco un terzo.

“Perché quello che ci avete dato con la fermezza del vostro polso, noi possiamo ripagarlo solo riempiendovi lo stomaco!” concluse il primo che aveva parlato.

Convincendosi che quelle parole dovessero corrispondere al vero, il castellano gridò: “Grazie per i vostri doni! Lasciate tutto lì in terra e verremo a recuperare ogni cosa!”

“Si tratta di molti sacchi e molte ceste!” fece notare uno dei contadini che, a occhio, non poteva avere più di dieci o dodici anni: “Ci mettereste tutto il giorno! Lasciateci entrare appena nel vostro cortile, scaricheremo tutto e poi ce ne torneremo ai campi col nostro carro e i nostri buoi! Se siamo venuti qui in tanti, è stato proprio in previsione di questo lavoro!”

Il castellano si morse il labbro. Il ragazzino che aveva parlato l'aveva fatto con una naturalezza e una tranquillità che lasciava intendere quanto buone fossero le loro intenzioni. E, in effetti, con il caldo che faceva ancora quel 6 ottobre, chiedere ai suoi soldati quello sforzo suppletivo, dopo aver negato loro le donne di San Leo, poteva rivelarsi rischioso. Gli bastò lanciare uno sguardo alle guardie sul camminamento per capire che quell'imposizione non gli sarebbe stata perdonata facilmente.

“Va bene. Vi faccio aprire!” gridò e poi diede ordine all'arganista di aprire il portone e lasciar entrare il carro.

Dopo qualche minuto di fracasso, il portone si spalancò e in breve la piccola carovana di villici entrò nel cortile della fortezza.

Il castellano, curioso di vedere per primo i doni, e allo stesso tempo deciso a tenere d'occhio i contadini, scese in fretta dai camminamenti e arrivò giù nel momento esatto in cui venne scostato il tendone che chiudeva il carro. Il suo cuore perse un colpo nel vedere, al posto di sacchi e ceste, decine e decine di uomini armati.

Non fece nemmeno in tempo a gridare per dare l'allarme, che un manipolo di questi gli fu addosso e, tirandolo da una parte e dall'altra, mentre tutt'attorno scoppiava il finimondo, lo derisero: “Ecco il castellano credulone! Ti sei fatto imbrogliare come un bambino!” e poi, come a un segnale convenuto, tutti loro affondarono le armi nella sua carne, dilaniandolo e facendolo a pezzi prima ancora che facesse in tempo a morire.

Mentre i soldati della fortezza si davano alla fuga o provavano a resistere con scarsi risultati, trovandosi presi alla sprovvista e in inferiorità numerica, uno di quelli che aveva fatto a pezzi il castellano guardò la macchia rossa in terra e le membra disarticolate del morto e sputò, ringhiando poi: “Ti salutano i condottieri ribelli... Servo di quel cane del Valentino che non eri altro...”

   
 
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