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Autore: lo_strano_libraio    25/09/2022    1 recensioni
Cosa successe nei mesi tra la morte di Billy e l’attacco di Vecna, nella vita di Maxine Mayfield? Scopritelo in questa storia angst, ricca di emozioni forti, misteri e colpi di scena!
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dustin Henderson, Lucas Sinclair, Maxine Mayfield, Mike Wheeler, Undici/Jane
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Terzo capitolo: comics tragedy

 

Si svegliò che era mattino; ma non lo capì dalla luce che non era cambiata molto, ma   guardando l’ora sull’orologio del comodino. Il freddo si era acuito ulteriormente, e guardando fuori dalla finestra comprese il motivo: nevicava.

“Ci mancava anche questa...”

I bambini e i ragazzi della sua età, stavano esultando ed tutta Hawkins all’idea di fare pupazzi di neve, giocare a lanciarsi palle l’un l’altro; ma le sue condizioni non gli garantivano quel lusso. Cercando di alzarsi dal letto, starnutí l’anima sopra le coperte e il pigiama. Accadde così improvvisamente che si spaventò lei stessa del suo naso.

“Oh...che schifo...”

Crollò all’indietro dal nervoso, la testa sul cuscino le girava come se l’avessero messa in una centrifuga, la fronte e la gola le bruciavano terribilmente ed era percorsa da brividi lungo tutto il corpo: era febbre. Troppo debole per trovare le forze per alzarsi e cambiare le coperte con altre pulite, si arrese e rimase bloccata nel letto. 

Decisamente tipico dei californiani che si trasferiscono a nord, e sembrano sul letto di morte al primo freddo dell’anno. Era talmente pallida e l’azzurro dei suoi occhi avevano perso talmente vigore, che se qualcuno fosse entrato e l’avesse vista in quel momento, si sarebbe spaventato facilmente parendole morta. 

Si addormentò di nuovo, riposando per un altra oretta. Svegliatasi in parte rinvigorita, decise che un bagno caldo e una Tachipirina l’avrebbero fatta stare meglio. In effetti il calore delle coperte le aveva alzato la temperatura corporea, abbassando la febbre, ma facendola sudare copiosamente. Andò a fatica in bagno, e prese delle pastiglie solubili dal mobiletto, che mise a sciogliere in un bicchiere d’acqua. Nel frattempo, iniziò a riempire la vasca d’acqua calda, mischiata a bagno schiuma. Trangugiò velocemente l’acqua del bicchiere e nell’abbassarlo insieme alla testa, l’occhio cadde sul suo riflesso allo specchio: i capelli erano unti al punto che spremendoli, l’olio caduto sarebbe bastato a fare fritture per un reggimento. Sciogliendosi le trecce, li sentì sulle mani. Il pensiero la fece sorridere: “É un idea...almeno potrei risparmiare su questo.”  Ma ripensandoci un attimo dopo, si rabbuiò all’idea di stare scherzando su una cosa simile. D’altronde se i suoi capelli erano ridotti così, non era colpa solo della febbre, ma della sua recente mancanza di cura per sé stessa, che di certo non era tipico di lei. Ora che il naso incominciava a stapparsi, infatti sentiva la sua puzza. Normalmente era una ragazza che dava molta importanza all’igiene personale, e non indossava gli stessi vestiti due volte di fila. Ma da quando si era chiusa in casa, e iniziò a sentire il bordo delle costole sul tatto, quando cambiava vestiti; sviluppò la paura di vedere la sua magrezza. Anche ora aveva paura, ma per lo più per il freddo, tipica degli ammalati che soffrono le basse temperature e non vedono l’ora di immergersi nell’acqua bollente, ma hanno il terrore di esporsi al gelo in quell’intervallo di tempo che precede l’immersione. La vasca ora era piena; il fumo dell’acqua trasportò il profumo del bagnoschiuma al suo naso, come per convincerla a entrare al più presto. Finalmente si decise: si svestí in fretta, evitando accuratamente di guardarsi allo specchio o direttamente il suo corpo. Cercò quindi di tenere il suo sguardo dritto davanti a lei, e gettó i vestiti a terra mentre sbatteva i denti e tremava dal freddo. Entrò finalmente, tenendosi con tutta la forza possibile con le mani al bordo della vasca per evitare di scivolare. Sdraiatasi, dentro entrò in universo di benessere. Il caldo abbraccio del bagno, la curò come un elisir magico, una fonte di giovinezza dal gelo che l’attanagliava. Quasi si stava scordando della sensazione stessa del freddo; come quando in piena estate, ci sembra stupido il ricordo di quando ci coprivamo dalla testa ai piedi per uscire di casa. Le serviva così tanto questo calore, che immerse tutto il corpo tranne la parte del viso che va dagli occhi alla bocca. Sembrava l’Ofelia di John Everett Millais, lo sguardo era perso ed effimero allo stesso modo, ma la situazione in cui si trovava decisamente meno romantica ma decisamente

squallida. 

Dopo un lungo bagno di più di un ora, uscì rinvigorita. Copertasi con un accappatoio, sentiva la febbre svanire rapidamente, e con essa il raffreddore in generale: almeno non si sarebbe ammalata per un po’ di tempo. 

Tornò in camera e decise che era il momento di smettere di stare in pigiama: la impigriva. Per coprirsi dal freddo si mise una maglia a maniche lunghe sotto un maglione, e pantaloni di velluto. Scese in cucina, dove una brutta sorpresa le diede il buongiorno: un topo stava sgranocchiando le banconote lasciatele da sua madre, che aveva scordato sul tavolo. “No!” 

Si lanciò su di lui, che spaventato corse via, infilandosi in una crepa tra il muro e un mobile della cucina. “No! No! NO!” Max prese per mano i fogli, ma ormai erano fatti tutti a pezzi. Si sedette sospirante su una sedia, e rimase a pensare sul da farsi: chiedere soldi a qualcuno non se ne parlava neanche. Cosí decise di ingegnarsi al meglio. Salí in camera e rovistò nella libreria.

Impacchettò con un nastro per regali una pila di fumetti vecchi, tra quelli che le piacevano meno. Li mise in un sacchetto di plastica e di preparò per uscire. Non aveva giacche abbastanza spesse da ripararla dal clima innevato, quindi se ne mise due addosso. infilò i guanti invernali alle mani, e nel farlo con troppa foga ruppe accidentalmente la parte finale dello spazio per l’anulare di quello destro, che sbucò fuori dal tessuto. “Diamine!” 

In effetti erano piuttosto vecchi, ma avrebbe potuto fare più attenzione. Sciarpa e cappello completarono la bardatura, e ciondolante uscì dalla porta di casa. Lungo la strada, si coprì il più possibile il viso con la sciarpa, non solo per ripararsi dal gelo, ma soprattutto perché non voleva essere riconosciuta da sguardi indiscreti in quelle condizioni pietose. 

Arrivò alla coloratissima bottega dei fumetti, e come una falena su una lampione notturno, si fiondò sulla porta d’entrata illuminata dal giallo della sfavillante luce proveniente dall’interno. Dentro non era troppo affollato, visto l’orario serale e il periodo dell’anno. C’erano comunque un po’ di ragazzi della sua età, sparsi un po’ qui e là, intenti a sfogliare raccoglitori di albi e ripiani, chiacchierando sulle storie in esse contenute. Ancora prima che di arrivasse al balcone, Bob la riconobbe a distanza: pur dovendo indossare degli occhiali da vista, riusciva sempre a riconoscere le persone che frequentavano il suo negozio, anche da lontano. Era un uomo sulla trentina, robusto ma non troppo. Indossava una camicia a quadri, con sotto una maglietta con disegnati gli Avengers sopra. Il faccione bonario, contornato da una corta barba e sotto un cappellino, con la scritta: “I’m a nerd, and I’m proud of it!”, gli fece un sorrisone a trenta denti:“Maxine! Mi stavo proprio chiedendo che fine avessi fatto: è arrivata la tua copia; e visto che a natale siamo tutti più buoni, ti ho trovato la limited edition. Ma tranquilla, non ti farò pagare di più, sei pur sempre una delle mie clienti preferite!” 

L’uomo tirò fuori da sotto il banco un tomo dal titolo: “Crisi sulle terre infinite: gold edition”. Gli occhi di Max di spalancarono, illuminati alla sola vista della copertina. Era ancora più bella di come se l’immaginava: la copertina era colorata d’oro sui bordi, che incorniciavano i membri della Justice League, mentre si scagliavano contro Anti-Monitor. Tra loro il suo sguardo riconobbe subito Diana, affianco a Superman, protrarsi in una delle sue famose pose supereroistiche, col pugno sinistro che protendeva in avanti, seguito dal resto del corpo. Max sospirò, rassegnata come un beduino nel deserto quando di rende conto che l’oasi dove credeva di stare giungendo, era solo un miraggio. Abbassó lo sguardo, vergognandosi di quello che stava per accadere.

“No, senti Bob...io ti ringrazio davvero, ma scusami; in famiglia abbiamo avuto dei gravi problemi, e non posso più comprarlo, anche se sai quanto lo vorrei. Infatti...” 

si interruppe un momento, per tirare fuori il plico dalla busta.

“So che acquisti anche l’usato, e quindi sono venuta qui a venderti un po’ di vecchi fumetti, perché ne ho davvero bisogno.” 

Bob rimase stupito dalla richiesta, non gli era mai capitato che un cliente, cosí giovane poi, venisse a vendergli fumetti per problemi economici. Tanto meno avrebbe pensato che Maxine Mayfield, la ragazzina spigliata e spiritosa, che tanto rendeva le sue giornate meno noiose, basate sullo sgridare bambini moccolosi, che che sgualcivano gli albi prendendoli in mano con la grazia di un elefante, e rispondere a stupide domande di nerd sull’uscita dei nuovi numeri delle loro serie preferite o su chi sia più forte tra Superman e Thor; sarebbe un giorno presentatasi con la coda tra le gambe, per chiedergli denaro. Anche perché Hawkins sarà piccola, ma non al punto di conoscersi veramente tutti; Bob era completamente all’oscuro dei recenti sviluppi nella vita di Maxine Mayfield.

“Ma Max, non posso darti molto per questi: al massimo due, tre dollari; sono vecchi solo di qualche anno, compro perlopiú albi storici. Ma se ti serve aiuto, sai che posso tranquillamente darti dei soldi.” 

Guardandola bene, si rese conto di quanto fosse emaciata in viso, e di come i suoi vestiti non fossero in ottimo stato: erano scoloriti, e il freddo li aveva bucati in più punti. In mezzo a tutto quel colore che permeava il negozio,appariva come una busta della spazzatura, gettata in un orto frutta. Ma la sua premura non fece altro che aumentare il nervosismo di lei, che come sempre, doveva dare retta al suo ego e rifiutare l’aiuto d’altri. 

“No...no...cazzo Bob! Non mi stai ascoltando! Non voglio chiederti l’elemosina: devo venderti questi fumetti, perché mi servono soldi per mangiare!” 

Gli altri ragazzi nel negozio si girarono a guardarla, distratti dal suo sfogo. Un vocio si diffuse per la stanza; poteva sentire una coppia di lato, parlare sottovoce:

“Ma che problemi ha?” Disse lui a lei.

“Ma guardala: sembra una scappata di casa, poverina...chissà cosa le è capitato...” commentò lei.

Maxine girò la testa un paio di volte, come risposta a quelle voci, decisamente nera in volto, ma imbarazzata per non essersi resa conto di aver alzato troppo la voce. Salendole il nervoso, prese a battere leggermente il tacco della scarpa a terra, anche questo inconsciamente, facendola sembrare ancora di più una pazza agli occhi dei presenti.

Bob evidentemente costernato dalla piega che aveva preso la discussione, cercò di calmarla, alzando una mano in segno di amicizia: “calma, si vede che è successo qualcosa che ti ha scosso; dov’è tua mamma? Sa che sei qui?”

E premette ancora una volta il tasto sbagliato.

“Non tirare mia madre in questa storia! Sono venuta io qui a parlare con te, non sono una bambina che deve essere accompagnata in giro!”

La sua voce si fece lamentosa e squittiva ogni parola, sul l’unto di scoppiare a piangere.

“Ok, ok, ma sei comunque una minorenne e non dovresti essere costretta a fare certe cose per mangiare. I servizi sociali dovrebbero sapere che sei in questa condizione.”

Alla parola “servizi sociali” la ragazzina smise di ascoltarlo, rimise nella busta il plico di fumetti legati, e l’afferró per uscire.

“Ok, ho capito; credevo almeno tu mi avresti capita. Va a quel paese tu, mia madre e i stramaledetti servizi sociali. Non ti azzardare a chiamarli: non c’erano quando ne avevo bisogno; non mi serve aiuto da nessuno, baderò da sola a me stessa.”

Si voltò e tornò sui suoi passi verso l’uscita. Non però, ovviamente, non poteva stare zitto e neanche provare a fermarla. Uscì dal balcone e cercò di raggiungerla. “Aspetta, Maxine!” arrivando a portata di mano, le afferrò il polso rimanendo sorpreso, da quanto fosse esile. La sua presa quindi non fu troppo stretta, permettendo lei di sfilare la mano subito. 

“Non mi toccare! Ti credi un eroe soltanto perché vendi fumetti di supereroi? Sei solo un ciccione mai cresciuto!” Questo lo ferì dentro, ma era comunque abbastanza adulto da capire che non fosse sincera, ma una di quelle scenate che fanno gli adolescenti, quadruplicata. “Siete tutti dei f-falliti!” Questa volta si rivolse a tutti i presenti, singhiozzando e indicandoli col dito a sinistra e destra. La scenata aveva raggiunto vette grottesche, e un ragazzo cercava di nascondere un sorriso dietro la mano sulla sua bocca. Max si voltò ancora e sulla strada verso la porta, mise la ciliegina sulla torta, tirando un calcio a un cartonato di Superman, spezzandolo in due. “Max, asp-“ non serví a nulla, sbatté la porta di vetro, evitando di romperla solo per la mancanza di forza nelle ormai esili braccia. Arrivata a un cassonetto, lanciò dentro il sacchetto coi fumetti. Sulla strada di casa, cominciò a piangere, e il calore della rabbia, almeno le fece sentire meno il freddo. Entrando in camera sua, il pianto si fece grido. Lanciò un occhiata in segno di accusa all’action figure di Wonder Woman, svettante dalla libreria. 

“TU NON ESISTI! Mi HAI MENTITA TUTTI QUESTI ANNI! NON SERVE A NIENTE ESSERE EROI: TI FAI SOLO DEL MALE! SE NON AVESSI CERCATO DI IMITARTI, NON SAREI IN QUESTA SITUAZIONE!”

La plasticità, il fisico perfetto di Diana, rappresentato bene dallo scultore della statuetta; era come un insulto per Maxine: magra, debole, sconvolta, costretta a vedere quella dea dal basso, come una divinità lontana, irraggiungibile ma opprimente nella sua perfezione. La ragazza tirò un calcio al mobiletto, facendo cadere Wonder Woman. Le sputò sulla faccia di c’era dipinta, come se fosse una persona vera, capace di offendersi per il gesto. Si buttò sul letto, faccia sul cuscino. Singhiozzò per due minuti buoni, per poi chiudere gli occhi e addormentarsi ancora una volta.

Dormí per un oretta buona: al suo risveglio stava un po’ meglio. Il sonno le aveva portato consiglio; in sogno ebbe la risposta al quesito di ieri: perché era sola? Non lo era. Le era apparso il parco di skateboard, il fragore delle onde che si scagliano sugli scogli in sottofondo. Tommy e Arianna che la guardavano. 

“Perché mi avete abbandonata? Non potete neanche immaginare quanto stia male! La solitudine mi sta ammazzando...”

“Ma noi non ti abbiamo mai abbandonata stupidina!” Rispose con tono irale, ma non canzonatorio il biondino.

“Ti pensiamo sempre, e non vediamo l’ora di rivederti, ma devi avere pazienza: l’Indiana non è dietro l’angolo, e tu dovresti anche scriverci un po’ più spesso.” L’accento spagnoleggiante di lei, le fece tornare alla mente le cene a base di tortillas, cucinate dal padre di Arianna, cuoco in un ristorante messicano. “E poi...non è che tu non abbia amici lì!” Tommy indicò con il dito alla sua destra. Lo sguardo di lei si spostò di un centimetro, ma non serví continuare oltre: una mano nera le accarezzò dolcemente il mento, indirizzandolo verso il volto affettuoso di Lucas. Gli occhi di Max si riempirono di commozione: “L-Lucas, io ti amo ancora...ma è difficile per me, dover dipendere sempre dagli altri. Non voglio dovermi sentire un peso...” Lui le mise un dito sulle labbra, un dolce modo per zittire qualcuno che non sa cosa dice. “Tu c’eri quando serviva aiuto a noi, e più di chiunque altro hai perso qualcosa nel farlo.” 

“Saremmo egoisti a non starti accanto, aiutarti, anche solo perché sei nostra amica, figuriamoci con tutto quello che hai fatto.” Undi era comparsa alla sua sinistra. “Tu sei un eroina!” Le disse Mike. “Ti ricordi quando mi sono rotto la gamba, e tu mi hai accompagnato a casa per un intero mese?” Aggiunse Dustin. “O di quando hai accettato di prendere il posto di Mike nelle nostre sessioni di D&D, perché stava male? A te sarà sembrata una cosa da Nerd, ma per me è significato molto.” 

Era circondata dai suoi amici, un ondata di felicità e tenero affetto da tempo scordato la investí. “Vai da loro, e vedrai che arriveremo anche noi!” Gli amici californiani la salutarono con le mani, come fecero il giorno della sua partenza; quando vide le loro sagome e i loro volti bagnati di lacrime farsi sempre più piccoli dal finestrino dell’auto di mamma, e con essi il ricordo della loro voce. Si svegliò di colpo, spinta fuori dal sogno, nelle braccia della realtà; forse un invito a seguire nel concreto il consiglio onirico dei suoi amici.

Lei non era sola: aveva deciso di esserlo. Doveva solo trovare la forza di andare dai suoi amici.

   
 
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