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Autore: Adeia Di Elferas    03/09/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Paolo Orsini aveva le mani sudate, e mentre osservava tutti gli altri condottieri accorsi per discutere le ultime novità sentiva la gola seccarsi e la testa pulsargli in modo fastidioso. Benché restasse sicuro della bontà delle promesse del Valentino, vedersi dinnanzi gli sguardi corrucciati di quelli che fino a quel giorno aveva considerato senza problemi come alleati lo stava facendo agitare più del dovuto, tanto da fargli temere di non risultare abbastanza convincente nell'esporre ciò che doveva.

La scelta del luogo di quella particolare riunione era stata presa quasi all'unisono. Si trattava di una chiesa solitaria, unica perla di pietra in mezzo a un prato sconfinato vicino alle mura di Cartoceto, sulle colline a ovest di Fano.

Proprio per il modo in cui spiccava in mezzo al nulla, si trattava di un nascondiglio pressoché perfetto: nessuno avrebbe creduto che tali e tanti uomini si fossero radunati lì e in più per le loro sentinelle sarebbe stato semplicissimo vedere un intruso avvicinarsi.

Paolo Orsini attese che anche i due messi di Bologna e Vitellozzo Vitelli prendessero posto e poi, salendo sul pulpito come un prete, si schiarì la voce e cominciò: “La nostra vittoria a Calmazzo ha fatto capire al Duca Valentino il nostro valore e la nostra forza. E lui, da parte sua, ha ammesso di essere stato imprudente e di essere stato facilmente frainteso da noi tutti...”

Nella chiesa cominciarono i primi borbottii, in particolare da parte di Giampaolo Baglioni e Oliverotto da Fermo, seduto l'uno accanto all'altro. Francesco Orsini, invece, taceva e fissava il congiunto con un'espressione strana, così come il Cardinale loro parente.

A nessuno di loro era sfuggita la presenza, molto silenziosa, ma anche molto ingombrante di un funzionario di corte di Cesare, uno spagnolo di nome Gorvalan. Non aveva aperto bocca fin dal suo arrivo, ma per la stazza e per il titolo che portava era sicuro che fosse lì per assicurarsi che gli accordi andassero a buon fine e, nel caso in cui così non fosse, cercare di porre un veloce rimedio alle ritrosie dei ribelli.

Paolo, occhieggiando verso il fondo della chiesa, per non lasciarsi agitare ancor di più dalle reazioni dei suoi compagni, ripeté quasi per intero il discorso che aveva ascoltato dalla voce tonante del Borja, e poi riassunse, a favore di quelli più distratti o più sospettosi: “In pratica, amici, tutti noi Capitani saremmo riconfermati al nostro posto, e ci verranno consegnati all'istante quattromila ducati. In aggiunta a questo ci sarà concesso di presentarci a lui a nostra discrezione e non più su suo ordine.”

Baglioni sbuffò sonoramente e solo il Cardinale Orsini lo zittì con un cenno della mano.

“Bologna resterà ai Bentivoglio – riprese Paolo – grazie al matrimonio tra Costanza Bentivoglio e un nipote del Valentino, di ramo cadetto.”

A quelle parole gli occhi di tutti volarono ai messi bolognesi i quali, tutt'altro che sorpresi, restarono immobili, ma lasciarono intendere che, in effetti, la figlia di Annibale Bentivoglio era una merce di scambio impiegabile per quello scopo e che il loro signore, Giovanni Bentivoglio, aveva già avuto modo di valutare la cosa e accettarla come possibile.

“In cambio di tutti questi benefici, a noi basterà rendere le terre occupate e riconquistare Urbino, per consegnarlo nuovamente al Duca.” concluse Paolo, il fiato corto come se avesse appena fatto una lunga corsa: “E supportarlo in ogni sua futura manovra militare.”

“E questa volta si prenderà almeno il disturbo di pagarci?” chiese Oliverotto, dopo aver chiesto la parola per alzata di mano.

“Ma certamente che...” cominciò l'Orsini, ma non riuscì a concludere la frase, che anche Vitelozzo dovette dire la sua.

“Ci dà il permesso di presentarci a lui quando vogliamo! Ma chi si crede di essere? Il re di Francia?! Io non mi sono mai chiesto se mi servisse il suo permesso per presentarmi alla sua brutta faccia da prete!” sbottò il condottiero

Il Cardinale Orsini, che aveva sperato in una reazione più morbida da parte degli altri ribelli, guardò dapprima il Vitelli e poi Paolo e disse, conciliante: “Il Duca di Valentinois è giovane e pecca di superbia... Ma è un peccato veniale, se pensiamo alle grandi cose che...”

“Grandi cose un accidenti!” intervenne a quel punto Giampaolo Baglioni, con un gesto volgare rivolto al prelato, incurante del fatto di essere in una chiesa: “Quel maledetto figlio d'un cane vuole sfruttarci e usarci come ha fatto finora, ma facendoci credere che ci lascia combattere per lui per via della sua bontà d'animo!”

Il dibattito trascese molto in fretta e da semplici recriminazioni si passò agli insulti personali. Chi ne fu maggiormente colpito fu proprio Paolo Orsini che, da un certo punto in poi, su incipit del Baglioni, venne chiamato da tutti 'Madonna Paola'.

“S'è fatto irretire dal Valentino, la nostra Madonna Paola!” gridava uno.

“Ha alzato le sottane per il piacere del Duca, la nostra Madonna Paola?” insinuava un secondo.

“E ceduta la propria virtù ha ben pensato, la nostra Madonna Paola, che anche noi fossimo pronti a calarci le brache e lasciar campo al Duca?” inquisiva un terzo.

Un centinaio di 'Madonna Paola' dopo e sfiorando la rissa aperta per almeno tre volte, i condottieri ribelli riuscirono a trovare una parvenza di calma dopo quasi tre ora. Sviscerate a fondo le parole del Borja, sotto l'occhio di Gorvalan che, muto nel suo angolo, aveva ascoltato e preso nota mentale di tutto, gli uomini si tacquero e decisero di mettere ai voti.

La maggioranza si trovò, malgrado tutto, a favore delle proposte del Valentino. Attoniti, Oliverotto, Vitellozzo e il Baglioni, gli unici tre fortemente contrari, chiesero qualche momento per parlare tra loro e valutare meglio la propria posizione.

Ritiratisi nella canonica, si trovarono a dirsi, in un bisbiglio quasi inudibile, che tutti gli altri presenti in quella chiesa avevano i loro motivi per voler cedere. Gli Orsini – tutti quanti – erano da sempre creature del Vaticano, era ovvio che alla fine avrebbero ripreso le insegne pontificie, abbandonando quel moto di indipendenza. I bolognesi, a quanto pareva, avevano trovato il modo di guadagnarci, in barba a tutte le loro parole ispirate e al loro inneggiare a Caterina Sforza e a tutti gli altri Signori spodestati ingiustamente dal Borja. I fiorentini, poi, non andavano nemmeno calcolati, visto che avevano addirittura accordato sottobanco arruolamenti a tappeto per il Valentino.

“Faremo così – concluse alla fine Vitellozzo – per il momento cediamo. Dichiariamoci non del tutto soddisfatti, ma accettiamo. Riprendiamoci Urbino... Riprendiamoci Camerino... Facciamo le cose per bene e quando meno se lo aspetta lo ammazziamo.”

Gli altri due, con uno sguardo carichi di sottintesi, si dissero d'accordo e così tutti e tre ritornarono nella navata centrale ed espressero il loro voto.

“Io sono contrariato, profondamente contrariato.” disse il Baglioni: “Ma accetto.”

“Io non accetterei – fece eco il Vitelli – ma contro una così schiacciante maggioranza a favore, non posso che rimettermi alla decisione dei più. Accetto.”

Oliverotto, sporgendo un po' fuori il mento, disse solo: “Io faccio come fanno loro.”

Paolo Orsini, entuasiasta per essere riuscito a portare tutti dalla sua parte e a far accettare loro l'accordo, batté le mani ed esclamò: “E sia! Messer Gorvalan riporterà la nostra decisione al Duca e partirà oggi stesso, in modo da essere a Imola il prima possibile! Vedrete! Si apre per noi tutti una nuova stagione di benessere e prosperità! Una nuova epoca d'oro!”

 

Fortunati aveva fatto in modo di spargere tra la servitù della villa di Castello la notizia che a breve Bianca Riario sarebbe rientrata e che avrebbe portato con sé – così come Caterina aveva deciso di dire – un figlio illegittimo del fratello Ottaviano, raccolto dalla Tigre come atto di pia carità.

“Ovviamente – le aveva detto il giorno prima, mentre decidevano gli ultimi dettagli – tua figlia non dovrà mettersi ad allattare davanti a tutti o sarà palese che il figlio è il suo e non del fratello...”

“Bianca non è una stupida – aveva ribattuto subito la Leonessa – e ti assicuro che le cose sa farle di nascosto, quando vuole, meglio di chiunque altro...”

Ormai era quasi tutto pronto e bisognava solo aspettare che madre e figlio fossero sufficientemente in forma per essere trasportati dal convento fino a lì senza che vi fosse alcun rischio.

“Hai ripensato a quella cosa di cui ti ho parlato anche stanotte..?” chiese cauto Francesco, mentre lui e Caterina sorbivano un calice di vino nel salone, mentre il pomeriggio cominciava a prendere le prime sfumature della sera.

Quella notte, così come aveva fatto la notte prima, il piovano aveva provato a chiederle se se la sentisse di vedere i Salviati. Fin dalla prima volta in cui glielo aveva chiesto, la sera del suo arrivo alla villa, aveva capito che non sarebbe stato facile farle dire di sì in tempi brevi.

“Ti ho detto – disse anche in quel momento la donna – che ora come ora non ho alcuna intenzione di vedere nessuno di loro. E anzi, gradirei che tu non me lo chiedessi più nei momenti in cui cerco di rilassarmi.”

“Va bene...” concluse Fortunati: “Allora manderò loro un messaggio, oggi, per dire che per ora non intendi vederli.”

“Deo gratia.” ribatté Caterina, torva.

Il piovano a quel punto si zittì, per non irritarla troppo. Anche quella notte Caterina aveva reagito in modo freddo, ma senza trascendere, tuttavia era meglio essere cauti, vista la reazione esagerata avuta la prima volta in cui lui le aveva posto quella semplice domanda.

Era stato la notte in cui Francesco era rientrato alla villa. Dopo la cena – consumata ciascuno nella propria stanza – lui era andato da lei, che, ancora arrabbiata, l'aveva comunque accolto con calore, con baci e abbracci e l'aveva portato in fretta sotto le lenzuola.

Solo più tardi, quando entrambi insonni si scambiavano lente carezze, ciascuno assorto nei suoi pensieri, era avvenuto il vero scontro.

La Tigre, sussurrando, aveva appena detto: “A volte non mi rendo conto di quanto sono fortunata ad avere te...”

Fortunati, non riuscendo a frenarsi in tempo, aveva parlato sopra di lei: “I Salviati vorrebbero vederti, per parlare delle ultime novità arrivate da Imola, per discutere degli accordi presi da Machiavelli...”

A un primo 'no' perentorio della donna era seguito un tentativo di rabbonirla del piovano che, dandole un bacio, l'aveva incoraggiata a cambiare idea. A quel punto, forse per i nervi scossi, forse per via del suo carattere impossibile, la Leonessa aveva dato in escandescenze e nel giro di pochi minuti Francesco si era trovato sbattuto fuori dalla stanza, ancora nudo, con i poveri vestiti stretti al petto e con la fretta di andarsi a nascondere in camera propria prima che qualcuno potesse vederlo in quello stato.

Ben memore, quindi, di quella tremenda esperienza, il piovano sospirò e annusò un po' il vino che aveva nel calice. Stava per dire qualcosa a riguardo del profumo pungente che gli pizzicava il naso, quando dalla porta fece capolino frate Lauro.

“Perdonate l'interruzione – disse l'uomo, con il suo consueto sorrisetto imperturbabile – ma è arrivata questa, per voi... Mi sono fatto carico di consegnarvela personalmente.”

Caterina prese la missiva che Bossi le stava porgendo e, riconosciuta subito la grafia di suo figlio Ottaviano, congedò il frate e aprì la lettera.

Era, come la maggior parte dei messaggi del Riario, una sequela di frasi inutili e in buona parte confuse, da cui si evinceva che il giovane si stava impegnando – a suo dire – per trovare un modo per farle riavere Imola e Forlì, approfittando dei moti restauratori che c'erano ormai in buona parte del centro Italia. Le scriveva direttamente da Bologna, città in cui i Bentivoglio, diceva, l'avevano accolto molto bene e propugnavano senza sosta il ritorno della Sforza nelle sue terre.

La Tigre sorbì un po' di vino, assorta, quasi in procinto di dirsi meno innervosita del solito dalle parole del suo primogenito, quando arrivò alle ultime righe.

Con una sfacciataggine che alla Leonessa ricordò il ragazzino insolente che era sempre stato suo figlio, Ottaviano chiudeva chiedendo denari 'e molti' per far fronte a tutti i bisogni della sua permanenza in terra straniera, sottolineando come quelli ricevuti fino a quel momento non fossero affatto bastanti per foraggiare una spedizione importante quale era quella che stava intraprendendo.

Con una smorfia schifata, la Sforza ripiegò la lettera e la gettò in terra. Fortunati, con un riflesso invidiabile, si tuffò a recuperarla e, senza chiederne il permesso, la lesse a sua volta. Gli bastò poco per capire il motivo del malumore della Tigre.

“Riesce a rovinarmi la giornata anche standosene a Bologna.” borbottò Caterina, capendo che il piovano aveva ben intuito il motivo del suo gesto: “E non chiedermi più se voglio incontrare i Salviati.” lo redarguì, alzandosi, il calice ancora in mano: “Quando vorrò farlo, sarò io a dirtelo.”

 

“La Sforza non vuole vederci...” disse Lucrezia Medici, un messaggio spiegazzato in mano, abbandonandosi sullo scranno che il marito aveva sistemato vicino al camino.

Anche se era solo fine ottobre, il freddo aveva cominciato a farsi sentire anche a Firenze, e lo aveva fatto da un giorno all'altro, cogliendo di sorpresa i più. Perfino i Salviati si erano trovati a dover accendere i focolari nelle stanze più importanti del loro palazzo, e pareva che le fiamme, per quanto ardenti, non bastassero a far tornare la temperatura gradevole.

Jacopo, che stava cercando di rintuzzare il fuoco con uno degli attizzatoi, si voltò verso di lei, corrucciato e chiese: “Spiega come mai?”

“Fortunati ci dice solo che dobbiamo avere pazienza, che la Tigre di Forlì è fatta a modo suo... Che mai vorrà dire, poi...” sbuffò la donna, porgendo il biglietto al marito.

Il Salviati lo lesse e lo rilesse, cercando di cogliere ogni possibile sfumatura di quelle poche righe, ma si accorse ben presto che non ce n'erano poi tante... La Leonessa non aveva digerito innanzitutto il fatto che il Gonfaloniere avesse mandato proprio Machiavelli a parlare con il Valentino e, ovviamente, era inviperita all'idea che Niccolò stesse mediando con il Borja, rinsaldando sempre di più il legame tra Firenze e il papa. Calcolando tutte le belle promesse di maggior libertà e di protezione proprio dal Duca di Valentinois che loro Salviati le avevano fatto, assicurandole che Pier Soderini fosse l'uomo giusto per rendere la Repubblica davvero indipendente dal Valentino, la sua rabbia era più che comprensibile.

“Stai tranquilla...” concluse quindi Jacopo, rendendo il messaggio alla moglie: “Ha ragione Fortunati: le serve solo un po' di tempo per calmarsi. Le donne come voi hanno bisogno di decantare prima di...”

“Le donne come noi?” chiese Lucrezia, impedendogli di concludere il pensiero, alzandosi di scatto e raggiungendolo accanto al camino: “Mi stai paragonando a una pazza omicida?!”

“Oh, è questo per te?” chiese il Salviati, quasi divertito, mentre la moglie, invece, lo fissava con aria di sfida: “Credevo che l'ammirassi e la stimassi molto più di qualsiasi altra donna...”

“L'ammiro e la stimo – ammise la Medici, allargando appena le braccia – ma vorrei ricordarti che io non ho mai ucciso nessuno, al contrario di lei, e nemmeno ho sedotto tanti uomini quanti ne conti l'esercito di Forlì... Quindi paragonarci mi pare ingiusto.”

Jacopo si morse l'interno della guancia. Non voleva istigare Lucrezia a insistere su quegli argomenti. Tuttavia gli piaceva, a volte, scherzare con lei su alcuni argomenti. Non riusciva a parlare con nessun altro usando doppi sensi o frasi allusive e dunque quando gli capitava gli piaceva giocare a quel modo con la moglie.

“Stai dicendo – chiese, con un sorrisetto che la Medici riconobbe subito – che io non valgo come l'intero esercito di Forlì? Stanotte mi sembravi più che soddisfatta dalle mie capacità belliche...”

Il calore del camino cominciava a rendere la saletta accogliente e tiepida. Fuori il sole iniziava a calare e Lucrezia sentì svanire di colpo tutta l'animosità che l'aveva presa fino a pochi istanti prima.

In quei giorni lei e Jacopo stavano vivendo un periodo di particolare intesa e, come capitava in quelle occasioni, la donna non voleva lasciarsi scappare nemmeno la più piccola occasione di approfittarne. Forse in parte perché voleva un nuovo figlio, come a volte aveva confidato al marito, e forse perché, semplicemente, le piaceva tutto quell'inseguirsi di schermaglie amorose, frasi sussurrate, momenti di dolcezza e altri di travolgente passione.

Lei e Jacopo ci avevano messo un po' ad affiatarsi davvero, nei primi tempi del loro matrimonio, ma ora, dopo anni, riuscivano a capirsi con uno sguardo e il desiderio dell'uno trovava praticamente sempre il desiderio dell'altro a soddisfarlo.

“Tra quanto sarà pronta la cena?” chiese in un sussurro appena udibile la Medici, prendendo la mano del marito nella sua e gettando di lato il messaggio di Fortunati.

“Non prima di un'ora, credo.” rispose Jacopo: “Ma potrebbe arrivare qualcuno... Non abbiamo dato ordine di non disturbarci...” aggiunse, capendo al volo le intenzioni della donna.

Lucrezia si prese un attimo per baciarlo, poi, ancora influenzata dal paragone fatto dal marito poco prima, chiese: “Credi che alla Tigre importerebbe di essere interrotta da qualche servo?”

“Hai detto tu che non è giusto paragonarvi...” ribatté l'uomo, accarezzandole la schiena, più cedevole nei fatti che nelle intenzioni dichiarate: “Andiamo in camera...”

“La camera è ancora fredda...” insistette Lucrezia: “E poi ti ripeto, credi che alla Tigre importerebbe qualcosa se...” e prima di finire la frase ricominciò a baciarlo.

Jacopo non si sottrasse, ma sentì una punta di fastidio al pensiero che, forse, quello slancio della Medici era più dettato da una silenziosa sfida a distanza con la Leonessa di Romagna che non da una genuina voglia di farlo suo.

Quasi a confermare quel dubbio, senza che lui avesse detto nulla per contraddirla, Lucrezia smise un istante di cercare le sue labbra per dire: “Scommetto che quella è una delle cose di lei che piace tanto a voi uomini... Il fatto che non se ne curi per nulla...”

“Non lo so, non chiederlo a me.” fece il Salviati, guardandola con fermezza: “Io non ho occhi che per te.”

“Quando sei tornato dall'incontro con lei, però, ne eri ammaliato, non negarlo.” fece lei, volendo, però, poi frenare di nuovo la lingua per evitare di scontrarsi con il marito e dover rinunciare a quella breve parentesi che avrebbe preceduto la cena.

“Andiamo in camera...” insistette ancora una volta Jacopo, prendendola per entrambe le mani, finendo per confessare, sperando di convincerla una volta per tutte: “Tu non te ne curerai, ma io non sarei tranquillo... Andiamo nella nostra camera, al sicuro, senza il rischio che vengano a disturbarci...”

Cedendo infine, per stringere i tempi e per accontentare il marito, Lucrezia sospirò: “Ma sappi che in stanza si congela, quindi dovrai darti da fare per tenermi al caldo...”

“Non chiedo di meglio.” sorrise lui, trionfale, andando subito alla porta, quasi di corsa, mano nella mano alla sua amata, felice come un ragazzino.

 

Bianca Riario teneva stretto al seno il figlio. Da quando era nato, aveva passato ogni giorno a curarlo, allattarlo e osservarlo mentre cresceva. Anche se si trattava di cambiamenti pressoché impercettibili, la giovane si accorgeva che non passava giorno, anzi, ora, senza che il suo Pier Maria non cambiasse lievemente. Quasi si intristiva, pensando che, dormendo, finiva per perdere qualcosa di quello strabiliante processo.

A volte la prendeva una paura strana, profonda e ancestrale, di non poter essere testimone a lungo di quello spettacolo. Poi pensava a Troilo, che, per motivi di forza maggiore, si era dovuto perdere tutto fin dall'inizio.

Era immersa proprio in uno di quei ragionamenti, quando riconobbe vicino alla porta della sua cella, la voce di Creobola, serva di sua madre, e di una delle monache che l'aiutava in quei giorni.

Presa dall'ansia di sapere cosa avesse detto Troilo nello scoprirsi padre di un maschietto florido e in salute, la Riario si alzò dal letto, il bambino al petto, e andò di persona ad aprire.

La monaca lasciò le due donne sole, chiedendo, però, di essere chiamata per riaccompagnare poi Creobola all'uscita. La serva la ringraziò, ma nel momento stesso in cui l'uscio si richiuse, borbottò un paio di insulti coloriti alle spalle della religiosa, accusandola, in buona sostanza, di essere una malfidente e un'impicciona.

“Sono stata dal Marchese.” disse con tono aulico poi, rivolgendosi a Bianca: “E sono passata anche da vostra madre a Castello, prima di recarmi da voi.”

La Riario nascose bene un piccolo moto di contrarietà nel sapere che il messaggio di Troilo le stesse arrivando leggermente in ritardo per via di quella deviazione. E si sentì anche un po' infastidita, immaginando che, quali che fossero state le parole del suo innamorato, fossero state prima vagliate da sua madre.

Quasi a volerla smentire subito riguardo quell'ultimo pensiero, Creobola iniziò a cercare qualcosa dalla sua scarsella e ne estrasse una lettera: “Questa è da parte del Marchese, destinata a voi e voi soltanto. Come vedete, è ancora sigillata...”

Bianca la prese subito e la poggiò sulla scrivania, lasciando intendere, con quel semplice gesto, che l'avrebbe letta solo quando fosse rimasta sola: “Come ha reagito? Cosa vi ha detto?” domandò, non riuscendo a trattenersi.

La serva si abbandonò in una lode sperticata del De Rossi, ne elogiò i modi e lo esaltò per come l'aveva accolta e sfamata. Sottolineò come il Marchese sembrasse entusiasta delle novità e si permise di aggiungere – a titolo personale – che quell'uomo le era parso molto innamorato e impaziente di ricongiungersi a lei.

Creobola, inoltre, le doveva riportare anche le parole della Tigre, che, dopo aver ricevuto a sua volta una missiva di Troilo e averla letta, le era parsa molto soddisfatta. La serva era lì per riferirle anche che a breve, non appena si fosse detta abbastanza in forze, lei e il bambino sarebbero andati alla villa di Castello.

“Ma mi ha detto di farvi presente che questo piccolo sarà, per la servitù, un figlio di vostro fratello e non vostro... Quindi non dovrete far nascere strani dubbi ai domestici.” precisò la donna.

Bianca guardò un momento Pier Maria. Sapeva che quelle parole stava a significare che non avrebbe più potuto allattarlo, o, quanto meno, avrebbe potuto farlo solo in rare occasioni, quando fosse stata sicura di non incorrere in testimoni scomodi...

“Va bene...” sussurrò: “Credo che tra qualche giorno saremo pronti.” prese tempo, volendo far durare ancora per un po' quel momento di benessere.

“Se non avete nulla da farmi riportare a vostra madre – soggiunse a quel punto la serva, occhieggiando verso la lettera, morendo dalla voglia di sapere cosa vi fosse scritto – allora io andrei...”

“Andate.” fece subito Bianca, con gentilezza, ma anche in modo molto autoritario: “E salutate i miei fratelli per me.”

“Sarà fatto.” annuì Creobola, lanciando un'ultima, delusa, occhiata alla lettera ancora sigillata.

Una volta liberatasi dalla serva – che in tutta la sua breve permanenza non aveva né guardato né fatto commenti circa Pier Maria, che se n'era stato buono tra le braccia della madre – la Riario sistemò il figlio sul letto, e si sedette alla scrivania.

Aprì in fretta la lettera di Troilo e la lesse tutta d'un fiato. Nelle parole vergate con grafia elegante le sembrava di sentire la voce dell'uomo che amava, anche se, trascorsi mesi dal loro ultimo incontro, a tratti faticava a ricordarne con precisione l'intonazione. Arrossì un paio di volte, nel trovarsi dinnanzi dichiarazioni tutt'altro che velate, e sentì il cuore esplodere di gioia nello scoprire immutato anche in lui l'amore.

Lesse e rilesse ogni riga fin quasi a impararla a memoria, e si strusse all'idea di non potergli rispondere subito con altrettanto trasporto. Richiuse la missiva con delicatezza e la mise tra i suoi pochi effetti personali, poi tornò a sedersi sul letto, accanto a Pier Maria.

Il bambino, bianco e roseo, con pochi capelli chiari in testa, la guardava assonnato. La giovane lo accarezzò e gli sussurrò qualche parola leggera, spiegandogli quanto il padre già lo amasse e quanto volesse vederlo il prima possibile e stringerlo a sé.

Quasi cullato da quelle dichiarazioni, il piccolo De Rossi sbadigliò un paio di volte e poi, stretto nelle sue fasce candide e morbide, si assopì.

   
 
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