l'odore che hai, mi ricorda le case d'estate
.
.
.
.
Casa
matti, interno 3 e mezzo, la chiamavano. Il piccolo
condominio stava arroccato in un angolo dimenticato della
città, un punto
protetto da cui il baccano non poteva più di tanto uscire:
quando lo faceva,
però, era sempre un problema, e infatti la polizia
gliel’avevano chiamata più
volte.
Giorno
non aveva sentito tutte queste storie, che
ribalzavano tra gli studenti con riverenza e sollievo, un tono che
comunicava fortuna
che non ci sono capitato io. Se le avesse sentite, in ogni
caso, forse non
gli avrebbero poi dato così tanto fastidio, abituato da
sempre a barcamenarsi
tra gente strana – creature, le chiamava,
in una maniera distaccata ma
con un poco di affetto di fondo che avrebbe potuto definire empatico.
La
situazione era stata ovvia: il suo proprietario lo stava
sbattendo fuori casa, uno dei dottorandi dall’aria
più affidabile aveva appeso
un annuncio alla bacheca e l’affitto costava poco, persino
meno della sua
attuale sistemazione. Non ci aveva rimuginato troppo, Giorno, e
l’unica visita
all’appartamento l’aveva fatta quando tutti i suoi
occupanti erano fuori a
lavoro. Bucciarati gli aveva detto che li conosceva tutti
personalmente,
garantiva per loro, gli aveva fatto vedere la stanza doppia che avrebbe
dovuto
condividere con un altro ragazzo (per qualche motivo aveva una copia
delle
chiavi, non una copia prestata ma sua, come una
garanzia, qualcuno su
cui ricadere in caso di necessità), e a Giorno sembrava una
sistemazione
accettabile.
Successivamente,
poi, aveva conosciuto i suoi coinquilini.
Era entrato nell’appartamento in un giorno luminoso di inizio
dicembre, carico
di una grossa valigia e due bagagli che quasi lo coprivano
completamente alla
vista, e aveva trovato due dei tre occupanti a cucinare, mentre Born
Gangsta
di Boss usciva ovattata da uno stereo che probabilmente anni fa aveva
avuto una
vita degna di questo nome. Il profumo del sugo era dolce e
l’aroma del basilico
che impregnava l’aria gli aveva fatto arricciare il naso. In
tre avevano
condiviso quel pranzo, trovando a malapena lo spazio per tre piatti sul
tavolo
ricoperto delle più varie cianfrusaglie, tra cui figuravano
carte di caramella,
posacenere, bicchieri mezzi pieni e altri rifiuti. Così
aveva conosciuto Fugo e
Narancia.
Le
cose stavano così: Fugo a suo padre diceva di studiare
giurisprudenza e in realtà lavorava alla gelateria
dall'altra parte del centro.
Ci lavorava tutto l'anno, che tanto i turisti che volevano il gelato
c'erano
sempre, anche in inverno, e quando non c’erano allora passava
a dare una mano
al kebabbaro del locale affianco. Fugo non sembrava così
tanto strano, ma
Giorno si era dovuto ricredere quando lo aveva visto perdere la
pazienza per la
prima volta. Fortunatamente l’oggetto della sua furia
incontrollata non era
nessuno di loro, ma i clienti della gelateria con cui Fugo aveva avuto
a che
fare qualche ora prima, e Giorno aveva continuato a sorseggiare il suo
caffè da
una tazzina scheggiata mentre Fugo incideva con un coltellaccio da
cucina nuove
profonde nicchie nel vecchio tavolo di legno del soggiorno –
finalmente aveva
capito da dove venivano tutti quei buchi.
Poi
c’era Narancia. Narancia non studiava, non ci aveva
neanche provato, e saltava di lavoro in lavoro da quando aveva
terminato la
scuola dell’obbligo: l'avevano preso come apprendista in
un'officina, e gli
andava bene così. Tornava a casa sozzo, sorridente, e
sereno, tre S che
elencava sulla punta delle dita con orgoglio, come se fossero dei
requisiti per
una vita felice. Era il più ciarliero di tutti,
lì dentro, e anche quello che
sembrava propenso a fare più danni. Giorno aveva imparato in
fretta a non
chiedere il resoconto delle spese in condivisione a lui, che per questo
genere
di cose era negato.
La
causa di tutto quanto, e cioè Bucciarati, abitava in
realtà nell'appartamento di fronte. Con lui Giorno non
condivideva neanche il
dipartimento, ma lo aveva raccattato con un annuncio che chiunque
avrebbe
definito nebuloso da principio, e poi, una volta capito di quale
abitazione si trattasse, persino disonesto.
Bruno
quegli annunci li aveva fatti appendere ovunque, ma la
fama dell'interno 3 e mezzo era leggendaria tra gli universitari,
nonostante
meno della metà dei suoi abitanti fossero studenti, e poche
persone erano tanto
disperate da accettare. Giorno, al contrario, non era né
disperato né al
corrente della situazione, e forse proprio per questo si era ritrovato
ad
accettare la sistemazione con tanta serenità
d’animo.
Nell’appartamento
di fronte, e cioè l’interno 3, viveva
anche Abbacchio, che era l’unico con cui Giorno aveva qualche
problema
concreto. Abbacchio non forniva informazioni di sua spontanea
volontà, né
faceva conversazione, ma si limitava a guardarlo con astio ogni volta
che si
incrociavano sulle scale. La presenza di Bucciarati sembrava renderlo
più
propenso al dialogo, come per esempio quella volta in cui li aveva
incrociati
mentre andavano a buttare la spazzatura nei cassonetti poco lontani dal
condominio. La conversazione era andata più o meno
così:
“Non
voglio essere invadente, ma come mai noi siamo in
quattro e voi in due?” Giorno aveva spinto il piede sulla
leva del cassonetto
malandato con tutto il suo peso, che non era poi tanto, mentre guardava
Bucciarati. “Gli appartamenti sono uguali, giusto?”
“Qualcuno
è morto nella nostra seconda stanza tre anni fa,”
si era intromesso Abbacchio, con voce ferma. Giorno aveva sussultato.
“Nessuno
ci vuole stare.”
Il
più giovane dei tre non aveva potuto fare a meno di
chiedersi da quanto tempo loro due abitassero in
quell’appartamento, cercando
di rimettere insieme informazioni sparse raccolte nelle due settimane
precedenti, con una certa angoscia in corpo, ma il suo viso non aveva
fatto
trapelare emozioni particolari. Il silenzio era stato rotto solo dalle
bottiglie di vetro che si spaccavano cadendo dentro il cassonetto, e
Giorno
aveva sentito un po’ di prurito alle mani mentre tornavano
indietro. Non poteva
metterle in tasca, purtroppo, perché qualcosa di appiccicoso
gliele aveva
sporcate.
“L’affitto
è piuttosto basso, però.” Bucciarati
aveva
sorriso leggermente mentre parlava, guardando Giorno con un luccichio
negli
occhi. Abbacchio aveva sbuffato, forse un modo per ridere, e per un
paio di
minuti Giorno si era effettivamente domandato quanto fosse sicura la
sua
permanenza a casa matti.
(Bucciarati,
a spezzare una lancia in suo favore, non si
sentiva un truffatore: pensava semplicemente che gli standard di certe
persone
fossero troppo alti. All’interno 3 e mezzo ci avrebbe
vissuto, anche se non più
a lungo di qualche mese.)
Resta
il fatto che dei matti erano, in tre in
quell'appartamento stretto e colmo di fumo, di poster sui muri, di
targhe
rubate appese. Giorno non aveva avuto reazioni avverse
all’interior design che
gli era stato presentato, e Bucciarati gli aveva detto che era gente
okay. Di
Bucciarati ci si poteva fidare.
Oltre
a lui, che neanche viveva lì, ma che era considerato
(insieme ad Abbacchio) un mezzo coinquilino, c'era l'ultimo eccentrico
occupante dell'interno 3 e mezzo.
Neanche
Guido studiava, ovviamente; lui lavorava al porto,
era il suo compagno di stanza, e almeno tre mattine a settimana nel suo
placido
dormiveglia Giorno lo sentiva che si alzava e si vestiva,
scrocchiandosi le
ossa del collo e della schiena, coprendo ogni centimetro del suo corpo
che
rischiasse di essere esposto all’aria gelida di dicembre.
Quando poi usciva,
Giorno spesso riprendeva il suo sonno, ma capitava che si tirasse a
sedere per
guardarlo inforcare la sua bicicletta e partire alla volta del porto,
via lungo
la strada maestra, illuminata da grosse luci sospese a
mezz’aria con dei grossi
cavi.
Mista
aveva orari di lavoro irregolari, ma Giorno apprezzava
la sua strana, frammentaria compagnia. A volte tornava a casa talmente
tanto
tardi da farlo diventare molto molto presto, spesso trovando Giorno
ancora
chino sui manuali di genetica a rimuginare in una notte che sarebbe
stata
completamente silenziosa, se non fosse stato per il vento di mare
sferzante e
salato e freddo e cattivo che faceva tremare i vetri delle finestre e i
loro
infissi malandati, vecchi di almeno trent’anni. Mista tremava
per l’umidità che
gli era entrata nelle ossa così tanto in fondo da spezzargli
le articolazioni,
e cercava di raccattare le forze per iniziare a togliersi
meccanicamente gli
strati di vestiti ricoperti da un sottile velo di rugiada mattutina.
Non
avevano un gran dialogo: gli occhi acquamarina, enormi,
di Giorno fissavano quelli nerissimi dell’altro, e il
più giovane si ritrovava
strappato dalla sua concentrazione ostinata.
Mista
aveva un viso piacevole ma duro, dal colore olivastro
che non riusciva a essere troppo pallido neanche dopo quelle traversate
gelide
verso casa. Era un riflesso opposto rispetto a Giorno, che prendeva
colore a
fatica e aveva ancora il volto morbido nonostante i suoi ventidue anni
– in
qualche modo lo trovava gradevole, qualcosa che avrebbe potuto guardare
a
lungo.
L’altro
ricambiava lo sguardo per un po’. Poi si svestiva,
si infilava sotto le coperte, pesanti, di lana grossa, e dormiva fino a
pomeriggio inoltrato. Giorno al contrario dormiva qualche ora e poi
andava a
lezione, raccattando qualche mezz’ora di riposo silenzioso
quando poteva,
durante la giornata.
*
Le
cose erano andate così, normalmente nella più
subdola
anormalità, per un certo periodo, almeno fino a quando non
c'era stata l'occasione
di passare una serata tutti insieme, compreso Bucciarati, compreso
Abbacchio.
C’era
da essere sinceri, Giorno capiva il motivo per cui
ogni tanto qualcuno la polizia gliela chiamava – il baccano
che appena cinque
persone erano capaci di fare era straordinario, soprattutto quando
Narancia e
Fugo iniziavano a discutere sul terrazzo, nella penombra di una
lampadina mezza
bruciata che faceva a malapena luce abbastanza per centrare il
posacenere
spegnendo una sigaretta. Nessuno dei due aveva un tono di voce
particolarmente
moderato (la verità è che lì dentro
solo Bucciarati sapeva regolare il volume,
oltre a Giorno stesso), e il peggiore era Narancia, che peraltro non
era
neanche capace di farsi i fatti suoi.
Era
proprio grazie a Narancia e al suo ciarlare, reso ancora
più marcato dall’alcol assunto, che Giorno aveva
capito che il rapporto tra gli
occupanti della casa matti, interno 3 e mezzo, non era affatto di puro coinquilinaggio:
alla peggio regnava un sincero cameratismo, e alla meglio una profonda
amicizia. Aveva quasi provato invidia a sentire i racconti fantastici
di cui i
ragazzi erano stati protagonisti. Narancia era un narratore caotico ma
onesto,
e le sue storie erano storie da cui chiunque avrebbe desiderato
allontanarsi.
Visto
il carattere, l’aspetto e le condizioni dei suoi
coinquilini, non era tanto questo a stupire Giorno. Quello che lo
meravigliava
un po’, piuttosto, erano i commenti di Bucciarati, fatti con
un sorriso
serafico sulle labbra, integrando informazioni perse o parzialmente
scorrette.
Era bizzarro, che un uomo apparentemente così rispettabile
potesse essere
complice (e fautore) di tanti disastri.
Terminati
i racconti più eclatanti, tra cui quello di quando
Mista aveva effettivamente cambiato il numero dell’interno
che figurava sopra
la porta, perché il 4 portava troppa sfiga (come se la
persona morta
nell’appartamento di fronte fosse di secondo piano a
confronto), e un’ingente
quantità di vino, l’argomento di conversazione era
virato in maniera poco
subdola su Giorno. L’interesse era moderato, se non altro
perché a differenza
loro il ragazzo non sembrava uno scoppiato, anzi, era davvero
l’immagine
candida di uno studente responsabile. Mista gli aveva dato una pacca
sulla
schiena e poi gli aveva stretto la base della nuca con una delle sue
mani a
tenaglia, abbastanza forte da fare quasi male, ridendo e descrivendo
agli altri
tutte le volte in cui era tornato a casa alle quattro di mattina
trovandolo
ancora a studiare.
“Ti
sei fatto fregare da Bucciarati eh, quello ne ha
accalappiati tanti.” Un sorso di vino dal suo bicchiere della
Coca-Cola, rubato
in un bar tempo prima da Narancia. “C’è
un bel ricambio, gli universitari non
stanno mai troppo… qualche mese, e poi, cazzo,”
Giorno lo guardava con la coda
dell’occhio, senza voltare la testa, mentre Mista spiegava
inciampando un po’
sulle sue stesse parole, “scappano! Ma perché,
facciamo paura? Fugo sono mesi
che non picchia un poliziotto. ‘Sto minchione.”
Gli
aveva tirato un buffetto, a Fugo, come se fosse stata la
cosa più normale del mondo, e probabilmente per loro lo era.
L’altro gli aveva
solo lanciato un’occhiataccia, troppo comodo abbracciato al
suo cuscino per
reagire.
“Scappano
perché condividono la camera con te, che esci in
culo all’alba e torni di notte con la faccia più
incazzata mai vista,” aveva
risposto Narancia, ridendo a intermezzi, comodo sul divano sfondato. Si
era
rivolto a Giorno con complicità, “l’ho
visto qualche volta, quando vado a
pisciare. Sembra un serial killer.” Mista si era lamentato
debolmente e l’altro
lo aveva di nuovo guardato. “Fortuna che a Giorno non fai
paura.”
“Ma
no, io sono un coglione,” Mista aveva preso Giorno per
una spalla, impanicato, costringendolo a girarsi sulla sedia,
guardandolo negli
occhi con un’intensità che a posteriori il
più giovane avrebbe definito
allarmante, “Giorno, sono un coglione, se ti guardo fisso
quando entro in
camera è perché mi sta collassando il cervello
dal freddo e tu sembri, non so,
un angelo di Dio.” Giorno aveva annuito nella confusione,
senza darci troppo peso,
ma Mista ci teneva troppo per lasciar andare così la cosa.
“E sei anche bono, e
questa cosa non so come prenderla, perché a me piacciono le
donne, mi capisci?”
Giorno
non lo capiva, non proprio. Lo capiva poco, perché
suo padre gli aveva permesso di entrare in contatto con la
comunità LGBT+ fin
da piccolo, e inoltre a lui in generale questo aspetto della sua vita
non era
mai interessato così tanto. Quando gli era interessato era
sempre stato
piuttosto ovvio e cristallino, senza particolari problemi, senza
struggenti
domande.
Non
gli aveva dovuto dare una risposta, in ogni caso, perché
gli altri ci avevano pensato al posto suo, scoppiando a ridere in
faccia al
loro amico. Narancia aveva ululato, Fugo aveva rischiato di soffocare
per un
sorso di birra andato di traverso, Bucciarati rideva di petto, un suono
piacevole, complementare alla risata sgradevole e inaspettata di
Abbacchio. A
Giorno si erano scaldate di poco le orecchie, e poi aveva volentieri
abbracciato il suo compagno di stanza, che con un po’ di
imbarazzo aveva
nascosto la faccia sulla sua spalla per sfuggire alle angherie degli
altri.
*
“Quello
che ho detto prima,” gli aveva detto più tardi,
quando l’alcol era un po’ sceso e Giorno era
già girato su un fianco, pronto a
dormire. “Cioè. L’ho detto
così, sai. Non ci dare peso.” Un rumore sottile
aveva suggerito a Giorno che Mista si stava grattando la testa, forse
nel
dubbio rispetto a cosa dire. Non c’era vento, quella sera.
“Insomma, spero che
non ti abbia infastidito.”
Il
più giovane si era voltato, allora, per poterci parlare
senza dargli le spalle.
“Mi
hanno detto cose più strane e più
spiacevoli,” a quelle
parole, Mista si era un po’ rilassato, permettendosi di
affondare di una spanna
nelle lenzuola. Giorno aveva quasi riso. “Se ti aiuta a
scoprire qualcosa di
te, non è un problema.”
L’altro
era di nuovo saltato su a sedere.
“Ma
no, cioè, non sono il tipo,” aveva masticato
frettolosamente. Dopo qualche altra parola (giustificazione), la
lampadina
della stanza era stata spenta, e il tutto cacciato più o
meno sotto un tappeto.
*
Giorno
non poteva fare a meno di trovare moderatamente
divertente la situazione. Era diventato impossibile non pensare alle
parole di
Mista ogni volta che sentiva la porta di camera aprirsi quasi
silenziosamente,
con il meccanismo vecchio e mezzo rotto che scattava nonostante tutta
la cura
messa nel non fare rumore: Giorno si voltava, consapevole che avrebbe
trovato
lo sguardo nero dell’altro su di sé, due biglie
nere che spiccavano sul bianco
pulito dei suoi occhi. Mista alzava una mano rigidissima in cenno di
saluto, il
respiro affannoso per la fatica fatta in bicicletta, e rimaneva
lì impalato per
una manciata di secondi. Solo quando Giorno allontanava la sedia dalla
scrivania, interrompendo quel collegamento, tirandosi in piedi, allora
anche
Mista si ripigliava, come strappato via da una trance.
Il
più giovane non aveva fretta di terminare quel momento,
inclinando la testa per far scrocchiare il collo, sbattendo pigramente
le
palpebre tentando di mettere a fuoco l’uomo davanti a lui,
così diverso dalle
centinaia di scritte che aveva letto durante le ultime quattro ore. Se
c’era un
minimo di malizia, era pressocché involontaria –
Giorno non aveva secondi o
terzi fini. Mista era, con una buona dose di onestà, un bel
tipo, soprattutto
quando si toglieva il passamontagna e poi si arruffava i capelli, corti
e neri
e tutti appiccicati alla testa.
Così
era andata, per le settimane successive. Giorno lo
sentiva ancora alzarsi alle cinque di mattina, rabbrividiva
all’idea di dover
uscire al freddo di quell’ora, e sperava
nell’arrivo della primavera, che però
era ancora lontana – lo vedeva allontanarsi sulla sua
bicicletta malandata e si
faceva l’appunto mentale di regalargli un thermos nuovo
perché il suo l’aveva
fatto cadere per sbaglio dal secondo piano, ed era troppo ammaccato per
continuare a prestare servizio. (L’avevano onorevolmente
preso a calci a turno
nella strada sotto casa, finché con un colpo ben assestato
non era entrato nel
cassonetto dell’indifferenziato. Fugo aveva giocato a calcio
per anni, prima
che venisse allontanato perché entrava sempre in scivolata
sulle caviglie di
chiunque, avversari e compagni senza distinzione.)
Non
era stato poi tanto difficile tirare di nuovo fuori
l’argomento, principalmente perché come accennato
prima Narancia aveva una
notevole tendenza a non stare zitto, e perché i coinquilini
dell’interno 3 e
mezzo erano soliti punzecchiarsi a vicenda.
Mista
era molto meno malleabile da sobrio, limitandosi a
sdrammatizzare, ridendo, e ad alzare le spalle: faceva un piccolo mea
culpa che
automaticamente rendeva meno interessante la situazione. (Sicuramente
si
trattava di una strategia anti-Narancia implementata negli anni.) Forse
anche
per questo, Giorno non nominava mai la situazione, mantenendo il tutto
entro il
non-detto di quelle conversazioni visive che avevano alle quattro di
notte.
Quando
bevevano tutti insieme, la storia era diversa.
“Non
sono pronto, mi capisci?” Mista si agitava, e la
lattina di birra nella sua mano si agitava con lui. Si sporgeva verso
Giorno,
ma non era mai molesto, anzi, sembrava quasi avesse paura di toccarlo,
a meno
che non fosse in maniera completamente amichevole. “Uno a
ventiquattro anni fa
fatica ad accettare certe cose. Non degli altri, voglio dire, quello
è okay, è
fantastico,” Giorno lo guardava e sorrideva, vagamente
consapevole della
maniera in cui Narancia prendeva a gomitate Fugo indicandogli
l’amico. “Ma
di me, capito, non so bene come prenderla. Però
poi uno c’è il rischio che
invecchi… senza sistemare ‘ste cose. Magari gli
uomini sono fantastici, Giorno,
Cristo. E io come faccio a saperlo?”
Risate
fragorose dagli altri. Giorno non poteva biasimarli
troppo, ma dava comunque conforto al suo compagno di stanza, che dopo
tante
incredibili elucubrazioni spesso si appisolava sulla sua spalla o
addirittura
nel suo grembo, sul divano, beato.
“Quando
è il momento giusto, me ne accorgo,” gli aveva
detto
Mista una volta mentre si lavava i denti, ancora moderatamente sbronzo,
guardando lo specchio con invidiabile concentrazione. “Ci
sarà qualcosa di
diverso che me lo farà capire, vero? Un segno
divino?” E si era girato verso
Giorno. Quello si era tamponato il viso con l’asciugamano e
aveva fatto spallucce.
“Certo.
Sicuramente lo senti, uhm,” Giorno sentiva la testa
leggera e pensava che non sarebbe stato contrario all’idea di
avvicinarsi un
po’, di aprire il palmo della mano sul petto di Mista, di cui
si intravedeva il
profilo sotto la maglia del pigiama. Ma non era proprio il caso, e
quindi si
era limitato a battere il palmo sul suo, di petto, guardandolo di
sottecchi,
sforzandosi di pensare ad altro, “qua.”
Alla
fine, pure Giorno lo aspettava, quel segno.
*
I
supermercati lì erano diversi da quelli con cui Giorno era
cresciuto, ma a prescindere dal loro marchio c’era una
distinzione
imprescindibile, sempre valida. C’erano quelli nuovi, coi
muri che erano
finestre intere, gli scaffali ordinati sempre pieni e la gastronomia
gestita da
signore sorridenti, e poi c’erano quelli coi soffitti bassi,
la luce
artificiale che bruciava le retine e la musica odiosa dalla radio che
bruciava
i timpani, le verdure che iniziavano ad ammuffire ancora nei cestini
dell’ortofrutta. Non era difficile immaginare quali fossero
quelli più
frequentati dagli abitanti di casa matti, anche se ogni tanto a Fugo
giravano i
cinque minuti e andava a comprare delle fette di guanciale spesse mezzo
centimetro che costavano quanto cinque giorni di cibo.
Quella,
però, era una spesa dedicata alle Domeniche con la D
maiuscola, quelle in cui per qualche felice coincidenza nessuno di loro
lavorava e si poteva pranzare tutti insieme. Guido e Fugo cucinavano,
Bucciarati e Abbacchio portavano il vino e i mignon (due a testa,
nessuna
eccezione, a meno di inaspettati altruismi), ogni volta da una
pasticceria
diversa, e tutti ne approfittavano per prenderli in giro,
perché sembravano una
coppia di vecchi.
Quelle Domeniche erano le preferite di Giorno, che si ritrovava in un angolo stretto della cucina, arroccato sulla sedia, la testa appoggiata sul ginocchio a guardare silenziosamente gli altri, mentre il CD di qualche cantautore italiano (imposizione di Mista) girava nello stereo rotto di Narancia. Si sentiva disteso, sparso in maniera sottile a ricoprire il mondo circostante, con il vino che nutriva la leggerezza della sua mente e il petto che gli si riempiva di affetto.
“Ehi,
biondo,” la voce del cuoco del giorno gli arriva di
traverso in mezzo al rumore di altre tre conversazioni e Giorno alza
con
pigrizia lo sguardo, trovando Mista sorridente, se non leggermente
allarmato,
“ancora tra noi?”
Ce
l’ha ancora in mente, la faccia incazzata nera,
spaventosa, di Mista la notte prima. Era entrato in camera a pugni
strettissimi, i vestiti zuppi di acqua, strappandosi il passamontagna
masticando bestemmie, ma facendo comunque attenzione a non sbattere la
porta
per non svegliare gli altri due inquilini.
“M’hanno
inculato il sellino,” era riuscito a sputare mentre
si toglieva i pantaloni, “ho fatto tutta la strada in piedi
sui pedali,” che
non era poca, “e piove”.
Giorno
non usava spesso la bici, ma sapeva che mezz’ora di
viaggio in quelle condizioni avrebbe spaccato le ginocchia e lo spirito
un po’
a chiunque. In ogni caso non aveva potuto fare molto: appena
l’altro era
riuscito a sfilarsi i vestiti e a mettersi il pigiama, tremando per il
freddo,
gli aveva offerto la sua tisana, che Mista aveva bevuto in un sorso
bollente
(non capiva come fosse riuscito a non bruciarsi la lingua). Poi aveva
spento la
luce della scrivania, consapevole che probabilmente il miglior rimedio
per quel
problema fosse dormirci su, e a sua volta si era rintanato nel letto.
Poi,
era successa la cosa più curiosa di tutte.
Nonostante
il peso delle ore lunghissime di studio gli
gravasse sugli occhi, Giorno non era riuscito a prendere sonno in
fretta come
al solito – il rumore dei denti di Mista, che ancora
battevano per il freddo,
era totalizzante nel silenzio della loro stanza. Giorno si era rigirato
un po’
sotto le coperte, inquieto, e poi aveva pronunciato il nome
dell’altro con un
tono che stava a malapena sopra il respiro. Mista gli aveva risposto
con un
grugnito che era anche un ringhio e Giorno aveva deciso che, alla
peggio,
quello sarebbe stato un momento imbarazzante chiuso nella loro scatola
di
strane interazioni delle quattro di mattina.
Così,
si era alzato, aveva raccolto la sua coperta, nel buio
quasi completo l’aveva stesa sul letto dell’altro
facendosi guidare soprattutto
dalla memoria della stanza. Mista aveva fatto un sussulto sorpreso, e
Giorno
aveva trovato i suoi occhi rivolti verso di lui quando aveva provato ad
alzare
un lembo del piumone e a chiedere, pianissimo: posso?
Mista
si era fatto in là e aveva lasciato che Giorno lo
abbracciasse senza troppo imbarazzo, dandogli la schiena, ed era stata
una
delle notti più scomode di sempre. Dopo poche ore, quando la
luce della mattina
filtrava già attraverso le tapparelle, Giorno era scivolato
via ed era
ritornato nel suo letto, guardando un’ultima volta il suo
compagno di stanza
che dormiva placido. Fugo poi li aveva svegliati dopo mezzogiorno, in
tempo per
preparare il pranzo.
E
il pranzo era
stato preparato, mezze maniche alla gricia. Inoltre, il campanello era
stato suonato, i dirimpettai fatti entrare, il vino
stappato, i mignon cacciati in frigo in attesa del dolce. E
così
Giorno si era
trovato lì, nell’angolo della cucina, con la
pancia piena
e il baccano nelle
orecchie.
“Il
vino era… importante,” Giorno sorride con fare di
scuse
al ragazzo che ha davanti, “mi sento un po’ a
rallentatore. Grazie per aver
cucinato.”
Mista
sorride, radioso, orgoglioso, e pare che la nottata
precedente non sia neanche esistita. Forse a Giorno un po’
dispiace: nonostante
la scomodità, anche se i capelli crespi e spettinati di
Mista gli avevano fatto
solletico al naso per tutta la notte, gli era piaciuto, il loro profumo
di
mare. Non dovrebbe neanche permettersi di interpretare quello che
è successo –
ha agito semplicemente perché l’altro ci avrebbe
messo una vita a scaldarsi, e
non poteva rimanere in disparte senza provare ad aiutarlo. È
certo che in ogni
caso Mista non abbia dato particolare significato alla cosa.
“Vieni
fuori?” Gli propone Guido, quasi imbarazzato. “A
fumare?”
Hanno
sempre fumato anche dentro casa. Bucciarati sta
ciccando nel posacenere sul tavolo proprio in quel momento, soffiando
il fumo
verso la finestra, per quanto possibile. Giorno, poi, neanche fuma.
Per
queste due ragioni lo guarda dal basso, con le ciglia
bionde e lunghe che si muovono insieme al suo sguardo e rilucono
colpite dal
sole tiepido di febbraio che filtra in cucina dal terrazzo. Guido
restituisce
quel guardare, con le mani sui fianchi e uno strofinaccio appoggiato
sulla
spalla, il grembiule stretto intorno alla vita.
Giorno
sorride, annuisce, si alza lentamente, e apre la
porta finestra per uscire. Guido lo raggiunge dopo essersi liberato
dello
strofinaccio e del grembiule. Nonostante tutto il freddo preso la notte
precedente, cucinare lo ha scaldato.
Il
più piccolo, appoggiato alla ringhiera di ferro, lo
guarda mentre si gira una sigaretta, indossando una maglietta a maniche
corte,
i pantaloni del pigiama, i calzettoni lunghi tirati su fino al
ginocchio,
ridicoli al punto giusto. Ha anche le guance leggermente rosse, una
conseguenza
mista del vapore dell’acqua bollente e del vino rosso, e
Giorno si sente
abbastanza sciolto da poter ridere anche di questo.
“Che
c’hai?” Mista gli fa un cenno col mento,
corrucciando
la fronte appena appena, senza nascondere il divertimento sul suo viso.
“Ti
faccio ridere?”
Giorno
scuote la testa, guardando altrove. L’altro si sporge
indietro, cercando un accendino sul balconcino della finestra, e quando
si
riappoggia alla ringhiera con la sigaretta accesa tra le labbra, Giorno
trova
che gli sia particolarmente vicino.
“Sembri
contento, tutto qua,” quando Giorno fa spallucce, le
loro spalle si sfiorano un poco, “e come ti ho detto, il vino
era buono. Anche
tu l’hai apprezzato, penso.” Vedendo
l’espressione eloquente dell’altro, Mista
ride di pancia, sbuffando fumo dal naso.
“Sono
a malapena brillo,” lo corregge, facendo cadere la
cenere nel vuoto con un colpetto alla sigaretta. “Quello che
serve, insomma.
Per, uhm. Beh.”
Giorno
lo guarda, silenzioso e perplesso, ma Mista non
restituisce lo sguardo, ed è forse la prima volta che questo
succede. Un dubbio
tremendo lo percorre – forse vuole parlargli della sera
prima, del fatto che
Giorno si è spinto troppo oltre, che solo perché
hanno questa cosa strana (ti
guardo mi guardi mi lascio guardare cambio i miei ritmi circadiani per
te ti
addormenti su di me guardando la tv ti preparo le tisane mi squadri da
capo a
piedi mentre il resto del mondo dorme e a malapena respira) non
significa che
lui possa prendersi certe libertà. Ma glielo ha chiesto, no?
E Guido tremava
tanto che gli battevano i denti, non si poteva lasciarlo lì.
“Senti,
io sono un tipo, diciamo… semplice,” Mista guarda
fisso, avanti, gesticolando con la sigaretta tra le dita,
“non mi vado a
complicare le cose, cerco di essere onesto con me stesso, con gli
altri.” Ha
una certa urgenza mentre parla, malcelata dal suo tentativo di pesare
le parole
con criterio. Giorno lo guarda, con il battito cardiaco che gli aumenta
a
cadenza regolare, un treno a vapore che inizia a partire. Se lo sente
quasi in
gola.
“Allora
te lo dico sinceramente, Giorno, non ci sto capendo
un cazzo. Però, voglio dire. Io. Mi
piacerebbe…” Mista scuote la testa,
continuando a muovere le mani, come se questo potesse aiutare. La
preoccupazione in Giorno cresce in maniera strana, rallentata dal vino
e allo
stesso tempo resa più profonda, vertiginosa – le
sue dita bianche si stringono
intorno al ferro freddo della ringhiera, tenendosi forte.
“Ieri, insomma, ho
apprezzato. A parte il gesto, che tipo grazie, perché mi
stavano davvero per
cadere le dita dal freddo, però ho apprezzato.
Sai, ecco.”
Oh.
Giorno espira, buttando fuori un respiro terrorizzato
che non sapeva di star trattenendo. Si crea una piccola nuvola di
vapore, che
si dissipa ancora prima che l’altro possa continuare a
parlare.
“E
mi dico, se ho apprezzato, perché me lo devo
complicare?”
Quando il suo cervello ingrana abbastanza da costringere Giorno a
girarsi verso
l’altro, lo trova un po’ paonazzo, con la sigaretta
mezza bruciata e
dimenticata tra le dita, lo sguardo così profondo denso
scuro intenso che
potrebbe scavare nel suo. Guido sta già cercando una
risposta, senza neanche
aver finito di parlare. “Insomma, non è
così tanto difficile, magari. Mi
capisci?”
Di
nuovo, Giorno non è sicuro di capirlo. Non tanto per una
questione di comprensione caratteriale intrinseca, quanto
perché parlando si è
coperto la bocca con la mano che tiene la sigaretta, e ha borbottato un
po’,
masticando le parole. Giorno non è sicuro di capirlo, ma ha
una sensazione, e
quindi ci prova comunque: lentamente, in tempo per farsi fermare, si
volta
verso di lui, mette una mano sul suo braccio sinistro, spingendo per
allontanarlo. Mista ha un sussulto, non dissimile da quello che ha
sentito
appena una decina di ore fa e non dissimile da quello che sente di
nuovo quando
gli appoggia le labbra sulla guancia, a qualche centimetro dalla bocca.
Un posto
più o meno sicuro, non troppo azzardato. L’odore
di fumo è forte, ma non copre
quello di mare che rimane sempre nei capelli dell’altro.
La
mano destra di Guido è rapida nell’aggrapparsi al
braccio
di Giorno, pur con la dovuta attenzione per non sporcargli i vestiti di
cenere.
Giorno sorride, non si sposta da lì.
“Mi
stavi facendo morire di ansia,” gli ride
nell’orecchio,
pervaso di entusiasmo morbido, confortevole – la sua guancia
si scalda e non
per il vino. “Andiamo a fare una passeggiata? Fugo ci ha
già notati. Tempo
venti secondi e Narancia inizia a urlare.”
Così
accade. C’è a malapena il tempo di spegnere la
sigaretta mezza finita, di afferrare il bicchiere di Mista sul tavolo
(è
rimasto un fondino di vino rosso, Giorno lo inghiotte di colpo e gli
brucia la
gola), di prendere le proprie giacche appese in corridoio. Prima di
poter
chiudere la porta, iniziano gli schiamazzi: Mista lo trascina
giù per le scale,
rosso in viso.
Probabilmente non troveranno i loro dovuti mignon al ritorno, ma nessuno dei due riesce a dispiacersi più di tanto.
.
.
.
.
***
Disclaimer:
nonostante sia letteralmente il fondamento di
questa storia, ci tengo a fare una specifica in quanto fuorisede, anche
a costo
di essere volgare. Come dissero eroi più grandi di me,
“nell’ufficio e
nel palazzo non mettere mai il …”: poi grazie al
cielo questa è una fanfiction, e
io faccio quel che mi pare, ma è una regola d'oro e ci tengo
a rimarcarla.
A parte gli scherzi, non ho molte note. La prima, evidente, è che non ho granché rispettato il prompt, ma coi prompt so di fare schifo da una decina d'anni, quindi pazienza.
La seconda è che questa storia nasce principalmente dal fatto che vento aureo ha un potenziale meme veramente fantastico, ma anche dal fatto che è praticamente un anno che vivo da fuorisede. Questa cosa per qualcuno può significare poco, ma per qualcuno che a casa propria ha sempre sofferto, l’idea di tornare a casa dopo una giornata faticosissima e trovare zero conflitto tra le proprie quattro mura significa veramente il mondo! Quindi anche se tutto questo finisce al vento, ringrazio le mie coinquiline fantastiche che attualmente stanno di là a urlare in veneto e ringrazio i miei mezzi coinquilini (sì io sono il bucciarati/abbacchio della situazione), che sono in effetti le persone completamente disastrate da cui ho preso spunto per pensare casa matti. Nel nostro caso, nessuno è morto, grazie al cielo.
Grazie
per avere letto fin qua!! Ciaooo
Cate
ps: il titolo viene da Volersi male di Tananai, anche se qua nessuno si vuole male, ma ho cercato canzoni per mezzora e questa era quella che mi convinceva di più. inoltre, Born gangsta di Boss è una canzone (e anche tutto un album) che probabilmente Narancia si ascolterebbe anche nel canon, se vi piace il rap anni '90 provate a darci un'occhiata