Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    28/08/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

 

Cesare Borja stava aspettando l'arrivo di Paolo Orsini. Era rimasto stranito nel vedere come quel comandante ribelle fosse stato pronto ad accettare il suo invito in città, ma forse non avrebbe dovuto stupirsene più di tanto.

L'Orsini, infatti, non sarebbe stato il primo, nello schieramento guidato da Vitellozzo e Oliverotto, a cercare una mediazione con il Valentino. Dapprima c'era stato Pandolfo Petrucci, e poi i messi dei Bentivoglio... Tutti loro erano stati lì per un solo motivo: vedere se si poteva accomodare la cosa con le buone, senza spendere altro denaro e senza sprecare altri soldati.

I motivi che avevano portato i primi pezzi dell'alleanza ribelle a sfaldarsi erano chiari, a Cesare, o, almeno, lo erano stati dopo che Machiavelli, per puro caso, durante una cena gli aveva fatto capire quanto stesse pesando il fatto che il re di Francia non aveva abbandonato i Borja.

“Non fosse per quello – aveva aggiunto, offuscato dal vino, ma molto sicuro delle sue parole – la stessa Firenze vi avrebbe voltato subito le spalle...”

Il Duca di Valentinois ascoltò irritato le campane battere l'ora. A quel punto il suo ospite avrebbe dovuto essere già alla sua presenza, e con lui proprio quel Machiavelli di cui ormai si fidava. Era stato l'unico, tanto per dirne una, a cui aveva confidato il suo tormento nel sapere Michelotto ferito, seppur fuori pericolo di vita.

Cesare stava ragionando su come il Cardinale Orsini, parente del Paolo che a breve avrebbe incontrato, era in trattative con suo padre il papa da mesi, all'insaputa di tutti gli altri condottieri ribelli... Con un po' di fortuna, sarebbe riuscito a sconfiggere i nemici senza dover tirare nemmeno un altro colpo di spada...

Finalmente, dopo un'altra mezz'ora buona, Paolo Orsini arrivò, seguito da Niccolò Machiavelli e da un paio di guardie. Si scusò in modo profuso, sostenendo che il ritardo era tutto da imputarsi alla minuziosa perquisizione cui era stato sottoposto. Con fare compito – poco adatto a un armigero della sua fama – fece i complimenti al Borja per l'ordine che aveva notato nell'attraversare Imola.

“Si vede che finalmente queste terre sono in mano a un uomo.” aveva concluso, annuendo tra sé.

“A un uomo e non a una donna in brache, vero?” fece eco il Valentino, con un ghigno beffardo: “E pensare che gli Orsini erano amici della Leonessa di Romagna, un tempo...”

“Mio cugino Virginio – si schermì l'Orsini, percependo il pericolo di vedersi additare come un amico della più grande nemica del Valentino – aveva un debole per le belle donne, e quella meretrice la era, tutto qui.”

“Dicono la sia ancora.” soffiò Cesare, tenendo lo sguardo puntato su Paolo che in quel momento, pallido, sembrava un pulcinotto spelacchiato terrorizzato dalla sua stessa ombra: “Comunque non siamo qui per parlare di lei... Anche se scommetto che molti uomini di queste terre potrebbero raccontarci gli aneddoti più sconci possibili su una donna del genere...”

La risata roca del Duca trovò subito eco in quella incerta dell'Orsini e quella soddisfatta di Machiavelli, che era sempre pronto a ridere alle spalle della fama nera della Tigre.

Dopo qualche chiacchiera abbastanza informale, il figlio del papa fu certo di aver trovato l'uomo giusto con cui far crollare una volta e per tutte l'alleanza dei condottieri ribelli. Davanti a lui spariva, intimorito e balbettante, e pareva che ogni parola che udisse facesse una presa tale sull'Orsini da far sbiadire qualsiasi sua precedente convinzione.

Così, sotto gli occhi affascinati del Machiavelli, Cesare cominciò un lungo monologo, a uso e consumo di Paolo Orsini. Si addossò platealmente ogni colpa, spiegò di come non fosse stato capace di far capire ai suoi comandanti le proprie intenzioni, spiegò anche di come il re di Francia lo supportava continuamente e con sempre maggior vigore, ogni tentativo di rovesciarlo sarebbe stato catastrofico, per i ribelli. Assicurò di aver compreso a fondo, umanamente e politicamente, i motivi dell'agitazione che aveva fatto insorgere tutti loro ed espresse con vigore il desiderio di rimediare a ogni cosa.

Mentre Paolo Orsini letteralmente restava a bocca aperta dinnanzi alle sue parole, il Borja riprendeva, promettendo di tutto e di più, senza frenarsi nemmeno davanti a concessioni assurde o banalmente impossibili.

“Io non voglio essere un primus inter pares, non più, ho capito benissimo che ciascuno di noi vale quanto il proprio vicino, che ciascuno di noi ha valore solo nel momento in cui agiamo come un sol uomo.” specificò il Duca di Valentinois, sollevando un pugno chiuso: “Sono pronto, più che pronto, a riconciliarmi con voi tutti e specie coi Bentivoglio sulle basi delle condizioni che voi stessi mi comunicherete: non ho altro da pretendere se non la vostra amicizia.”

L'Orsini, ancora sbigottito per il modo in cui Cesare si era proposto e per tutto ciò che aveva promesso, scosse piano il capo e sussurrò: “Se tutto quel che avete detto corrisponde a verità...”

“Potrei forse mentire? Io? Il figlio del Santo Padre?” chiese il Valentino, allargando le braccia e assumendo un'espressione tanto innocente da trarre in inganno perfino Niccolò, che ormai era convinto di conoscerlo bene.

Bastò poco, veramente molto poco per convincere definitivamente l'Orsini della bontà delle proposte ricevute e quando lo vide uscire dalla sala, promettendo che avrebbe riportato 'presto che più presto non si può' le sue parole agli altri ribelli, Cesare si sentì quasi un vile ad aver ingannato a quel modo un uomo che, evidentemente, aveva in sé l'ingenuità di un bambino.

Adombrandosi di colpo, il Valentino scacciò sia Machiavelli sia la guardia che era rimasta con loro e restò solo a pensare. Poteva davvero essere riuscito a gabbare tanto facilmente un uomo come Paolo Orsini? Poteva essere che proprio quell'Orsini che gli era parso tanto ingenuo in realtà lo stesse a sua volta ingannando, fingendosi così credulone e inducendolo a cadere in trappola in un secondo momento?

Prendendosi la testa tra le mani, il Borja strinse gli occhi con tanta forza da farsi quasi male e cercò di pensare a come uscire da quella spinosa situazione. Un modo, in effetti, c'era... C'era sempre.

Con un sospiro pesante, si ravviò i capelli e fece del suo meglio per tacitare il battito veloce del suo cuore. Avrebbe aspettato, per il momento, e avrebbe tessuto la sua tela nell'ombra e nel silenzio. Nel momento in cui tutti l'avessero creduto davvero un idiota e un credulone, allora avrebbe colpito...

“E allora la smetterete tutti di ridere di me.” sussurrò: “Perché ai funerali non si ride, si piange...”

 

“Allora? È andato tutto bene?” chiese Fortunati, in un sussurro appena udibile, nel momento in cui entrò alla villa, desideroso di avere notizie, ma anche di non far sentire nulla di pericoloso al servo che stava prendendo il suo mantello: “È un maschio o una femmina?”

Caterina, che pure era visibilmente felice, si posò velocemente l'indice sulle labbra per zittirlo e poi ribatté, a voce alta, a beneficio del servo: “Vi aspettavamo qui tra un paio di giorni almeno...”

“Ho preferito venire subito per parlare di alcune questioni.” fece lui, capendo l'antifona: “Ma forse ora dovrei ritirarmi un momento in stanza, per riposarmi.”

“Come preferite... Ci vedremo questa sera a cena.” disse allora la Leonessa, capendo che quello di Francesco era solo un modo per darsi appuntamento nella camera di lei, come avevano già fatto ben più di una volta.

La Tigre aveva ovviamente voglia di parlargli di Pier Maria – e di ordinargli di trovare subito un modo per portare alla villa sia Bianca sia il piccolo in tutta sicurezza – ma voleva anche sapere quali affari urgenti lo avevano portato a Firenze.

Così, arrivata in camera, la donna cominciò a pensare alle domande da porgere al piovano, in modo da prenderlo in contro tempo e discutere prima degli affari politici e bellici e solo in un secondo momento della nascita del nipote.

“Cos'è successo a Firenze?” chiese quindi, nell'istante esatto in cui la porta si aprì: “Chi ti ha fatto andare in città con tanta urgenza? Sono stati i Salviati? O chi altro? Si tratta di notizie del figlio del papa? Machiavelli sta rientrando in città?”

Fortunati, quasi a volersi riparare anche fisicamente da quella sfilza di domande, sollevò le mani in segno di resa ed esclamò: “Una cosa per volta!” poi, andandosi a sedere sul letto, senza chiedere il permesso, si levò gli stivali e si abbandonò con la schiena sul materasso, guardando il soffitto: “E prima voglio sapere di tuo nipote.”

Il fatto che il piovano fosse entrato e si fosse steso a quel modo senza prendersi nemmeno un minuto per darle un bacio mise in forte allarme Caterina che, ormai sicura di essere in procinto di ricevere pessime notizie, si andò a sedere vicino a Fortunati e ribatté: “Mio nipote sta bene. È un maschio e mia figlia l'ha chiamato Pier Maria. A proposito, voglio che tu trovi il modo di farli tornare qui entrambi il prima possibile e nel modo più sicuro possibile.”

Il fiorentino avrebbe voluto congratularsi per la lieta notizia – benché sapesse bene che la nascita di una femmina sarebbe stata molto più facile da gestire – e avrebbe anche voluto ribattere un momento in merito agli ordini appena ricevuti, spiegando che non era facile muoversi in tempi troppo rapidi, ma Caterina lo stava già di nuovo tempestando di domande.

“Che cosa è successo a Firenze? Devi dirmelo.” concluse la donna, dopo aver domandato più o meno le stesse cose in dieci modi differenti.

Con cautela rimettendosi seduto, Fortunati la guardò per un lungo istante e poi, pensando che fosse più prudente essere a distanza di sicurezza, si alzò e si andò a mettere vicino alla finestra, prima di dire: “Sembra che l'ambasciata di Machiavelli stia dando i primi frutti...”

“Ossia?” la voce della Tigre si era fatta tagliente.

“Ossia... Machiavelli ha preso accordi... Sembra accordi ben solidi, con il Valentino, affinché l'alleanza tra lui e Firenze resti salda e...” cominciò a balbettare il piovano.

Nel frattempo la donna era saltata a sua volta giù dal letto e lo stava silenziosamente incalzando, facendosi sempre più vicina.

Francesco spiegò come meglio poteva ciò che si era saputo a Firenze, ossia del patto per arruolare uomini, della concessione di soldi e armi, ma volle anche far presente come di recente si fosse combattuto a Calmazzo e come il Borja fosse stato sonoramente sconfitto.

“Quindi presto Firenze tutta rimpiangerà la stoltezza del suo ambasciatore.” concluse la Leonessa, ormai a un passo dal fiorentino, lo sguardo freddo e il volto contratto in una smorfia di disprezzo.

“Il Gonfaloniere stesso è rimasto stupito dalla piega che...” provò a dire l'uomo, ma stavolta Caterina non riuscì a trattenere il tono della voce.

Dandogli un colpetto sulla spalla, esclamò: “Il Gonfaloniere! Ah! Sono sempre più convinta che quel maledetto Soderini sia il peggiore di tutti! Mi avete parlato di lui come se fosse la soluzione a tutti i miei problemi! E invece che fa? Manda Machiavelli dal Valentino e guarda caso quella cornacchia fa subito in modo di legare Firenze a doppio filo con il figlio del papa!”

Fortunati avrebbe voluto far calmare la sua donna, o, almeno, farle abbassare la voce. Non voleva che qualcuno, attirato dal fracasso, arrivasse e li trovasse assieme lì. Anche se la sua fama da sant'uomo pareva prevalere sempre su quella del tutto opposta della milanese, era pur sempre meglio non alimentare i pettegolezzi...

“Adesso immagino che mio cognato sarà tutto un gongolare!” continuò la Sforza, voltandosi e cominciando a misurare a lunghi passi la stanza: “Ne approfitterà subito! Ce lo vedo a indire un processo e consegnarmi al Borja!”

“In effetti...” il piovano avrebbe preferito affrontare quell'argomento in un secondo momento, ma sentiva che ormai il Rubicone era stato attraversato e quindi tanto valeva togliersi tutti i sassi dalla scarpa in un colpo solo.

“In effetti..?” Caterina parve spegnersi di colpo.

La rabbia che l'aveva animata fino a quel momento aveva lasciato repentinamente il posto alla paura. Che cosa era successo ancora? Lei aveva parlato per assurdo... Non poteva essere davvero che Lorenzo volesse riconsegnarla al figlio del papa... E se ci avesse provato, lei piuttosto si sarebbe uccisa. Aveva giurato a se stessa che non sarebbe mai più stata costretta da nessuno a subire quello che aveva subito prima a opera di Girolamo Riario e poi di Cesare Borja: piuttosto si sarebbe data la morte.

“Lorenzo ha richiamato a sé i suoi legali... Credo che ci vorrà ancora un po', qualche settimana o qualche mese... Ma potrebbe far riaprire il processo a tuo carico, per la custodia di Giovannino.” si trovò a riassumere Fortunati.

La milanese era sempre stata consapevole che le mire del Medici non erano state accantonate, tuttavia aveva confidato molto nel Gonfaloniere a vita e nell'influenza dei Salviati. Aveva anche creduto che la parabola del Valentino stesse cominciando a finire, lasciando il posto a nuove alleanze e, di conseguenza, a un minor potere per Lorenzo. E invece...

“Ho bisogno di pensare.” sussurrò abbassando gli occhi verdi e accigliandosi: “Vattene, lasciami sola.”

Fortunati, stupito per quella reazione, prese gli stivali che si era tolto poco prima e fece per sedersi in modo da infilarseli di nuovo per andare nella sua stanza, ma la donna non gliene lasciò il tempo.

“Ho detto: vattene.” ripeté, indicando la porta: “Voglio stare sola. E se qualcuno ti vedrà scalzo non sarà certo la fine del mondo...”

Contraddetto, l'uomo si avvicinò all'uscio e poi chiese, cauto: “Ci vedremo a cena..?”

Caterina parve pensarci un po', poi concluse: “Io mangio qui, stasera. Da sola.” poi, quando l'uomo stava per battere in ritirata una volta per tutte, aggiunse: “Ma dopo cena ti aspetto.”

Non sicuro di aver capito bene, il piovano chiese: “Mi... Mi fermerò qui fino al mattino..?”

“Mi hai fatto aspettare giorni...” sbuffò lei: “Quindi stanotte sì, mi farai il piacere di restare e di fare quello che ti dirò io.”

Francesco fu sul punto di ribattere in qualche modo, ma poi ci ripensò. La Leonessa si era già messa alla scrivania, dandogli platealmente le spalle. Probabilmente, se avesse provato a parlarle di nuovo, allora sì che l'avrebbe fatta dare in escandescenze.

Così, in silenzio, Fortunati si ritirò e, mentre camminava svelto verso i suoi alloggi, gli stivali in mano e le orecchie tese, per essere certo che non stesse arrivando nessuno, si trovò a dirsi che non era il caso di preoccuparsi oltre per quello che sarebbe successo dopo cena. Caterina era arrabbiata, ma non direttamente con lui. E poi doveva ancora parlargli del figlio di Bianca... Con un sospiro tremulo, il piovano entrò nella sua stanza, gettò di lato gli stivali e si sedette sul letto, stremato.

Forse, pensò dopo un po', anche lui avrebbe cenato in stanza, quella sera: non aveva voglia di vedere né di parlare con nessuno se non con Caterina.

Mentre si concentrava sul suo respiro, per calmarsi, Francesco venne attraversato da un pensiero improvviso che lo portò a darsi un colpo in fronte col palmo della mano. Nella concitazione del momento non aveva ancora riportato una cosa importante alla Tigre: i Salviati volevano vederla al più presto.

“Che Dio m'assista...” soffiò, chiedendosi come e quando riferirle quell'invito che, in effetti, aveva un po' il sapore di un ordine.

 

“Dovevate farmi chiamare subito!” sbottò Troilo, scuotendo il capo e spostando di lato quasi di peso il suo soldato.

“Eravate a caccia e non sapevamo come...” provò a scusarsi l'uomo, ma il suo signore era già andato oltre e non lo ascoltava più.

Con passo svelto – quasi una corsa – il Marchese di San Secondo attraversò il cortile mezzo diroccato della rocca e raggiunse il salone d'onore, che, in realtà, tutto aveva tranne che del salone di rappresentanza. Nel mezzo di quell'ambiente umido e dalle pareti un po' scrostate stava una donna vestita di scuro e con il capo coperto da uno spesso velo.

Temendo che fosse foriera di cattive notizie proprio a causa dei suoi abiti, il De Rossi la spronò subito: “Parlate! Ditemi che è successo!”

Nel voltarsi verso di lui, Creobola mostrò il suo viso e Troilo in parte si calmò subito. Innanzitutto aveva riconosciuto la serva impicciona della villa di Castello, ma soprattutto aveva visto il sorriso impresso sulle sue labbra. Per intrigante che fosse quella donna, di certo non avrebbe veicolato sventure con quell'espressione lieta.

“Qui è sicuro parlare?” chiese la serva della Tigre: “Ho un messaggio destinato a voi e a voi solo e nessuno deve sentirlo.”

“Certo che qui è sicuro.” ribatté Troilo, andando, però, a chiudere meglio la porta e avvicinandosi poi a lei in modo che potesse parlare a voce bassa: “Ditemi tutto, non aspettavo altro da settimane...”

Creobola osservò per qualche istante il volto dell'uomo, elegante e incorniciato da una curatissima barba biondo rossiccia, e poi passò al suo fisico robusto e slanciato. Poteva ben capire Bianca Riario. Malgrado il De Rossi fosse molto più vecchio della figlia della Leonessa, era un uomo non comune, decisamente meritevole dell'amore, o quanto meno dell'attrazione, che la giovane nutriva nei suoi confronti.

Ripetendo pedissequamente le parole che Caterina Sforza le aveva ordinato di riferire, Creobola disse, con lentezza e precisione: “Madonna Bianca vi ha partorito un figlio maschio, forte e in salute, che è stato chiamato Pier Maria come anche voi volevate e a cui è stato imposto il vostro cognome, come è giusto che sia.”

Troilo sentiva il petto esplodere di gioia e avrebbe voluto fare mille domande, ma aveva capito che Creobola non aveva ancora finito, perciò restò in attesa.

“Madonna Bianca vi ama sopra ogni cosa e vi desidera con l'ardore del primo giorno – riferì la serva, senza il minimo imbarazzo, ma, anzi, con un sorriso soddisfatto che sottintendeva una certa approvazione – e vi reclama al più presto al suo fianco, per non trascorrere più nemmeno una notte da sola.”

Il De Rossi si morse il labbro, pensando che anche lui non desiderava altro che stringerla di nuovo a sé, malgrado tutte le difficoltà che avrebbero incontrato.

“E infine – sospirò Creobola, contenta di essersi ricordata con esattezza il messaggio della sua interezza – vi vuole presto suo sposo, nei modi e nei tempi che saranno opportuni.”

“Un figlio...” disse, appena udibile Troilo, prendendo poi di slancio le mani della donna nelle proprie e sospirando: “Mi avete detto le parole più belle che avrei mai potuto sentirmi dire...”

“Non chiedetemi altro, però – si schermì Creobola – perché non mi sono stati rivelati i dettagli del parto né di null'altro. Sono solo un'ambasciatrice.”

“Siete venuta da Firenze fino a qui tutta sola?” chiese l'emiliano, rendendosi conto solo in quel mentre del rischio che la serva aveva corso per giungere fino a lì.

“Mi accompagnavano due uomini armati scelti da Madonna – spiegò lei – ma le vostre guardie li hanno trattenuti all'ingresso...”

Scusandosi per l'accaduto, l'uomo assicurò che li avrebbe fatti sistemare per la notte alla rocca, così come avrebbe fatto con lei.

“E sia.” accettò Creobola, che non aveva alcuna intenzione di ripartire proprio mentre scendeva la sera: “Ma domattina ritornerò subito sulla strada, per rientrare a Firenze il prima possibile.”

“Certo.” convenne il Marchese: “E porterete con voi due lettere che scriverò immediatamente.”

“Forse sarebbe meglio un messaggio a voce, come questo... Più difficile da estorcere e impossibile da rubare.” fece notare la serva.

“Non farò nomi, nelle lettere. Nemmeno le firmerò.” tagliò corto Troilo: “Nessuno capirebbe di chi si sta parlando, se anche venissero prese...”

Creobola non volle andare oltre, immaginando, dal tono, che l'uomo non volesse che lei venisse a sapere nulla di ciò che voleva sussurrare metaforicamente all'orecchio della sua Bianca, né dei patti segreti con la Tigre.

Presi gli ultimi accordi, il De Rossi si ritirò, dando ordine di preparare gli alloggi per la notte per la donna e i due uomini che la seguivano. Una volta solo dapprima vergò una lettera formale per Caterina, indicandola con una 'C' sul dorso, per renderla riconoscibile. Le spiegò delle tempistiche per il matrimonio, e della sempre più concreta possibilità che per cause di forze maggiore si dovesse tenere a Roma, in presenza del papa. Sapeva che la Leonessa non avrebbe apprezzato, ma avrebbe di certo capito quanto fosse importante continuare a fare buon viso a cattivo gioco.

Nella seconda missiva che scrisse, invece, si rivolse a Bianca come aveva fatto quando avevano avuto la grazia di passare insieme giornate intere. Passò dalle parole più dolci che conosceva a quelle più ardenti e passionali, quelle con cui l'aveva sciolta, nel sussurrargliele all'orecchio mentre erano soli. Le espresse il suo amore e, ancor di più, il suo desiderio, reso più acuto e quasi doloroso ora che erano lontani da mesi. Le espresse la sua gioia per la nascita del figlio e la mise a parte della voglia indicibile che aveva di conoscerlo, vederlo e baciarlo in fronte. Chiuse con la promessa di essere da lei quanto prima e di renderla sua moglie il prima possibile.

Era così euforico che non si rese conto nemmeno del problema che costituiva – come ben avrebbe dovuto sapere – la nascita di un maschio e non di una femmina ai fini della legittimazione, un domani, del titolo e dei beni.

Se ne ricordò solo quando, ancora tremante di giubilo, raggiunse la madre nelle sue stanze, annunciando una grande notizia.

La donna, seduta alla scrivania, intenta a leggere missive dei loro riottosi fittavoli, chiese: “Che c'è per essere tanto felice?”

Il figlio, inginocchiandosi accanto a lei sollevò gli occhi verso il suo viso e le disse: “Madre... Mio figlio è nato, ed è in salute. Si chiama Pier Maria De Rossi.”

Angela Scotti Douglas sentì una scossa di felicità attraversarle il cuore, ma, da donna pragmatica e lungimirante quale era sempre stata, si trovò a smettere presto di sorridere, per chiedere: “E quindi adesso cosa farete per proteggere il suo futuro?”

Ricordandosi tutti discorsi fatti in merito, l'uomo deglutì e, rialzandosi, si grattò la tempia e ammise: “Bisognerà pensarci per bene...”

“Non potrete portarlo subito qui, lo capisci... Salterebbe tutta la bella storia che hai imbastito per mesi... Come farai a far credere al re di Francia che non la conoscevi? O, anche ipotizzando che tu l'abbia vista a Firenze... Come giustificheresti un figlio, quando fino a ora hai sostenuto che l'avresti presa in sposa alla cieca, solo per legittimare il tuo dominio su terre che sono state fino a ieri degli Sforza?” il tono della Scotti Douglas non era severo, né ammonitore.

“Lo so, lo so...” scosse il capo lui: “Dovremo... Dovremo tenerlo lontano per qualche tempo.”

“Ci dovremo pensare accuratamente.” convenne Angela, posando, finalmente, la lettera che ancora teneva in mano: “E voi dovrete stare attenti e fare bene i vostri calcoli.”

“Ma siete felice che io sia diventato padre? Siete felice che io sposi Bianca?” si trovò a chiedere Troilo, che, malgrado i suoi quarant'anni riteneva ancora fondamentale il parare dell'anziana madre che, da sempre, non aveva fatto altro che dargli buoni consigli.

“Tu la ami e deve essere una donna di valore, se ha attirato l'amore di un uomo come te.” rispose Angela, tornando finalmente a sorridere: “E dunque sì, sono contenta della scelta che hai fatto, perché so che non l'avresti mai fatta a cuor leggero.”

Rinfrancato da quelle parole, il De Rossi gonfiò un po' il petto e poi disse: “Mi ha portato la notizia una serva che lavora alla villa, a Castello... Starà con noi stanotte. Mi farebbe piacere presentarvela, a cena. Anche lei vi potrà parlare di Bianca.”

“L'ascolterò con gioia.” accettò subito la Scotti Douglas e poi, congratulandosi una volta di più con il figlio per la nascita di un bel maschietto, disse che doveva tornare alla corrispondenza e lo congedò.

Una volta che Troilo fu uscito dalla stanza, però, Angela non si rimise a leggere le lamentose lettere dei fittavoli. Restò invece immobile a guardare un punto indefinito della parete, chiedendosi cosa sarebbe successo nei mesi a venire. Era sicura che sua figlio fosse accecato dall'amore, ma lo conosceva anche per essere un uomo savio e ponderato, dunque in quella Riario doveva aver visto molto più di quello che i pettegolezzi dicevano di lei.

Con un sospiro, la madre del Marchese di San Secondo si alzò dalla scrivania e andò alla finestra, a guardare l'orizzonte grigio e pregno di nebbia che si stagliava oltre la rocca.

Avrebbe accolto la sua futura nuora come una figlia, l'aveva deciso fin dal primo momento, e avrebbe fatto di tutto per aiutare lei e Troilo a far funzionare il loro matrimonio. In loro stava la speranza di far rinascere quella terra complicata e nebbiosa, una terra difficile da apprezzare, se non ci si era nati, ma che lei aveva imparato ad amare.

“Come farai tu...” sussurrò tra sé la donna, quasi avesse già dinnanzi a sé la promessa sposa del suo adorato figlio.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas