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Autore: Adeia Di Elferas    14/10/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare si passò da una mano all'altra l'anello con cui stava giocherellando da un po'. Stava ascoltando con grande attenzione le parole dei suoi luogotenenti, eppure, più si sforzava, meno ci capiva.

Già quella mattina aveva dovuto incontrare in modo ufficiale Gaspare Sanseverino, per insignorirlo di Civitella di Romagna, della Valdoppio e di un paio di castelli vicino a Meldola. Odiava quel genere di impegni, e, in più, lo innervosiva pensare che quelle concessioni altro non erano che inutili prebende per tener buono il Fracassa. A suo modo di vedere, il condottiero non sarebbe rimasto al suo soldo ancora a lungo, dunque si trattava di uno spreco bell'e buono, ma non poteva certo opporsi ai pieni di suo padre, il papa.

Era Alessandro VI la mente dei giochi politici, a lui spettava, invece, occuparsi della guerra sul campo, quella stessa guerra che aveva evocato e di cui si era vantato di essere un grande esperto...

C'erano giorni in cui gli sembrava quasi di giocare una partita a scacchi, mentre lui era sempre stato più bravo con le carte, ossia dove era la fortuna a pesare di più e non la strategia.

Anche Michelotto, in piedi accanto alla sua sedia, aveva un'espressione corrucciata e confusa, simile a quella che aveva riservato, negli anni della loro giovinezza, alle lezioni più complicate e agli insegnanti più ostici.

A conti fatti, comunque, al Borja non sembrava che la situazione fosse del tutto sfavorevole. Alcuni dettagli riportati dai luogotenenti erano per lui marginali e tutto sommato di valenza neutra. Per esempio, poco gli importava se Francesco Gonzaga aveva ricevuto il permesso regale di rientrare a Mantova via Po, transitando per Torino.

Altre notizie, invece, avevano una rilevanza ben più importante. Melchiorre Ramazzotto, condottiero di mezza lega, ma molto attivo nel centro Italia, era appena stato licenziato da Bologna, che l'aveva assoldato solo pochi mesi prima proprio per combattere contro le forze pontificie.

In secondo luogo, Giannotto stava rientrando in Romagna, alla testa di duemila fanti, tra svizzeri e francesi. Quell'appoggio diretto del re di Francia non era cosa da poco, anche se, probabilmente, le truppe di Giannotto sarebbero state lì solo di passaggio, dirette al sud, dove si stava riaccendendo lo scontro tra i francesi e gli spagnoli. Agli occhi dei nemici, quella massa di soldati rozzi e sporchi d'Oltralpe sarebbe stato di certo un ottimo deterrente, sufficiente, magari, perfino a spegnere eventuali moti di ribellione da parte delle città riconquistate dal Valentino.

Sembrava, infine, che tutti i condottieri ribelli si fossero acquietati, anche se Cesare su questo punto aveva dei dubbi sempre più forti. Non lo convincevano in particolare Vitellozzo Vitelli e Oliverotto da Fermo. Anche Giampaolo Baglioni aveva dei chiaroscuri che non gli piacevano...

Quando finalmente i luogotenenti del Duca di Valentinois ebbero concluso la loro trattazione delle ultime notizie dai vari fronti aperti, Cesare li congedò subito e rimase solo con Michelotto.

“Forse non è così sbagliata, l'idea di Oliverotto...” fece Cesare, grattandosi il mento: “Anche se non mi piace il modo in cui insiste...”

Anche secondo Miguel riprendere Senigallia sarebbe stata una buona mossa, tuttavia, proprio come il Borja, non capiva la fretta che l'Euffreducci pareva avere per portare a termine quell'impresa. Era come se avesse un astio personalissimo e violento per Francesco Maria Della Rovere, appena un ragazzino, e per la di lui madre, Giovanna da Montefeltro. L'alternativa a una spiegazione che lo volesse mosso da istinti di vendetta o dall'odio era che fosse spinto da un interesse di altro genere, economico o strategico che fosse, ma in quel caso la posizione di Oliverotto si sarebbe fatta molto fraintendibile sia per il Valentino, sia per il Corella.

“Ieri mi ha fatto venire una testa così – riprese Cesare, allargando a dismisura le braccia – con questa storia di Senigallia... Non fosse stato che prima volevo pensarci, gli avrei detto di andare e basta, così almeno sarebbe stato zitto...”

Michelotto guardò per un lungo istante l'amico, indeciso se esprimere il proprio pensiero a riguardo. Anche se in quel momento, effettivamente, imporsi su Senigallia e da lì riconquistare altre città, avrebbe dato la prova che tutti cercavano dell'avvenuta riappacificazione coi condottieri ribelli, nonché della rinnovata forza del Valentino, secondo il Corella non era una buona idea assecondare tanto rapidamente quello che sembrava quasi un capriccio di Oliverotto.

Tuttavia, proprio quando Michelotto stava per trovare il coraggio di aprir bocca, Cesare riprese il suo discorso: “Ti manderò là con loro. Su Senigallia voglio vedere gli sforzi sia di Oliverotto sia di Vitellozzo. E sarà meglio per loro che ci vadano anche Francesco e Paolo Orsini...”

L'altro, le mani strette dietro la schiena, annuì senza osare contraddire le decisioni prese dall'amico, ma, facendo un rapido conteggio di nomi, chiese: “Coi Bentivoglio e il Baglioni come ci regoleremo?”

Cesare abbassò lo sguardo. I Bentivoglio, che ci tenessero o meno a ricordarselo, erano legati a filo doppio tanto con Paolo Orsini – che era il suocero di Ermes Bentivoglio – quanto con Caterina Sforza, visto che la di lei nipote, Ippolita, era la sposa impiccione di Alessandro Bentivoglio. Il suo peso, incredibilmente, era stato tale da far a volte spostare l'ago di una bilancia inamovibile come quella del re di Francia... Non si poteva far finta che Bologna fosse un'alleata affidabile: semplicemente non poteva esserlo a causa delle parentele in cui si era invischiata.

“Ai Bentivoglio penserò con calma...” sussurrò il Borja, rendendosi conto che per i bolognesi non sarebbe stato praticabile prenderli uno a uno e sterminarli, si doveva lavorare di ingegno: “Mentre il Baglioni... Lo farò convocare qui in Romagna.”

Il Corella, che credeva concluso il discorso, si rilassò un momento e fu sul punto di chiedere all'amico se avesse voglia di mangiare qualcosa insieme, ma il Duca di Valentinois era ben lungi dall'aver chiuso la questione.

“C'è un altro grosso problema, qui, Miguel.” sospirò.

“Quale?” domandò l'altro, confuso.

“Qui la gente mi odia.” sbuffò il Valentino: “O, perlomeno... Odiano tutti il mio nome. Quando poi arrivo nelle loro città, l'ho visto a Forlì, a Imola e ora anche qui a Cesena, e inizio a spargere denaro e indire feste, allora non mi odiano più...”

“E dunque dov'è il problema?” la voce di Michelotto era impassibile, e questo innervosì ulteriormente Cesare.

“Il problema è che non posso vivere in queste dannate città di campagna!” sbottò, non riuscendo a trattenere la frustrazione e la rabbia che covavano in lui fin dal primo mattino: “Io sono nato per vivere a Roma! A Milano! A Parigi! A Firenze, perfino! Qualsiasi città, purché gloriosa e grandiosa!”

Senza riuscire a fermarsi, il figlio del papa aveva preso a misurare la sala a grandi passi, il capo chino e un luccicore quasi folle negli occhi. Miguel avrebbe voluto fermarlo e riportarlo alla realtà dei fatti. Se il papa l'aveva mandato a conquistare la Romagna era perché a quello l'aveva destinato: non ci sarebbero state né Roma, né Milano nel suo futuro, ma Forlì, Faenza, Imola, Cesena, e da lì Urbino, Pesaro, Senigallia...

“Appena me ne andrò per seguire i miei veri affari – continuò imperterrito Cesare – e queste città resteranno di nuovo in balia di loro stesse, torneranno a odiarmi! E l'odio, alla fine, diventerà fuoco e il fuoco diventerà incendio e quando meno me l'aspetto, una volta farò ritorno e resterò mangiato dalle fiamme!”

“E dunque che si deve fare?” il tono del Corella, stavolta, era stanco.

Aveva sempre detto di sì a Cesare, a qualsiasi sua richiesta, come se mostrarsi servile e docile come un cagnolino bastasse a elemosinare il suo amore. Sentiva di essere indispensabile per il Borja, sapeva benissimo che, senza di lui, sarebbe stato perso, e tanto gli bastava per essere orgoglioso di se stesso. Eppure a volte gli sarebbe piaciuto avere qualche riconoscimento in più, avere qualcosa di più di qualche notte strappata ai suoi mille impegni o a qualche parole buona detta a mezza bocca...

“Ci vuole qualcuno che si prenda le mie colpe. Un capro espiatorio. Qualcuno da additare come cattivo governante, come uomo infedele che ha travisato le mie leggi...” gli occhi rapaci del Borja corsero a Michelotto che, per un tremendo istante, sentì un brivido di morte lungo la schiena.

Passò subito, però, perché il modo in cui il Duca prese ad annuire e a borbottare il nome di Ramiro de Lorca fece capire bene al Corella chi fosse l'agnello sacrificale prescelto.

“Sistemiamo la questione di Senigallia – fece Cesare, con un sorriso famelico – e poi saremo pronti a denunciare quel gran farabutto di Ramiro de Lorca che, con la sua sete di denaro e la sua condotta sconsiderata, sta portando queste mie splendide terre alla rovina...”

Come spesso accadeva con il Borja, la recita era iniziata all'istante e fin da subito era stata recitata con tanta convinzione che, Miguel lo sapeva per esperienza, non sarebbe trascorso molto tempo prima che perfino l'attore principale finisse per credere alla proprie parole, considerandole ancor più vere delle Sacre Scritture.

 

“Pensavo non fosse prudente, per te, farti vedere qui...” disse Caterina, accogliendo con un sorriso Scipione.

Quando Bernardino, corso in casa assieme a una ventata di freddo e nevischio, le era andato incontro, l'aveva abbracciata e, radioso, le aveva detto che ad accompagnarlo c'era il Riario, la Sforza non ci aveva creduto del tutto. Si era permessa di crederci davvero solo quando aveva avvistato il giovane Scipione, avvolto in uno spesso mantello, affrontare il vento gelido per arrivare al portone.

Non sapeva nemmeno lei dire perché rivederlo le facesse tanto piacere, né cosa l'avesse portata ad accogliere anche lui con un breve abbraccio. Di fatto, anche quel Riario aveva una somiglianza spiccata con Girolamo... Forse il fatto di aver combattuto con lei durante l'assedio del Borja, tra le altre cose, glielo aveva reso non solo un amico, ma addirittura veramente di famiglia.

“Fortunati mi ha fatto sapere che in questi giorni non ci sarebbe stato – sussurrò Scipione, stando attento a non farsi sentire troppo né dal servo che gli stava prendendo il mantello, né da Alberto De Marzi, che era subito arrivato a vedere chi fosse giunto alla villa a quell'ora tarda – e mi ha detto di, come dire... Venire a dare un'occhiata.”

La Tigre trattenne un moto di irritazione al pensiero che il piovano si fosse preso il disturbo e anche il rischio di chiedere al Riario una cosa simile, dopo che lui per primo aveva sconsigliato al giovane di presentarsi a Castello, per non attirare troppe attenzioni.

“Dirò a Creobola di prepararti una stanza.” fece subito la Sforza: “E ti farò portare qualcosa da mangiare. Noi abbiamo finito da poco, ma nelle cucine si inventeranno senza problemi qualcosa.”

“Grazie.” fece l'altro, riconoscente, mentre dalla camera accanto si sentivano le voci allegre di Galeazzo e Bernardino, che si scambiavano i saluti e si domandavano come fossero andati quei giorni trascorsi lontani.

Di certo con loro c'era anche Sforzino, dato che era stato il primo in assoluto ad accorgersi del carretto che si avvicinava alla villa, in mezzo al buio e alla neve, ma, al contrario degli altri, era silenzioso come sempre.

Caterina fece appena in tempo a sentire il Feo chiedere al fratello se potesse vedere il bambino e la sorella, prima di tornare a concentrarsi su Scipione che, con aria d'urgenza, le aveva posato una mano sul braccio, per poi dirle: “Dopo, quando mi sarò sistemato e tutto quanto... Mi piacerebbe se bevessimo un calice di vino insieme e scambiassimo due parole.”

La Leonessa guardò per un lungo istante il bel profilo del figliastro e poi annuì: “Va bene, dimmi quanto tempo ti serve...”

“Tempo di cambiarmi e mangiare qualcosa.” fece lui, in fretta.

Caterina, allora, chiese a Creobola di assistere il Riario e, paziente, attese il tempo necessario affinché il giovane si riprendesse da quello che doveva essere stato un viaggio breve, ma intenso a causa del clima, e poi andò a bussare alla sua stanza, con una caraffa colma di vino scuro e un paio di calici.

“Non avete paura che qualcuno sparli, nel saperci qui soli? Se è meglio, possiamo andare in una delle sale o...” fece il Riario, ma per mera prammatica, tanto che nemmeno s'alzò dal letto su cui era seduto.

“Lascia stare...” tagliò corto lei e poi, porgendogli un calice e riempiendoglielo, chiese: “Come mai volevi parlarmi con tanta fretta?”

Scipione bevve un lungo sorso, sollevando poi le sopracciglia, colpito dalla finezza di quel vino rosso, così elegante e diverso dal vino robusto e rustico che la Tigre aveva fatto servire sempre a Ravaldino, e, con un lungo sospiro, cominciò a raccontarle tutto quello che aveva saputo standosene a Firenze.

Le riassunse tutte le novità dal fronte, in particolare i giri assurdi che sembravano fare i condottieri ribelli e, ancor di più, il modo scomposto in cui i fiorentini seguivano ora questa ora quella simpatia. Le parlò a lungo di Pier Soderini e dei suoi sostenitori e dei suoi – pochi – detrattori. Le citò i Salviati, dicendole di aver avuto modo di scambiare appena due parole con Jacopo, senza farsi riconoscere in alcun modo, e di averlo trovato un uomo piacevole, ma di difficile interpretazione.

Le spiegò anche di aver visto, senza ombra di dubbio, il figlio di Lorenzo il Popolano in più di un postribolo, la notte, e di averlo sentito parlare male del padre, che, diceva, stava spendendo tutti i loro soldi in avvocati per intentare un nuovo processo proprio contro la Sforza.

“Lo so, mi è arrivata la convocazione pochi giorni fa.” sbuffò lei, asciugandosi il labbro dopo una generosa sorsata: “Ma piuttosto... Nel postribolo in cui hai visto il giovane Medici ci hai portato anche mio figlio Bernardino?”

Scipione, che nella convivenza con il dodicenne si era abituato a chiamarlo Carlo, come lui stesso chiedeva, arrossì un po' e si schermì: “Ho pensato che accompagnandolo avrei vigilato meglio su di lui...”

Siccome la milanese si era chiusa in uno strano silenzio, il Riario pensò di aver sbagliato a parlarle con tanta franchezza e schiuse le labbra per provare a raddrizzare il tiro, ma la Sforza l'anticipò.

“Hai ragione, hai fatto bene. Anzi, dimmi quanto ti devo e...” disse, versandosi ancora un po' di vino, più per tenere le mani impegnate e ridurre l'imbarazzo, che non perché ne avesse ancora voglia.

“Non se ne parla. Era mio ospite.” tagliò corto l'uomo: “E comunque, a proposito di Carlo... Cioè, di Bernardino...”

“Cosa?” chiese subito la Tigre, improvvisamente tesa, come se temesse di sentirsi riferire chissà che bravata.

“Niente... Volevo solo sapere se avevi già parlato con lui, se gli avevi chiesto come sta, o se gli è piaciuta Firenze...” rispose lui, con un'alzata di spalle.

La Leonessa quasi non si accorse di come Scipione fosse passato dal darle del voi a darle del tu, troppo concentrata sul tema della questione: “Immagino che gli sia piaciuta, visto che avrete fatto il giro di tutte le osterie e di tutti i bordelli possibili...” soffiò, con un mezzo sorriso: “Comunque, no, no, è tardi e ho pensato che gli parlerò domani...”

“Lui ti vuole un bene dell'anima.” assicurò allora il Riario, sollevando il calice mezzo vuoto, come a rimarcare le proprie parole: “Dedicagli più tempo e più attenzioni, ti prego.”

Siccome, per quanto il tono fosse rilassato, a Caterina parve di aver appena ricevuto un ordine, la donna si chiuse a riccio, come spesso le capitava nell'avvertire un tentativo di ingerenza nei suoi comportamenti, e così chiese, piccata: “Da quando ci diamo del tu?”

Scipione fece una breve risata, affatto preoccupato dal tono duro usato dalla matrigna: “Se non posso, torno al voi.”

“No, va bene anche il tu...” cedette lei, abbandonandosi contro lo schienale della sedia che le faceva da scranno ormai da oltre due ore: “Quando tornerai a Firenze?” gli chiese poi.

“Non è mia intenzione star qui a fare il ficcanaso – rispose lui, andando a confermare una volta di più l'indicazione ricevuta da Fortunati, che lo voleva a guardia della Tigre, sia per la sua sicurezza, sia, probabilmente, per gelosia – quindi non vorrei fermarmi più di un giorno o due. Giusto il tempo di stare un po' con i miei fratelli e conoscere il piccolo Pier Maria.”

La Leonessa, nel sentir nominare il nipote, deglutì un paio di volte e poi iniziò a dire: “Giusto, in fondo Pier Maria è anche tuo nipote, essendo...”

“Sì, essendo Bianca mia sorella.” concluse il giovane, anticipando la Sforza, che, invece, aveva pensato di continuare la frase in modo da supportare ancora la finzione che voleva il piccolo De Rossi figlio di Ottaviano.

Siccome la donna era rimasta immobile a guardarlo in un modo che, per la prima volta da che era arrivato alla villa, lo aveva fatto sentire sotto esame, il Riario si sentì in dovere di mostrarsi innocuo.

“Bernardino sa che può fidarsi di me, anche se io e lui non siamo fratelli nemmeno per metà...” si affrettò a spiegare: “Io non gli ho fatto domande, è stato lui a parlarmene. Voleva essere sicuro che anche io fossi disposto a tutto per difendere il piccolo.”

La Tigre non poteva dirsi felice di sapere che Scipione fosse stato edotto sui natali di Pier Maria, ma non poteva nemmeno mostrarsi furiosa, dato che il figliastro pareva del tutto solidale con lei e con i fratelli. Anche se restava dell'idea che meno persone fossero state a conoscenza della reale paternità e maternità del bambino, meglio fosse, non poteva negare con se stessa che il Riario sarebbe davvero stato un validissimo difensore in più, in caso di bisogno...

“Bernardino non ha ancora capito che deve sempre avere il mio permesso, prima di dire o fare certe cose...” sbuffò quindi Caterina: “Ma mi fido del suo giudizio, in questo caso. Ti sei sempre dimostrato leale.”

“Voi tutti siete l'unica famiglia che ho.” annuì lui, come a voler chiudere una volta per tutte la questione.

“Non avevi detto di voler prendere moglie a Firenze?” si informò, ironica, la Leonessa, dando intanto fondo alla caraffa di vino, vuotandone un ultimo calice a se stessa e al giovane.

Scipione, divertito per quel cambio repentino di tono, sorrise e confessò: “Lo pensavo... Ma le donne di Firenze... Sono complicate. Mi piacciono donne di un altro tipo. Per il momento mi limiterò a divertirmi, quando possibile. Più avanti penserò anche a sposarmi...”

“Mi sa che passare del tempo con quell'agitato di mio figlio ha finito per agitare anche te...” rise di rimando la Leonessa.

Alzando il calice per un ultimo brindisi, il Riario confermò: “Dovresti lasciarlo venire da me più spesso: ci divertiamo come matti, assieme...”

“Queste sono proprio le parole giuste per farmi stare tranquilla...” commentò, tutto sommato divertita, la Sforza.

 

Giampaolo Baglioni ascoltava, con gli occhi sgranati, quello che il suo informatore gli stava dicendo. In altri momenti, prima di aver preso parte alla congiura fallita dei condottieri ribelli, il signore di Perugia avrebbe accolto con gioia, per non dire con orgoglio una richiesta simile da parte del Valentino, ma ora sapere che il Borja lo voleva seduta stante in Romagna lo terrorizzava.

Anche se, come tutti gli altri, aveva firmato gli accordi di Magione, Giampaolo sapeva di averlo fatto con leggerezza. La sua idea – come era quella di Oliverotto e Vitellozzo – era quella di far calmare le acque e, nel momento in cui il Duca di Valentinois si fosse rilassato, saltargli alla giugulare e finirlo.

Anche se ufficialmente erano state le parole di Paolo Orsini, e le rimostranze dei fuoriusciti perugini a convincerlo, di fatto ciò che aveva mosso il Baglioni era stato il desiderio di ingannare il figlio del papa. Siccome, però, Alessandro VI era un diavolo, come tutti dicevano, poteva essere che avesse scoperto le sue reali intenzioni? Poteva essere che ne avesse parlato col figlio e che quindi Cesare ora lo volesse in Romagna al solo scopo di punirlo?

Se solo suo cognato, Bartolomeo d'Alviano, fosse stato lì a Perugia con lui e non in veneto a battibeccare col Doge, forse avrebbe potuto sfruttarne la stazza e le capacità impiegandolo come guardia del corpo... Ma mancando lui non aveva sottomano nessuno che potesse davvero proteggerlo dalle insidie del Borja.

“Grazie, grazie...” sussurrò confuso Giampaolo, allungando qualche moneta al delatore, che aveva intercettato in anticipo i messi del Valentino, estorcendo loro con un po' di vino e qualche moina l'obbiettivo del loro viaggio nel perugino, e poi, pensando in fretta al da farsi, decise di usare una scusa che altri prima di lui avevano sfruttato con successo.

Disse, concitatamente, ai servi più fedeli di descriverlo come malato da giorni e pretese che sua sorella, la povera Pantasilea, si mettesse subito al suo capezzale. Spogliatosi e indossati abiti da camera sporchi da giorni, l'uomo si stese a letto e si fece portare del brodo caldo e una cuffietta da notte più pesante di quella che già aveva.

Il suo scopo era di sembrare febbricitante, perciò chiese alla sorella di spruzzargli perfino delle gocce di limone negli occhi, per renderli lacrimanti e cisposi, e poi cominciò a rantolare, pronto a continuare la recita dinnanzi agli emissari papali.

Implacabili come la scure di un boia, gli inviati del Borja arrivarono prima che fosse sera. Il Baglioni, fingendosi ligio al dovere malgrado la situazione precaria della propria salute, li accolse nella sua camera da letto, che già puzzava di chiuso e di vaso notte, debitamente riempito al solo scopo di appestare l'aria e rendere più credibile l'intera messinscena.

Imbarazzati, i messi gli spiegarono che il Valentino lo desiderava con urgenza in Romagna, a Cesena, o Imola, o Faenza, o Forlì, o dovunque preferisse.

“E qual è il motivo di tanta urgenza?” chiese Giampaolo, puntellandosi con un gemito e puntando gli occhi arrossati verso i portavoce di Cesare.

“Vuole discutere con voi del da farsi...” spiegò uno dei messi: “E vuole... Vuole darvi una carica e insignorirvi di...”

Il Baglioni tossì con forza e sussurrò: “Accetto di buona voglia... Ma prima dovremo attendere che io sia in grado d'alzarmi dal letto...”

“Qual è il morbo che lo tormenta?” chiese uno dei portavoce, rivolgendosi a Pantasilea, come se il padrone di casa fosse sordo, oltre che febbricitante.

La giovane, spaventata da tutta quella situazione, percependo quanto fosse pericoloso l'inganno messo in piedi dal fratello, scoppiò solo a piangere, senza rispondere.

Giampaolo, grato a quella sciocca della sorella per la sua debolezza, si schiarì la voce e disse, con finta forza morale: “I miei medici non ne sono sicuri... Pareva gotta, poi mal francese, infine febbri invernali, ma di fatto ancora non si sa. Stiamo provando delle cure... Per ora, comunque, non posso salire a cavallo, e nemmeno lasciare anche solo questo letto...”

“Certo...” annuì uno degli inviati papali: “Certo... Il Duca... Il Duca è uomo di senno, capirà e attenderà.”

Il Baglioni sentì il cuore risollevarsi nel petto. Ringraziò di cuore e si finse affranto per quel contrattempo. Chiese a uno dei suoi servi di accompagnare 'lor signori adorati' alla porta del palazzo e poi attese una ragionevole ora, prima di svestire i panni del malato e indossare abiti da viaggio, cintura con spadone e cotta di maglia.

“Ma cosa..?” fece Pantasilea, vedendolo riempire una scarsella di monete d'oro.

“Stai zitta!” gli intimò lui, puntandole contro l'indice.

“Scappi? E che ne sarà di me?” chiese la Baglioni, un nodo allo stomaco e, forse per la prima volta, il desiderio che suo marito Bartolomeo – per lei ancora quasi uno sconosciuto – arrivasse a portarla via da quel ginepraio.

“Tu starai qui, piangerai e ti lamenterai come fai sempre!” sbottò l'uomo: “Dirai a tutti che sono malato, malatissimo... Morente! E che voglio solo le tue cure.”

“Non potrò coprirti a lungo...” fece notare lei, in uno slancio di realismo.

“Mi basterà qualche giorno, il tempo di essere lontano da qui.” tagliò corto lui, assicurandosi un pugnale alla gamba: “Ora devo andarmene.”

Nascosto dalle tenebre della precoce notte dicembrina, Giampaolo lasciò quindi Perugia, assieme a uno sparutissimo gruppo di amici fedeli e prese per le campagne, deciso a non fermarsi per almeno un giorno intero, perché, in cuor suo, sapeva che di più sua sorella non sarebbe riuscita a reggergli il gioco.

   
 
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