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Autore: lo_strano_libraio    22/10/2022    1 recensioni
Cosa successe nei mesi tra la morte di Billy e l’attacco di Vecna, nella vita di Maxine Mayfield? Scopritelo in questa storia angst, ricca di emozioni forti, misteri e colpi di scena!
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dustin Henderson, Lucas Sinclair, Maxine Mayfield, Mike Wheeler, Undici/Jane
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Capitolo 7-Mai dire: “ti odio”

 

Max era distesa a faccia in giù sul cuscino, bagnato fradicio delle sue lacrime. La sua voce era raggomitolata in un singhiozzare forte e alternato dalle pause per prendere respiro, carburante per riprendere a piangere. Si reggeva disperatamente alle ante del letto, come se dovesse trattenersi da qualcuno o qualcosa che la volesse tirare via da lí. Undi la consolava accarezzandole la schiena e sostenerla a sfogarsi.

“Coraggio dai, butta tutto fuori, ti fará solo che bene.”

La signora Wheeler era anch’essa seduta a lato del letto tenendole le trecce dietro la schiena in modo che non le andassero sugli occhi e la guardava con i suoi umidi; sua figlia maggiore in piedi vicino la porta chiusa, con le braccia conserte e incapace di decidere sul da farsi, le dispiaceva non poter essere d’aiuto.

“La odio! La odio! LA ODIOOOOO!”

Dopo questo climax di sfogo, finalmente la ragazzina si girò e asciugandosi le lacrime, rossa in volto, cercò di calmarsi.

“Lei...non era così, é sempre stata un po’ apprensiva e a volte litigavamo, ma non ha mai avuto problemi di alcol; non avrei mai pensato che saremmo potute arrivare a questo punto.”

“Oh, tesoro ma é normale: sei sua figlia, e quello che hai appena detto significa che gli vuoi bene; ma vedi, a volte le persone soffrono molto, e ci sono periodi in cui per il dolore fanno cose stupide, che normalmente non farebbero.”

Karen le accarezzava il viso, e nelle sue parole si leggeva quella stessa premura che avrebbe rivolto a uno dei suoi figli.

“Ma non é colpa mia se Billy e morto...non è colpa mia...”

“Ma certo che no! É stato un incendio, un tragico incidente; sono sicura che non lo pensa neanche lei.”

Mentre sua madre confortava Max, Nancy e Jane si scambiarono un occhiata di sconforto, comprendendo che lei non poteva sfogarsi veramente con sua madre, perché non poteva di certo dirle cosa fosse realmente successo quella notte al Starcourt. Max guardò la padrona di casa in volto.

“So che il patto era di aspettare fino a che lei fosse tornata, e di certo non è stato bello fare quella scenata proprio la sera di Natale quando ci stavamo divertendo; quindi non si preoccupi, tornerò a casa da mia madre questa sera stessa.”

“No, il patto era che saresti andata in ospedale domani, e così sarà, perché dobbiamo assicurarci che tu stia bene.”

Poi abbassó un attimo lo sguardo, per posarsi nuovamente su di lei ma con un tono doloroso: stava per dire qualcosa che non avrebbe voluto. Max lo percepì e contraccambiò caricandosi di ansia ma anche curiosità.

“Ascolta tesoro, sto per dirti qualcosa che ti farà male, ma ti assicuro che non te lo dirò per offenderla o allontanarti da lei in nessun modo. Anzi, voglio che te ne renda conto per aiutare te e lei: stasera non sembrava in pieno controllo delle sue facoltà mentali; l’ho vista dritta negli occhi e aveva il rossore di chi ha bevuto. Non era ubriaca, ma era comunque alterata dall’alcol.”

“Confermo, ero affianco a lei, e sentivo l’odore venire dalla sua bocca.” Annuí Nancy.

Max non sembrava offesa, ma dall’inclinazione degli occhi si intravedeva molta tristezza e imbarazzo. Karen Wheeler la prese per mano.

“Quello che voglio dire è che forse hai fatto bene a non seguirla stasera: le serve aiuto e non devi essere da sola nel darglielo. Quello che ti ha fatto non va bene! Non devi giustificarla o proteggerla dalle sue responsabilità, perché tu sei una minorenne che dipende da lei, ma puoi aiutarla a rimettersi sulla retta via. Capisco perché ti sei nascosta da loro, sei stata buona con lei, ma i servizi sociali vi possono aiutare.”

A sentire di nuovo quelle due parole Max fece un piccolo sobbalzo indietro e tirò un brevissimo sospiro. Evidentemente, era terrorizzata all’idea di cosa avrebbe potuto comportare farli entrare nella sua vita.

“So cosa stai pensando, ma no, non preoccuparti; girano tante storie esagerate su di loro: non ti allontaneranno da tua madre, lo fanno solo in casi davvero estremi. Loro possono aiutarla seriamente a uscire dal tunnel dell’alcolismo e impedirti di soffrire di nuovo la fame.”

Lei sembrava capire e mentre Karen finiva la frase, incominciò ad annuire. Poi prese la parola.

“Il fatto è che...sono così stufa di sentirmi in colpa per quello che è successo; non è giusto che lei mi tratti sempre con quella sufficienza di chi parla con qualcuno in torto, e che io alla fine finisca sempre per incolparmi davvero.”

Tutte e tre le si avvicinarono per farle sentire la loro presenza.

“Oh, finalmente l’hai capito: devi pensare anche a te stessa!” Le sorrise Jane.

Max guardò tutte a una a una negli occhi, piena di gratitudine, si asciugò gli occhi e sorrise. A quel punto la signora Wheeler non poté trattenersi dal darle un abbraccio, a cui si aggiunsero anche le altre due in un incontro fisico collettivo. Entrò nella stanza Holly, con un foglio di carta in mano. Si avvicinò a lei e glielo porse: era un disegnino fatto da lei.

“Max non voglio che stai male perché litighi con la tua mamma, così ho fatto un disegno dove” e indicò sopra col dito “ci sei tu con lei, e sorridete e siete felici, così se glielo fai vedere, magari magari, fate pace e succede davvero!” La bimba esprimeva tutto il suo entusiasmo, quasi fosse un piano di un diplomatico dell’ONU per porre fine a una guerra. Max si sentiva sciogliere dalla tenerezza di questa proposta e non poté trattenersi dal darle un abbraccio forte. “Oh Holly...spero proprio che sarà così”.

Lucas bussò alla porta e Nancy gli aprí, le ragazze compresero che fosse il momento di lasciarli un attimo soli. Max lo guardava con occhioni grandi e umidi dallo sfogo precedente, ma con una tristezza interna che trasudava copiosamente un: scusami per prima” senza che dovesse essere detto. Lui si sedette al suo fianco, ma prima che iniziasse a parlare lei gli diede un lungo bacio, e i due rimasero così a lungo, esprimendo quello che volevano dirsi senza parole. 

Il giorno dopo Max venne accompagnata all’ospedale dove i medici iniziarono a farle dei controlli. Le paure di Nancy si dimostrarono fondate, per fortuna soltanto a metà: aveva una carenza di alcune sostanze e vitamine in corpo, ma niente di grave. Le avrebbero fatto seguire quindi una dieta iper proteica, tenendola in osservazione per alcuni giorni, facendole contemporaneamente degli esami. In quelle giornate ricevette anche alcune visite, molto speciali: i due agenti dei servizi sociali fecero la loro comparsa, muniti anche questa volta del gelato di Captain Ahoy. 

“Lo abbiamo testato per te l’altra volta, e devo dire che hai degli ottimi gusti Maxine”. Scherzava James, il ragazzo del cui nome aveva appreso dal cartellino al collo. Lei li ascoltava seduta nel letto d’ospedale, con indosso il camice da paziente. Si strafogava del gelato nella vaschetta, come se fosse l’ultimo che avrebbe mangiato in vita sua, incurante del fatto di avere i capelli sciolti davanti al viso, rischiando di sporcarli di crema, nella sua voracità.

“Accidenti, quanto sono stata stupida a rifiutarlo...” Decantava assaporando un abbondante cucchiaiata; alzò gli occhi e li guardò come se fossero dei messia. 

“Scusate se non vi ho aperto l’altro giorno, ero...molto confusa...” scuoteva la testa abbassata, vergognandosi per le sue azioni di quella giornata. 

“Oh beh, almeno non ci hai sparato addosso, non sai quante volte ci succede...” replicò con tono ironico ma rassicurante, Rosalie, la signora afroamericana, superiore di James. Max rise immaginandosi con un fucile a canne mozze, sparare dalla finestra a gente che bussa alla sua porta, come un perfetto bifolco redneck che vive in una palude. 

dovette chiedergli una cosa:

“Ma come facevate a sapere quale fosse il mio gusto preferito?”

“Beh ce l’ha detto lui”. Rispose indicando la porta Rosalie. 

Era ferma sulla porta una persona che non aveva notato entrare: era Bob. 

“Ciao Maxine, come stai?” C’era nella sua voce quel tipo di incertezza che c’è in chi é dispiaciuto di qualcosa successo con chi si sta parlando. Ma ancora di più si leggeva dispiacere nello sguardo di Max, con quegli occhi semichiusi a mezza luna, tristi ma volenterosi di comunicare qualcosa di positivo. Posó la vaschetta sul comodino, e mentre i due assistenti sociali uscivano per lasciarli parlare da soli, si puliva la bocca col tovagliolo per rendersi il più presentabile possibile. Finito, la sua bocca si socchiuse più volte, nel disperato tentativo di trovare qualcosa da dire. 

“M-mi disp...mi dispiace Bob: sono stata ingiusta con te, scusami ti prego...”

Lui sentiva che era sull’orlo di piangere, così si avvicinò premurosamente al letto.

“No, no, tranquilla! Mi hanno spiegato cosa ti è successo, e io non ho gestito ottimamente la cosa.”

“Ma come?! Non sei arrabbiato con me per le cose orribili che ti ho detto? E per aver rotto quel cartonato, soltanto per farti un dispetto?” 

Gli occhi di Max si spalancarono: era genuinamente sorpresa, circondata com’era da adulti isterici e repressivi, che Bob non fosse arrabbiato con lei. Lui si sedette sulla sedia accanto al letto e gli mise una mano sulla spalla. 

“No, Maxine: credo ti servisse sfogarti, e l’hai fatto. E quei cartonati c’è li regalano le case editrici di continuo: ne avrò una ventina in magazzino; e poi diciamocelo: Superman é sempre stato un po’ un pallone gonfiato, gli hai dato una lezione! La prossima volta che uno di quei nerd verrà a chiedermi quale sia stata la sua più grande sconfitta, dirò: “senza dubbio quella contro Maxine Mayfield, meglio conosciuta come Mad Max!” Dichiarò trionfalmente per concludere facendole l’occhiolino.

Lei rise: Bob era una delle persone più autoironiche che conosceva, ed era questo che più apprezzava di lui. 

“Però Bob...sappi che non penso veramente quelle cose orribili che ti ho detto...” disse piena di senso di colpa, occhi bassi e tono da cane bastonato. Non sembrava però volesse impietosirlo: si capiva fosse genuinamente dispiaciuta e stava vergognandosi della scenata di giorni prima nel suo negozio. Lui le si fece ancora più vicino e le tirò su il mento minuto con la sua manona. 

“Ehi...tutti diciamo a volte cose che non vorremmo dire; erano di pancia ma non di testa, ok?”

Lei annuí e lo abbracciò forte, sollevandosi in parte dal letto. Lui la strinse cercando però di non farle male o di staccarle la flebo. Max non poteva sapere che quella sera, quando uscì dalla sua fumetteria sbottando e sbattendo la porta, i ragazzi e le ragazze presenti risero di lei, e uno di loro arrivò a commentare: “Ma da dove è uscita questa? Sembra scappata da un manicomio!” Aumentando l’ilarità generale. Ma Bob non rideva, era l’unico, ma assolutamente non stava ridendo. Con severa rabbia, tirò a se il ragazzino dal colletto, e alzando un dito guardandolo negli occhi: “Non ti permettere, mai più! Di giudicare qualcuno come lei soltanto perché è stata più sfortunata di te! Non ti immagini neanche cosa possa aver passato, non è un clown venuta qui per il tuo intrattenimento, ma un essere umano come te.” Poi lasciandolo, si girò a guardare tutti indicandoli “E se sento un altro risolino o una battuta su di lei, chi l’ha fatta esce si qui immediatamente, intesi?!” Il silenzio caló nella bottega di fumetti. Bob non aveva moglie o figli, ma se avesse potuto scegliere, avrebbe voluto che lei fosse sua figlia.

Il ragazzone la lasciò e si acucció a un sacchetto che aveva posato a terra.

“E per dimostrarti definitivamente che non sono arrabbiato con te...” fece una pausa per sollevare qualcosa “ti ho portato questo”. 

Gli occhi di Max si illuminarono come nel loro incontro giorni fa, perché davanti a sé c’era la Golden Edition di “Crisi Sulle Terre Infinite”. 

“M-ma, sei sicuro di volermelo regalare? Costa 54$!” 

“Si, assolutamente si: i fumetti sono fatti per essere letti, e tu ne hai bisogno”. 

Lei arrossì e lo guardò come fa chi riceve un inaspettato regalo di Natale, senza saper cosa rispondere, se non un semplice, sincero, dal profondo del cuore:

“Grazie, ti voglio bene.”

Rosalie e James le spiegarono che quando sarebbe stata meglio, avrebbero cercato insieme di risolvere il problema alcolico di sua madre, e fino a quando non sarebbe riuscita a mantenere economicamente entrambe, sarebbero passati ogni settimana a portare loro la spesa, grazie a un programma di aiuto alimentare; nella speranza che il presidente Reagan non lo abolisse. 

Nel pomeriggio, il “party” al completo, accompagnati da Steve, venne a farle visita, ma non sua madre.

Il gruppo esplose d’eccitazione nella sorpresa di vederla sotto la supervisione di un infermiere nel cortile dell’ospedale, sfrecciare e fare acrobazie a bordo del suo skateboard. Era stato dato ai due agenti da sua madre durante una visita a casa, ma non disse loro quando sarebbe venuta a trovarla.

“Sono già passati due giorni...credete che verrà? Sono stata troppo dura con lei...”

“Vedila così” Steve le mise una mano sulla spalla  “ha avuto la premura di dare lo skateboard agli assistenti sociali: significa che ha pensato a te, e ti vuole bene, gli serve solo tempo per riflettere.” 

Quel pomeriggio insegnò ai ragazzi ad andare sullo skateboard, Dustin si dimostrò il migliore tra loro, ed ebbe l’impressione che Jane stesse un po’ barando, correggendo il suo equilibrio coi suoi poteri telepatici, visto che cadeva di continuo all’inizio ma diventò brava stranamente con velocità.

“A proposito Max...devo confessarti una cosa riguardo il tuo skateboard...” le disse con un sorriso imbarazzato. Lei la guardava perplessa, non capendo cosa potesse dirle sul suo passatempo preferito. Poi qualcosa le passò per la testa e si illuminò di felicità ed eccitazione. Prese la sua mano:

“Non mi dire...in California hai iniziato anche ad andare sullo skateboard! Oh quel posto è così magico, se non ci foste voi cercherei con tutta ne stessa di convincere mamma a tornarci!”

“Wow, wow, aspetta: mi dispiace dover deluderti ma non è questo. Vedi...ti ricordi quando tre anni fa cadesti dallo skateboard di fronte a Mike?”

Lei ritornò nella confusione di prima, arricciando le sopracciglia.

“Si...ma, come fai a saperlo? Non c’eri; gliel’hai raccontato tu Mike?”

Lui alzò le mani in segno di resa.

“Assolutamente no! Giuro.”

“No, vedi; sono stata io a farti cadere: non sapevo chi fossi ed ero ancora molto confusa riguardo le relazioni umane. È stata la mia prima scenata di gelosia eheh”. 

Max rimase a bocca aperta: non ci aveva mai pensato, ma aveva perfettamente senso.

“Ah! Lo sapevo, eri veramente tu!” Euforico, Mike abbracciò forte Jane e gli diede un bacio. 

“Ah, ecco perché sei corso a guardare in giro: avevi già il chiodo fisso all’epoca.” Mike arrossì.

“Ma comunque, non sei arrabbiata con me?”

Max si corrucciò di ironico biasimo, scuotendo la testa:

“Ma che dici? Ti sembra che possa portarti rancore per qualcosa del genere?! E poi la gelosia ci sta, significa che ami davvero Mike” poi si girò verso il suo fidanzato “tu ne sai qualcosa delle mie sfuriate, eh Lucas?!” Facendogli un occhiolino.

Lui quasi impallidì al ricordo di quando l’anno scorso, un’altra ragazzina rossa, Eleonore Barts, gli rivolse delle attenzioni. Max si avvicinò con gli occhi iniettati di sangue, chiedendo cosa stessero combinando, e spaventando la poveretta che si allontanò con una scusa. Procedette a fare il quarto grado a lui, e a tenergli il broncio per giorni, quando lui non aveva fatto niente, ricordandogli che: “Di foglie rosse, ne prendi soltanto una volta quando cadono. Se ti piacciono tanto e cerchi di prenderne due allo stesso tempo, te ne ritroverai solo di marroni in mano”. Un detto inventato da lei, per fargli capire che se era già gelosa di suo, lo sarebbe stata ancora di più con altre pel di carota. Alla fine, fece pace con lei regalandole una rosa, e dopo una settimana di scuse continue. 

“B-beh, difficile scordarsene...” deglutì nervoso lui. 

“Sarà meglio...” gli sorrise in sottecchi lei.

La accompagnarono in camera, tenendole compagnia in attesa della cena. Si vedeva che il trattamento e la dieta iper proteica stavano funzionando: i suoi capelli erano ritornati di un arancione vivace, e i suoi occhi non erano più di quel grigio spento e vacuo, ma si erano ricolorati del loro caratteristico azzurro indaco. Le sue guanciotte tonde erano tornate ad adornarle il viso, e nel muoversi non ciondolava più per lo sforzo, avendo recuperato tonicitá negli arti, grazie alla fisioterapia e il suo passatempo sulla tavola a ruote. La sua pelle si era ripresa dai geloni che l’avevano marchiata, e grazie a delle creme dermatologiche, ora era uniformemente morbida. Nessuno l’avrebbe potuta più scambiare per una senzatetto vedendola ora: era ben nutrita, sana e forte; inoltre, Nancy aveva ragione: la ripresa la stava facendo fiorire nella sua pubertà, rendendola per la gioia di Lucas in particolare, nel complesso più bella. Per lei questo periodo di recupero era motivo d’orgoglio: era una ragazza atletica, che detestava stare ferma per ore, doveva sempre fare qualcosa e tenersi attiva. Quando iniziò a vedersi dimagrire allo specchio, e a sentirsi debole, affaticata nel fare anche le cose più semplici, incapace di usare lo skateboard per lo spossatezza, la vergogna la pervase. Non si guardava più allo specchio, evitava in tutti i modi di guardare proprio il suo corpo, che le sembrava quello di un estranea, una prigione in cui l’avevano rinchiusa. Mentre le sue coetanee si preoccupavano di perdere peso, lei faceva di tutto per prenderne, e cercava di nascondere il suo dimagrimento, per esempio indossando più vestiti del necessario. La cosa si fece inquietante, quando un giorno alla mensa della scuola, Cynda Mars, una ragazza seguita dalla psicologa della scuola per un disturbo anoressico, si sedette al suo tavolo e con uno dei suoi sorrisi nervosi scheletrici le disse che la trovava molto bella. Lei non le rispose neanche da quanto era sconvolta dal gesto, e si allontanò con gli occhi sbarrati e il vassoio in mano, andando al tavolo più vuoto e lontano dagli altri che potesse trovare, in un angolo buio. Da quel giorno le sue paure si acuirono sempre di più: non era un anoressica, non voleva assolutamente che la gente lo pensasse, tantomeno si sentiva bella in questo stato, e l’idea che qualcuno lo potesse pensare le gelava il sangue. Non era magra come Cynda, ma temeva di essere sulla strada per diventarla. Tutto questo la spinse ad auto isolarsi, in particolare modo da Lucas perché non voleva apparire brutta ai suoi occhi. Non c’era un piano dietro tutto questo: era pura e miserevole disperazione. Ora invece, si svegliava la mattina felice e carica; passava anche mezz’ora a guardarsi allo specchio del bagno della sua camera d’ospedale, pettinandosi i capelli, e immaginandosi con addosso i vestiti che vedeva sulle riviste di moda che prendeva dall’edicola dei pazienti. Quando non doveva stare a letto con la flebo, ballava ascoltando la musica dal walkman, utilizzando la spazzola come microfono, come faceva nella sua vecchia camera. Un giorno scoprí che Cynda aveva finalmente accettato di farsi ricoverare per curarsi dal suo disturbo, e ora si trovava nel reparto accanto al suo. Le fece visita, e nel vederla, la poveretta scoppiò in lacrime. Aveva capito cosa ci fosse di sbagliato in quello che le aveva detto, ma ora che la vedeva ripresasi, la invidiava davvero e avrebbe mirato ad essere come lei: felice di mangiare. In quelle giornate in cui non potevano uscire, divennero vere amiche: si tenevano compagnia a vicenda per quanto possibile; visto che Cynda non poteva ancora alzarsi dal letto. 

Dopo essersi cambiata nuovamente con gli abiti d’ospedale e mentre l’infermiere le riattaccava la flebo, Undi le spiegò tutti i piani che avevano in mente per rendere queste le vacanze di Natale più belle della sua vita. Ma appena rimessasi nel letto, il dottore a sua sorpresa, venne ad annunciarle che aveva delle visite speciali. 

Fremeva dall’attesa: forse sua mamma era finalmente venuta a trovarla! Ma la sorpresa fu ancora più grande, e i suoi occhi si inumidirono e arrossarono immediatamente, quando dalla porta fecero capolino un ragazzino dai capelli biondi brizzolati, e una dalla pelle scura come il cacao.

“Ciao Max! Siamo corsi qui appena ci hanno detto tutto!”

Erano Tommy e Arianna: quel sogno diceva il vero, pensavano ancora a lei.

Max si alzò di scatto senza pensarci due volte, facendo cadere la flebo a terra, e correndo verso loro in lacrime. Appena oltre il letto, i ragazzi si incontrarono e fecero un abbraccio di gruppo, tutti e tre piangendo fiumi. 

“Mi siete mancati tantissimo! Non immaginate neanche quanto...”

“Shhh, adesso siamo con te, andrà tutto bene.” Le sussurrava Arianna. 

Intanto gli amici di Hawkins erano rimasti piuttosto spiazzati dall’avvenimento, non sapendo neanche chi fossero i nuovi arrivati; di sicuro rappresentavano qualcosa di importante per lei, se era corsa da loro in quel modo. Si guardavano imbarazzati, non sapendo cosa fosse meglio fare. Dustin, con la sua spontaneità caratteristica, fu il primo a prendere parola. 

“Ehm ehm, scusa Max, ma potresti presentarceli?”

Lei si voltò verso loro, asciugandosi le lacrime con un sorriso imbarazzato, essendosi resa conto della sua reazione esagitata.

“Ah già, non vi ho mai parlato di loro: lui è Tommy, mentre lei è Arianna” li indicò col dito, e loro a turni salutarono alzando la mano e sorridendo “sono i miei migliori amici della California!”

Jane era visivamente meravigliata. E si portó le mani sulle guance.

“Ma perché non ce ne hai parlato prima?! Mi sarebbe piaciuto tantissimo incontrarli lì!”

“Hai ragione, scusami; ma col periodo che ho passato non avevo proprio la testa per queste cose.” 

“Sei vissuta in California? Dove?” Chiese Tommy a Jane.

“A Lenora Hills, vicino Los Angeles.”

“Wow! Eri proprio a un passo da noi! Comunque piacere di conoscervi!” Esclamò Arianna.

“Come stanno i tuoi? Gestiscono ancora il ristorante messicano?” Il pensiero le fece ricordare il sapore delle gustose tortillas, il calore delle cene di gruppo dove erano invitati tutti i loro genitori, che si conoscevano a loro volta da molti anni prima che nascessero. 

“Si! E l’hanno anche ingrandito da quanto é diventato di successo, ora ha cento coperti; il commercialista di papà crede che potrebbero aprire addirittura una catena.”

“Caspita! Non sai quanto sono felice di sentirlo! E tu Tommy che racconti? Di ai miei amici di qui che lavoro fanno i tuoi, dai!” Lo punzecchiava lei, carica di eccitazione, quasi fosse un vanto per lei cosa avrebbe detto loro. 

“Ok, ok, vedete, i miei genitori sono agenti cinematografici per attori di Hollywood.”

Tutti rimasero a bocca aperta, Max rideva a sottecchi con le braccia conserte, avendo previsto la reazione. Il ragazzo alzò le mani.

“Eh già, lo so, tutti reagiscono così, ma guardate che in fondo è un lavoro molto burocratico piuttosto noioso.”

“Ma chi se ne importa! Comunque conoscono gente come John Travolta!” Esplose di entusiasmo Dustin.

“Ma quindi hai incontrato Herrison Ford?” Chiese Lucas.

“Barbara Streisand o ancora meglio, Clint Eastwood?!” Aggiunse Mike.

“Si, si, e si! A volte mi portano anche a vedere i set. Nel’82 io, Max e Arianna andammo per un giorno sul set di “Il Ritorno Dello Jedi” e ci facemmo una foto con Chewbecca.”

Tutti rimasero a bocca aperta, tempestandolo di domande.

Il gruppo fece conoscenza e Max fu così felice di trovare tutti i suoi amici in un unico posto. Si sentiva di nuovo completa, quella stanza d’ospedale sapeva di casa in quel preciso momento. Ma a un certo punto, una domanda si fece largo per la sua testa, e dovette interromperli per chiederla ai ragazzi californiani.

“Scusate, ma...come siete arrivati fin qui?”

“Ah già, sarebbe una sorpresa, ma chissà che fine ha fatto...” Tommy sembrava volutamente voler nascondere qualcosa.

Arianna lo tirò per la manica e fece un accenno con la testa alla porta.

“Max, girati, guarda chi c’è dietro di te!” Le disse sorridendo lei.

Max si voltò e rimase bloccata nel vedere un viso ancora più familiare, che non rivedeva da anni ma solo ora si rendeva conto di quanto le servisse rincontrare. Un uomo sulla quarantina, dai capelli e barbetta rossi come i suoi le sorrise affettuosamente, salutandola con una mano.

“Ciao tesoro, scusa il ritardo dovevo cercare parcheggio; ma ora papà è qui!”

   
 
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