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Autore: Adeia Di Elferas    03/10/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Finalmente possiamo parlare un momento da soli...” Lucrecia aveva quasi inseguito Pietro Bembo per le sale del palazzo di Ferrara, quel pomeriggio, sperando di trovare il modo di discorrere con lui da sola, a quattrocchi, come aveva anelato di fare fin dal principio.

Il trentaduenne, voltandosi verso di lei, sorridendo nel riconoscerne la voce, si profuse in un inchino e disse: “Sono un vostro umile servo.”

La Borja si guardò un momento attorno. Erano in una saletta abbastanza piccola, senza camino, ma dotata di una comoda seduta in pietra alla finestra. Indicando i morbidi cuscini che la rendevano un'alcova perfetta, la ventunenne gli chiese apertamente di sedersi con lei per scambiare qualche parola.

Pietro, incuriosito e allo stesso tempo un po' impensierito da quella proposta, non si sottrasse e si andò a sedere davanti alla giovane, mentre questa si sistemava con cura le sottane.

Lucrecia gli era parsa fin dal primo momento una donna molto particolare. Sapeva che, dopo l'aborto, la Borja era stata parecchie settimane presso le Clarisse del Corpus Domini, avvicinandosi tanto alla fede – cosa rara, per qualcuno che aveva vissuto in Vaticano buona parte della propria breve vita – quanto all'esercizio della preghiera. A corte dicevano addirittura che Lucrecia avesse imparato a memoria il Libro d'Ore che usava in convento.

Malgrado quell'apparente aura di santità, Lucrecia manteneva una vivacità quasi infantile che a Bembo piaceva moltissimo. Ora che lui si trovava spesso ospite alla corte di Ferrara per intercessione di Ercole Strozzi, aveva avuto modo di scambiare spesso qualche battuta con la moglie di Alfonso Este, anche se sempre in presenza di altre persone, e doveva ammettere di aver scoperto in lei un'interlocutrice molto più vispa e arguta di Isabella, Marchesa di Mantova.

Quella volta, invece, la Borja esitava. Lo guardava di sottinsu e poi arrossiva, senza dire nulla. I suoi occhi dolci guardavano dalla finestra e poi correvano di nuovo a lui, ma per restare fermi solo qualche istante, finendo per correre di nuovo via, come spaventati.

Pietro, avvezzo ad avere a che fare con le giovani donne e amando anche quel genere di atteggiamenti, che spesso preludevano a qualcosa di molto piacevole, attendeva in silenzio, sorridente e tranquillo. Se qualcuno, pensava, li avesse trovati lì, gli sarebbe bastato mettersi a decantare questo o quel poeta antico, o a declamare una delle poesie scritte da lui stesso, come aveva fatto molte altre volte in occasioni analoghe. La sua fama di letterato, unito al suo abito da religioso, erano bastati a farlo passare per innocente perfino quando non lo era.

Stava giusto ricordando i lunghi abboccamenti con Isabella Este, moglie di Francesco Gonzaga, e la sua mente stava già correndo una volta di più alla sua amatissima Maria Savorgnan, gentildonna veneziana, che proprio a causa di un viaggio a Ferrara, nel febbraio dell'anno prima, l'aveva lasciato, trovando un altro uomo disposto ad amarla. Anzi, pensò con un velo di irritazione Pietro, ad amare lei e il cane che lui le aveva donato e che lei, ancora travolta dalla passione, aveva chiamato giocosamente Bembino...

“Dunque... Dunque voi siete quel Bembo che tanto piace a mia cognata Isabella...” iniziò finalmente a dire Lucrecia.

Pietro, abbassando gli occhi in un atteggiamento di pragmatica pudicizia, rispose: “Ah, dicono che le piaccia?”

“Così dicono...” annuì la Borja, di nuovo in difficoltà, rendendosi conto di aver iniziato con il piede sbagliato quel dialogo.

Aveva atteso per così tanto tempo il momento giusto per avvicinarlo e, ora che l'aveva accanto, tutta l'arguzia e l'agilità mentale che voleva dimostrargli si erano volatilizzati, lasciando il posto a quelle chiacchiere da pettegola, facendola sembrare una dama di corte qualsiasi e non la figlia di un papa e la sorella dell'uomo più potente d'Italia.

“Io parlo poco con mia cognata, in realtà...” riprese la giovane, pensando che parlare a cuore aperto l'avrebbe resa più sciolta: “Ho la sensazione che Isabella mi odi.”

Bembo si fece di colpo serio. Scorgendo il cambiamento d'espressione anche sul viso di Lucrecia, si arrischiò ad allungare una mano verso di lei. Anche se all'inizio il suo istinto era stato quello di sfiorarle il viso, alla fine preferì indirizzare il suo gesto più di lato, verso la spalla, in modo da apparire meno invadente.

“Non dite così...” provò a dire l'uomo, sinceramente colpito dal dolore che traspariva dagli occhi della Borja.

“Perché non dovrei?” chiese lei, con rabbia, sorprendendosi di come fosse facile parlarne con quell'uomo, per lei quasi uno sconosciuto, piuttosto che con suo marito o con una delle sue dame da compagnia: “Credo che si la verità... Lei mi odia e non posso far nulla per cambiare questo fatto. Io sono convinta che fosse felice, quando ho... Quando ho perso... Il bambino.” concluse, faticando a non cedere alle lacrime davanti a quella verità che da settimane le pesava sul cuore e che, finalmente, trovava voce.

“Non credo si possa odiare un essere celestiale come voi.” ribatté con fermezza Pietro, tenendole ancora la mano sulla spalla.

“Celestiale?” chiese allora Lucrecia, sollevando le sopracciglia: “Si vede proprio che ancora non mi conoscete.”

“E allora lasciate che vi conosca.” sussurrò lui, avvicinandosi.

La Borja si sentì all'improvviso sopraffatta. Pietro era così vicino che, se l'avesse voluto, l'avrebbe potuto baciare. Stava provando, in quel silenzio, una vicinanza che non era solo quella dei corpi, come le succedeva con Alfonso. Con suo marito aveva un'intesa invidiabile e, malgrado tutto, desiderava costantemente la sua compagnia, specie in quelle lunghe notti di novembre, nonostante fosse ancora addolorata per la perdita del figlio e avesse ancora qualche acciacco fisico che, a detta dei medici, l'avrebbe accompagnata a lungo. Con Alfonso, però, mancava del tutto un'intesa intellettuale. Non litigavano, ma non andavano nemmeno d'accordo. Per il momento tutto il loro equilibrio stava nel desiderarsi reciprocamente e nel lasciare che l'altro, di giorno, facesse la vita che preferiva, senza interferire l'uno nei progetti dell'altra.

Bembo, con la sua mente brillante e il suo fare gentile, la stava destabilizzando. Eppure era stata lei a cercarlo, lei a volergli parlare senza testimoni, lei a...

Lucrecia sentì appena il calore delle labbra di Pietro, ma non poté andare oltre a un brevissimo contatto, perché dei passi rapidi la portarono non solo a scostarsi, ma anche a lasciare l'alcova in cui erano entrambi appollaiati.

Sistemandosi in fretta, come se quel leggero sfiorarsi l'avesse messa sottosopra, la giovane piegò appena le ginocchia in segno di saluto, e se ne andò in fretta.

Fu così rapida che quando Ercole Strozzi arrivò nella saletta, lei era già lontana.

“Che avete da fare quella faccia, amico mio?” chiese, guardando Bembo.

Questi, trasognato, si morse il labbro che ancora formicolava al ricordo del bacio quasi conquistato, e rispose: “Nulla, pensavo all'amore...”

“Scriverete altre poesie sulla vostra bella Maria?” chiese lo Strozzi, con una mezza risata, trovando quell'occupazione di Pietro quasi puerile.

“No, non su di lei...” sorrise l'altro e, lasciando infine i cuscini caldi e morbidi, silenziosi testimoni dell'inizio di qualcosa di importante, sospirò: “Mi piace Ferrara... Credo che resterò più a lungo del previsto... Quando avete detto che inizieranno le feste da ballo?”

“La stagione inizia a gennaio.” rispose quello, un po' sorpreso dalla domanda: “Credo che anche io ne darò uno, per quel mese...”

“Buono a sapersi.” fece Bembo: “Manca poco più di un mese... Posso resistere.”

“Ne sono felice...” commentò, un po' confuso, Strozzi, e poi gli ricordò: “Torneremo al mio palazzo tra un un'ora... Vi prego di farvi trovare pronto. Il nostro Alfonso non vuole trovare tanti cantastorie in giro per casa, quando torna, dopo una giornata passata a fondere anime di colubrine...”

“Cantastorie...” sbuffò divertito Pietro: “Qui non ne vedo, di cantastorie...”

 

Fortunati lesse con attenzione la missiva di Gian Piero Landriani appena arrivata da Milano. Gli sembrava che le notizie fossero ottime, perciò non comprendeva appieno l'apprensione dimostrata da Caterina, quando gli aveva chiesto di darle un suo parere a riguardo.

Anche in quel momento, nella camera poco illuminata, mentre stava nel letto accanto a lui, la Tigre era nervosa, in attesa di un suo commento. Aveva riletto ogni riga da sopra la sua spalla e faticava a trattenersi dal chiedere subito cosa ne pensasse.

Lasciato passare qualche minuto in più del necessario, il piovano, che indossava ancora gli abiti di quel giorno, si accigliò e disse: “Mi sembra una buona cosa... Certo... Bisognerà sistemare qualcosa e pensare bene a come sistemare tuo nipote...”

“Pier Maria resterà qui con me finché sarà necessario.” ribatté subito la donna: “Mia figlia è d'accordo e il De Rossi farà bene a esserlo, se non vuole che si complichi tutto...”

Francesco tenne per sé una considerazione banale, ma che non poteva smettere di fare tra sé, ossia che Caterina trattava Pier Maria come se fosse il suo unico nipote, mentre la povera Cornelia, ancora alle Murate, le sembrava del tutto estranea.

Con un respiro profondo, il fiorentino rilesse le date – seppur abbastanza vaghe – indicate dal Landriani. L'uomo sosteneva che il Trivulzio avesse combinato tutto quanto e che avesse ottenuto anche i formali permessi per il matrimonio tra Bianca e Troilo già a inizio novembre, ma che stesse aspettando un momento a comunicare anche a loro le decisioni prese per paura che all'ultimo minuto qualcosa andasse storto.

“A me sembra un buon compromesso...” rimarcò il piovano: “Se si sposeranno per febbraio o per marzo, abbiamo tutto il tempo di...”

“Ma hai letto cosa pretende il papa?” chiese allora la Sforza, prendendogli la lettera di mano e indicandogli il punto esatto che l'aveva fatta rabbrividire: “Vuole che si sposino a Roma. A Roma, hai capito? Dove io non ho alcuna possibilità di recarmi e dove non ho alcun amico che possa definirsi tale... Nemmeno Raffaele è a Roma, al momento...”

“A Roma c'è Baccino...” provò a consolarla l'uomo: “Lui potrebbe fare in modo di vegliare su tua figlia... In fondo lavora per un prelato e...”

“Baccino... Non ho più sue notizie da mesi. Credi davvero che si metterebbe a fare la guardia a mia figlia se glielo chiedessi?” sbuffò Caterina, scuotendo il capo e lasciandosi andare contro lo schienale del letto.

Fortunati, che in quel talamo – a cui era stato staccato il baldacchino per espresso volere della proprietaria – a volte si sentiva ancora un intruso, si schiarì la voce e ammise, suo malgrado: “Io credo di sì. Farebbe qualsiasi cosa per te, se glielo chiedessi.”

“Vorrei che fosse qui... Che ci fosse stato fin da subito...” sussurrò la donna, senza pensare all'eventuale effetto delle sue parole sul piovano.

Questi, infatti, si irrigidì e notò, con acidità: “Certo, se avessi avuto lui fin da subito non ti saresti mai abbassata a pretendere che io diventassi il tuo amante...”

Buttando gli occhi al cielo, la Leonessa si scusò per quello che aveva detto e sostenne di essere stata fraintesa e poi tornò alla carica: “Credi che sia saggio lasciare andare Bianca a Roma?”

“Da quello che posso capire io – fece Francesco, ben felice di accantonare l'ombra di Baccino – il papa non aspetta altro che avere un'occasione come questa per umiliare la tua immagine. Farà sembrare Bianca una bestia al macello, ma dubito che oserebbe farle del male... Si metterebbe contro di nuovo il re di Francia, cui ha fatto una corte tanto serrata da meravigliarsi che non siano proprio il papa e re Luigi a convolare a nozze... No, per conto mio, tua figlia dovrà stringere i denti, ma poi partirà per l'Emilia sana e salva.”

“Spero davvero che sia come dici.” sospirò allora la milanese.

“Piuttosto...” fece a quel punto l'uomo, riprendendo la lettera del Landriani, ripiegandola e andando a metterla sulla scrivania: “Bernardino è in città con Scipione già da qualche giorno... Quando tornerà?”

“Non me l'hanno ancora detto.” rispose la Sforza, mentre il piovano tornava a letto e si copriva un po', per far fronte al freddo già dicembrino: “Ma Scipione mi ha mandato un messaggio ieri, per dirmi che va tutto bene...”

“Ti rendi conto che Bernardino potrebbe cacciarsi in qualche guaio?” chiese Francesco, guardandola di sottecchi alla luce del camino acceso: “Dubito che la notte se ne stia tranquillo sotto le coperte...”

“Bernardino sa cavarsela.” tagliò corto la Leonessa: “E se non riesce a star tranquillo, è meglio che si sfoghi... Ho chiesto a Scipione di anticipargli dei soldi, se li chiedesse... Penserò poi io a saldare il debito.”

Fortunati rimase qualche istante in silenzio e poi chiese: “E a cosa dovrebbero servire dei soldi a un bambino di dodici anni?”

“Non è più un bambino...” soffiò Caterina, a disagio nel parlarne con il fiorentino che, malgrado tutto, nel discutere di certe cose non riusciva a dimenticare il suo ruolo di inflessibile religioso.

“Mi staresti dicendo che saresti felice di pagare i conti lasciati da Bernardino in locande e postriboli?” chiese allora, sgranando gli occhi, il piovano.

“Non ho intenzione di perdere anche lui.” sbottò la Sforza, guardando da un'altra parte: “Non posso remare contro alla sua inquietudine. Posso solo vegliarlo da lontano e cercare di...”

“A Firenze pullulano i casi di mal francese – prese a elencare Francesco – e non passa notte che qualcuno non venga ferito o ucciso in una rissa. Credi che i bassifondi di Firenze siano accoglienti come quelli di Forlì, per lui? Non ha il suo nome a proteggerlo qui... E se comincia a cercare certe compagnie potrebbe ammalarsi e...”

“Smettila!” lo zittì la Leonessa: “Non è tuo figlio e non hai alcun diritto di dirmi come fare la madre!”

L'uomo tacque. Passarono alcuni minuti carichi di tensione in cui nessuno dei due parlò più. Alla fine, come sfinita, Caterina si avvicinò a Francesco e gli diede un rapido bacio sulle labbra.

“Non voglio essere arrabbiata con te.” dichiarò e poi, baciandolo con più insistenza: “Perciò cerca di non farmi arrabbiare.”

Quella logica, profondamente egoista e ingiusta, non turbò più di tanto Fortunati che, malgrado tutte le sue belle proposizioni di rettitudine, da tutto il giorno non aspettava altro che il momento di giacere con la donna che amava, tra lenzuola fresche di bucato e con lo scoppiettare del fuoco del camino a far loro compagnia.

Così, preso dall'entusiasmo del momento, rendendosi conto che nonostante il battibecco, la milanese era del tutto intenzionata a concludere la giornata nello stesso modo in cui si era augurato lui, il piovano la strinse tra le braccia, affondando il viso nel suo collo e le bisbigliò: “Fai di me quello che vuoi, Tigre...”

Nel sentire quell'epiteto uscire dalle labbra del suo amante, la Sforza si fermò. Prendendogli il volto tra le mani lo costrinse a guardarla. Ormai nemmeno lei voleva rinunciare alla sua compagnia, ma non poteva tacere.

Troppe volte Ottaviano Manfredi l'aveva chiamata Tigre, preferendo quel soprannome – per molti dal significato negativo – al suo vero nome...

“Non chiamarmi mai più così.” intimò la Leonessa, il respiro un po' irregolare, mentre Francesco restava immobile ad ascoltarla: “Men che meno a letto. Solo a un uomo ho permesso di farlo, e non sei tu.”

Quell'accenno riportò finalmente anche alla mente del piovano l'abitudine inveterata di Manfredi e quell'ulteriore confronto con uno dei vecchi amanti della Tigre gli bastò per tornare a sentirsi inadeguato e insufficiente. Cosa ci faceva su quel letto? Perché Caterina era tra le sue braccia, malgrado potesse avere di meglio? Che cosa stava facendo?

La donna colse il suo smarrimento e temette di vederlo alzare e andar via da un momento all'altro, così, senza dargli altro tempo per pensare, lo baciò una volta di più e, togliendogli ogni iniziativa, lo fece stendere supino e si mise al comando, come aveva fatto per la maggior parte della sua vita.

 

Non era stato facile per Gian Giacomo trovare una giornata libera da poter dedicare a quelli che riteneva suoi affari privati. Da quando era stato abbinato ad Antoine De Baissay nel Governo di Milano, per il Trivulzio non c'era più stata un'ora di pace.

Certo, da un lato era molto lusingato dalla decisione del re, che, evidentemente, si fidava ciecamente di lui, e trovava che per i suoi oltre sessant'anni quella carica fosse un riconoscimento importante, tuttavia cominciava a essere stanco di riunioni e cerimoniali. Gli mancava il campo e la guerra, gli mancavano le cavalcate in armatura e, perfino, i disagi di una vita da esule.

Era stato a malincuore che aveva rifiutato l'allettante offerta fiorentina ricevuta pochi giorni addietro. La Repubblica gli aveva proposto una condotta molto vantaggiosa, per averlo alla guida dell'esercito in un'offensiva contro i pisani. Gian Giacomo aveva riflettuto a lungo sull'accettare o sul declinare e alla fine aveva prevalso il suo desiderio di non rovinare ciò che aveva costruito in anni e anni di fatica e pazienza. Era vero che il lavoro di governo lo estenuava, ma era altrettanto vero che se si fosse ritirato da Milano per imbracciare di nuovo le armi – per altro per prendere parte a una guerricciola di cui tutti si sarebbero presto scordati – alla sua veneranda età sarebbe stato da sciocchi.

Stava ancora pensando al misto di sentimenti strani che aveva provato, nel rifilare un no al messo fiorentino, quando finalmente vide arrivare il suo amico Troilo.

Avevano deciso di incontrarsi lì, in aperta campagna, al limitare tra la Lombardia e l'Emilia, per far sì che nessuno dei due dovesse fare troppa strada. Perfino il clima era stato loro alleato in quel frangente e, malgrado il cielo grigio, nessuno dei due aveva trovato nebbia o pioggia sul proprio cammino.

Smontando di sella, il De Rossi diede un paio di ordini veloci al suo scudiero che, ubbidiente, prese anche il suo cavallo e si andò a mettere in un punto abbastanza lontano, vicino a un gruppo di alberi. Anche il Trivulzio congedò momentaneamente i due uomini di scorta che aveva con sé e si apprestò a salutare l'emiliano.

Dandosi un rapido abbraccio, i due si sorrisero e poi Gian Giacomo chiese: “Allora, come stai?”

“Voglio andare da lei.” rispose senza preamboli l'altro.

Il più anziano strinse le labbra e gli dedicò un'occhiata di rimprovero, mettendosi poi a camminare, convinto che passeggiare avrebbe reso la loro chiacchierata più agile: “Non devi essere precipitoso, amico mio, ascolta me, che potrei essere tuo padre..!”

Il De Rossi abbassò lo sguardo, mettendosi al suo passo, e tenendo per sé un commento acido, con cui avrebbe voluto ricordare al Trivulzio tutti i figli che aveva sparso per l'Italia e di cui si occupava solo economicamente. Non parlò, però, non volendo essere scortese con un uomo che, veramente, gli aveva saputo fare da maestro e da guida.

“Ho sentito dire che Ludovico il Moro è più grasso che mai...” sospirò Gian Giacomo, prendendo il discorso alla lunga.

“Non pensavo che nelle prigioni di Lys Sanit George si mangiasse bene...” commentò Troilo, sollevando le sopracciglia: “Se mai dovessero farmi prigioniero, chiederò di andare a Bourges allora...”

Il Trivulzio fece una breve risata e concluse: “Non credo si mangi bene, ma Ludovico è sempre stato un topo... Non avrà fatto fatica ad abituarsi a vivere in una fogna.”

Nemmeno l'emiliano apprezzava il Moro, visto soprattutto quel che aveva fatto nella zona di San Secondo, distruggendo quel poco che era stato lasciato in piedi da chi lo aveva preceduto, tuttavia il suo amore per Bianca Riario, che per metà era una Sforza, lo portò a dire: “Parole molto dure, per un milanese...”

“Sono milanese, è vero – lo corresse il Trivulzio – ma non ho mai avuto stima del Moro. Di altri Sforza sì, ma di lui mai.”

I due uomini camminarono ancora per qualche minuto, indicando a turno piccoli uccelli di fiume o conigli che spuntavano qua e là tra i campi.

Dopo un paio di battute su quanto sarebbe stato bello potersi concedere una battuta di caccia più a nord, nella zona di Varzi, dove il compianto Duca Galeazzo Maria Sforza era solito cacciare orsi, Gian Giacomo decise di arrivare al dunque.

“Il vostro matrimonio è già deciso, ho ottenuto tutti i permessi, indicando me stesso come sensale dell'accordo.” spiegò, mentre Troilo si faceva silenzioso e lo fissava: “Il re non ha fatto grossi problemi, ma il portavoce pontificio è stato più fastidioso.”

Con il fiato trattenuto, il De Rossi si rimise a guardare in terra, pronto a sentire il peggio.

“Per fartela breve, amico mio, bisognerà accontentare anche i Borja, con un po' di spettacolo, altrimenti vi renderanno la vita impossibile.” disse il Trivulzio, cupo.

“Che vuole il papa?” nella mente del più giovane si stavano affastellando immagini di ogni tipo, una peggiore dell'altra, perciò si impose di smettere di fantasticare e di aspettare, invece, la risposta dell'altro.

“Vuole organizzarvi una cerimonia in grande stile, a Castel Sant'Angelo e pare che fisserà un numero notevole di testimoni per la messa a letto...” spiegò, scalciando un po' la terra fangosa, Gian Giacomo: “Vuole che sia l'apoteosi dell'umiliazione della Tigre di Forlì: la figlia venduta ai vincitori...”

Troilo pensò a Bianca, e in un lampo si sentì rincuorato, per quanto colmo di rabbia e dolore per quell'affronto: “Lei è forte, non si farà intimidire.”

“Però dovrete pensarci bene, e stare attenti a non sollevare troppe domande...” sospirò il Trivulzio, fermandosi e mettendo le mani sulle spalle dell'amico: “Quelli la vogliono vedere piangere e disperarsi, la prima notte di nozze, te ne rendi conto? Guai a voi se qualcuno si avvedesse che la tua amata ti desidera, o che non è del tutto illibata o, ancora peggio, che ha già partorito un figlio!”

Il De Rossi annuì, pensando che nessuno meglio della sua futura suocera, Caterina Sforza, avrebbe saputo cosa consigliare loro per rendere la recita perfetta. E il bambino, per quanto fosse già disperato all'idea, sarebbe rimasto a sua volta dalla Leonessa finché sarebbe stato necessario: sarebbe stato al sicuro e amato e tanto doveva bastargli.

“Quando ci sposeremo?” chiese l'emiliano, come se ancora la fretta di averla tra le sue braccia fosse l'unica cosa che importasse.

“Partirete per Roma non prima di gennaio. O almeno... La sposa arriverà a Roma per fine gennaio e poi a febbraio ci saranno banchetti e feste e tutte quelle cose che fanno a Roma quando si sposa qualcuno di importante...” elencò il Trivulzio: “E poi a marzo ci sarà la cerimonia finale e mi auguro che nel giro di poche settimane possiate ripartire.”

Troilo si adombrò, convinto che quelli che gli si prospettavano sarebbero stati tra i mesi più difficili della sua vita. Se gli era sembrato difficile recitare la parte del gentiluomo compiacente alla corte del re di Francia, fare la parte del marito borioso e brutale davanti agli occhi del papa sarebbe stato doppiamente orribile.

“Tramite Gian Piero Landriani – riprese il Trivulzio dopo un po' – ho saputo che la tua futura sposa vorrebbe rivederti presto... E così tuo figlio.”

Il De Rossi fece un sorriso riluttante e annuì: “Anche io voglio vederli entrambi.”

“Secondo me sarebbe una buona idea partire appena prima di Natale, passare da Firenze... Con discrezione, senza entrare in città, stare con loro qualche giorno e poi partire per Roma, anticipandola e preparandole la strada...” consigliò il milanese.

A quelle parole Troilo si aprì finalmente in un sorriso vero ed esclamò: “Vorrei fosse già Natale!”

   
 
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