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Autore: Adeia Di Elferas    09/10/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanna da Montefeltro guardava di traverso il profilo di Andrea Doria. Quel ligure non l'aveva mai convinta del tutto, benché, di fatto, fino a quel momento non avesse dato prove oggettive di essere in malafede o di essere un incapace.

Anche nel momento in cui lei e suo figlio, il dodicenne Francesco Maria Della Rovere, erano rientrati a Senigallia, era stato il Doria a scortarli fino alla rocca e fin da subito si era detto umile servo loro. Eppure c'era qualcosa nel profilo triste di quell'uomo che alla sorella di Guidabaldo Maria da Montefeltro proprio non piaceva. Forse era per colpa del naso, che sembrava iniziare già in mezzo alla fronte, dividendo orribilmente gli occhi, oppure per il mento che curvava con decisione verso l'alto e che nemmeno la fitta barba riccia lasciata crescere dall'uomo riusciva a mascherare...

“Non è nemmeno da dire – riprese Andrea, convinto che, fino a quel momento, la donna l'avesse ascoltato con attenzione – che se le cose dovessero cambiare repentinamente, voi e vostro figlio ve ne andrete immediatamente. Io resterò a tenere la cittadella finché sarà possibile, invece.”

Giovanna si trattenne dal fare qualche commento sgradevole che avrebbe rischiato di mettere in dubbio la lealtà del condottiero, così si limitò ad annuire e sussurrare: “Staremo a vedere...”

La Montefeltro e il Doria erano in piedi l'uno accanto all'altra in un angolo riparato del cortile interno. Era stata la vedova di Giovanni Della Rovere a chiedere di restare lì a discutere, piuttosto che andare in una delle sale interne, perché, malgrado nevischiasse e facesse un gran freddo, da lì poteva vedere il figlio giocare con alcuni garzoni di stalla, e questo, per lei, era fondamentale.

Aveva imparato, dalla fuga rocambolesca da Urbino, a non perderlo mai di vista. Quella volta si erano mossi per tempo e una stretta sorveglianza del ragazzino le aveva permesso di impedirgli passi falsi, mentre sfuggivano all'inseguimento serrato degli uomini del Borja, camuffati da cacciatore e da pastore. Fosse stato per Francesco Maria, tanto per dirne una, si sarebbero fermati a parlare con tutti i cacciatori incontrati sulla via, per fare domande riguardo alle armi e, soprattutto, a come uccidere le diverse bestie del bosco.

Quella volta, non fosse stato per Guidobaldo, che era stato inflessibile nell'imporgli il silenzio, la loro fuga sarebbe finita in fretta e molto male...

“Senigallia non deve cadere mai più nelle mani del Valentino.” disse a voce bassa Giovanna, guardando il Doria con aria eloquente: “Mai più.”

“Lo credo anche io, mia signora.” annuì subito lui che, con i suoi trentasei anni portati malissimo sembrava già un anziano veterano: “Per questo vi suggerisco, se i venti cambieranno, di lasciare la città a me e scappare.”

La Montefeltro strinse le labbra: “Ora che Giovanni Maria da Varano ha ripreso Camerino, e mio fratello Guidobaldo ha recuperato San Leo, Maiolo, Sant'Agata, San Marino e, soprattutto, Urbino, è il momento di essere forti e uniti... Non sarebbe stato male se quel buono a nulla del Malatesta avesse ripreso Rimini, invece di arrendersi alla prima difficoltà...”

“Il problema è che finché il Valentino ha il suo quartier generale a Imola e Forlì, noi saremo in pericolo costante.” fece notare Andrea, entrambe le mani poggiare sul pomo dello spadone che portava al fianco: “Se la Tigre di Forlì avesse in animo di marciare sulla Romagna...”

“Ma che animo volete che abbia!” sbottò la Montefeltro, di pessimo umore: “Quella donna non esiste più... Dicono che passi le sue giornate a curare neonati e pregare con le suore... Casomai si dovrebbe spingere per uno dei suoi figli... Alcuni informatori mi dicevano che uno dei mezzani, quello che si chiama Galeazzo, potrebbe...”

La donna non finì la frase, perché delle grida attirarono la sua attenzione. Aveva osato distogliere lo sguardo da Francesco Maria per pochi istanti e subito doveva pentirsi della propria leggerezza.

Il ragazzino teneva un gatto con una mano e gli puntava un pugnale al ventre. I due garzoni di stalla che giocavano con lui – più o meno suoi coetanei – gridavano e imploravano pietà per quel felino che, per loro, non era solo uno strumento per ridurre la popolazione murina della rocca, ma anche e soprattutto un amico da coccolare e con cui sonnecchiare insieme nelle stalle.

La Montefeltro ci mise qualche secondo di troppo a intervenire e, coperto dalle grida di uno dei due garzoni e dal pianto disperato dell'altro, Francesco Maria rise e squarciò di netto la pancia pelosa del micio.

Mentre il sangue e le viscere sporcavano il suolo già bianco di neve e gli abiti del giovane Della Rovere, Giovanna scattò in avanti e, tardiva, ma implacabile, prese per un polso il figlio e lo strattonò, costringendolo a lasciare la carcassa del povero gatto. Mentre i due garzoni, con gli occhi gonfi di lacrime e a stento capaci di trattenersi dal picchiare il loro futuro signore, recuperavano il cadavere del piccolo amico, la madre di Francesco Maria lo colpì con forza in viso.

La guancia arrossata, il Della Rovere non fece una piega, continuando a guardare gli altri due ragazzini, ridendo di loro e chiamandoli 'deboli' e 'piagnucoloni'.

La Montefeltro allora lo schiaffeggiò ancora una, due, tre volte, fino a farsi venire il fiato corto, ma il figlio non smetteva di ridere. Sopraffatta dalla rabbia per quel comportamento, che non rappresentava un episodio isolato, la donna fece segno a Doria di avvicinarsi.

Questi, titubante, si fece avanti e attese ordini, così Giovanna decretò all'istante: “Vi affido mio figlio fino a questa sera. Fategli pulire il disastro che ha fatto e poi fatelo addestrare coi vostri uomini, finché non avrà più forze.”

Indispettito per aver ricevuto quel tipo di disposizione, l'uomo annuì comunque e guardò impotente la donna andarsene al caldo dentro la rocca.

Rimasto solo con Francesco Maria, che ancora ridacchiava, gli chiese: “Perché l'avete fatto? Che bisogno c'era..?”

“Perché è divertente...” rispose lui, guardandolo coi suoi occhi tondi, sormontati da sopracciglia quasi invisibili, che, forse, si sarebbero infoltite solo quando fosse diventato un uomo.

Doria stava per ribattere in qualche modo alla sconcertante risposta ottenuta, ma il ragazzino riprese a ridere con forza, tanto da doversi mettere le mani sulle ginocchia: “Che avete da ridere ancora?!” gli chiese, esterrefatto il condottiero.

“Sto pensando a quando farò al marito di mia sorella la stessa cosa che ho fatto a questo gatto...” si affrettò a spiegare il Della Rovere.

“E perché mai dovreste..?” provò a chiedere Andrea, sempre più sconvolto da quel ragazzino, che di ragazzino non aveva quasi nulla.

“Be'... Perché...” rispose lui, fingendo di pensarci e poi, scoppiando di nuovo a ridere: “Perché mia sorella Maria Giovanna è mia, no? Che stupido che siete...”

 

Mentre raggiungeva il suo studiolo, Lorenzo il Popolano stava ancora ripensando alla notizia arrivata di fresco in città quella mattina, ossia la cacciata – avvenuta con una facilità estrema – di Giovanni Maria da Varano da Camerino. Erano stati Vitellozzo Vitelli e Oliverotto Euffreducci, di concerto con Paolo Orsini, a riprendere la città, mettendo fine, forse, una volta per tutte al dominio dei Varano.

Quella vittoria facile andava a rafforzare la posizione del Valentino e, soprattutto, avrebbe dovuto togliere ogni dubbio circa la ritrovata fedeltà da parte dei condottieri che avevano osato ribellarsi al loro comandante. Tuttavia al Medici la situazione non piaceva... Aveva sentito dire, per esempio, che il Vitelli, pur avendo preso parte alla riconquista di Camerino, persisteva nel mettere uomini a protezione di Città di Castello affinché il Borja non provasse a occuparla. Inoltre Oliverotto, per quanto fosse tornato al soldo del papa, con una condotta da millequattrocento fanti e seicento cavalleggeri, sembrava riottoso a prendere ordini e si diceva che stesse facendo proposte d'azione a raffica, adombrandosi ogni volta in cui gli veniva detto di starsene invece tranquillo e in attesa di ordini.

In tutto ciò, Miguel de Corella, braccio destro del Valentino e suo più fidato amico, avrebbe dovuto supervisionare l'operato dei condottieri, ma per il momento pareva avesse solo incontrato brevemente Oliverotto, proprio per ridimensionarlo, per poi ripartire veloce come il fulmine in direzione di Pesaro e Fano, dove aveva dato il soldo alle truppe, dopo aver confiscato ventimila ducati a Ramiro de Lorca, portandolo poi addirittura a Cesena in catene.

Il Medici, dalle notizie arrivate a Firenze frammentarie e incerte, non aveva capito a fondo il motivo di quell'arresto, ma per lui non aveva importanza. Ciò che gli interessava estrapolare da tutte quelle informazioni era lo stato di salute del potere del Borja. Si stava legando sempre più a filo doppio a lui e ai francesi, lavorando sullo sfondo, alla Signoria, per spingere Firenze sempre più dalla sua parte... Vedere scricchiolare il proscenio mentre lui si affaccendava dietro le quinte non era rassicurante...

A renderlo ancora più nervoso e sfiduciato c'erano le continue ramanzine dei suoi avvocati, che volevano dissuaderlo a tutti i costi dal far riaprire in gennaio il processo contro la Tigre di Forlì. Coi loro paroloni aulici, gli avevano fatto presente che, tanto, la maggior parte dei soldi facenti parte l'eredità del compianto Giovanni li aveva già spesi e che le proprietà immobiliari, lasciate in un limbo per anni, stavano diventando ormai una zavorra più che una fonte di reddito, la villa di Castello compresa.

Lui si ribellava sempre al loro buon senso sbraitando bestemmie e facendo loro presente che li pagava per fare quello che voleva lui e non per mettergli i bastoni tra le ruote. Aveva atteso mesi per far riaprire il processo, aveva dovuto aspettare di avere un basso profilo, ma una forte influenza sui notabili fiorentini e, ora che ci era bene o male riuscito, non poteva tollerare di veder sfumare il suo progetto.

Arrivato finalmente al suo studiolo, con lo stomaco in fiamme e la testa che doleva come se avesse preso una martellata sulla nuca, Lorenzo fece un cenno al delatore che l'aspettava di sedersi pure.

Messosi a sua volta comodo, si premette le dita su una tempia e chiese: “Allora che novità ci sono?”

L'uomo, togliendosi con lentezza i guanti e guardando il suo padrone con un'espressione quasi annoiata, rispose: “Alla villa è tutto come sempre... Come sapete è tornata la figlia e con lei è arrivato un neonato, che dicono sia di Ottaviano.”

“E lo è davvero?” chiese, nervoso, il Popolano.

Quando, qualche giorno addietro, gli era stato detto dell'arrivo di un bambino alla villa, si era illuso che potesse trattarsi di Giovannino. Fosse stato così, sarebbe stato facile sguinzagliare qualcuno dei suoi e farlo rapire, per mettere fine una volta per tutte alle pretese della Sforza. Poi, invece, aveva scoperto che si trattava di un neonato e ogni sua velleità si era spenta.

“Ma siamo sicuri che sia la verità?” chiese il Medici: “Non potrebbe essere un figlio di quella cagna? Non potrebbe aver nascosto una gravidanza, per paura che potessi usarla come capo d'accusa per...”

“No, no, la Leonessa di Romagna non ha partorito, di questo siamo sicuri.” rispose la spia, pensando anche al modo categorico con cui Creobola, chiamata a rapporto, aveva negato, ribadendo che quel neonato era il figlio sfortunato nato da una braveria di Ottaviano Riario.

“Ci sono stati altri movimenti strani?” si informò Lorenzo, prendendo il tagliacarte e iniziando a giocherellarci, per non pensare alla cefalea che stava diventando insopportabile.

“No.” rispose il delatore, pensando poi che invece valesse la pena aggiornare il suo signore su un'ultima cosa: “Avete presente il viaggio fatto da Creobola qualche settimana fa? Quello che non aveva voluto giustificare? Dice che la Sforza l'aveva mandata in Romagna a impegnare una collana, per avere qualche soldo...”

“Quella meretrice...” sbuffò Lorenzo, trovando comunque la notizia di scarsa importanza: “Riesce ancora a far soldi coi gioielli che mio fratello le aveva ricomprato...”

Non essendoci altro di nuovo di cui discutere, il Popolano congedò il delatore e poi lasciò quasi subito lo studiolo. Voleva prendere la medicina che il suo dottore gli aveva prescritto per il mal di testa, ma non riusciva a ricordare dove l'avesse messa.

Stava per dirigersi verso la propria stanza, quando nell'angolo di una sala vide Semiramide parlare con durezza verso Pierfrancesco che, con gli occhi bassi, ascoltava in silenzio lasciando le guance scarne si chiazzassero di rosso.

Il Medici mosse un paio di passi verso di loro, convinto che fosse meglio per lui sapere quale fosse l'argomento di quella che pareva una ramanzina in piena regola, ma, appena si avvicinò un po' di più, l'Appiani tacque e il quindicenne risollevò il mento, con aria di sfida. Ormai quelli erano gli atteggiamenti che la moglie e il figlio gli riservavano sempre: il silenzio e l'arroganza.

Lorenzo si sentì di colpo un intruso in casa propria. Non provò nemmeno rabbia, ma solo una sorta di dolorosa paura. Li guardò ancora per qualche istante, e Semiramide arrivò perfino a poggiare una mano sulla spalla del suo dinoccolato virgulto, come a volerlo proteggere da chissà quale funesta catastrofe in arrivo.

Senza dire nulla, il Popolano guardò altro e passò oltre, tornando a pensare alla sua mistura per la cefalea.

“Mi tratta come se non fossi nemmeno figlio suo...” disse piano Pierfrancesco, gli occhi puntati verso il punto esatto in cui Lorenzo era sparito.

Semiramide scosse subito il capo: “Non dire così... Tuo padre... In questo periodo è solo molto nervoso e teso... La situazione a Firenze è complicata...”

“Mio padre mi odia.” riassunse, a modo suo, il ragazzo.

L'Appiano squadrò con severità il profilo dritto e un po' squadrato del figlio, trovando che avesse ben poco di Lorenzo, ma molto dei Medici, e gli disse, con fermezza: “Non devi dire così.”

“Ma è la verità.” ribatté lui, di nuovo rosso in viso, ma privo della filiale disposizione a subire che aveva mostrato fino a poco prima.

La donna non riuscì a smentirlo. Aveva paura di suonare poco convincente. Senza contare che, ormai, anche lei era convinta di essere odiata da Lorenzo.

“Ascoltami...” fece ancora, prendendo il figlio per le spalle e sorprendendosi, come sempre, di trovarlo già così più alto di lei ad appena quindici anni: “Non rovinarti la vita solo perché tuo padre è troppo impegnato per darti attenzione... Devi smetterla, e intendo dire che devi smetterla subito, di passare le notti come fai adesso...”

Pierfrancesco guardò altrove, stringendo il morso. Gli era pesato molto, quella mattina, dover chiedere a sua madre del denaro per ripagare l'oste a cui, quella notte, lui e alcuni suoi amici avevano messo a soqquadro la locanda. Non gli piaceva nemmeno sgattaiolare via da palazzo a tarda sera, né gli piaceva particolarmente svegliarsi al mattino con un cerchio alla testa per il troppo vino e con lo stomaco sottosopra all'idea di quello che aveva visto e fatto durante la notte. Eppure c'era qualcosa di più forte di lui che gli rendeva impossibile starsene tranquillo in stanza. Invidiava molto le sue sorelle – di cui una si era da poco sposata – e perfino suo fratello Vincenzo, che non sembravano avere quella sua stessa incapacità di trattenersi, ma, anzi, apparivano ben felici di essere docili e tranquilli.

Pierfrancesco non riusciva a concentrarsi sugli studi, non aveva stimoli per imparare il lavoro insito nella tradizione della sua famiglia, né aveva passione per la politica. Non sapeva cosa fare, non sapeva cosa dire, non sapeva cosa pensare... Era come se vivesse perennemente in mezzo a una tempesta e l'unico modo per sopravvivere ai marosi fosse muoversi nel modo più caotico e inconsulto possibile.

“Madre...” fece il ragazzo a un certo punto, mentre richiamava alla mente la notte appena trascorsa.

“Sì?” chiese Semiramide, che a sua volta si stava perdendo nei suoi pensieri, sempre rivolti a Lorenzo e al modo in cui era riuscito a rovinare il matrimonio perfetto che avevano costruito in anni e anni di sacrifici e amore.

“Ma il cognome di uno dei figli della Sforza di Forlì è Feo?” chiese il ragazzo, accigliandosi.

Per quanto l'Appiani ne avesse fin sopra ai capelli di sentir nominare la Tigre di Forlì, quella domanda non la trovò sorda, anzi, la portò a rispondere a sua volta con una domanda: “Sì, perché me lo chiedi?”

“Stanotte, mentre ero al bordello...” iniziò a dire il giovane Medici, zittendosi subito dopo e controllando con un'occhiata veloce la reazione della madre a quell'incipit.

“Parla.” lo incoraggiò lei, che dopotutto sapeva benissimo quale potesse essere l'itinerario medio di un ragazzo dell'età del figlio nei bassifondi di Firenze.

“Ho sentito chiamare un ragazzino con quel cognome... Avrà... Non lo so due o tre anni meno di me... E con lui c'era un uomo che chiamavano Scipione.” spiegò lui.

La madre si bloccò un istante. Da quello che sapeva tutti i figli della Leonessa di Romagna, eccetto i due più grandi, erano con lei a Castello... Tuttavia si trattava di una coincidenza particolare... E perfino quello Scipione... Semiramide era sicura di averlo sentito già nominare.

“Non dirlo a tuo padre. Per nessun motivo.” intimò al figlio.

Il ragazzo annuì e restò in silenzio, anche se avrebbe voluto far presente che non parlava al padre nemmeno delle cose importanti, ormai, figurarsi andare a parlargli dei suoi incontri notturni nei peggiori postriboli della città.

“Se dovessi vederli ancora al postribolo o altrove, facci caso.” si raccomandò l'Appiani: “Ascolta quello che dicono e fammi sapere tutto. È importante.”

Il Medici annuì di nuovo, senza capire a fondo il perché di quella richiesta. Si rendeva solo conto che per sua madre era davvero importante e lui, nel suo piccolo, voleva far qualcosa per lei per sdebitarsi di tutti i pensieri che le stava dando.

Dopo avergli dato un bacio in fronte, Semiramide disse al figlio di andare pure e poi, solo quando fu da sola di nuovo coi suoi pensieri, si rese conto, con l'ordine che aveva dato al suo Pierfrancesco, di fatto gli aveva dato anche l'implicito permesso di passar fuori, tra bagordi e braverie, le sue notti insonni.

“Potessi farlo anche io...” si trovò a sussurrare, pensando che, in fondo, sarebbe stato bello per una volta avere la possibilità e il coraggio di dimenticarsi di tutto e di tutti e passare qualche ora senza alcun freno.

Lei, però, era una donna fiorentina ed era in vista e conosciuta da tutti. Per lei non esisteva la possibilità di rilassarsi, men che meno in pubblico. Era una condizione comune a molte donne dell'alta società o della nobiltà, in giro per l'Italia e non solo. Forse era anche per quello che una donna come la Tigre di Forlì aveva acceso la curiosità e aveva esercitato un forte fascino su così tanti uomini... Una donna che si comportava senza badare ai vincoli imposti dal ruolo che il mondo si aspettava che interpretasse senza fiatare...

“La prossima volta – disse tra sé, in un bisbiglio – voglio rinascere stracciona... O, ancor meglio, voglio rinascere Sforza...”

 

Caterina era seduta alla scrivania, per finire di badare alla piccola corrispondenza che aveva accantonato colpevolmente negli ultimi giorni. Rispondeva, nel dettaglio, a una lettera di suo fratello Alessandro, che le chiedeva cosa preferisse in dono, in vista del Natale, se quattro cani da caccia o un cavallo, premettendo che, in quest'ultimo caso, non si sarebbe potuto permettere nulla di più che un mezzosangue o, al massimo, un purosangue, ma anziano.

La Tigre, senza indugio, rispose che avrebbe preferito il cavallo, quale che fosse, e gli chiese se, in cambio, gli sarebbe piaciuto ricevere un paio di brache di cuoio, dato che Bianca s'era dimostrata capace di confezionarle, e aveva del cuoio in avanzo. Si scusò in chisura per non potersi permettere regalo migliore.

Mentre passava alla missiva seguente, di Scipione, che le annunciava che Bernardino sarebbe rientrato alla villa nel giro di due o tre giorni, la Sforza ripensò alla reazione entusiasta di Bianca, quando, poco prima, le aveva detto che Troilo De Rossi, per tramite di Gian Piero Landriani, aveva fatto sapere che sarebbe passato per qualche giorno alla villa, più o meno nel periodo di Natale.

La Leonessa aveva invidiato, per quanto si vergognasse ad ammetterlo, la figlia. L'aveva vista tornare nelle sue stanze quasi volando, per quanto era colma di gioia, e si era sentita invidiosa, profondamente e indicibilmente invidiosa per quella gioia che lei, ormai, non conosceva più.

Malgrado avesse al suo fianco Fortunati, la milanese si sentiva sola. Non aveva verso il piovano il trasporto che aveva avuto verso altri uomini. Gli voleva bene, lo stimava e ormai non avrebbe sopportato di privarsi della sua compagnia, tuttavia non poteva nemmeno paragonare i sentimenti che provava per lui con quelli che aveva provato per Giacomo, o Giovanni, o Manfredi, o anche solo altri amanti che erano durati al suo fianco un po' più di tempo che una sola notte.

Non aveva ancora incominciato a scrivere due righe di risposta alla lettera di Scipione, quando qualcuno bussò alla porta.

Convinta che fosse Creobola, la donna esclamò: “Entra pure, ma i messaggi non sono ancora pronti per essere spediti...”

“Dobbiamo parlare.” fece, invece, la voce di Fortunati.

Sorpresa, Caterina poggiò subito il calamo e si voltò verso di lui: “Non credevo fossi tu... Di solito entri senza bussare...”

Il volto di Francesco era scuro, ma, prima di parlare, l'uomo andò a sedersi sul letto, le mani in grembo. Stava per dire qualcosa, quando gli occhi gli caddero su un qualcosa che stonava, secondo lui, in quella stanza.

Indicando l'inginocchiatoio – usato dalla sua amata come ripiano per posare gli abiti – il piovano domandò: “Cosa sono?”

Caterina sollevò le sopracciglia, mentre il fiorentino si alzava e prendeva in mano l'oggetto del dibattere: “Sono brache di cuoio, lo vedi da te...”

Istintivamente Francesco se le posò addosso e decretò: “Ma mi stanno larghe...”

“Infatti sono per me.” ribatté lei, incrociando le braccia sul petto: “Me le sono fatte fare da Bianca con il cuoio che mi ha regalato Scipione. Per quanto sia difficile lavorarlo, ce l'ha fatta...”

“E a cosa ti servirebbero?” si informò l'uomo, guardandola come se fosse improvvisamente impazzita.

“Per andare a caccia. La sottana è troppo scomoda...” fece lei, sulla difensiva.

“Non se ne parla. Adesso tu non vai da nessuna parte: è troppo pericoloso.” disse lui, agitandosi più del necessario, secondo la Tigre.

“Se volessi, invece, potrei. Creobola e lo stalliere mi coprirebbero. Non se ne accorgerebbe nessuno.” si ostinò lei, mentre Fortunati lanciava le brache sul letto, con sdegno.

“Ma non ti rendi conto della situazione in cui sei?!” sbottò lui, arrivando all'argomento che l'aveva portato a cercarla: “Lorenzo sta facendo istruire un nuovo processo! E tu a che pensi?! Ad andare a caccia vestita da uomo! Cosa credi che diranno i suoi legali, se solo avessero un sospetto a riguardo? Come ti dipingerebbero? Come credi che i fiorentini che fanno parte della giuria ti giudicherebbero? Una donna che va a caccia! Vestita da uomo!”

“Potrebbero insinuarlo comunque, anche se non fosse vero... Quindi perché dovrei rinunciare?” si impuntò lei, benché, nel profondo, stesse già pensando che, forse, quelle brache avrebbe fatto meglio a mandarle davvero al fratello Alessandro, per farsene confezionare un altro paio, eventualmente, a tempesta finita...

“Se vuoi che questa volta Lorenzo si prenda Giovannino e lo ammazzi con le sue mani, allora fai pure! Vai a caccia, vestiti da uomo, organizza anche un baccanale già che ci sei..!” Fortunati, dopo quelle frasi, parve sgonfiarsi.

Si rimise sul letto, le mani in grembo, e rimase in silenzio.

“Comunque, perché mi parli adesso del processo? Ci sono novità?” chiese la Leonessa, accigliandosi.

“Ecco.” rispose lui, prendendo dal tascone dell'abito un foglio ripiegato: “L'hanno appena portato.”

Sudando freddo, la donna afferrò la pagina e lesse in fretta. Era la convocazione alla prima udienza, fissata per l'inizio dell'anno.

“Poco dopo Capodanno...” sussurrò.

“No, Capodanno per noi è a marzo. Ti ostini a ragionare come se fossimo a Milano, ma non è così...” fece eco lui, stremato.

La Sforza si abbandonò a un paio di minuti di turpiloquio nei confronti di Firenze, che il piovano sopportò con stoicismo e, solo quando fu sicuro che la donna si fosse sfogata, si alzò e allargò le braccia.

“Benché non ne abbia alcuna voglia, devo andare a Cascina per qualche giorno, a sistemare delle cose che ho trascurato... E poi andrò a Firenze, per capirci qualcosa di più.” annunciò.

“Quando parti?” chiese Caterina, abituata, ormai, alle partenze repentine e a singhiozzo del piovano.

“Vorrei partire prima di sera...” fece lui, senza guardarla.

“Starai via molto?” indagò la milanese, che, a spanne, aveva calcolato, dalle parole di Francesco, almeno una decina di giorni.

“Non lo so... Credo fino a Natale, più o meno. Probabilmente riuscirò a tornare in tempo per il tuo Capodanno, ma non prima.” rivelò lui, un po' tra i denti.

“E io dovrei restare quasi un mese senza poter cacciare e senza un uomo nel mio letto?” il tono con cui la donna aveva parlato era ironico, ma la sua intenzione, in realtà, era seria, e Fortunati lo percepì.

“Hai resistito anche più di un mese...” le ricordò.

“Sì, quando ero in cella.” ribatté lei, scontrosa.

Il piovano, che pur odiava arrabbiarsi, ma che, con la Tigre, che sembrava in grado di liberare le parti più castigate del suo essere, a volte non riusciva a evitarlo, scattò: “Se proprio non sai trattenerti, portati a letto quello stalliere con cui vai tanto d'accordo! Sempre che tu non l'abbia già fatto! È tanto più giovane e bello di me, vero? Scommetto che quella strega di Creobola vi ha fatto da guardia mentre...”

“Ma come ti permetti di dirmi cose simili?” si difese lei, interrompendolo e faticando a riconoscere Francesco nell'uomo colmo di astio che vedeva davanti a sé.

Fortunati, imponendosi di calmarsi, fece un paio di respiri profondi e poi la guardò: “Perdonami, sono... Mi mette paura, questa situazione. Tutto quanto... Il processo, la precarietà, perfino quello che c'è tra noi a volte mi spaventa.”

Con lentezza, Caterina gli si avvicinò e lo strinse a sé, in un abbraccio che aveva una dolcezza quasi materna e gli sussurrò all'orecchio: “Tu sei un uomo coraggioso. E anche se a volte litighiamo, non dubitare mai del legame che ci unisce.”

Con qualche lacrima silenziosa, Francesco la strinse a sé ancora a lungo e poi, solo quando fu sicuro di riuscire a trattenere il pianto, si ritrasse e assicurò: “Farò del mio meglio, e affronteremo tutto quanto insieme.”

“Insieme.” ripeté la Sforza e, dandogli un veloce bacio, concluse: “Vali più di mille soldati, per me.”

Con ciò che di più simile a una dichiarazione d'amore si potesse aspettare dalla sua Caterina, il piovano abbozzò un sorriso e ammise: “Tu, ormai, vali più di qualsiasi altra cosa...”

   
 
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