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Autore: Adeia Di Elferas    19/10/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“No, vi dico...” insistette Andrea Doria, permettendosi di frenare il gesticolare convulso di Giovanna da Montefeltro afferrandola per entrambi i polsi: “Ho visto anche degli uomini fedeli a Miguel de Corella... Non si può più aspettare.”

La donna, che aveva giurato a se stessa di non lasciare che Senigallia cadesse nelle mani del Valentino, si sentiva stanca e sconfitta, ma non voleva per nessuna ragione dar retta al condottiero che, premurosamente, le stava dicendo da tutta sera che ormai, per lei e per il figlio, la fuga era l'unica scelta ragionevole.

“Oliverotto ha con sé mille fanti o più e almeno una cinquantina di cavalli... Conoscete le nostre forze e sapete che non possiamo resistere a lungo.” fece il ligure, con fermezza, scorgendo alle spalle della Montefeltro gli occhi brillanti di Francesco Maria Della Rovere: “Se non lo volete fare per voi, pensate a vostro figlio!”

Richiamata alla realtà da quell'esclamazione, Giovanna smise per un istante di divincolarsi. Si asciugò una lacrima raminga e poi abbassò lo sguardo.

Poteva sentire molto bene anche lei il fracasso fuori dalla cittadella. Sapeva che non solo Oliverotto, ma anche il Vitelli e i due Orsini, Paolo e Francesco, stavano preparando la festa per lei e per suo figlio. Era altresì cosciente che il popolo non avrebbe affatto parteggiato per i Della Rovere o, ancor meno, per i Montefeltro, in caso di necessità.

Ufficialmente non avevano dato il sacco alla città, né l'assedio alla cittadella, accontendandosi, dicevano, di sapere lei e il figlio in città. Era ovvio, a suo modo di vedere, che avrebbero usato la sua ipotetica fuga come scusa per sferrare il colpo di grazia. Tuttavia, se anche non fosse scappata, verosimilmente avrebbero atteso l'arrivo del Valentino e poi sarebbe stato lui in persona a ucciderla assieme a Francesco Maria, magari dopo averli additati come traditori.

E il popolo, ne era sicura, avrebbe riso e applaudito dinnanzi ai loro cadaveri. Malgrado tutte le brutture che si dicevano di Cesare e malgrado l'aura di odio che si portava appresso, nessuno gli si sarebbe ribellato, anzi, lo avrebbero acclamato come un salvatore... Il Borja era ancora troppo forte e troppo temuto... Per sconfiggerlo sarebbe servita un'azione condivisa e unita, come si era pensato all'inizio, quando ancora i condottieri ribelli potevano dirsi tali. Ormai cos'era rimasto?

“Vi dico che posso resistere ancora qualche giorno, il tempo di sapervi lontani.” riprese Andrea, che non vedeva l'ora di togliersi di torno sia lei che Francesco Maria: “Tempo che sarò costretto alla resa, voi sarete già a Venezia. Da lì sì che potrete fare qualcosa di concreto...”

“E cosa?” chiese, cupa, la Montefeltro.

“Pagare uomini, imbastire conoscenze, tessere amicizie e, soprattutto, ragionare a mente fredda.” si permise di dire lui, sempre più spazientito: “Qui ormai c'è poco da fare, se non metter mano alla spada e resistere a oltranza. E voi, mia signora, con tutto il rispetto, non siete certo la Tigre di Forlì!”

La vedova di Giovanni Della Rovere fece uno sbuffo, sollevando la mano. Erano ormai quasi tre anni che tra i soldati di tutta Italia Caterina Sforza era diventata simbolo unanime di una donna dallo spirito guerriero e dalla forza sovrumana. La cosa che innervosiva la Montefeltro era pensare come quella donna, di cui aveva sentito tanto parlare e sempre con un velo di malizia, avesse fatto tanta presa sull'immaginario collettivo solo dopo la sua disfatta. Se qualcuno avesse preso esempio da lei anche prima e avesse colto il suo disperato appello all'unirsi contro gli stranieri prima e il Borja poi, forse ora non si sarebbero trovati tutti nella palude in cui stavano annegando uno a uno...

“Va bene, ce ne andremo.” decise alla fine Giovanna: “Francesco, hai sempre con te il pugnale che ti ho dato l'altro giorno?”

Il ragazzino annuì, ma poi aggiunse, fremente: “Io voglio restare a combattere!”

“Combattere contro gli uomini del Valentino non è come sventrare un gatto...” scosse il capo il Doria, che per nessun motivo al mondo voleva avere il Della Rovere alla cittadella un minuto di più: “Siete troppo giovane, avrete tempo per imparare l'arte della guerra. Ora dovete badare a vostra madre!”

Francesco Maria, benché poco convinto da quelle parole, incrociato uno sguardo carico di significato della Montefeltro non sollevò altre obiezioni.

Nel giro di nemmeno mezz'ora, Andrea si fece trovare travestito da contadino. Anche Giovanna e il figlio sembravano dei semplici villici e con loro, per sicurezza, avrebbe viaggiato anche un soldato, grande e grosso, capace di spezzare l'osso del collo di un nemico usando una sola mano.

Passando da un ingresso noto a pochi, il Doria li scortò tutti fuori dalla cittadella. Nel buio della notte, silenziosi e rapidi, passarono inosservati. Arrivarono alla strada di Firenze, la più vicina e la più sicura e solo allora il condottiero li congedò.

“Da qui in poi sapete che fare.” disse, rivolgendosi alla Montefeltro: “Io farò quello che posso per convincerli che voi siete ancora alla cittadella. Ogni giorno guadagnato sarà un giorno di vita in più, per noi.”

Contravvenendo ai suoi costumi, che la volevano distaccata con coloro che riteneva subalterni, la donna lo abbracciò per un breve istante e poi, riprendendo il suo cipiglio, si rivolse al figlio e al soldato che li avrebbe accompagnati: “Andiamo. Voglio essere abbastanza lontana da qui entro l'alba. Andremo a Firenze, innanzitutto e da lì vedremo cosa fare.”

Andrea, che pur li avrebbe preferiti già in viaggio per Venezia, capiva che fosse più logico e prudente fare quella deviazione e da lì riorganizzarsi meglio. Firenze non era loro amica, ma la Montefeltro sosteneva di avere abbastanza agganci da poterla ritenere non ostile.

Così l'uomo li guardò allontanarsi nel buio, chiedendosi se mai li avrebbe rivisti, e poi invertì il senso della marcia.

Nel rientrare, stando sempre attento a non farsi vedere da nessuno, Andrea tese l'orecchio e aguzzò la vista e di colpo si accorse di cose che, all'andata, non aveva notato. Sentì l'aria fredda nei polmoni, vide le stelle luminosissimi sopra di lui, udì il fischio lontano del vento e, soprattutto, ebbe una consapevolezza del proprio corpo che di solito gli mancava. Si sentiva respirare, camminare...

Ogni battito del suo cuore era come il colpo di un tamburo e i suoi muscoli, che si contraevano a ogni suo movimento, erano pieni di vita.

Cosa gli sarebbe rimasto di tutto quello che stava provando, una volta tornato in città? Cosa l'attendeva a Senigallia? Solo la morte. Ormai non poteva nemmeno più illudersi che l'attendesse la gloria, perché se anche fosse morto combattendo, la spada nel pugno e il volto coperto di sangue nemico, chi si sarebbe ricordato di lui?

Nessuno.

Morivano come mosche, ormai, nell'inutile tentativo di scrollarsi di dosso il Valentino. Nessuno si ricordava più nemmeno chi fosse morto il mese prima, figurarsi un anno prima o anche di più... Si parlava ancora della Leonessa di Romagna, certo: ma solo perché, malgrado tutto, era riuscita a restare viva...

Vedendo incombere su di sé le scure mura della cittadella, Andrea Doria si fece un esame profondo e, nel momento in cui varcò di nuovo la soglia di quella che rischiava di diventare la sua tomba, sapeva già cosa avrebbe fatto: sarebbe rimasto vivo.

 

Bianca dormiva ormai da un paio d'ore, mentre il piccolo Pier Maria ancora non sembrava accennare ad assopirsi.

Caterina, che si era infilata nella camera della figlia subito dopo cena, portando con sé il piccolo, lo teneva sul petto, e, seduta com'era vicino al camino ancora acceso, lo accarezzava lentamente, cercando di fargli prendere sonno.

Da quando Fortunati aveva lasciato la villa, le notti sembravano troppo lunghe, alla Tigre, e stare con il nipote e la figlia spesso le pareva un buon modo per vincere la solitudine. Aveva ripreso a dormire poco e il giorno prima aveva avuto anche un po' di febbre, ma escludeva il fatto di essere prossima a un attacco di febbri, come a volte le accaduto negli anni passati. Semplicemente i primi freddi, o forse la preoccupazione – che iniziava a crescere – per il processo che sarebbe iniziato di lì a qualche settimana, dovevano averla scossa e averla portata a reagire a quel modo.

I suoi occhi verdi indagavano ora la testolina bionda e un po' spiumata del nipote, a tratti quella in parte nascosta dalle coperte della figlia e, infine, le fiamme del camino, che garrivano come tante bandiere color sangue e oro.

La sua mente stava facendo cerchi sempre più stretti e intersecati, tanto che il pensiero, a tratti, sconfinava quasi nell'incoscienza. Per sicurezza, visto che anche il piccolo sembrava prossimo, finalmente, a prendere sonno, la donna lo andò ad adagiare nella culla che aveva messo accanto alla poltrona. Rimessasi comoda, la Sforza reclinò un po' il capo e provò a chiudere gli occhi.

Senza capire come fosse successo, si trovò nel mezzo della battaglia, in sella al suo stallone nero e con la spada in pugno. Sentiva le grida dei suoi uomini, l'odore soffocante della polvere e, più di tutto, il calore degli schizzi di sangue dei nemici. Tutto era pericolo, tutto era confusione, tutto era guerra.

Eppure, malgrado la fatica fisica, la confusione e la costante incertezza, quell'ambiente a Caterina era familiare, quasi congeniale. Si muoveva con scioltezza, sferrava colpi, senza nemmeno vedere chi stesse uccidendo, e guidava il suo cavallo con la sicurezza che mille volte aveva ostentato, sia in battaglia, sia a caccia.

All'improvviso, però, sentì l'animale venire meno sotto di sé e si trovò in terra, in mezzo al fango, e più si muoveva per rialzarsi, più si impantanava. Non le ci volle molto per capire che quello in cui annaspava non era fango, ma sangue denso e rovente come piombo fuso.

Più cercava un appiglio, più tutto ciò che trovava erano solo pezzi di cadavere, teste senza occhi né lingua, ossa spezzate e muscoli disfatti... Proprio su una coscia aperta e sfascicolata riuscì infine a far presa. Quando tornò a respirare, guardò oltre e capì a chi apparteneva quell'arto così dilaniato.

Il bel viso del suo Giacomo era irriconoscibile. Il suo ventre era squartato e ormai inesistente... Non era rimasto più nulla dell'uomo che Caterina aveva amato alla disperazione...

Voltandosi, per scappare, inciampò in altri cadaveri, e li riconobbe tutti. Era come a Ravaldino, la notte della resa: camminava sui corpi, inciampando in bocche aperte e sterni squarciati.

“Non puoi scappare...” le disse una voce che riconosceva anche troppo bene: “Devi restare con noi...”

Scappò da un Ludovico Marcobelli pesto e sfregiato, che allungava le mani incatenate verso di lei e poi, proprio mentre le sentiva, gelide e viscide, sulla sua schiena, la Tigre si svegliò di colpo.

Respirando a fatica, si alzò di scatto e si andò a mettere tanto vicino al camino da rischiare di bruciarsi. Appena il cuore tornò a battere normalmente, si voltò verso la figlia e il nipote e, per fortuna, entrambi dormivano ancora.

Con passo leggero, decisa a non riaddormentarsi finché non fosse riuscita a calmarsi davvero, uscì dalla stanza e andò con decisione verso le cucine.

Quella sera, a cena, avevano mangiato delle lepri che un mezzadro che aveva il podere non lontano dalla villa aveva venduto espressamente a Creobola in segno di apprezzamento per la Leonessa. Era difficile, infatti, che la gente del luogo volesse avere a che fare con loro, stante la fama della Sforza e le voci che giravano circa i suoi dissapori con Lorenzo il Popolano, ma ogni tanto qualche gesto di gentilezza capitava.

La Tigre ricordava benissimo che ne avevano avanzate un paio, che sarebbero state servite il giorno dopo. Le sembrò che mangiarne una subito, accompagnata da un po' di vino, prima che fosse l'alba, l'avrebbe aiutata a superare la notte in modo migliore.

Raggiunte le cucine, la donna si aggirò un momento per i locali, per controllare che tutti fossero a dormire, e poi andò a cercare una delle due lepri raminghe. La trovò senza sforzo, e il profumo che emanava rafforzò il suo desiderio di riempirsi la pancia.

Accendendosi un paio di lumi, la donna si servì una lepre intera e mise sul tavolone della cucina anche una caraffa di vino con una coppa in legno, di quelle che, di solito, venivano usate dalla servitù.

Era già arrivata a mangiare quasi metà dell'animale, assorta nei suoi pensieri, quando sentì sei passi ovattati arrivare dall'ingresso. Smettendo per un istante di masticare, rimase in attesa, gli occhi puntati verso la penombra da cui era giunto il rumore cadenzato, e si permise di rilassarsi solo quando riconobbe il profilo asciutto di frate Lauro.

L'uomo, che non si era aspettato di trovare qualcuno, si fermò di colpo e attese sull'uscio un cenno per poter proseguire. Siccome la Tigre gli fece segno di avvicinarsi pure, Bossi mosse ancora qualche passo, fino a trovarsi illuminato pienamente delle candele accese.

“Cosa ci fate sveglio a quest'ora?” chiese la Leonessa, tagliente, ma senza aggressività.

Il frate la osservò per un lungo istante. Aveva sentito molti dire che la Sforza non era più stata la stessa, dopo la prigionia a Roma. Gli dicevano che era infiacchita nel corpo e nell'animo, che non era più la donna fiera e feroce che aveva saputo tenere in scacco l'Italia per anni... Eppure in quella luce strana, complice forse l'ora tarda e il silenzio che li circondava, gli sembrava che la Tigre emanasse un qualcosa di diverso da chiunque altro, una sorta di quieta forza pronta a scatenarsi all'improvviso diventando fuoco e tempesta.

Quando parlò, comunque, Bossi non lasciò trasparire nemmeno l'ombra della sua inquietudine, e, anzi, sorrise come sempre: “Alla mia età dormo poco...”

Caterina, quasi soprappensiero, mise in bocca un altro pezzetto di lepre e commentò: “C'è differenza tra il non riuscire a dormire e vagare per casa in abiti da camera...”

Frate Lauro sorrise ancora di più, guardandosi, come se si fosse accorto solo in quel momento di indossare un camicione da notte e basta: “Alla mia età, mia signora, si tende anche a lasciar andare certi pudori... Comunque volevo solo venire a bere un po' di acqua...”

La Sforza non disse altro in merito, sollevando un sopracciglio e deglutendo la carne ancora morbida e succosa della bestiola: “Ne mangerei dieci, di queste...” sospirò.

“A cena, poco ci è mancato...” ridacchiò lui, andando a sedersi accanto a lei.

“Infatti sto ingrassando...” ammise la Leonessa, che si era accorta benissimo di come tutto il peso recuperato dopo la prigionia non si era trasformato di nuovo in massa muscolare, ma in qualcosa di molto più soffice e poco atletico: “Se solo potessi uscire a cavallo o tirare di spada...”

Il religioso sentì il proprio incrollabile sorriso farsi un po' meno vivace e le chiese, in uno slancio di confidenzialità: “Come state?”

Caterina rimase un po' stranita da quella domanda, dato che da Bossi era difficile che partisse un interessamento genuino di quel tipo. Tuttavia quel momento la trovava particolarmente vulnerabile e così fu per lei estremamente facile dar voce al tormento che l'accompagnava da quando si era risvegliata preda degli incubi.

“Credete che ci sia una speranza di redenzione anche per una donna come me?” domandò, senza preamboli.

Fu il turno di frate Lauro di trovarsi impreparato dinnanzi a una domanda. In tutta onestà, non sapeva come affrontare la questione senza far richiudere a riccio la milanese. Aveva sentito dire che, nel corso delle sue visite alle Murate, si fosse un po' riavvicinata alla Fede, ma ci aveva creduto molto poco. Quella domanda, però, apriva una nuova finestra e Bossi voleva far di tutto affinché non la si chiudesse subito.

“Dio... Dio ha perdonato anche peccatori peggiori di voi. Gesù ha redento i ladroni... Li ha voluti al suo fianco, nel suo regno...” cominciò a dire l'uomo, abbassando lo sguardo e facendosi così serio da non sembrare nemmeno lui: “Perché mai non dovrebbe redimere anche voi?”

“Perché di certe cose non riesco affatto a pentirmi.” riassunse lei, il cosciotto ormai spolpato della lepre ancora in mano e gli occhi verdi che indagavano il volte del frate, in cerca di un appiglio cui aggrapparsi per la propria salvezza.

Siccome, però, l'anziano non accennava a commentare, apparendo, anzi, in grossa difficoltà, Caterina scosse il capo, si affrettò a finire di mangiare e bevve in un sorso il vino che le restava nel calice.

Alzandosi, si schiarì la voce e gli disse: “Se soffrite d'insonnia perché dovete usare troppo spesso il vaso da notte, ho una pozione nel mio ricettario che potrebbe aiutarvi.”

“Ma io non...” si schermì Bossi, con un sorriso, stavolta, intimidito.

“Non imbarazzatevi con me... Conosco gli uomini meglio di quanto conosca tante altre cose e so che a una certa età si fanno deboli di vescica.” tagliò corto la Leonessa: “Domani vi preparerò una piccola scorta di pozione e vedrete che ne avrete beneficio.”

“In tal caso... Grazie.” soffiò l'uomo, capendo quanto fosse inutile, per non dire ridicolo, negare ancora l'evidenza.

“E ricordatevi l'acqua.” concluse la milanese, andando alla porta.

“L'acqua..?” chiese, confuso, il frate.

“Avevate detto di essere qui per bere un po' d'acqua...” ridacchiò lei, sollevando una mano in segno di saluto: “Se dovete usare una scusa, dovete anche cercare di ricordarvela, frate...”

 

Andrea Doria, rientrato alla cittadella, si chiuse per qualche momento nel suo studiolo, con la scusa di ricontrollare una volta di più le mappe della città. In realtà la sua grande indecisione stava nel mettere in atto all'istante il suo piano, o posticiparlo di qualche ora. In tal caso gli conveniva smettere i panni da contadino che indossava e rimettersi almeno il piastrone dell'armatura...

Il condottiero era ancora indeciso, quando sentì bussare. A cercarlo era il suo secondo, e voleva dirgli che un portavoce del campo pontificio era all'ingresso della cittadella e pretendeva di parlare subito con lui.

“Vuole assicurarsi che Madonna sia ancora qui – spiegò il soldato – e così suo figlio Francesco Maria, così come erano gli accordi...”

Andrea sentì il cuore fremere e mentre rispondeva: “Certo, certo... Ditegli che sarò da lui tra dieci minuti...” già pensava a come aggirare quell'enorme imprevisto.

Non appena fu di nuovo solo, il Doria si appoggiò con entrambe le mani alla scrivania ingombra di carte e cominciò a sudare freddo. Gli ci vollero quasi cinque minuti per riuscire a muoversi di nuovo.

Rapido come un gatto, si svestì e si rimise all'uso del mondo, e uscì in fretta dallo studio, per andare a cercare una sguattera che ben conosceva e che non gli aveva mai negato i suoi servigi e tanto meno le sue grazie.

“Corri in camera di Madonna da Montefeltro – le ordinò – e indossa la prima veste da notte sua che trovi nella cassapanca.”

La giovane, terrorizzata, lo guardava senza replicare, conscia che quello che le si stava chiedendo fosse pericoloso, ma necessario per la salvezza di tutti loro.

“Quando mi sentirai entrare con qualcuno nella camera, resterai immobile. Immobile, hai capito? E farai finta di dormire. Resterai coperta fino al mento, nasconderai il viso nel cuscino e farai finta di non aver sentito assolutamente nulla...”

Pallida e scossa, la sguattera, strappata al sonno all'improvviso, era ancora in parte confusa, ma annuì un paio di volte, per far capire che avrebbe eseguito l'ordine senza problemi.

Andrea, però, era così nervoso che si sentì in dovere di prenderla per le spalle e ripeterle: “Dovrai fingere di dormire profondamente. Siamo intesi? Se non lo farai, saremo tutti morti!”

Dato che la poveretta ancora annuiva e assicurava di aver capito, il Doria non poté far altro che fidarsi e, dandole un buffetto sulla guancia, la ringraziò e le intimò di correre subito nella stanza della Montefeltro e fare quanto le era stato detto.

Con il fiato corto, l'uomo raggiunse di corsa l'ingresso della cittadella e lì trovò il messo pontificio.

Era armato e vestito di seta e pelliccia, portava cucito sul petto il toro dei Borja e nella mano sinistra teneva entrambi i guanti di cuoio che doveva aver indossato fino a un istante prima.

“Sono qui per vedere Giovanna da Montefeltro e assicurarmi che lei e il figlio siano ancora qui, come erano gli accordi.” annunciò l'uomo e poi soggiunse: “In caso contrario, sapete cosa vi attende... Messer Oliverotto aspetta solo un mio cenno per dare l'ordine d'attacco...”

“Prego, venite con me.” fece subito Andrea, facendogli strada.

Impressionato da una simile solerzia, il messo lo seguì all'istante, sorbendosi, per tutto il tragitto, la voce trafelata del condottiero, che spiegava come Madonna fosse molto suscettibile, quando si trattava del proprio riposo e che, se fosse stata già addormentata, cosa molto probabile, a quell'ora, svegliarla sarebbe stata un'imprudenza inaudita.

“Sarebbe capace, che Dio mi perdoni, di staccarvi la testa dal collo – sussurrò, fingendosi a sua volta spaventato dalla possibile furia della sua signora – e non le importerebbe se così facendo iniziasse la guerra...”

Deglutendo, il messo annuì e attese che fosse il Doria ad aprire la porta della camera da letto, quasi a volerlo mettere in prima linea, nel caso ci fosse bisogno di immolare qualcuno sull'altare della collera di quella donna.

“Eccola...” bisbigliò Andrea, appena udibile, indicando la cuffietta che si intravedeva nel buio sui cuscini: “Sta dormendo...”

L'inviato dei borgiani, per quanto spaventato da tutto il panegirico fatto dal condottiero, in silenzio volle comunque avvicinarsi. Anche se la stanza non era illuminata se non da quel poco che restava nel camino, fu sicuro che sotto le coperte ci fosse una donna e che, grossomodo, benché paresse più giovane, potesse somigliare alla descrizione che gli era stata fatta della Montefeltro.

“E il figlio?” chiese, riavvicinandosi al Doria e sussurrando tanto piano che il condottiero dovette andare a intuito per capire cosa avesse chiesto.

“Nella stanza accanto...” fece Andrea, indicando una porticina – che in realtà portava a una cameretta di servizio – proprio vicino alla testata del letto: “Se passerete da lì, però, di certo la sveglierete, col cigolio della porta...”

“A posto così.” decretò quindi il messo, che riteneva improbabile che quella donna avesse fatto partire il figlio dodicenne da solo, restando come unica possibile preda dei borgiani.

Entrambi soddisfatti, anche per motivi molto diversi, il Doria e il messo uscirono dalla camera e tornarono verso l'ingresso della cittadella. Si scambiarono convenevoli degni di amici fraterni e poi si salutarono quasi che davvero ci tenessero a rivedersi in un futuro.

Non appena il portone fu richiuso, Andrea corse nel suo studio, facendosi seguire dal suo secondo.

Si cambiò di nuovo, indossando gli abiti da contadino, e poi si rivolse al soldato e gli disse, con voce tremante, ma senza ombra di ripensamenti: “Dovrai coprire la mia assenza il più possibile. E quando dal campo arriveranno proposte di resa, parlerai in mia vece e spiegherai che io mi arrenderò solo ed esclusivamente a Cesare.”

L'altro annuì, senza capire a fondo quelle richieste, ma fidandosi, come aveva sempre fatto, di un uomo che sembrava aver fatto della guerra la sua unica ragione di vita. Proprio quella convinzione gli rendeva impossibile pensare che il Doria, quella volta, stesse semplicemente scappando.

Mentre Andrea lasciava la cittadella di nascosto e si addentrava di nuovo nel buio della notte dicembrina che avvolgeva Senigallia, al campo pontificio si brindava e festeggiava, immaginandosi come sarebbe stato bello prendere la cittadella, nei giorni seguenti, e catturare Giovanna da Montefeltro e il figlio, passandosi la prima da una branda all'altra, come l'ultima delle meretrici da accampamento e passando il secondo a fil di spada.

   
 
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