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Autore: Flying_lotus95    25/11/2022    1 recensioni
[Capitoli dal 1° al 9° revisionati]
Giappone, inizio anni'60. Un gruppo di sei ragazzi affronta le proprie vicende quotidiane, combattendo con un passato che non vuole lasciarli liberi. Mario Minakami è intenzionato a scoprire chi si cela dietro l'omicidio di Rokurota Sakuragi, l'uomo che sei anni prima aveva preso lui e i suoi amici sotto la sua ala e li aveva reintrodotti nella società, affrontando non poche difficoltà; Joe Yokosuka, meticcio, è alle prese con un passato ingombrante, una sorella da salvare, e un amore da proteggere; Tadayoshi Tooyama è un soldato delle Forze Armate del Giappone, sposato con la dolce Mina. Tra sensi di colpa e paure, dovrà affrontare i suoi demoni una volta per tutte...
Assieme ai loro ex compagni di cella, Ryuji Noomoto, Noboru Maeda e Mansaku Matsuuda, i tre si ritroveranno faccia a faccia ad affrontare un pericolo comune, che minaccerà il loro futuro, la loro "terra promessa".
[Leggera presenza OOC]
Genere: Azione, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: Lemon, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 8



 
  • Fine Gennaio, prefettura di Ishikawa, Giappone, anno 21 dell’epoca Showa (1946)
 
 
“O yar gelir yazıya bana gül olur yar yar
Gül olur yar yar
Gül olur
Evlerine vara da gele, usandım yar yar
Usandım yar yar
Usandım”
(Aytekin Ataş – O Yar Gelir)
 

Il viale che lo conduceva verso casa era terribilmente cambiato dall'ultima volta che lo aveva percorso, quando era partito per il fronte.
Non era stata di certo colpa dell'inverno se gli alberi avevano perso tutta la loro rigogliosità e la loro bellezza era svanita. Rokurota si guardava intorno, incredulo.
Non poteva essere lo stesso viale che aveva percorso infinite volte con la sua bicicletta anni prima, quando i venti della guerra non avevano ancora soffiato minacciosi sul Giappone. 
Non poteva essere lo stesso viale dove, sotto ad un ciliegio, sei anni prima, aveva baciato Mariya Minakami per la prima volta. Lui, sempre così spavaldo e intrepido, quel giorno nel baciarla si era riscoperto confuso, intontito, emozionato più del solito.
Gli era sembrato come se il mondo si fosse ridotto tutto lì, in quel piccolo gesto insignificante, e sostasse tra le loro labbra, il posto più sicuro al mondo. 
Di quel ragazzino adesso restava solo un ventitreenne ferito, nel fisico e nell'animo, lo sguardo languido e perduto tra i mille orrori a cui aveva assistito. Il più grande di tutti era stato proprio riconoscere tra quei volti di donna oltraggiati dai suoi stessi compagni, il volto della sua amata, della sua compagna di scuola diligente, studiosa, bellissima.
Mariya, la ragazza a cui aveva giurato amore eterno e che un bel giorno era 
sparita, iniziando ad evitarlo senza un apparente motivo. 
In quei mesi al fronte Rokurota si era chiesto quali fossero stati i motivi che avessero spinto Mariya ad intraprendere quella vita infelice. 
Rokurota aveva anche provato a chiederglielo, i motivi per i quali lei lo avesse allontanato da lei, ma Mariya era stata evasiva, non gli aveva mai dato risposte complete. Eppure, in quei suoi occhi da cerbiatta, lui era riuscito a scorgervi qualcosa: un profondo dispiacere, misto a vergogna e disprezzo verso sé stessa.
E quel disprezzo era diventato anche il suo, divorandogli dentro tutta la vitalità e la gioia che quegli anni giovanili dovrebbero portarsi dietro di diritto.
Perso tra quei pensieri, aggrappato alla stampella di legno che lo sorreggeva miseramente - si era ferito al ginocchio, era stato un miracolo che la ferita non si fosse cancrenizzata, evitandogli così l'amputazione della gamba - giunse davanti alla grande cancellata bianca di casa sua. Quell'enorme villa parve intatta, come se le bombe in quegli anni l'avessero voluta evitare appositamente, fiutandone la potenza e l'importanza. 
Entrò timidamente nel lussuoso giardino, come se non stesse rientrando a casa sua ma in un posto a lui totalmente estraneo. 
Durante il tragitto in camion, Rokurota aveva pensato e ripensato a come avrebbero potuto accoglierlo i suoi genitori. Non aveva avuto dubbi sul fatto che sua madre sarebbe stata contenta di rivederlo, su suo padre non poteva contare molto a riguardo. Non erano mai andati d'accordo, tra di loro vi era sempre stata una sfida continua, pesante. Ma se fino ad allora, tutto quell'acredine aveva stuzzicato l'animo sbarazzino del suo sé adolescente, ora il solo pensiero di intavolare una discussione con suo padre lo atterriva. 
Con la mano libera dalla stampella, bussò al bel portone di legno di mogano, guardandosi intorno con aria persa.
Bussò ancora, per un solo attimo temette che nessuno volesse aprirlo, che non volevano accettare in casa un reduce sopravvissuto e malconcio. 
La porta si aprì dopo qualche minuto, rivelando a Rokurota il viso stanco e provato di Hiruko, la madre di Setsuko.
Nel riconoscere nel giovane soldato il figlio dei suoi padroni, Hiruko scoppiò dalla gioia, allungando le mani sul suo viso smunto e spigoloso. 
«Rokurota-sama!» esclamò la domestica, commossa fino alle lacrime.
«Rokurota-sama, siete ancora vivo! Vostra madre lo aveva detto che sareste tornato!».
Hiruko volle toccarlo, per accertarsi che non si stesse immaginando nulla, che Rokurota non era semplicemente frutto della sua testa.
«Sì, Hiruko-san. Non sembra vero neanche a me, ma sono tornato!» La voce di Rokurota era uscita goffa, raffreddata. Faceva ancora fatica a parlare in modo normale, la gola gli bruciava ad ogni sillaba che pronunciava.
Dall'interno della casa, avvertì uno scalpiccio frenetico. Rokurota pensò si trattasse di Setsuko, corsa a vedere a chi sua madre stesse dedicando così tanto tempo.
Si stupì nel ritrovarsi invece sua madre Hayami, i capelli acconciati sempre al solito modo, agghindata come se stesse uscendo per andare ad una festa. 
I suoi occhi grigi incontrarono quelli identici di sua madre, spalancati e tremanti per la sorpresa.
«Signora! Signora! Vostro figlio è tornato!» giubilò Hiruko, portandosi le dita nodose alla bocca, trattenendo a stento un singhiozzo per l'eccessiva emozione.
Rokurota non smise di fissare sua madre, mille domande silenziose affollarono la sua mente, si sentì smarrito e ritrovato allo stesso tempo. Moriva dalla voglia di abbracciarla e di essere riabbracciato a sua volta da lei.
«Mamma» sussurrò, la mano stringeva la stampella con troppa forza, intorpidendosi le dita.
Hayami sospirò, una lacrima le scese sulla bella guancia, il labbro inferiore tremava vistosamente.
«Lo sapevo» sussurrò lei, la voce rotta dal pianto imminente.
Si precipitò verso il figlio, non curandosi minimamente della sua domestica, e lo abbracciò convulsamente, toccandogli spalle, faccia, naso, occhi, bocca, capelli, tutto. 
Hayami aveva fortemente sperato nel suo ritorno. Aveva sperato che, alla fine di quel lungo incubo in cui la guerra li aveva gettati, lo avrebbe rivisto ancora una volta. Rokurota era vivo e sarebbe tornato da lei, ad ogni costo. Non gliene sarebbe importato niente di ciò che avrebbe pensato la gente, che il suo ritorno avrebbe portato disonore e vigliaccheria al nome dei Sakuragi. Suo figlio era lì, malridotto, dimagrito, stanco e sopraffatto. Ma era vivo, respirava con i suoi polmoni e camminava, o meglio zoppicava, sulle proprie gambe.
Hayami era certa che suo figlio si sarebbe ripreso in fretta. Era sangue del suo sangue, dopotutto.
Lo aveva saputo dal primo momento che lo aveva stretto al suo seno mentre era ancora in fasce, urlante e vivace. La sua nascita era stata del tutto inaspettata. Sua sorella era venuta al mondo pochi istanti prima di lui, ma era nata morta. 
Hayami non aveva avuto neanche il tempo di piangerla, che le contrazioni si erano ripresentate di nuovo, più forti e consistenti di prima. Aveva temuto di morire, che il suo corpo stesse dando di matto dopo estenuanti e lunghe ore di travaglio. E invece era nato lui, il suo Rokurota. E da quel preciso istante, Hayami lo aveva sentito. Aveva sentito che il suo bambino avrebbe avuto dinnanzi a sè un cammino radioso, sterrato, senza ostacoli.
Suo figlio era tornato dal fronte, era tornato dalla morte, e lei si sentì grata per quel grande miracolo che il cielo le aveva concesso.
«Lo sapevo che saresti tornato figlio mio!» esplose Hayami, le lacrime ormai incontrollate le avevano rovinato il bel trucco del giorno.
Per riflesso, anche Rokurota scoppiò a piangere, cingendo con il braccio sinistro - quello libero dalla stampella - la vita di sua madre, nascondendo il viso nell'incavo del suo collo. 
«Mi sei mancata tanto, mamma» esclamò Rokurota con voce roca. 
E mentre madre e figlio si riabbracciavano in preda alla gioia di essersi ritrovati dopo tutti quegli anni di terrore e morte, Hiruko li fissò commossa, asciugandosi le lacrime con un modesto fazzoletto, benedicendo quella ritrovata, e tanto agognata, riunione familiare.

 
 
 
(Amore mio che porti l'estate con te, 
mi sembri una rosa,
 mi sembri una rosa amore mio, una rosa
Quanto sono stanco, 
voglio tornare a casa amore mio,
 sono tanto stanco, tanto stanco)



- 10 Aprile, Prefettura di Ishikawa, anno 35 dell’epoca Showa (1960)
 
"Oggi siamo chiusi. Festeggiamo il compleanno di Mario. Saluti".
Mario storse il naso e la bocca nel leggere quei kanji scritti rozzamente sul cartello appeso alla vetrata del portone del Rainbow.
Aveva intuito che a scriverlo fosse stato il piccolo Shigeo, incoraggiato probabilmente dal resto della combriccola.
«Adesso che entro mi sentiranno» borbottò Mario, poco propenso ad accettare di perdere una giornata di guadagno assicurato per organizzare una stupida festicciola che non aveva neanche richiesto, tra le altre cose.
Quella giornata gli era risultata infinita, stancante, e zeppa di emozioni contrastanti.
L'incontro con Eri gli aveva guastato definitivamente l'umore. Avrebbe solo voluto passare a salutare i ragazzi e poi buttarsi a peso morto sul futon, ancora vestito e con le scarpe ai piedi. 
Voleva vedere l'alba di un nuovo giorno il più presto possibile, e dimenticarsi di tutti gli oneri che il suo stramaledetto compleanno gli aveva portato.
Spinse la vetrata con energia, posizionando la bicicletta proprio accanto all'entrata.
Era tutto buio e non si vedeva un accidenti. Mario cercò a tastoni l'interruttore della luce, con fare impacciato e nervoso. Ci mancava soltanto che gli altri si mettessero ad urlare "Buon compleanno!" non appena la luce avrebbe inondato il salone, facendolo morire dalla vergogna più di quanto già non ne stesse effettivamente morendo per pensieri suoi.
Aveva quasi individuato sulla parete il quadro elettrico che avrebbe acceso ad una ad una le luci del locale, quando si sentì tirare lievemente per la giacca, dietro alla schiena.
Mario sussultò impaurito, si girò di scatto e si ritrovò faccia a faccia con un'altra persona, nel buio della stanza non riuscì a scorgere di chi potesse trattarsi.
Ma individuò un profumo, un profumo intenso di gardenia che gli stuzzicò le narici.
«Puoi stare tranquillo, in questa stanza non c'è nessuno» gli confessò la voce, con un'inflessione sbarazzina, che, nell'ascoltarla, Mario ricondusse automaticamente a Junko.
«Sono tutti di sotto» disse con un piccolo sforzo, allungando un braccio. Mario percepì il movimento ad un centimetro dalla propria guancia. Improvvisamente la luce irradiò il locale, ferendogli le iridi, abituatesi istantaneamente all'oscurità. 
Dopo l'abbaglio iniziale, mise a fuoco il viso di Junko, pochi centimetri lontano dal suo. Era leggermente truccata, i capelli neri tirati in uno chignon elaborato, fermati da un fermacapelli dipinto di rosso e verde.
Indossava un vestitino nero con la gonna morbida, un motivo floreale all'altezza della vita e lo scollo morbido lasciava intravedere la rotondità dei seni. Mario notò poi le scarpette nere eleganti che portava ai piedi: non era abituato a vederla camminare su scarpe simili.
Junko sogghignò, richiamando l'attenzione del ragazzo sul suo volto.
«Ad aspettare il festeggiato» sibilò poi in conclusione, con un'aria che voleva essere seducente, ma che a Mario parve soltanto una buffa imitazione. Junko non aveva la stessa malizia cattiva di Eri o quella consapevole di Lily. Era un tratto di lei che lo faceva sorridere sempre.
Di colpo, il malumore che aveva provato fino a pochi minuti prima era come svanito nell'aria, diradatosi assieme all'oscurità che soltanto pochi minuti prima aveva regnato intorno a lui. 
«Di chi è stata la splendida idea?» rispose sarcastico, tenendole testa con la sua solita saccenza. Junko non si lasciò intimidire.
«Di tutti noi. Farti arrabbiare è il nostro passatempo preferito, sai?» commentò, senza risultare davvero offensiva. A Mario sfuggì una risata a sbuffo.
«Spero almeno che mi facciano trovare qualche bella ragazza, se hanno intenzione di farsi perdonare» esclamò, mettendosi le mani nelle tasche. Junko era davvero bassina in confronto a lui, con i tacchi gli arrivava all'altezza del mento. 
«Siamo un locale per bene, non un puttanaio, Mario!» lo rimproverò lei, dandogli le spalle. Mario la vide allontanarsi con quel passo che non le si addiceva per niente. Troppo pompato per sembrare naturale.
Gli venne da compararlo alla camminata di Eri, a lei risultava così naturale e sensuale muoversi a quel modo: a Junko le si addiceva tutt'altro tipo di postura, magari una più composta ed elegante.
«Non è il linguaggio che mi aspetto da una studentessa universitaria» la schernì Mario, continuando a fissarla con sarcasmo. 
Junko si voltò per rivolgergli una linguaccia.
«Sei un cretino. Muoviti» gli disse poi, un po' meno divertita di prima.
Mario la seguì in silenzio, volle provare a cingerle i fianchi, ma rinunciò al suo intento. D'altronde, Junko non era come le altre ragazze che aveva conosciuto. Lei era una ragazza per bene, che studiava e lavorava per stare accanto al padre e ai fratelli più piccoli e assistere alla madre malata. 
E Mario non l'avrebbe mai trattata come le altre. Avrebbe preferito mangiarsi le dita, piuttosto che infangarla con il suo lerciume, invisibile agli occhi ma ugualmente percepibile.
 
La tavola che avevano apparecchiato giù in cantina era talmente enorme che Mario si chiese come avessero fatto a portarla lì senza massacrarsi a vicenda tra le pareti strette delle scale.
Mansaku aveva dato il meglio di sè in cucina: aveva preparato ogni pietanza possibile, dal riso alle insalate, dalle patate al forno accompagnate con carne wagyu e unadon, alle uova in carrozza. Un buffet infinito accolse Mario e Junko, una volta scesi. 
«Alla buon'ora, tesoro! Ci stavamo scolando una bottiglia di rosso in tuo onore!» esordì Rurika, alzando il calice verso l'alto in segno di saluto. Indossava anche lei un abito nero, ma con maniche lunghe, attillato e piuttosto succinto. Le belle gambe lunghe le teneva accavallate su sé stesse, dondolando ritmicamente un piede, dando sfoggio di un bel tacco 12 vertiginoso.
Nel vederla, Mario stralunò gli occhi.
«Guarda che il vino costa! A fine serata voglio i bigliettoni sul bancone!» esclamò, strusciando il pollice e l'indice guantato per imitare il fruscìo dei soldi. 
«E che problema c'è!» rispose di rimando Rurika, sorseggiando piano il suo calice ancora pieno.
«Anche se dovresti offrirmelo tu stasera, lurida canaglia!» si lamentò poi, gonfiando le guance come una bambina. 
«Ma Mario è tirchio, lo dovresti sapere ormai, Rurika-san!» esclamò all'improvviso il piccolo Shigeo, spuntato da sotto il tavolo come un fungo magico.
Mario gli lanciò un'occhiataccia storta.
«A chi hai dato del tirchio, scimmie-»
«Eccolo! Ci ha degnati della sua presenza, Ryuji! Non ci speravo più!».
«Che il cielo sia lodato! Invece di andare a femmine, è tornato all'ovile! Eh, gli anni cominciano a farsi sentire!».
Noboru e Ryuji interruppero l'invettiva che il ragazzo stava rivolgendo a Shigeo, braccando il povero Mario il primo a destra, il secondo a sinistra.
 «Andate a fanculo tutti e due!» brontolò Mario, abbassandosi la coppola sugli occhi. Quel gesto lo faceva sempre quando s'imbarazzava e non sapeva come rispondere a tono alle provocazioni ricevute. 
«Su ragazzi! Già è tanto che è passato a salutarci! Non facciamolo innervosire che oggi è il suo giorno!».
Mario sussultò quando il braccio di Joe gli cinse il collo per tirarselo contro, in un abbraccio maldestro.
Il cuore di Mario si rasserenò all'istante nel sentirsi travolto dall'affetto del biondo, stringendogli con altrettanto affetto la mano che gli stava pizzicando la guancia grossolanamente.
Erano tutti lì, la sua famiglia era tutta quanta lì presente, pronta a festeggiarlo, anche se il più delle volte non meritava affatto tutto il loro affetto e la loro vicinanza.
Ora più che mai, sentiva il bisogno di averli lì, tutti vicino a lui, ad affrontare il mare burrascoso che li stava aspettando.
«Manca soltanto quel coglione di Tadayoshi» sussurrò a Joe, leggermente risentito. Non voleva che gli altri lo sentissero, voleva che il messaggio lo recepisse soltanto lui. Di rimando, il giovane gli diede una pacca sul petto, gli occhi azzurri cercarono il diaspro delle pupille di Mario.
«Ha chiamato oggi pomeriggio, ha detto di fare il bravo, e che se non ti presentavi stasera ti prendeva a calci il fondoschiena!» rispose Joe, dandogli una ginocchiata sul sedere con fare scherzoso.
«Stronzo di merda!» imprecò di rimando Mario, dando un buffetto in testa al biondo, che schivò prorompendo in una risata pura, genuina.
«Potevi vestirti un po’ meglio comunque… sembra che sei stato a lavorare nei campi, figlio mio!».
Una voce volutamente squillante e istrionica, nonostante le note basse tipiche della voce maschile, distolse Mario dall'allegro alterco in atto con Joe. Stralunò nuovamente gli occhi nel riconoscere nella proprietaria di quella voce Daisy, avvolta nel suo kimono tutto colorato, che alla vista di Mario parve come lo scoppio improvviso di un fuoco d'artificio.
«E a giudicare dalla puzza» sottolineò ancora costei, arricciando il naso e le labbra imbellettate con evidente disgusto attoriale «Non ci facciamo un bagno da tempi immemori! Allontanati da Jo-chan che me lo imputridisci, su su!» e con un gesto elegante delle dita, il bara* fece staccare i due, tra le risate contenute di Joe e il disappunto crescente di Mario.
«Ovviamente tu non potevi mancare, cara Daisy!» precisò quest'ultimo, fissandola scocciato.
Con eleganza istrionica, Daisy rise con aria sfacciata, portandosi la mano smaltata sulle labbra, per fingere una compostezza femminea che, con anni e anni di esperienza, le usciva ormai naturale.
«Ma ti pare! Io che mi perdo una festa, dove tu sei al centro dell'attenzione! Quando mi ricapita! E poi non t'illudere» e detto questo, strinse bonariamente la guancia di Joe tra le nocche nodose «sono qui solo per la mia stellina!» e lasciò un bacio a fior di pelle sulla punta del naso del biondo, che non poté non sorridere alle provocazioni dell'amica.
«Avrei preferito che invitassi Namie a questo punto!» sbraitò Mario, mettendosi le mani in tasca, trattenendo a stento le sbuffate di disappunto. 
Daisy in risposta gli dedicò una linguaccia, aggrappandosi alle spalle di Joe, che a forza di ridere gli stava venendo una paresi facciale. 
«Non mi paragonare a quella sciacquetta per favore, eh! Io sono di famiglia, non è vero, gioia?» esclamò Daisy, fissando Joe con insistenza, spalancando gli occhi pesantemente truccati e sbattendo le palpebre con una rapidità tale che per poco le ciglia finte non gli si staccavano, nonostante la presenza pesante del mascara.
«Ma certo che sì, Daisy! Non hai mica bisogno di inviti tu» fece accomodante Joe, con l'aria di chi era tutto intento a flirtare con la propria donna, incurante del giudizio altrui.
Mario li fissò entrambi con disappunto misto ad un crescente divertimento.
«Perché devo assistere a queste sceneggiate ogni volta…» commentò tra sé e sé, grattandosi la tempia con la mano sinistra, quella buona.
«Allora? Iniziamo a mangiare oppure no?» si lamentò Shigeo, aggrappandosi alla vita della sorella maggiore. 
«Lasciamo decidere al festeggiato» rispose Junko, carezzando la testa del fratellino monello, e rivolgendo uno sguardo dolce alla volta di Mario, ancora intento a fissare interdetto Joe e Daisy che lo stavano volutamente mettendo in imbarazzo. 
Come richiamato sull'attenti, Mario si schiarì la gola.
«Non avete bisogno di aspettare me! Su, mangiate prima che si freddi tutto quanto!» ordinò, e cercò complicità nello sguardo di Junko, sperando in un ricambio casuale.
E lo ottenne.


 
* * *


Quelle nubi minacciose promettevano una pioggia torrenziale, i tuoni in lontananza aumentavano sempre più d'intensità e fragore.
A Katsuya l'aspettativa non giovò affatto.
Seduto sul davanzale della finestra, rimurginava su come avrebbe chiuso occhio senza farsela addosso per la paura.
Odiava i tuoni e le tempeste sin da quando era bambino. Gli ricordavano quella notte terribile in mare aperto, le urla dei naufraghi e quelle di sua madre, aggrappata alla prua con un braccio teso verso il vuoto, gridando a pieni polmoni il suo nome. Quel nome con cui ormai non lo chiamava più nessuno.
Katsuya dovette realizzare amaramente che avrebbe trascorso la nottata a rigirarsi nel futon, coprendosi le orecchie per sfuggire al rombo molesto dei tuoni, che gli provocavano puntualmente un malessere che gli faceva ribollire le viscere. 
Nel frattempo buttava ogni tanto lo sguardo sulle due ragazze coreane, intente a parlottare nella loro lingua madre.
Katsuya avrebbe voluto non capire nulla dei loro discorsi. Aveva sempre sperato di dimenticarsela quella lingua, lo faceva sentire sbagliato e diverso dagli altri, nonostante sua madre e i suoi cugini non glielo avessero mai fatto pesare.
Il problema era stato suo padre, il generale Yusaku Hitomura.
Non tollerava che Katsuya parlasse in coreano, non voleva sentirne nemmeno l'inflessione dialettale.
Sei un Hitomura adesso, quello che eri prima non esiste più, glielo aveva urlato così tante volte in faccia che a Katsuya il solo pensiero di lasciarsi scappare un'espressione o una parola in quella lingua lo destabilizzava.
E in quel momento si era ritrovato ad ascoltare indisturbato la conversazione che le due ragazze intrattenevano tra loro, a bassa voce.
Moon era sdraiata a letto, lo yukata scuro lasco sulla spalla destra e le coperte che le cingevano la vita, e la sua amica col solito kimono blu scuro e un caschetto castano le stringeva la mano, come a darle forza.
«Possiamo fidarci di lui?» chiese quest'ultima in coreano, indicando impercettibilmente con il capo la giovane recluta.
Katsuya sapeva che si stava rivolgendo a lui, era l'unico uomo presente in quella stanza al momento.
«È un sottoposto del capitano. Sembra gentile» lo difese inaspettatamente Moon, con la sua solita vocina incolore e scevra di emozioni.
L'altra lo fissò un po' duramente, cercando di non farsi scoprire. Lo temeva, a Katsuya parve piuttosto chiaro. E non poteva darle torto, dopotutto.
I suoi compagni avevano mostrato il loro lato peggiore, come se non avessero mai visto una donna prima di allora.
«In ogni caso, mandaci a chiamare se hai bisogno di aiuto. Non fare come al tuo solito che fai finta di nulla, Moon!» la rimproverò velatamente l'amica, aggrottando le sopracciglia.
La ragazza in parte capiva le paure che la sua compagna covava dentro di sè.
Dopo quanto accaduto quella notte, Moon era tornata alle sue faccende, nonostante i dolori alla pancia e alla schiena provocatigli dal ciclo mestruale fossero ancora piuttosto forti.
Aveva cercato d'incrociare quanto meno possibile Tadayoshi, aveva provato un forte moto di vergogna e paura. L'esperienza le aveva insegnato che era meglio non fidarsi troppo di nessuno, anche di chi in apparenza era stato gentile e affabile con lei. Magari più avanti, quel capitano avrebbe preteso in cambio un favore squallido, l'avrebbe obbligata ad essere sua a tutti i costi... e tutti i pensieri nobili che aveva fatto sulla sua persona sarebbero sfumati come nebbiolina leggera.
Non si era avvicinata neppure per ringraziarlo della colazione che le aveva fatto trovare al suo risveglio, tanto quei pensieri l'avevano intimorita. Voleva dimenticare tutto, far finta che non fosse mai accaduto niente. Che quel moto di sollievo nel petto che le aveva concesso di respirare, di sentirsi ancora bambina, protetta, come quando viveva con la sua famiglia, in realtà fosse stata tutta una sua illusione. La debolezza del momento aveva sicuramente edulcorato i ricordi e le gesta di quell'uomo. 
Ma nel corso della giornata seguente, sopportare i dolori era stato infernale. Le gambe le erano cedute verso sera, mentre stava portando altro sakè ai tavoli. 
A Moon voleva venire una gran voglia di piangere, sapeva che quel trambusto le avrebbe portato conseguenze spiacevoli. 
Aveva sentito la schiena e l'addome in fiamme, un peso forte che le occludeva il respiro nel petto, le era girata la testa e aveva avvertito il flusso mestruale scorrerle come un ruscello tra le gambe, senza incontrare ostacoli. Si era coperta il viso per la vergogna e la stanchezza, implorando perdono alla cieca, perdono per la sua debolezza, per la sua inutilità.
Moon aveva aspettato trepidante l'arrivo di una bastonata che non era giunta, alla fine.
Al suo posto, invece, due braccia forti e muscolose la sollevarono da terra. Le era sembrato, per un brevissimo istante, di aver rivisto suo padre, quando la prendeva in braccio di ritorno dagli appostamenti, ancora bambina, e si lasciava invadere dal suo torpore caldo e protettivo. 
Si era risvegliata poi di nuovo in quella stanza, con una borsa dell'acqua calda dietro la schiena e un panno umido sulla fronte. Ed era scoppiata a piangere a dirotto come non aveva fatto da tantissimo tempo.
Tutta quella gentilezza smisurata l'aveva desiderata e allo stesso tempo l'aveva temuta. Non sapeva cosa si sarebbe dovuta aspettare in cambio, e questa incertezza la inquietava parecchio.
Aveva trascorso così gli ultimi due giorni, allettata nella camera da letto di Tadayoshi.
Moon non lo vedeva quasi mai durante il giorno, le sue compagne venivano a trovarla per darle le medicine ed aiutarla a cambiarsi. Non chiedeva mai nulla, lasciava che fossero loro a parlarle, a riferirle tutto.
Tadayoshi arrivava senza fare troppo rumore a notte fonda, trovandola il più delle volte profondamente addormentata. Così si sistemava nel suo angolino sul pavimento, cercando di riposare. 
Moon gli era grata, tutti i pensieri bui e negativi sparivano non appena il capitano le appariva davanti. In cuor suo, le pareva di avere ancora suo padre lì vicino a lei. Ma allo stesso tempo, cercava di mantenere ugualmente alta la guardia.
«Puoi stare tranquilla, la ragazzina è in buone mani» si ritrovò a rispondere improvvisamente Katsuya al posto di Moon, lasciandola leggermente a bocca aperta.
L'altra cameriera si stupì non soltanto della risposta in sè, ma del fatto che quel soldato si fosse rivolto a lei in coreano, nella sua stessa lingua. L'evento la spaventò non poco.
«E adesso dovresti lasciarla riposare» tagliò corto il ragazzo, con voce bassa e scorbutica. 
Ci pensò Moon a placare l'animo della compagna, stringendole appena il polso.
«Fa' come dice, Jiesung, se avrò bisogno vi manderò a chiamare**» sussurrò Moon abbozzando un sorriso.
L'altra annuì, ricambiando la stretta dell'amica con altrettanto calore.
Dopodiché si alzò dal letto e rivolse un inchino a Katsuya, ancora seduto sul davanzale della finestra.
«Un'ultima cosa» e stavolta quest'ultimo si espresse in perfetto giapponese, sul viso un'espressione indecifrabile.
«Non dire a nessuno che ti ho parlato in coreano, hai capito? Io non sono come il capitano, potrei farti punire per molto meno».
Jiesung si lasciò scappare un sospiro di spavento, per contegno non si portò le mani alla bocca. 
In realtà Katsuya non era stato così minaccioso, sebbene ne avesse tutte le intenzioni. Quella frase gli era uscita tremante e impacciata, nonostante lo sguardo accigliato e duro. Ma la sua interlocutrice temeva per natura i soldati, e a quel dettaglio non ci aveva dato troppo adito.
«Ai vostri ordini, signore» biascicò Jiesung, sbiancata in viso. Raggiunse la porta a passo svelto e nel chiudersela alle spalle, cercò di mascherare la propria agitazione, accompagnandola e non sbattendola.
Una volta soli, Katsuya spostò lo sguardo su Moon, che glielo ricambiò a fatica. Non perché Katsuya la impaurisse, semplicemente perché era stanca e sentiva le palpebre pesanti.
La recluta desiderò ardentemente che il capitano Tooyama entrasse da quella porta il più presto possibile.
«Jiesung non è tipa da creare pettegolezzi, potete stare tranquillo. Anzi, preferirebbe non avere problemi con voi» si sforzò a parlare Moon, sistemandosi a sedere tra i cuscini e la borsa d'acqua calda che le riscaldava la schiena.
Katsuya le si avvicinò per aiutarla a sedersi. Dopotutto, il capitano gli avrebbe dato in testa se avesse trovato la ragazza affaticata. 
«Non era mia intenzione spaventarla» si giustificò Katsuya, con voce tonale e sguardo sempre più truce.
«Le mettono così tanta paura i soldati?» chiese poi, cercando di intavolare un dialogo con Moon senza risultare invadente o inopportuno.
Moon annuì lentamente.
«In questi mesi abbiamo assistito a cose tremende. I soldati, poi, spesso sono prepotenti. Se ci mostriamo reticenti, iniziano a maltrattare ed offendere». A Katsuya rimase impresso come Moon raccontasse quelle cose con tanta indifferenza. Era come se riportasse fedelmente il racconto di qualcun altro senza averlo mai vissuto in prima persona.
Dovette constatare che quella ragazzina fosse davvero molto matura per la sua età.
«Non posso darle tutti i torti».
Si era per un attimo perso nei suoi pensieri, quando Katsuya si sentì lo sguardo dolce di Moon addosso. Due spille nere dai riflessi di luce grigiastra lo stavano fissando con intensità magistralmente celata. 
«Posso chiederle una cosa, signor soldato?» chiese poi con un filo di voce ad un incredulo Katsuya.
«Per favore, dammi pure del tu, sono soltanto un soldato semplice» esclamò Katsuya, agitando le mani impacciato, ma dandole comunque implicitamente il permesso di continuare. Moon si morse il labbro prima di parlare.
«Come fate a conoscere la mia lingua?».
La sua era stata una constatazione innocente, lecita. Ma Katsuya sentì un tuffo nel petto a quella domanda così diretta. Paradossalmente, nessuno prima di allora gli aveva posto una domanda simile, e non sapeva neanche che risposta dare in quell'occasione.
Si grattò la nuca, imbarazzato.
«È complicato» rispose secco. «È una lunga storia» dichiarò poi, portandosi una mano in tasca, dove teneva nascosto il sacchettino blu. Quel sacchettino che gli era scivolato al fiume e sul quale Tooyama non si era soffermato troppo.
All'improvviso, gli balenò in mente un'idea. Rischiosa, certo, ma non sarebbe approdato da nessuna parte se non avesse osato di proposito.
Si sedette sul bordo del letto, stando bene attento a non schiacciarle le gambe stese sotto alla coperta. Cacciò fuori il sacchettino blu e lo svuotò davanti agli occhi increduli di Moon.
Dal sacchettino fuoriuscì un anello d'oro, molto semplice. Lo porse alla giovane, con fare incerto.
Moon lo guardò come a chiedergli spiegazioni.
«Apparteneva a mia madre» le disse Katsuya, con aria molto seria.
«Mia madre... voglio dire la mia mamma adottiva, l'ha trovato cucito addosso ai miei vecchi indumenti» le spiegò, stringendo il pugno sul materasso, atterrito per quello che stava facendo.
Moon prese l'anello e se lo studiò per un po', con aria attenta e meticolosa. 
«Dentro vi è incisa una parola. Una parola che non so leggere» confessò ancora Katsuya, deglutendo sonoramente.
Moon strizzò lo sguardo nell'inquadrare l'incisione, trovandola qualche secondo dopo. 
«Hyum.. Hyumbu... No, è Hyumei» decretò infine Moon «C'è scritto Hyumei».
«E cosa significa?» domandò Katsuya con urgenza. Ricordava ancora il coreano parlato, ma l'alfabeto ormai gli era del tutto sconosciuto. Non riusciva a distinguere nomi propri da aggettivi, verbi o locuzioni, e se lo faceva, andava per intuito. Dopotutto, erano quattordici anni che non praticava la lingua con qualcuno, e quelle poche parole che conosceva non era neanche sicuro che le pronunciasse bene e in modo corretto. 
Moon assunse un'espressione concentrata, stringendo l'anello tra le dita con delicatezza.
«Di solito sugli anelli si incidono i nomi propri di persona, o nomi che ricalcano un simbolo... Potrebbe essere il nome di una persona ma non ne sono sicura» ipotizzò la fanciulla, gonfiando le guance pienotte.
Katsuya continuò a fissarla come se dalle sue parole dipendesse la sorte della sua intera esistenza.
«Potrebbe essere il nome di mia madre? Di mio padre?» chiese ancora, trattenendo a stento l'agitazione crescente, che gli sfogò in un tic nervoso al ginocchio. 
Moon scosse il capo più volte, muovendo la lunga treccia in onde sinuose lungo la schiena.
«Non ne sono sicura, ma mi suona più femminile che maschile» spiegò poi, riporgendo a Katsuya il suo anello. 
«Potrebbe essere anche il tuo nome» azzardò poi, leggermente intimorita, ritirandosi nelle coperte in segno di difesa.
«No, il mio nome è diverso» dissentì Katsuya, sicuro di sè. Affermò la cosa in modo così rude, da far scuotere le spalle della ragazzina in un gesto incontrollato. 
Si alzò allora dal letto, riponendo l'anello nel sacchettino, premurandosi di chiuderlo a dovere. 
Moon lo seguì con lo sguardo, dispiaciuta per non essergli stata d'aiuto come lui si sarebbe aspettato. 
Tuttavia, Katsuya si sentì in dovere di ringraziarla. Lei aveva fatto il suo, era stato lui ad offrirle pochi indizi su cui lavorare.
«Ti ringrazio per la gentilezza, non eri tenuta ad aiutarmi» le disse, sistemando il sacchettino in tasca con aria meticolosa. 
«Per così poco» mormorò Moon, con un sorriso a fior di labbra. 
«Sei uno di noi?» domandò poi, abbassando lo sguardo con rispetto. 
Si era portata le mani alla treccia, stringendo appena le ciocche. 
Katsuya non seppe cosa rispondere a quella domanda ingenua, ricca di una certa speranza. 
La guardò estraniato, come se gli fosse stata rivolta la peggiore delle offese.
«Intendi dire se sono un profugo come te?».
Katsuya fu tentato di dirle una bugia, di mentire spudoratamente. Ma le bugie non era mai stato capace di dirle, il miglior modo era sempre stato il tacere, il non rivelare troppe cose di sé al primo sconosciuto che gli si presentava davanti. 
Ma in quel momento avvertì una strana spinta di fiducia, come se avvertisse in anticipo le buone intenzioni dell'altra.
Continuò a grattarsi la nuca, massaggiando piano la base dei capelli.
«Sono venuto dalla Corea quattordici anni fa, ma mentirei se ti dicessi che mi sento uno di voi».
Erano anni che Katsuya non sapeva più chi fosse, chi volesse essere e come volesse essere.
La domanda che gli era stata posta era semplice, ma una risposta Katsuya - si rese conto amaramente - non sapeva darla.
Sapeva soltanto chi doveva essere. Il figlio giapponese di un generale dell'ex Esercito Imperiale, che sarebbe dovuto diventare a sua volta importante nelle Forze Armate e crearsi a sua volta una famiglia ed una discendenza.
Un copione già scritto che aveva già visto intrappolare tra le sue trame suo cugino Akira, e a breve sarebbe toccato anche a lui, senza speranza di trovare una via d'uscita.
«Non so come risponderti. Forse faccio prima a dirti ciò che non sono» constatò Katsuya a Moon, sconsolato. 
La ragazzina lo fissò con le palpebre gonfie, ma il sorriso sempre presente, sebbene mesto, sulle labbra.
«Direi che non sei una cattiva persona, tanto per cominciare» gli disse, stiracchiandosi piano tra i cuscini, come una gattina assonnata.
Katsuya ghignò divertito.
«Non ci scommetterei, se fossi in te» ammise lui, scuotendo il capo.
A Katsuya le cose erano andate decisamente di lusso: cresciuto in casa di una famiglia prestigiosa, e in compagnia di due cugini a cui era profondamente legato, aveva frequentato le migliori scuole della città e si era poi arruolato assieme ad Akira nelle Forze Armate, impegnandosi a mantenere alto il nome degli Hitomura, per dimostrare a suo padre tutta la riconoscenza che provava per essere stato allevato sotto la sua ala. 
Ma il generale sembrava non vederlo, o non volerlo vedere. Katsuya continuava a non sentirsi riconosciuto alcun merito e alcun prestigio. Continuava a sentirsi un estraneo perfino a sé stesso. E, da qualche parte nel suo cuore, il piccolo Chae-Kung continuava a piangere disperato, in cerca della sua mamma e delle sue origini.
Se Katsuya aveva avuto la possibilità di vivere quella vita, lontano dalla miseria e dai soprusi a cui sarebbe stato irrimediabilmente sottoposto, lo doveva ad un'unica persona. E il nome di quella persona, Katsuya lo aveva ritrovato inciso su quella piastrina caduta al ragazzo che aveva perquisito la sera della retata ai locali notturni di Itogawa: Joseph Jakowsky.
Un mugugno sussurrato da Moon riportò Katsuya al presente, seppellendo ogni angoscia, ogni ricordo, ogni speranza in un angolino della mente. La ragazzina si stava sistemando meglio con la schiena, il viso accartocciato in un espressione di sforzo.
«Posso chiederti un favore, Moon?» chiese infine Katsuya, cogliendola di sorpresa.
«Non farne parola col capitano di questa cosa. Non farne parola con nessuno» ci tenne a specificare, consapevole di aver rivelato troppo mostrandole quell'anello.
Moon si limitò ad annuire, con il suo solito fare mite e dolce che la contraddistingueva. E a Katsuya gli si strinse il cuore, senza alcun preavviso. In quel momento comprese perché Tadayoshi si fosse preso a cuore la causa di Moon. Quella ragazza sprigionava tanta tenerezza che solo un essere senz'anima sarebbe potuto rimanerne indifferente.
Era talmente rapito dal suo volto, che non si accorse minimamente della porta della stanza aprirsi alle sue spalle.
«Cosa non dovrei sapere?» si sentì dire Katsuya, voltandosi di colpo verso il suo interlocutore, rabbrividendo.
Tadayoshi era fermo davanti alla porta, e con il suo solito sguardo torvo fissava la sua recluta, dubbioso.
Katsuya non riuscì subito a formulare una risposta coerente, ci pensò Moon infatti a salvarlo dai guai.
«Che mi ha vista pulire la finestra della stanza, quando sarei dovuta stare a riposo. Mi è venuto un mancamento e il vostro soldato mi ha soccorsa» mentì Moon, gli occhi diventati di colpo più vivi e lucidi, la voce non era più composta, ma febbrile e tremula. Katsuya la vide tormentarsi le mani, tirandosi piano le maniche larghe dello yukata.
Per un solo istante, temette una reazione violenta da parte del capitano, si stupì invece di vederlo avvicinarsi al letto, sfiorando impacciatamente con le dita la fronte di Moon, scostandole una piccola ciocca scampata alla treccia.
«Perchè ti sei messa a pulire le finestre?» chiese, dando così l'impressione di essersi bevuto pienamente quell'innocente bugia.
Moon impiegò qualche secondo prima di rispondere, lo sguardo perso senza puntare a nulla in particolare.
«V-volevo fare qualcosa per lei, capitano» balbettò, con un filo di voce.
Tadayoshi non cambiò espressione, e si volse alla volta di Katsuya, bloccandolo sul posto.
«Non volevamo preoccuparla inutilmente, seongja-!» balbettò a sua volta Katsuya, mordendosi la lingua, non appena si accorse dell'errore commesso.
Aveva pronunciato la parola capitano in coreano. Quando era nervoso e sotto pressione, il suo accento giapponese vacillava e gli scappavano termini nell'altra lingua. Si pietrificò di colpo, sudò freddo e gli girò la testa.
Capirà tutto, adesso capirà tutto!
Ma Tadayoshi non parve essersi accorto di quel termine straniero. In realtà lo aveva compreso bene, ma diede per scontato che si fosse confuso nel sentire Moon chiamarlo a quel modo. Anche se vi erano troppe cose che di quella giovane recluta non gli convincevano del tutto. Si ripromise che gliene avrebbe parlato, magari in un altro momento, con calma.
«Siete entrambi sotto la mia responsabilità, se succedeva qualcosa mi avreste tenuto all'oscuro dei fatti?» chiese Tadayoshi a Katsuya, un po' duro soltanto per abitudine, non perché fosse realmente arrabbiato. Era solo stanco, voleva chiudere gli occhi e aspettare che il sonno avesse la meglio su di lui.
Katsuya si appellò a tutte le forze che gli erano rimaste per non crollare rovinosamente al suolo ed implorarlo di dimenticare quel termine uscitogli in quella lingua maledetta.
«A-assolutamente no, capitano!» rispose rigido, deglutendo più e più volte.
Nel frattempo Moon lo fissava mortificata, come se provasse a pieno le sue stesse pene e volesse essergli in qualche modo solidale. Poi si avvicinò cauta con la guancia al dorso della mano di Tadayoshi, come a voler cercare una sua carezza, come una gattina in procinto di fare le fusa alla propria madre, per bere il suo latte materno. 
Tadayoshi non la degnò di uno sguardo, ma carezzò volutamente i capelli di Moon, senza alcun secondo fine. Era un gesto abituale per lui, si era ritrovato a carezzare spesso le teste dei suoi amici quando li vedeva tristi e giù di corda. Un gesto che lo stesso Rokurota gli dedicava sempre, e lui prontamente lo scacciava in malo modo. Non voleva che lo trattasse al pari degli altri, perché tra i ragazzi
era il più grande, e la sua "anzianità" gli voleva essere riconosciuta. Ma Rokurota non si era mai arreso ai suoi capricci. 
Solo dopo la sua morte, Tadayoshi aveva compreso cosa si celasse davvero dietro quelle carezze: un affetto sconfinato. Il destino non aveva voluto dargli figli, ma se ne avesse avuto uno - Tadayoshi ne era più che certo - Rokurota sarebbe stato il padre migliore del mondo.
«Moon deve riposare adesso. Anche tu non hai una bella cera, Hitomura» esclamò infine Tadayoshi, addolcendosi nella voce e, leggermente, in viso.
«Domani ci penserà Iwasaki a portarle la colazione e le medicine» disse poi, indicando col capo la porta semi aperta.
Katsuya scattò nel saluto militare, regolando a fatica il respiro.
«Comandi!» e guardò Moon un'ultima volta, sembrò supplicarla con lo sguardo.
La fanciulla gli sorrise appena, come a dargli una risposta affermativa alle sue richieste mute.
«Buonanotte capitano» biascicò Katsuya, poi si diresse all'uscita con una certa fretta. Poco prima di rinchiudersi la porta alle spalle, buttò un'ultima occhiata nella stanza, precisamente verso il letto.
Sentì sussurrare Tadayoshi qualcosa a Moon, che si sistemò per dormire tra i cuscini e la borsa dell'acqua calda dietro la schiena. 
Katsuya chiuse la porta proprio mentre Tadayoshi si voltò nella sua direzione.
Si ritrovò a poggiare la fronte sul legno, dandosi dell'idiota per essere stato tanto incauto. Pregò che Moon mantenesse la sua parola e non si lasciasse sfuggire nulla con il capitano.
Un tuono in lontananza lo fece tornare bruscamente al presente. Ad un presente in cui Katsuya avrebbe dovuto affrontare una nottata piena di incubi e paure vecchie quanto lui.


Moon sembrava dormire profondamente, con la mano di Tadayoshi stretta tra le sue, poggiata sotto la propria guancia.
Nonostante quella posizione non giovasse per nulla alla spalla di Tadayoshi, seduto a terra come da abitudine ormai, la cosa gli suscitava ilarità. 
Nel sonno, Moon le sembrava davvero una bambina. Le faceva una tenerezza immensa vederla così aggrappata alla sua mano, come se volesse custodire un tesoro prezioso.
Le accarezzò col pollice la punta del naso, facendole arricciare le narici di conseguenza.
«Perché non vi coricate accanto a me, capitano?» mormorò la giovane coreana, a bassa voce, stanca.
Tadayoshi sussultò, non pensava che potesse essere ancora sveglia.
«Il pavimento mi piace di più» esclamò, un debole sorriso gli illuminò il viso per pochi secondi.
Non gli importava davvero di addormentarsi seduto e con la schiena curva, la vita lo aveva abituato a cose ben peggiori di questo, lo considerava davvero l'ultimo dei suoi problemi.
Moon lo fissò per qualche secondo di troppo, con le sue pupille acquose. Dopodiché strinse leggermente tra le mani il palmo duro e caldo del soldato.
«Ha i pantaloni sbottonati, capitano» mormorò poi, con aria mortificata, quasi avesse combattuto internamente con l'intenzione di riferirglielo o meno.
Confuso, Tadayoshi buttò lo sguardo sul cavallo dei pantaloni: notò di avere effettivamente la patta dei pantaloni ancora aperta. 
Imprecò mentalmente, strappando con poca gentilezza la mano dalla dolce stretta di Moon.
Cercò di girarsi dal lato opposto alla ragazza, dandole le spalle. Non voleva che lo vedesse armeggiare con la cerniera dei pantaloni che faticava a chiudersi.
«Chiedo scusa, sono stata inopportuna» esclamò Moon, con il suo solito fare impassibile, senza emozioni.
Si era alzata leggermente col busto, cercando di seguire l'operato di Tadayoshi.
«No, non preoccuparti» rispose lui, un po' rude per lo sforzo, «È stata una mia mancanza».
Ringraziò il cielo che Katsuya non se ne fosse accorto. Sarebbe stato alquanto imbarazzante spiegargli cosa avesse fatto in quelle ore, tra le frasche in giardino, lontano da occhi indiscreti.
E il fatto di essersi fatto vedere da quella ragazzina in quel modo disdicevole gli fece salire uno sdegno smisurato verso sé stesso.
«Mi dispiace, sono un cretino» si giustificò Tadayoshi, passandosi una mano sugli occhi, a disagio.
A Moon sfuggì uno sbuffo divertito, che tentò di coprire con il dorso della mano, per non apparire troppo sfacciata.
Per Tadayoshi fu indice di buon segno. Almeno l'aveva fatta ridere, non l'aveva spaventata come aveva temuto.
«Le manca tanto sua moglie?» azzardò poi la giovane con sguardo basso, sottomesso.
Tadayoshi rimase interdetto per qualche secondo a quella domanda posta con naturalezza.
«Uhm... direi... direi di sì» ammise, umettandosi le labbra.
Moon nel frattempo si era appoggiata al cuscino, stendendosi prona sul materasso, la borsa dell'acqua calda sotto alla pancia.
«Glielo ha detto?» chiese ancora la ragazza, la guancia poggiata sul dorso della propria mano, con aria svogliata.
Tadayoshi deglutì, appoggiando la testa al muro. 
«Forse» provò a dire, ma l'acquerello scuro dello sguardo di Moon gli penetrò fin dentro le ossa, facendogli salire un senso di colpa non indifferente.
«No, non gliel'ho detto» rivelò poi, socchiudendo gli occhi.
Moon non replicò nulla, si limitò ad osservarlo in silenzio, sospirando ogni tanto.
«Come ti ho già detto prima, sono un cretino» cercò di giustificarsi, ben conscio che l'autocommiserazione serviva a ben poco.
Bastò un semplice sguardo da parte di Moon per capire in anticipo la risposta che lei avrebbe voluto dargli.
«È complicato» la anticipo dunque Tadayoshi, facendo spallucce. 
Ma era davvero così complicato come sosteneva?
Un mugugno di fastidio colse Moon all'improvviso. Una fitta molesta all'addome la indusse a cambiare posizione.
«Non le raccontate di me, ve ne prego» suggerì la fanciulla, le palpebre sempre più gonfie di sonno.
«Le causereste solo dispiacere» sussurrò mestamente, spostandosi una ciocca dal viso, sfuggita alla treccia.
Tadayoshi sorrise appena a quella richiesta dolcissima. Tra le tante cose importanti di cui avrebbe dovuto discutere con Mina, il fatto di essersi voluto prendere cura di una ragazzina indisposta occupava un posto alquanto irrilevante.
«Non hai fatto nulla di male, Moon».
«Mi sono denudata di fronte a lei, capitano. Ho tentato di sedurla».
«Ti hanno costretta a farlo» e nel dirlo, Tadayoshi le si avvicinò di poco, spostandosi con il bacino. Affermò la cosa con il tono di chi non voleva sentire ragioni.
«Se non mi fossi sentita male, lei sarebbe... lei sarebbe venuto a letto con me?». 
L'ultima frase Moon la pronunciò marcando fortemente l'accento coreano.
Una lacrima le scivolò tra le ciglia, tuffandosi sul tessuto bianco del cuscino.
Tadayoshi la fissò duramente. Voleva rimproverarla, dirle aspramente che non doveva pensare a quelle cose. Che lui non sarebbe stato il tipo da fare certe cose, perchè lui non era come il suo patrigno. Ma nel realizzare quel pensiero, si rese conto che erano tutte fesserie. Lui sarebbe stato anche peggio.
«Vorrei poterti rispondere di no» ammise, sospirando.
«Però sono certo che me ne sarei pentito amaramente in seguito» ammise ancora, puntando lo sguardo in un punto impreciso del tatami.
«Non so come avrei potuto continuare a guardare mia moglie negli occhi, sapendo di averti violata». 
Una calma piatta invase il petto del soldato. Si accasciò di lato, con il viso rivolto a Moon, lo sguardo basso e colpevole. Un gesto che faceva sempre tutte le volte che si era ritrovato a confessare a Rokurota i suoi peccati, le sue mancanze, le sue scuse. 
Si rigirò la fede al dito, semplice e dorata.
Il pizzicore alla cicatrice tornò a farsi sentire.
Moon nel frattempo ascoltò quelle parole in religioso silenzio, le parve come se Tadayoshi non stesse parlando con lei direttamente, come se stesse confessando quelle verità a qualcun altro.
«Non mi avreste violata, capitano. Mi ero concessa spontaneamente» provò a giustificarlo Moon, la voce vibrava ma non era rotta, non ancora.
«Sei una bambina, Moon. Qualsiasi cosa avessi fatto con te sarebbe stato moralmente ingiusto. Non mi sarei dato pace».
Come non mi sono dato pace in tutti questi anni nei confronti di mia madre, avrebbe aggiunto, se solo avesse trovato il coraggio.
Le lacrime inondarono senza sosta il viso grazioso ed apatico di Moon, i suoi occhi erano diventati fontanelle aperte da cui sgorgiava rugiada limpida. 
Ma la sua espressione era distaccata, assente. 
Per lei ricevere quelle parole equivalse a ricevere uno schiaffo in una carezza.
Se fosse stata più sfacciata, più frivola e sciocca, si sarebbe alzata dal letto e lo avrebbe abbracciato. Avrebbe poggiato l'orecchio all'altezza del suo cuore e si sarebbe lasciata trasportare dal fragore dei battiti. 
«Ma così, non potrò lasciarle alcun ricordo di me» disse poi, asciugandosi con foga le lacrime dal viso «Si dimenticherà per sempre di me, e non la rivedrò mai più» la voce traballava, le labbra tremavano, «Proprio come è successo con mio padre».
Tadayoshi la fissò stranito, senza parole. Moon si stava preoccupando di lasciare un segno dentro di lui, anche a costo di vendere l'ultima briciola di dignità che le era rimasta.
«Non ho potuto dirgli addio, e chissà se, se io, mia madre e Yeong-Gi siamo state tra i suoi pensieri quando-» Moon non terminò la frase, a causa della carezza improvvisa che le arrivò tra la tempia e l'orecchio. Fu calda ed inaspettata, tanto da farla leggermente sobbalzare.
Tadayoshi la guardava con apprensione, era stato troppo. Troppo.
«Non hai bisogno di venire a letto con me per far sì che io abbia un ricordo di te» fu duro, letale, asciutto. La voce talmente bassa da arrivare a pizzicargli le corde vocali.
«Ho promesso che troverò tua sorella. Farò in modo che vi ricongiungiate, e non permetterò che nessun altro si approfitti di te» dichiarò, lo sguardo sottile e minaccioso per natura si specchiò nelle iridi grandi di Moon.
E in un attimo, a Tadayoshi vennero in mente le infinite volte che in carcere si era buttato in risse insensate, per proteggere Joe, a volte anche Mario, dai bulli più grandi. 
Un colpo di tosse da parte di Moon fece ritornare Tadayoshi al presente.
In un presente in cui indossava una divisa e consolava il pianto di una ragazzina sperduta e sola.
«So che per il momento non è molto, ma promettimi di resistere quando me ne sarò andato, Moon. Non ti lascio al tuo destino». Tadayoshi si sentì in colpa a farsi estorcere quella promessa. Sentiva che si stava cacciando in una situazione ben più grande di lui, ma non avrebbe potuto fare diversamente. 
Al suo posto, pensò, Rokurota avrebbe smosso mari e monti pur di assicurarle una via di fuga.
Semplicemente Tadayoshi non voleva essere da meno.
Avrebbe parlato con Hagino, chiesto a Rurika di indagare ovunque, con qualsiasi mezzo a lei più comodo. 
Le possibilità di fallire purtroppo erano elevate e scoraggianti: mettersi alla ricerca di un profugo coreano, donna per giunta, non sarebbe stata una passeggiata.
Tuttavia, Moon annuì sommessa, allungando timidamente una mano verso quella chiusa a pugno di Tadayoshi.
Lui gliela strinse con affetto, la piccola mano di Moon sembrava sparire nella sua, grossa e callosa.
Restò a vegliare su di lei, finché non si calmò, stretta alla mano del suo capitano. La stanchezza provocata dai dolori mestruali la fecero crollare subito dopo in un sonno profondo.
Poco prima di addormentarsi, Tadayoshi le dedicò un ultimo sguardo, aveva la bocca semiaperta e le narici le si muovevano a piccoli scatti.
Ripensò a ciò che gli aveva detto soltanto pochi minuti prima.
Non raccontatele di me, ve ne prego.
Le causereste solo dispiacere.
Tadayoshi rise al pensiero di tanta premura.
L'unico che continua a darle dispiaceri sono soltanto io, realizzò il soldato, schioccando la lingua.
Tadayoshi poi chiuse le palpebre, e sembrò di percepire quell'alito di lavanda sulle labbra e il naso. Come i baci delicati che sua moglie gli lasciava tutte le sere, prima di addormentarsi.


 
* * *


I compleanni erano sempre stati importanti per i ragazzi. Simboleggiavano riunione, calore, famiglia.
Mario era quello a cui andava meno di festeggiare il proprio, dovuto anche a tutte le vicende private che lo avevano coinvolto. Ma vederli ancora lì riuniti, dopo tutto quel tempo, a bere e scherzare tra loro come quando vivevano tutti insieme alla villa, gli comunicava sempre un qualcosa di simile alla pace.
Lui che era nato in piena guerra mondiale, e la pace aveva solo potuto idealizzarla, pensò che se davvero quella condizione esistenziale potesse essere stata possibile, sarebbe stata racchiusa in quella visione: i ragazzi riuniti che brindavano e mangiavano senza preoccuparsi troppo del domani. La mancanza di Tadayoshi era stata l'unica nota stonata di quel quadretto perfetto.
Mario scrutò tutti, dal primo all'ultimo: Mansaku, Wakao e Shigeo che ascoltavano un brillo Noboru raccontare uno dei tanti aneddoti di cui era stato protagonista assieme al compagno di sempre Ryuji, dalla strada, al carcere, per finire all'incontro con Rokurota; Junko seduta tra Daisy e Joe, sorridente e bella come sempre; Rurika che al suo fianco, conversava con i signori Yoshida e Hayakawa, con quel suo fare da civetta provocante tipico del suo carattere.
Tutto sommato, la serata non era stata spiacevole, era trascorsa invece liscia e tranquilla.
Anche il malumore che gli aveva provocato l'incontro con Eri era svanito del tutto. 
O quasi.
 

Finirono di cenare molto tardi.
Ryuji propose di giocare con le carte francesi, vantandosi di conoscere perfettamente le regole da seguire.
Peccato però che tutti i presenti persero una buona mezz'ora per capire come si usassero e quale carta avesse più valore rispetto ad un'altra. Perfino Rurika non riuscì a capire un tubo di tutte quelle regole.
Mario decise così di svignarsela al piano di sopra, a fumarsi indisturbato una sigaretta.
Era stata una lunga giornata, non aveva avuto neanche un attimo da dedicare a sé stesso.
Prima Setsuko, poi sua zia, suo nonno, Lily... e infine, Eri Hagino.
 
Magari in questi giorni mi faccio viva io. Tanto so dove trovarti.
 
Quella frase riecheggiò a lungo nei pensieri di Mario, assumendo pian piano sfumature sempre più sinistre.
La storia con Eri non era stata nulla di serio all'epoca. Fin da quando si erano conosciuti al campo base americano, Eri si era divertita a stuzzicarlo, talvolta mettendolo volutamente in imbarazzo, soprattutto davanti a Lily e alle altre donne.
Le sue provocazioni erano state sottili, subdole in certi momenti, e Mario, data l'ingenuità dei suoi quindici anni, non capiva niente di quelle frecciate che gli venivano rivolte.
Corri sempre dietro a Lily come fossi il suo cagnolino. Speri di perdere la verginità con lei un giorno? Chiediglielo, non ti dirà di no.
Eri l’aveva tormentato con i suoi scherzi e le sue battute a doppio senso, tanto che un giorno, all'improvviso, lui era scoppiato a piangere dalla frustrazione, senza alcun apparente motivo, di fronte a Lily.
Eri gli aveva sempre messo addosso tanta pressione, Lily invece gli aveva sempre trasmesso calma e pace. Mario si era sentito sempre protetto quando si trovava con lei, come se fosse tornato bambino di colpo, e non si fosse mai macchiato di alcun crimine.
Ma la fuoriuscita di una verità inaspettata, che lo riguardava molto da vicino, aveva fatto ribaltare totalmente gli equilibri che si erano venuti a creare. Dopo la morte di Rokurota, Mario si era allontanato dalle premure di Lily e si era buttato tra le braccia di Eri, lasciandosi fare tutto ciò che a lei più le era aggradato.
Nonostante ciò, Mario non l’aveva mai odiata, né rinnegata. 
La cosa non lo aveva segnato tanto quanto si era aspettato, nonostante in alcuni casi disparati.
Aveva vissuto la sua sessualità in piena libertà e senza vincoli o timori.
Le ragazze che venivano a ballare al Rainbow erano state un ottimo trampolino di lancio nel mondo del sesso.
Non si era preoccupato minimamente di scopare in un vicolo, nei bagni del locale, nelle auto o nel suo stesso appartamento, facendo attenzione alla proprietaria impicciona.
Si era goduto quei momenti e si era divertito davvero, gli piaceva sentirsi al centro dell'attenzione di una donna anche se solo per dieci minuti di sesso.
L'unico limite che si era imposto era stato di non parlarne mai apertamente con Joe.
Non era stato certo per mancanza di fiducia, ma solo per una questione di tatto: concepivano la sfera sessuale in modo totalmente diverso.
Se mentre per Mario era diventato un diversivo, un modo come un altro di intrattenersi con una donna senza porsi problemi, per Joe non era affatto la stessa cosa. Quell'argomento gli provocava sofferenza, quel tipo di sofferenza legato ad un trauma indicibile.
Perso tra i ricordi e i pensieri che Eri gli aveva suscitato senza volere, Mario non si accorse dell'accendino acceso ad un soffio dal proprio naso.
Per poco non gli era caduta la sigaretta spenta dalle labbra per lo spavento.
«Quando avete intenzione di comprarvelo un accendino decente tu e Noboru?».
Mario rise nel sentire la lamentela pacata di Joe, abbassando gli occhi al suolo.
Quello sguardo d'acquamarina era troppo carico per riuscire a sostenerlo, a volte.
«Stavo rovistando nelle tasche» si giustificò Mario, cacciando proprio l'oggetto incriminato «Se non mi dai il tempo...».
Joe sogghignò divertito, facendosi però subito serio quando Mario aveva avvicinato il viso alla fiamma, aspirando avidamente il fumo dal filtro. 
Si appoggiò con le spalle al muro, le mani intrecciate dietro la schiena e un piede leggermente rialzato. Gli occhi chiari e bellissimi puntati su Mario, che lo imitò per riflesso nella postura.
Aveva lo stesso profilo spiaccicato di Rokurota, notò Joe, lo stesso naso pronunciato e la stessa ampiezza della fronte. Realizzare quell'ovvietà provocò al biondo una strana capriola nel petto, non seppe spiegarsi se fosse però nostalgia o altro. Invidia, forse.
«Oggi Rokurota-san sarebbe stato contento di festeggiare il tuo compleanno» sottolineò Joe, fissando la punta del piede destro, ancora piantato a terra.
Mario non rispose, appoggiò la testa sul cemento armato, rilasciando ritmicamente qualche nuvoletta bianca di fumo.
Soltanto poche ore prima, aveva confessato a Lily l'inconfessabile: che Rokurota gli mancava. E che si sentiva impotente e solo, di fronte allo scoglio di quella burocrazia che lo aveva fatto passare per un povero suicida, probabilmente affetto da chissà che traumi segreti. 
La gente sapeva parlare solo per sentito dire su Rokurota Sakuragi. Del soldato e dell'uomo che era stato, non sapevano niente, il nulla più totale, se non il fatto che appartenesse ad una delle famiglie più potenti della Prefettura.
«Che strano» biascicò Mario, sistemandosi meglio con le spalle.
Joe inarcò un sopracciglio. «Cosa è strano?» domandò.
«Di solito non parli mai di Rokurota di tua iniziativa. Sembra quasi che il solo nominarlo ti faccia soffrire, o ti irriti».
L'ultima volta che avevano avuto una conversazione su Rokurota era stata la sera del malore di Joe, quando in preda alla stanchezza e al timore, gli aveva chiesto se provasse ancora rabbia nei suoi confronti, riguardo al giorno della sua morte.
L'ultima cosa che Mario avrebbe voluto era appunto ferire quell'amico fraterno, verso cui era smisuratamente affezionato. Eppure Joe aveva percepito quelle parole come una pugnalata, come se di colpo i vestiti gli fossero stati strappati di dosso brutalmente, restando così nudo ed indifeso davanti a tutti. 
Deglutì prima di controbattere, cercando di controllare bene la fuoriuscita della voce.
«Beh, non credo di essere l'unico a sentire la sua mancanza... Noboru ne parla spesso e volentieri, Mansaku si commuove come una femminuccia ogni volta che viene tirato in ballo... e tu inizi a perdere le staffe. E mi metti soggezione quando lo fai» confessò Joe, timidamente, imporporato in viso.
Fu solo allora che Mario decise di rivolgergli lo sguardo, osservando attentamente l'altro. 
«Ti metto soggezione?» esclamò Mario, incredulo. 
Certo, i suoi modi nel giro di quei pochi anni non erano stati sempre affabili e alla mano, ma arrivare a mettere addirittura soggezione... Mario era quasi convinto di essere risultato più ridicolo che minaccioso con i suoi atteggiamenti.
«Soprattutto quando alzi la voce... mi sembra di rivedere Rokurota» e nel dirlo, Joe iniziò a grattarsi lentamente il petto, schiarendosi più volte la gola. Mario lo conosceva bene quel gesto. Era un tic nervoso che all'amico veniva ogni volta che si trovava alle strette su di un argomento o in un profondo stato d'imbarazzo.
Joe, da parte sua, aveva tentato di dissimulare il batticuore improvviso che gli aveva provocato il solo pronunciare il nome di Rokurota, al solo ripensare a come, anni prima, si fosse lasciato trasportare innocentemente da quei batticuori e i vuoti improvvisi allo stomaco, causati da ogni sorriso, ogni sguardo ed ogni richiesta che lui gli aveva rivolto. 
Gli veniva da ridere se ripensava a quanto quella insensata felicità si fosse poi tramutata nell'umiliazione più abbietta e mortificante.
A come le gambe non avevano più saputo reggerlo dopo essersi sentito respinto a quel modo.
Quando sarai più grande capirai cosa significa amare ed essere amati.
Rokurota, a suo tempo, gli aveva riferito quelle parole con la massima delicatezza, cercando di non spaventarlo o traumatizzarlo ulteriormente. 
Lo stesso Joe non era stato conscio di ciò che aveva fatto, di ciò che gli aveva detto.
Si era sentito solo sbagliato, anormale.
Ma nulla della vita che aveva condotto a partire dalla morte di suo padre era stato giusto o normale. Venduto a chiunque, maschio o femmina che fosse, ad una, due, tante persone contemporaneamente. Per non parlare poi dei soprusi psicologici che Tsuyo, la sua matrigna, gli aveva afflitto costantemente, minacciando di far fare a Meg le stesse cose che lui era stato costretto a fare per farle guadagnare denaro.
Denaro che poi lei sperperava puntualmente nelle bische o nell'alcol e l'oppio. 
Se Joe era riuscito a sopravvivere a tutto quello, era stato soltanto per Meg. Quella sorellina totalmente ignara di ciò che lui era stato costretto a fare per non permettere a Tsuyo di buttarla nella fossa dei leoni; quella sorellina per cui suo padre aveva sacrificato la sua vita, proteggendola con il suo stesso corpo sotto alle macerie di quella palazzina pericolante; quella sorellina a cui Joe aveva voluto bene sin dal primo momento in cui l'aveva vista, avvolta in quella copertina colorata, a pochi mesi di vita. Quella sorellina per il quale lui era finito in carcere, per strapparla al destino a cui sua madre l'aveva condannata, vendendola a quel vecchio bavoso e rivoltante.
Joe smise di ricordare nell'istante esatto in cui Mario gli bloccò la mano con la quale si stava grattando sempre più forte.
«Rischi di farti male così, vacci piano!» lo rabbonì Mario, preoccupato nel vederlo così preso da quel gesto.
Joe lo fissò stupito, come se solo in quel momento si fosse reso conto di cosa stesse realmente facendo.
«Ah! Scusa, mi ero come incantato!» rispose. Dirgli proprio in quel momento che aveva ripensato al momento in cui Rokurota lo aveva respinto non era assolutamente il caso. Meglio se non lo fosse stato mai nella vita.
Non che temesse Mario o una sua reazione spropositata; Joe temeva più che altro di passare per un ingrato, di attirarsi il suo disgusto. E non c'era cosa peggiore che sentirsi giudicato da coloro che ormai considerava la sua famiglia da anni.
«Comunque... piaciuta la cena? Mansaku e Junko si sono chiusi in cucina tutto il tempo» tergiversò infine Joe, il sorriso coinvolgente e seducente, mostrando i denti con fierezza.
Mario sbuffò una risatina nasale, prima di aspirare il fumo.
«Avete sentito rumori molesti da sopra?» disse con le labbra strette sulla cicca. Joe di rimando, stralunò gli occhi con aria divertita.
«Solo pentole e mestoli, niente di troppo compromettente!» lo sfottè pizzicandogli una guancia. Mario si scostò lamentandosi come un bambino scocciato.
«Non fare come Lily, ti prego! Non se lo vuole togliere 'sto vizio di pizzicarmi! Lo sa che mi urta il sistema nervoso!» replicò il moro, soffiando nell'aria una nuvoletta di condensa.
Joe avrebbe voluto rispondergli che non erano solo le pizzicate a fargli saltare il sistema nervoso - riportando le sue esatte parole, ma lasciò perdere. Mario con quei suoi modi di fare sempre spontanei e alterati lo faceva divertire troppo.
«Sei andata a trovarla oggi?» chiese Joe, addolcendo lo sguardo.
Mario annuì distratto, aspirando dalla sigaretta. 
«Sarà stata felice di vederti» continuò il biondo, accomodante.
«Prima mi ha abbracciato, poi abbiamo litigato, poi mi ha abbracciato di nuovo... litigato e abbracciato di nuovo!» riepilogò così Mario il tempo trascorso con Lily, buttandola sul ridicolo come sempre.
Il sorriso di Joe si stese solo verso un lato.
«Se non litighi con le persone, non ti chiameresti Mario Minakami! Ancor più se sono persone a cui tieni» constatò, sogghignando divertito.
Mario lo guardò di sbieco, alzando un sopracciglio.
«Non è colpa mia se l'intero genere umano fa di tutto per irritarmi!» tagliò corto Mario, con evidente spocchia. 
In tutta risposta, Joe gli diede una spallata ben assestata, continuando a ridere per la sua frase.
Poi, all'improvviso, il suo viso iniziò a distendersi, e ad intristirsi.
Forse non era quello il momento giusto per parlarne, ma...
«Hai visto Meg per caso?» si lasciò scappare Joe, il viso immobile a quella serenità provata soltanto pochi minuti prima.
Mario cercò di non dare a vedere il suo disagio davanti a quella domanda. C'erano diverse cose di cui avrebbe dovuto parlare ai ragazzi, soprattutto riguardo agli sviluppi sulla faccenda incresciosa di Rokurota. E il pensiero che vi fosse coinvolta anche Meg non rendeva certamente le cose più semplici.
Joe avvicinò il viso a quello dell'amico, voleva guardarlo negli occhi, ma Mario seppe depistarlo.
«L'hai vista o no?» insistette Joe, con quell'aria così ingenua e docile, pari a quella di un bambino.
Mario dovette decidere in fretta se parlargli di lei o tergiversare e prendere tempo. Poi sospirò, buttando ciò che era rimasto della cicca al suolo. Seguì con lo sguardo lo zampillare della cenere accesa rimbalzare velocemente a poca distanza dalla sua scarpa.
«Sì, l'ho vista» dichiarò infine, mordendosi il labbro inferiore.
Gli occhi di Joe si spalancarono dalla sorpresa, un lieve sorriso lo illuminò in pieno volto.
«Davvero? E come stava? Era in salute? Ti è parsa bene?» chiese Joe a raffica, tra l'emozionato e il preoccupato.
Mario lo osservò a labbra sempre più strette. 
Una meraviglia! Sputa fuoco su tutto e tutti e in più ha un figlio di due anni, avuto da non si sa chi. Una perla rara la tua Meg.
Se ci fosse stata anche una sola via di fuga, Mario l'avrebbe colta al volo senza remore. Pregò all'istante che qualcuno dalle cantine salisse ad interromperli, s'intromettesse tra loro liberandosi così dal penoso onere di rispondergli.
Ah, dimenticavo che lei conosce l'identità del figlio di puttana che ha ucciso Rokurota.
A Mario per poco non scoppiò la testa a causa di tutte quelle informazioni di cui avrebbe dovuto mettere al corrente Joe.
Se solo Tadayoshi fosse stato lì, sicuramente avrebbe trovato il coraggio necessario per affrontare quel discorso tutti assieme senza temere alcuna conseguenza.
Ma Mario realizzò che di tempo ne era passato anche troppo. La scoperta scioccante sulla scomparsa di Rokurota, il suo isolamento volontario per metabolizzare la situazione, i nuovi retroscena forniti da Lily... 
Aspettare ancora non avrebbe portato a nulla, se non ad un progressivo ed inevitabile impazzire.
«Non... non avrai litigato con lei, mi auguro» azzardò Joe, totalmente ignaro delle elucubrazioni che stavano friggendo il cervello dell'amico.
A quel punto, Mario non potè fare altro che agire come al suo solito. D'istinto.
Fanculo, fanculo, fanculo!
Si allontanò così dal muro, e si posizionò proprio di fronte a Joe, con le mani in tasca e la visiera della coppola a coprigli - più del solito - lo sguardo da cerbiatto.
«Ho... ho scoperto una cosa su Meg» iniziò, con voce sussurrata e tremula.
Joe si accigliò, facendosi più attento. Improvvisamente avvertì una fitta al petto dolorosa, come se i suoi sensi si stessero preparando ad ascoltare il peggio. 
Dovette appellarsi a tutte le sue forze per non scappare e coprirsi le orecchie, davanti ad una qualche rivelazione scomoda. 
Strinse i pugni, ferendosi i palmi con le unghie.
«Quel giorno... il giorno in cui-» e Mario dovette fermarsi per riprendere fiato «il giorno in cui Rokurota è precipitato da quel palazzo... Meg... tua sorella era lì». 
Per Mario fu come liberarsi di un peso enorme, di un macigno che gli opprimeva il flusso regolare del respiro da troppi giorni.
Ma s'intristì di colpo nel vedere che, invece di dissolversi, quel macigno era piombato su Joe schiacciandolo senza pietà.
Lo sguardo d'acquamarina dell'amico era intenso, tremante, leggermente corrucciato. 
«Cosa stai dicendo?» esclamò Joe, totalmente incredulo. Di quella giornata, purtroppo, continuava a ricordare ogni singola cosa. 
Il corpo riverso a terra di Rokurota, la folla soffocante, la corsa in ospedale, le grida di Lily, donna Hayami, Mario... Era stato impossibile per Joe dimenticare quei momenti. E sapere che anche Meg era stata lì quel giorno, a pochi passi da lui, talmente vicina da poter allungare un braccio ed afferrarla... 
No, non poteva essere vero. Non poteva averla abbandonata di nuovo, e volutamente.
«Chi ti ha detto una cosa del genere?» sussurrò Joe scioccato, senza più aria nei polmoni.
Lo stomaco di Mario protestò a quella vista.
Dannazione, lo sapevo! Sapevo che lo avrei ferito, pensò Mario, cercando di non farsi coinvolgere dallo stato d'animo di Joe.
Avrebbe dovuto essere più forte in quel momento, doveva mantenere la calma. Rokurota gli avrebbe detto sicuramente di agire allo stesso modo. 
«Lei stessa» ammise, con non poche difficoltà. Joe continuò a fissarlo con uno sguardo ricco di dubbi e domande.
Ma Mario preferì non lasciarsi intimidire. Aveva bisogno del suo appoggio e del suo aiuto, Joe non glielo avrebbe mai negato. Anche se quelle confessioni gli avrebbero fatto male, non lo avrebbe lasciato solo a ricomporre i pezzi di quel puzzle intricato.
«Io mi ero avvicinato a lei per pura curiosità, ma ha iniziato a mandarmi via, e ad un certo punto ha cacciato fuori questa storia, senza che chiedessi nulla a riguardo» riportò l'accaduto Mario, stupendosi della calma con cui stava riportando quell'episodio, come se la rivelazione stessa che non si fosse trattato di suicidio bensì di un delitto non lo avesse scosso in quel preciso momento. 
Joe, intanto, sembrò perso nei suoi pensieri. 
Non che non credesse ad una sola parola di quanto Mario gli avesse appena riferito, ma fu difficile per lui credere che la sorella che aveva tanto cercato dalla sua scarcerazione in realtà era sempre stata lì, vicino a lui, in balìa di chissà che gente senza scrupoli che l'avrebbe sfruttata e consumata, in un modo forse anche peggiore di quanto fosse accaduto a lui stesso.
E soprattutto, fu ancora più difficile accettare per Joe che Rokurota non gli avesse detto assolutamente nulla di Meg.
«Credimi Joe, non sono riuscito a crederci nemmeno io, così su due piedi. Ma non avrebbe avuto motivo di mentire» cercò di dare man forte Mario, avvicinandosi al biondo e poggiandogli una mano sulla spalla.
«Non ti nego che sentirle dire di aver visto in faccia quel bastardo mi ha sollevato l'animo, perché voleva dire che avevo ragione, ho avuto sempre ragione sulla sua morte e-»
«Perchè non mi ha detto niente?» bofonchiò Joe, spaesato. Mosse il capo impercettibilmente, come a voler allontanare da sé delle mosche moleste.
«Perché Rokurota non mi ha detto nulla di mia sorella? Perché me lo ha tenuto nascosto?» chiese più a sé stesso che all'amico vicino a lui.
Mario non riuscì a comprendere a pieno il motivo che si celava dietro quelle domande.
«Probabilmente lo ha fatto per proteggere entrambi» provò ad avanzare ipotesi Mario, anche se la cosa aveva lasciato a bocca aperta anche lui a riguardo.
«Voleva assicurarsi che entrambi foste al sicuro prima di riavvicinarvi. Rokurota non te lo avrebbe mai nascosto senza un motivo valido, lo sai» continuò, stringendo il braccio sinistro sulle spalle esili del biondo. Quel gesto era sempre stato la normalità tra loro due: era come se l'uno prendesse sotto la propria ala l'altro, infondendosi coraggio e forza reciprocamente.
«E tu come fai a saperlo?» ribattè Joe, puntando lo sguardo azzurro sul terreno, con aria colpevole.
Forse Rokurota aveva capito che con lui Meg non sarebbe mai stata al sicuro, che sarebbe finita presto o tardi a prostituirsi anche lei, che il corpo di Joe non sarebbe bastato a sfamare e proteggere entrambi come in passato.
O forse... forse il soldato voleva proteggerla proprio da lui
Dai sentimenti sbagliati che Joe aveva covato per Rokurota, dalla sua mente compromessa, fragile, deviata. 
«Me lo ha detto Lily» rivelò poi Mario, riacquistando sicurezza.
«Rokurota aveva portato Meg da Lily, dicendole che da lei alla base americana sarebbe stata al sicuro. Poi qualche giorno prima di morire era andato a riprendersela, dicendo che voleva riportarla da te» su queste ultime parole, Mario scosse dolcemente le spalle di Joe, ridestandolo dalla sua tristezza.
«Te lo aveva promesso Joe, stava mantenendo la sua parola. Ma qualcuno ha impedito che potesse compierla, e quel qualcuno tua sorella lo ha visto in faccia» esclamò Mario, spostandosi repentinamente di fronte all'amico, sempre ancorato alle sue spalle. 
Joe cercò di seguire il discorso di Mario senza che la mente lo portasse via verso mete oscure. Dopotutto, non avrebbe avuto senso dubitare di Rokurota. 
«Ma... chi potrebbe essere questo qualcuno? Atsumichi Sakuragi? Uno dei suoi scagnozzi?» chiese Joe, deciso a riprendere lucidità.
Per un breve attimo, le parole che Setsuko aveva rivelato a Mario quella mattina, tornarono a ronzargli in testa, come un promemoria urgente.
Sarebbe meglio per te e per i ragazzi se stesse lontani da quella famiglia. Portano solo guai.
Si trovò indeciso se parlare di Attilio e dei Bruno all'amico, ma realizzò di avere ancora troppi pochi elementi per poter avanzare ipotesi o accuse.
«Sì, potrebbe. Sicuramente è qualcuno di molto vicino a noi» preferì rispondere Mario, forte anche delle supposizioni fatte con Lily nel pomeriggio.
Joe increspò le labbra, pensieroso.
«Era questo il motivo per il quale Lily voleva parlarmi? Voleva informarmi di questo?» chiese Joe, con sguardo grande e languido.
A quel punto Mario tacque. Gli aveva già inferto un dolore grande riguardo al fatto che sua sorella, quel maledetto giorno, fosse lì a pochi metri da lui, dirgli anche di Kouki sarebbe stato troppo.
In verità, Mario moriva dalla voglia di dirgli che quel marmocchio gli somigliava, che aveva gli occhi grandi e azzurri come i suoi e gli emanava la stessa dolcezza e sensibilità che Joe sprigionava senza troppi problemi. Che fosse suo nipote era innegabile.
Ma probabilmente, in quel momento, per Joe non sarebbe stata una buona notizia, anzi tutt'altro.
Una cosa alla volta, pensò.
«Sì, principalmente sì» tagliò corto, sperando che Joe non cogliesse altro nei suoi occhi, troppo mesti per il suo solito standard.
Joe annuì, convinto.
«Da quanto tempo lo sapevi?». Quella domanda, posta da Joe in totale naturalezza, fece inaspettatamente sussultare Mario senza alcun preavviso. 
«Non capisco» rispose lui, preso totalmente in contropiede. Joe sbuffò una risatina, mostrando i denti in tutto il loro splendore.
«Era da giorni che covavi tutto dentro, non è vero?» rispose, carezzando la testa di Mario da sopra la coppola.
Mario non potè fare altro che scuotere il capo, abbozzando un sorriso divertito sulle labbra. Quella giornata era stata piena di forti emozioni, aveva addirittura pianto di fronte a Lily, cosa che non faceva da anni e che gli aveva alleggerito l'animo, in qualche modo. Ma di piangere anche di fronte a Joe non se ne parlava neanche, se lo autoproibì. 
Eppure il magone alla gola gli salì lo stesso: la dolcezza con cui Joe sapeva sempre comprenderlo e giudicarlo, nonostante Mario, da parte sua, alle volte non avesse ricambiato con la stessa moneta le sue premure, gli faceva sempre bene al cuore. 
«Visto che oggi sono buono, ti svelo un segreto, biondino dei miei stivali» fece Mario, avvicinandosi all'orecchio di Joe, in modo che lui non potesse vedergli il viso in quel momento. Sarebbe sicuramente crollato se lo avesse fatto.
Gli portò una mano tra i capelli, proprio come faceva quando erano soltanto dei ragazzini.
«Verranno tante persone a dirti che ti vogliono bene e ti stimano. Ma mai nessuna di loro ti vorrà il bene che ti voglio io. Il mio bene per te è infinito», la voce di Mario s'incrinò verso quelle ultime parole, maledicendosi internamente.
Joe ascoltò ogni singola parola, e ne rise. 
Lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Mario gli aveva voluto bene da sempre: nonostante fosse stato uno scricciolo come lui quando si erano conosciuti, reclusi tra le quattro mura della cella, dietro le sue spalle Joe si era sempre sentito al sicuro, protetto. Lo aveva voluto bene quando ancora il carattere di Mario poteva ancora ritenersi affabile, e ne aveva temuto la perdita quando lo aveva visto inasprirsi e diventare acido e scostante con tutti. 
Continuerai a dire che mi vuoi bene anche quando scoprirai che mi ero invaghito dell'uomo che ci ha tolti dalla strada?
Cosa farai allora, Mario? Mi professerai ancora il tuo bene, o ti farò ribrezzo?
Quelle domande Joe non poté non porsele.
E non poté non provare schifo e repulsione verso sé stesso, ancora una volta.
«Ed il mio bene per te invece sovrasta addirittura l'infinito» dichiarò allora Joe, dandogli una spallata. Sentì i denti di Mario mordergli una porzione di ciocche in testa, gesto solito che gli dedicava spesso.
«Se lo dici a qualcuno, ti strozzo!» lo minacciò Mario, con voce traballante.
«Cosa? Che stai frignando, oppure che solo con me fai lo sdolcinato?» lo prese in giro Joe, sghignazzando.
Mario gli diede una capata piuttosto significativa.
«Stronzo di merda!» ma non vi fu cattiveria in quell'insulto.


Quando Rurika, Junko e i fratelli uscirono fuori dal locale, li trovarono seduti sul muretto adiacente, a fumare e chiacchierare apparentemente in tranquillità.
Solo Junko si avvicinò un po' di più, con aria incuriosita.
«Dobbiamo dirlo anche agli altri» sentì dire da Joe, con risolutezza.
Poi vide Mario annuire e tirare una boccata alla sigaretta.
«Lo faremo quando Tadayoshi tornerà. Con lui eviteremo di farli impazzire» convenne Mario, serio in volto. Una serietà che Junko gli aveva intravisto soltanto poche volte, e mai in buone occasioni.
Rurika nel frattempo la oltrepassò, raggiungendo i due amici, noncurante di poterli disturbare.
«Bravi! Siete stati qui a confabulare invece di vedere me che stracciavo Ryuji a carte!» si vaneggiò Rurika, con il casco della motocicletta sotto al braccio. Mario la squadrò lungo tutto il corpo.
«Hai intenzione di guidare la moto conciata a quel modo?» constatò, alzando un sopracciglio per il disappunto. Sia Joe che Junko trattennero a stento una risata a quella battuta.
Rurika invece lo fissò sprezzante, vaporizzando i capelli lunghi e lisci.
«Non credo di dovere delle spiegazioni a qualcuno che mi ha scaricato senza motivo dopo che gli ho fatto passare una notte indimenticabile» precisò Rurika, posando con grazia la mano libera su di un fianco. «Però posso fare un'eccezione, oggi che è il tuo compleanno. Magari vorresti un regalino speciale!» aggiunse, attirandosi le beffe di Joe e Junko, anche se quest'ultima ne fu poco convinta.
Mario invece sbuffò sonoramente alla sua provocazione. «Stasera non darei il meglio di me, cara! Sono davvero desolato!» la prese in giro Mario, buttando senza volere lo sguardo su Junko, come a volerla rassicurare. 
«Da quando l'americana se n'è andata, ti vedo proprio a terra, Mario. Vorrei dirti che mi dispiace, ma... sarebbe una bugia! Sto gongolando da giorni! Ben ti sta per avermi scaricata!» gli comunicò Rurika, giuliva e pimpante.
Mario si schiaffò la mano offesa sugli occhi. «Stasera però non ti sei fatta problemi a rimpinzarti alla mia tavola!» puntualizzò Mario, tenendo testa a quel battibecco improvvisato, nonostante la stanchezza si faceva sentire con prepotenza.
«Perché so scindere i doveri dal piacere, tesoro! Poi, preferisco piangere per un'unghia rotta piuttosto che per un pollo come te» concluse la ragazza, con un’aria così tranquilla e sicura da lasciare Joe a bocca aperta.
«Ha ragione lei, Mario! Sei stato proprio un villano» la difese infatti il biondo, con l'approvazione totale di Junko.
«Insegnami come si vive, senpai Rurika!» esclamò Junko con aria canzonatoria, con tanto di gesto teatrale che indicava uno svenimento.
Mario seguì la scena in silenzio, tra l'ilarità generale, guardando tutti i presenti di sbieco. Se avesse potuto, avrebbe evocato un fulmine sul posto a colpirli seduta stante.
«Scherzi a parte ragazzi, il comandante Hagino mi ha detto che lo sbarco è previsto tra qualche giorno» comunicò loro Rurika, cambiando improvvisamente tono, mentre si allacciava il casco sotto il mento. «Ryuji mi ha consegnato i restanti documenti. Aspettiamo il ritorno di Tadayoshi per proseguire con il resto».
Sia Mario che Joe annuirono, scambiandosi un cenno d'intesa.
«Non mancheremo» promise Mario, divenuto serio a sua volta. 
Dopo averli salutati, Rurika si avviò verso la motocicletta. Nonostante la gonnellina aderente e succinta ed il tacco a spillo, non si fece problemi a cavalcarla, segno che era ormai abituata a guidarla anche indossando abiti poco adatti all'occasione.
Joe però notò che la moto aveva difficoltà a partire, nonostante Rurika gli desse gas a tutto spiano.
«Con quei tacchi dubito che tu possa guidarla senza problemi» la punzecchiò Mario, incrociando le braccia al petto. Rurika in risposta gli dedicò un bel dito medio smaltato. 
«È la motocicletta il problema. È un po' vecchiotta, ma mio cugino si ostina a volerla tenere come un cimelio! Io e Akira glielo abbiamo detto che dovrebbe rottamarla» protestò Rurika, gonfiando le guance come una bambina. 
A quel punto, Joe ebbe come una sorta di deja-vu. Come se avesse già avuto a che fare con quella motocicletta in precedenza...
Si avvicinò a Rurika, prese il manubrio e ordinò a Mario di spingere da dietro. Dopo qualche passo, il motore risuonò per la strada, forte e scoppiettante.
«Oh, ma quanto sei bravo Joe! Ti meriti un bacino volante! Muah!» scimmiottò Rurika, alzando la voce a causa del rombo del motore.
«Guarda che ho dato anch'io una mano!» protestò Mario, mettendo su il broncio.
Rurika lo guardò storto. «Non ringrazio i fedifraghi» gli rispose, con un sorriso beffardo.
Una volta partita, a Joe restò una strana sensazione addosso. Il ricordo di quel giovane soldato un po' brillo che non riusciva a far partire il veicolo lo investì di colpo, donandogli una strana sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco. Gli parve come se stesse in procinto di gettarsi nel vuoto, senza provare alcun tipo di timore. 
«Tutto bene?» La domanda di Mario destò Joe dai suoi pensieri, cogliendolo impreparato.
«Eh?» fece il ragazzo, le pupille azzurre vibrarono impercettibilmente per la sorpresa. A Mario parvero addirittura brillare di luce propria.
«Ad un tratto mi sei sembrato distante... come se stessi sulle nuvole» constatò, accigliato. 
«Ma che dici? Ridevo solo alla battuta di Rurika» esclamò Joe, ridendo nervosamente. 
Mario però non sembrò bersi totalmente quella fesseria.
«Uhm, beato te che adesso vai a trovare la tua amica del cuore!» lo canzonò, afferrandolo sottobraccio. Joe sulle prime non seppe cosa rispondere, collegò tardi le due cose insieme.
«Ah... sì, certo! Non vedo l'ora» rispose, cercando di non apparire poco convinto.
Non che lo disturbasse l'idea di rivedere Namie, ma in quel momento i suoi pensieri erano occupati da altro. Da una motocicletta datata e un giovanotto dall'aria poco socievole.
«Torniamo dentro dagli altri! Altrimenti incominceranno a dire che li voglio già lasciare» disse Mario, dando una pacca dietro alla schiena di Joe, incitandolo a seguirlo.
Lui fece per annuire a labbra strette, ma qualcosa gli si bloccò in gola, fermandolo sul posto. 
Si ritrovò a pensare che era da tempo che non aveva più visto quel soldato in giro, e si chiese interiormente che fine avesse fatto. Si stupì maggiormente di averci addirittura speso un pensiero a riguardo.
Si portò inconsciamente una mano all'altezza della piastrina che portava sempre al collo, ma non le dedicò alcuno sguardo né attenzione. 
«Joe, andiamo?» lo richiamò Junko, affabile.
Il biondo mollò la presa dalla piastrina, lasciandola ondeggiare nel vuoto.
Dopodiché diede le spalle a quel ricordo e a quell'emozione che, per qualche minuto, lo aveva fatto sentire come un funambolo in sospeso su di una corda sottilissima. 


 
* * *


L'aria fresca del mattino entrava frizzante dal finestrino della Toyota, carezzando i capelli e la guancia di Mina.
Guidava l'auto con una sicurezza di cui non si era più ritenuta capace. Per un attimo, aveva provato una sensazione di sollievo mista a paura: aveva rimosso quanto le piacesse mettersi al volante ed andare in giro in piena libertà ovunque avesse voluto, senza dipendere da nessuno.
Si era stupita di sè stessa quando, la sera prima al telefono con la sorella, aveva dichiarato che sarebbe passata a prenderla in macchina il giorno seguente. Era stata una decisione presa di petto, senza troppe elucubrazioni. Mina stava chiacchierando sul da farsi per il giro di acquisti a cui voleva sottoporla la sorella, quando si era trovata tra le mani le chiavi dell'auto, poggiate sul comodino in un recipiente di ceramica accanto al telefono. Alla domanda di Masumi su dove volessero incontrarsi, Mina le aveva risposto semplicemente che sarebbe passata a prenderla lei, con la sua auto nuova di zecca. 
Era dai tempi dell'Accademia a Tokyo che Mina non si metteva al volante. Sua nonna e sua zia, la sorella di suo padre, l'avevano convinta a prendersi la patente, nonostante a quei tempi solo a poche donne era concesso il lusso di guidare e possedere un'auto propria. 
Mina aveva avuto semplicemente la fortuna di essere nata in una famiglia benestante; il solo fatto di aver studiato ed essersi concessa delle priorità,  le aveva donato, per un certo periodo di tempo, una libertà incondizionata. 
Ad onor del vero, inizialmente Mina era stata poco propensa a mettersi alla guida di un mezzo di trasporto, ma in seguito non poté non essere grata a sua nonna e a sua zia per averla spinta a fare un gesto alquanto rivoluzionario per l'epoca.
Raggiunse la casa di sua sorella a Kobe, suonando il clacson con il pollice, titubante all'idea di poter disturbare i passanti. Vide sua sorella Masumi uscire di casa avvolta in una pelliccia marrone, le scarpette nere col tacco medio e un foulard a fasciarle i capelli lunghi e boccolati.
Si fermò di qualche centimetro poco lontano dall'auto della sorella maggiore, abbassando gli occhiali da sole per scrutarla con sguardo malupino.
«Chi sei tu? E cosa hai fatto a mia sorella?» scherzò Masumi, studiando il cappotto beige di Mina, le sue labbra rosso carminio e i capelli semi raccolti in un fermaglio fiorito. Le fece un certo effetto vederla seduta al comando dell'auto, con quell'aria serena che sprigionava un fascino inconsapevole.
«Su, sciocca, sali su! Altrimenti ti lascio a piedi» le mise fretta Mina, sorridendo.
Masumi non se lo fece ripetere due volte. Salì sul veicolo, buttò la pochette sui sedili posteriori e si mise la cintura, tentanto di non far sgualcire la pelliccia.
«Che invidia, sorellona! Quanto vorrei aver preso anch'io la patente! Sfreccerei in strada a tutte le ore!» cantilenò Masumi, facendo il labbruccio.
Mina rise dell'intraprendenza della sorella minore. Masumi rassomigliava in tutto e per tutto a donna Chieko da giovane, e Mina era davvero contenta che i geni di sua nonna non fossero andati perduti con l'avanzare delle generazioni.
«Beata te che Tadayoshi ti lascia guidare! Tuo marito è proprio un uomo moderno» civettò la più giovane, poggiandosi una mano sotto il mento con fare da prima attrice dell'opera. 
A quelle parole, Mina si rabbuiò leggermente. Fu grata del fatto d'indossare anche lei gli occhiali da sole, sperando che Masumi non si accorgesse del velo di tristezza calato sui suoi occhi grandi e naturali, privi di trucco. 
«A Tadayoshi non ho detto di avere la patente, nè che ho mai guidato in vita mia» confessò Mina, sentendosi improvvisamente in colpa per qualcosa di indefinito.
Masumi strabuzzò gli occhi e spalancò leggermente la bocca a quella rivelazione.
«Cosa? Vuoi dirmi che lui non sa che oggi hai preso l'auto per venirmi a prendere?» domandò scioccata. Mina annuì lentamente, alzando un sopracciglio per il disagio.
«Non vedo perchè lui debba saperlo. In questi giorni non è nemmeno a casa. Non ho motivo di comunicargli che ho guidato» rispose, incespicando più volte nel corso della frase. D'altra parte, Tadayoshi non le diceva mai nulla sul suo conto, e sulle uscite notturne che ogni tanto era costretto a fare, a suo dire. Era vero che, in quanto moglie, Mina era tenuta a non nascondergli nulla e ad essere trasparente con lui, ma era anche convinta che, anche se glielo avesse detto, per Tadayoshi la cosa sarebbe scivolata in secondo piano. Come tutte le cose che la riguardavano, dopotutto.
Si ritrovò a stringere le dita sul volante, aspettando un rimprovero imminente dalla sorella, più che giustificato, sulla sua condotta infantile. Ma si meravigliò invece nel vedere che Masumi battè le mani eccitata alla sua delucidazione.
«Mina, tu sì che sei una donna tutta d'un pezzo! Ma sì, non sei mica tenuta a fargli il resoconto di quello che fai in sua assenza! Come si vede che sei stata a Tokyo per tanti anni! Sei il mio modello sorellona!» esclamò Masumi, elogiandola come una bambina che aveva appena ricevuto il suo regalo preferito dalla sua persona preferita.
Mina la osservò e per poco non si commosse. Era vero, Mina era stata molto più fortunata di Masumi, per certi aspetti. Aveva conosciuto la metropoli, aveva avuto modo di studiare, di divertirsi - sempre nel limite del possibile, e aveva ottenuto dei traguardi che sua sorella minore non aveva mai neanche intravisto per sbaglio. Masumi era cresciuta nella loro cittadina, aveva avuto modo di vedere e di vivere la città soltanto dopo sposata. Non che se ne fosse mai fatta un cruccio, anzi: le aspirazioni di Masumi erano sempre state diverse da quelle di Mina. La prima era ammiccante, sbarazzina, le era piaciuto attirare l'attenzione di un buon partito. Per la seconda invece era contata sempre e solo l'arte, solo i suoi disegni e le sue tele. Dopo essersi sposata con Tadayoshi, aveva cercato di traslare l'arte in quell'ambiente circoscritto che era diventata la sua casa, attraverso il ricamo dei fazzoletti del marito, la cura delle piante, la creazione del bentō che suo marito si portava dietro - lo aveva dipinto lei stessa con gli acrilici, a Tadayoshi aveva detto invece di averlo trovato così com'era al mercatino dell'usato a poco prezzo -, la cucina e le faccende di casa. 
Mina aveva pensato seriamente di mettere da parte l'arte e di dedicarsi totalmente ai suoi impegni domestici di donna sposata, ma abbandonare a sè stessa quella passione avrebbe significato una morte lenta ed inesorabile del suo essere. Si sentiva ben lontana dall'essere quella moglie perfetta che sua madre Yuuko si aspettava che fosse: almeno l'arte era l'unica cosa che le restava, l'unica arma su cui poteva esercitare un controllo totale.
«Sarà meglio muoversi! O troveremo traffico» Mina si asciugò in fretta una lacrima col dorso della mano, l'ombra di un sorriso commosso le rimase impressa sul viso, nonostante il bel paio di occhiali da sole le coprisse parzialmente il suo bel viso malinconico.
Masumi le diede man forte, sfoggiando uno dei suoi sorrisi migliori.
La macchina partì senza problemi, sfrecciando per la strada ancora semivuota.
 

Le due sorelle girarono per Tokyo come trottole impazzite, anche se la più euforica delle due era sicuramente Masumi.
Una volta entrate nei Grandi Magazzini, la sua attenzione si posò ovunque: drappi di seta, boutique, negozi di scarpe, saloon di bellezza e tanto altro fu registrato dallo sguardo allegro e vispo di Masumi.
Mina, dal canto suo, si sentì piuttosto stupita di trovarvisi all'interno: quando studiava in Accademia, quell'enorme edificio era ancora in fase di costruzione. Durante la guerra era stata una fabbrica siderurgica che produceva armi per l'esercito Giapponese.
Era stato raso al suolo durante i bombardamenti dell'43, quando i caccia americani avevano iniziato a bombardare anche sui civili inermi. Mina ricordava ancora con orrore la caduta delle lingue di fuoco dal cielo - legna accesa che arrivata al suolo, bruciava tutte le case dei paesini colpiti, provocando incendi di proporzioni devastanti a lungo raggio.
A Mina era sembrato quasi un miracolo vedere quel posto risorto a nuova vita, proprio come un fiore sbocciato tra le pietre. 
Vedere tutte quelle persone affaccendate a correre da una vetrina all'altra, smaniosa di comprare e provare abiti, scarpe, accessori, per Mina era stato divertente e rasserenante. Il Giappone aveva sofferto tanto in quei quindici anni trascorsi dopo la guerra, la sua gente aveva patito la fame più nera, aveva dovuto affrontare una crisi umanitaria e finanziaria non indifferente. Il tasso di criminalità era aumentato spaventosamente, raggiungendo vertici vertiginosi.
La situazione, sul finire degli anni '50, era leggermente migliorata, anche grazie al boom economico, che in Giappone era entrato a piccoli passi. 
Questo almeno per quanto riguardava le zone urbane. Già nei pressi della sua prefettura, la situazione era molto diversa.
«Oh, Mina, entriamo in quella boutique! Ho visto dei capi meravigliosi! Andiamo a provarli, su!» Masumi trascinò la sorella lontano dai suoi ricordi e dai suoi pensieri, lasciandosi condurre ovunque lei volesse.
 

Senza accorgersene, trascorsero tutta la mattinata avanti e indietro, bazzicando di negozio in negozio: Masumi le fece provare di tutto, dalle scarpe, ai vestiti, le calze, i guanti, perfino l'intimo non le fece risparmiare.
Masumi le fece provare un babydoll quasi trasparente, con ricami di pizzo e balze di seta sui bordi del gonnellino.
Sul seno le andava grande, la sua taglia S faceva si che quell'indumento, più che seducente, la rendesse ridicola.
«Ti ci vuole qualcosa di più aderente» esordì Masumi, pensierosa. «Lascia fare a me».
Mina non capì perchè sua sorella insistesse tanto sul farle indossare quel tipo di abbigliamento tanto provocante e succinto. Le camicie da notte che indossava solitamente erano piuttosto semplici, lunghe fino al ginocchio, e leggermente ampie sui fianchi. Il seno lo lasciavano intravedere poco, creando un effetto vedo non vedo piuttosto carino.
E poi a Mina piaceva la sensazione di vedere le mani di Tadayoshi sprofondare nella seta, nel tentativo di appigliarsi ai suoi fianchi. All'inizio del loro matrimonio era un gesto che glielo vedeva fare spesso, e la consistenza di quelle mani attraverso la seta la facevano impazzire. 
Almeno il tessuto attutiva il tocco sui suoi fianchi magri e ossuti, a differenza di suo marito che era corpulento e massiccio. Non era grasso, ma la sua corporatura era imponente e statuaria. Mina era abituata a vedere il fisico dei modelli nudi che si era trovata a disegnare in accademia, ma quello di suo marito le era parso fin da subito scolpito dalle mani di Dio in persona. Le mozzava il fiato in gola ogni volta che le si avvicinava, anche solo in t-shirt e pantalone del pigiama.
Quei babydoll che Masumi si ostinava a farle provare la facevano sentire troppo esposta, spoglia di ogni armatura. Tadayoshi le avrebbe riso in faccia nel vederla conciata in quel modo.
Ad un terzo tentativo, Mina, però, restò senza parole.
Era sempre un babydoll, ma le cadeva addosso in modo totalmente differente. Era rosso bordeaux, un colore che lei solitamente non amava indossare; le fasciava il seno piccolo in due triangolini di stoffa pizzettati, e il motivo di pizzo scorreva lungo il corpetto andando a perdersi lungo la gonnellina, che le arrivava poco sopra il ginocchio. 
La seta non era trasparente nè pomposa, era elegante. 
«Santi numi, Mina! Sembra disegnato per essere indossato da te!» esclamò Masumi emozionata, portandosi una mano sulla bocca per la sorpresa.
In effetti, Mina si sentiva a suo agio con quel capo addosso, non riusciva a staccare lo sguardo dal suo riflesso nello specchio. 
Sentiva la consistenza della seta che le carezzava i capezzoli duri ed ebbe un sussulto.
Con un gesto lento, si alzò i boccoli in uno chignon, imitando pose seducenti, anche se con un pizzico d'imbarazzo.
Ti piacerei vestita così, Tadayoshi? Farei colpo su di te?
Mina rise di quelle domande così sciocche. L'influenza di sua sorella stava incominciando a prendere piede anche su di lei.
«Allora?» insistette Masumi, carica di aspettativa, aggrappata alla tendina del camerino.
Mina scambiò con lei uno sguardo d'intesa, decisa.
«Lo prendo».
 

Uscirono dai grandi magazzini piene di buste variopinte e grandi.
Entrambe si erano lasciate totalmente andare, ma la cosa non pesò su di loro eccessivamente. Erano soddisfatte delle spese fatte, nonostante la maggior parte fossero tutte per Mina.
«Non ti sei comprata quasi nulla per te Masumi, mi dispiace!» sottolineò Mina, visibilmente mortificata.
Ma Masumi le diede una leggera spinta alla spalla, come a rassicurarla che non aveva motivo di intristirsi per lei.
«Siamo venute apposta per te, Mina! Avevi bisogno di rifarti il guardaroba!» la pungolò Masumi, con quel suo fare birichino.
In effetti, tutti i capi comprati possedevano colori e modelli di cui Mina non era mai stata tanto appassionata: lei amava indossare qualsiasi tonalità di blu o verde, il bianco le piaceva in particolar modo. Ma colori come il giallo, il rosso, l'arancione, li trovava troppo forti per lei, troppo vivi, intensi.
«Uff! Queste scarpe mi stanno distruggendo i piedi! La macchina è molto lontana?» chiese Masumi, appoggiandosi al braccio della sorella maggiore con naturalezza.
Mina poggiò la mano libera su quella di Masumi, stringendogliela con calore.
«Sopporta ancora per poco! Poi in auto te le faccio togliere» le disse lei, rassicurandola proprio come quando da ragazzine trascorrevano i pomeriggi a passeggiare, e Masumi si lagnava con Mina degli innumerevoli album e pennelli acquistati al posto di scarpe e vestiti.
Per Mina fu come se il tempo si fosse fermato, come se entrambe non indossassero nessuna fede al dito, non fossero vincolate a nessun altro se non alla propria famiglia.
Mentre rimuginava su tali pensieri, passando vicino ad un cafè - uno di quelli con i tavolini all'aria aperta, come i bistrot francesi, Mina si sentì chiamare a gran voce da qualcuno.
Aguzzò la vista per scoprire chi stesse cercando di attirare la sua attenzione, e notò, sedute ad un tavolo, donna Rieko Mori e Kyoko Hitomura, le rispettive mogli del sergente Mori e del generale Hitomura, ritiratosi dall'esercito da diverso tempo.
Assieme a loro vi era seduta una ragazza, portava un cappellino viola e i capelli neri le arrivavano lungo la spalla, lisci come la seta, un po' vaporosi alle punte.
Mina si sentì improvvisamente in soggezione: conosceva donna Rieko perchè lei e suo marito erano amici di lunga data della sua famiglia, mentre di donna Kyoko conosceva la nominata di suo marito, l'integerrimo ex generale Hitomura. Ogni venerdì al circolo degli Esteri, giocava la sua partita di mahjong proprio assieme a sua nonna Chieko, assidua partecipante.
Da quando si era sposata con Tadayoshi, a Mina le sembrò come se le si fossero aperte le porte di un piccolo mondo: come se una legge non scritta le avesse decretato di far parte di una comunità non riconosciuta in cui essere moglie di un soldato voleva significare rigore e stima da parte delle altre consorti.
Questa cosa le fu ben chiara durante la sera del galà: le mogli e le compagne dei soldati di qualsiasi rango, avevano fatto a gara a chi volesse conoscerla prima di chiunque altro. La stessa donna Mori le si era avvicinata per darle la sua "benedizione" e i suoi consigli sul vivere e mantenere un comportamento integerrimo per non far sfigurare i propri mariti, anche se colti in flagrante a tradirle.
Quell'eventualità Mina la repelleva peggio della peste nera.
«Mina-chan! Quanto tempo che non ci vediamo!» esclamò affabile la moglie del sergente Mori, le mani guantate intrecciate sul ventre.
Mina annuì composta, notò che non l'aveva chiamata col cognome di suo marito, in parte ne fu sollevata. 
«Ti ricordi di mia figlia Miyako? Frequentavate la stessa scuola da bambine» donna Rieko presentò la giovane seduta seduta lì accanto a lei, che sorrise alle due sorelle con molto garbo.
Mina produsse un verso di assenso.
«Certo! Ricordo eccome!» esclamò, in un lieve inchino.
L'altra donna seduta le invitò a sedersi con loro al tavolo.
«Prego, sedetevi con noi!». Donna Kyoko era molto bella, meno composta rispetto a donna Rieko e sua figlia. Portava i capelli semiraccolti e indossava un vestito smanicato azzurro chiaro con un piccolo spacco a V sul décolleté. 
Mina era grata di tanti riguardi, ma allo stesso tempo non se la sentiva di stare ad ascoltare i loro discorsi, specie se riguardavano i loro mariti. Si sarebbe sicuramente sentita a disagio tra cenni silenziosi e sorrisi di circostanza. 
Stette sul punto per rifiutare, quando Masumi colse la palla al balzo, con entusiasmo.
«Vi ringrazio! Io e mia sorella è da stamattina che andiamo avanti e indietro, e adesso ho i piedi distrutti» s'intromise la più piccola, sedendosi con la sua solita grazia al tavolo, sorridendo alle presenti con educazione. Mina la imitò, sebbene poco convinta della cosa.
«Avete un sacco di buste! Non vi siete fatte aiutare da nessuno?» parlò Miyako per la prima volta, visibilmente sorpresa.
«No! I nostri mariti sono al lavoro e noi abbiamo pensato bene di dedicarci allo shopping!» esclamò Masumi, togliendosi dal capo il foulard variopinto, ravvivandosi la chioma fluente con elegante energia.
A Mina scappò da ridere nel sentirla parlare così. Avrebbe dovuto riprenderla - sua madre lo avrebbe fatto - ma lasciò correre. Adorava l'esuberanza di sua sorella, l'avrebbe lasciata fare godendosi lo spettacolo mentre soffocava le risate.
«Siete le nipoti di donna Miyasugi, dico bene?» chiese donna Kyoko, osservando con il suo sguardo affilato ed elegante prima Masumi, e poi Mina.
Ci pensò donna Rieko a rispondere per loro.
«Esattamente, cara! Mina è sposata con il capitano Tooyama, ne avrai sicuramente sentito parlare! Mio marito lo considera uno dei suoi uomini migliori» esordì donna Rieko, alzando il mento con orgoglio, neanche avesse descritto le gesta di un suo consanguineo.
Mina la fissò ammirata, arrossendo sulle gote. Provò una bella sensazione in petto nel sentire parlare così di Tadayoshi.
Strinse il pugno involontariamente, immaginando di stringere il palmo della mano di suo marito, incoraggiante.
Kyoko Hitomura annuì più volte, con accondiscendenza, sorridendo affabilmente alla volta di Mina. 
«Mio figlio Katsuya è stato assegnato al suo plotone, e lo rispetta molto» confermò la donna, dimostrandosi gentile nei confronti della giovane, che la stava osservando incantata e stranita.
Masumi sorrise sotto ai baffi della sua espressione sognante.
«Praticamente sono l'unica a non avere il marito in divisa qui in mezzo» esclamò, malandrina. Scambiò un'occhiata veloce con la sorella maggiore, prima di sparare la sua cartuccia. Lo sguardo di Mina divenne improvvisamente atterrito.
«Ho sentito dire che gli uomini in divisa sono particolarmente focosi» sibilò, facendo un cenno alla sorella piuttosto eloquente. Mina avvampò, distogliendo lo sguardo, e con lei anche Miyako.
Donna Rieko invece scoppiò a ridere di cuore, portandosi una mano guantata alla bocca, appellandosi al proprio autocontrollo.
«Non dite così Masumi-chan! Altrimenti spaventerete mia figlia!» la riprese bonariamente la moglie di Mori, dando un colpetto sulla spalla di Miyako, che sorrideva imbarazzata.
«Già, concordo» diede man forte donna Kyoko «Temo che anche mia nipote l'avrà terrorizzata con le sue battute!» e poggiò una mano sul dorso della mano di Miyako, che si umettava le labbra dal crescente imbarazzo. Mina infatti notò che la ragazza non portava la fede, non ancora.
«È promessa sposa al nipote di donna Kyoko, il giovane tenente Akira Hitomura» spiegò donna Rieko ad entrambe, con un certo tono solenne. 
«Cogliamo l'occasione di invitarvi al matrimonio che si terrà tra un mese. Io e Kyoko stiamo dando di matto per stare dietro ai preparativi delle nozze».
Mina ringraziò timidamente dell'invito donna Rieko, poi spostò lo sguardo su Miyako. Passò in rassegna mentalmente il giorno del suo omiai , del matrimonio, della sua prima notte di nozze, della breve luna di miele compiuta in Hokkaido, dei primi mesi trascorsi nella loro casa...
A Mina non parve affatto che fossero passati soltanto nove mesi da allora. 
Pregò internamente che a quella ragazza il matrimonio portasse tante cose belle e dei figli sani, forti e belli. E che, soprattutto, suo marito la amasse tanto quanto meritava. 
Improvvisamente un rombo di motore dilagò per la strada, facendo sobbalzare le presenti sedute al tavolo.
Un motociclista aveva fermato il suo veicolo poco lontano da loro, scendendovi da esso con una grazia innaturale, elegante.
Quando si tolse il casco, per poco il cuore di Mina non le si fermò brutalmente in petto, lasciandola a corto di fiato per la sorpresa ed il terrore più puro.
Vestita con una tuta da meccanico, gli anfibi e una t-shirt bianchissima che le fasciava il bel petto sodo e abbondante, Rurika, con il casco sottobraccio, si avvicinò con aria svogliata proprio al tavolo dove si trovava seduto il gruppo di donne.
Masumi notò subito il cambio di colore che il viso di Mina assunse nel giro di pochi secondi. 
«Ah, Rurika, finalmente!» la chiamò donna Kyoko, allungando un braccio verso di lei. Rurika afferrò la mano e le baciò la fronte con un sonoro schiocco. «Scusa il ritardo, zia! Ma ho portato quel macinino a farlo oleare un po'. Tuo figlio mi ringrazierà!» esclamò compiaciuta la ragazza, sicura di sé, facendo un cenno col capo verso la motocicletta poco distante.
Mina la vide rivolgere la parola anche a donna Rieko e a Miyako, che ricambiarono amichevolmente i suoi saluti.
«Allora? Ancora a confabulare su questo matrimonio?» esordì, sedendosi al tavolo vicino a donna Kyoko, che le prese una mano, stringendogliela con affetto.
Mina rimase colpita da tutta quella sfacciataggine così poco femminile. Vederle indossare i pantaloni, poi... come faceva a non provare soggezione?
Una brutta, bruttissima parola attraversò la mente di Mina in un'istante. 
Sei una poco di buono. Una lurida schifosa!
Le stavano venendo le lacrime agli occhi tanto quei pensieri la stavano dilaniando dentro. Masumi le si avvicinò piano, sgranando gli occhi già grandi per natura.
«Ehi, sorellona! Ti senti bene?» bisbigliò, preoccupata, posandole una mano sul braccio. Mina si limitò a stringergliela con la propria, deglutendo vistosamente. 
«Ti stavo proprio pensando, Rurika-chan!».
La voce allegra e composta di donna Mori destò Mina da quei pensieri infausti. 
«Devi convincere Natsume a comprarsi un vestito decente per la cerimonia! Incredibile, sua sorella maggiore si sposa, e lei non fa altro che fare la palla al piede!» si lamentò poi, sempre con eleganza, portandosi due dita sulla guancia per appoggiarsi. Mina vide Miyako fissare la madre con aria dispiaciuta. 
«Magari a te darà retta! Sai sempre come prenderla». Quel complimento a Mina parve talmente sincero, da provocarle acido in petto. Non riusciva a capacitarsi del fatto che Rurika avesse potuto ottenere l’approvazione e la stima di una donna tanto legata alle tradizioni quale era donna Rieko. 
Rurika era così, così... libera.
Libera di vestirsi e di agire come meglio le aggradava. Libera di sedurre, ammaliare, avanzare proposte. Libera di sentirsi bella e di provare piacere tra le braccia di un uomo senza preoccuparsi troppo delle conseguenze... 
Era proprio questo che a Mina rodeva maggiormente. Quella sua libertà negata, strappata via senza riguardo. 
Le amicizie di Tokyo, la sua amata arte... niente, a lei non era rimasto più niente.
Avrebbe voluto alzarsi da quel tavolo, esattamente come era capitato al Rainbow, darsela a gambe senza troppe chiacchiere inutili. Ma il terrore di attirarsi i commenti negativi delle donne sedute a quel tavolo la fecero restare inchiodata a quella sedia, a soffrire. 
«Ci parlerò io, stia tranquilla Rieko-san!» rispose intanto Rurika, con confidenza. Poi nello spostare lo sguardo, notò finalmente Mina e sua sorella, prorompendo in un'espressione genuinamente sorpresa.
«Ah, ma... Mina-san, che ci fai tu qui?» chiese, con un sorriso sconcertato in volto. Masumi nel frattempo, che aveva appreso nel giro di pochi secondi che si trattava proprio della Rurika delle confidenze di sua sorella, guardava entrambe con aria atterrita, cercando però di darsi un contegno. 
«Vi conoscete?» chiese donna Kyoko, aggrottando la fronte. Mina intanto cercò di ricomporsi, sfidando la rivale a mento alto e sguardo serio. 
«Conosco Tadayoshi, suo marito» e lì per poco la vena alla tempia di Mina non esplose letteralmente, a causa della forte tensione che le aveva procurato il sentir chiamare suo marito in modo così confidenziale da una sconosciuta.
«Stai parlando di un Capitano delle Forze Armate. Porta più rispetto quando ne fai menzione». 
Un pesante silenzio calò improvvisamente a quel tavolo. Mina si attirò inevitabilmente lo sguardo di tutte loro, in particolar modo di sua sorella Masumi. Fu quest'ultima, infatti, a rompere quel silenzio imbarazzante venutosi a creare di punto in bianco. 
«Ehm, perdoni mia sorella... Rurika-san, giusto? È che lei tiene molto al fatto che a suo marito» Masumi calcò particolarmente l'accento su quel punto «gli venga riconosciuto il suo ruolo. Spero non le sia parsa troppo brusca». Masumi nel mentre, strinse forte la mano di Mina, come a volerle dire di mantenere la calma. Era sinceramente preoccupata per lei e per la situazione creatasi.
«Affatto!» replicò Rurika, come se quel richiamo non fosse stato fatto a lei ma a qualcun altro.
«Ho questo brutto vizio di chiamare per nome le personalità altolocate in pubblico, anche in presenza di estranei. Mia zia me lo rimprovera sempre» e nel dirlo, scambiò con donna Kyoko uno sguardo di puro affetto, sorridendo birichina.
«A volte dimentico di non essere a Pearl Harbour, ma in Giappone». Rurika si grattò la nuca con imbarazzo, senza però arrossire o apparire confusa e debole. Sapeva tenere la scena nonostante avesse riconosciuto un proprio fallo.
Kyoko annuì comprensiva, stringendole la mano con affetto.
Mina vide molto più di una stretta affettuosa in quel gesto. Kyoko la guardava con occhi riconoscenti, di madre. Uno sguardo che Yuuko non si era mai premurata di darle in ventiquattro anni di vita. 
«Mia nipote è cresciuta all'estero, Mina-chan. Mio fratello era militare di stanza alle Hawaii quando si è sposato con una ragazza del posto» spiegò la donna con affabilità, non dimenticando di sorriderle con dolcezza. La sicurezza di Mina iniziò a vacillare sempre più.
«Perciò i miei atteggiamenti possono risultare alquanto discutibili a volte, ammetto» intervenne poi Rurika, alzando le mani, costernata. 
«Sei perdonata solo perchè ti trovi tra amiche» chiarì donna Rieko, scambiando un cenno d'intesa con Mina, che le sorrise nervosa.
«Fai bene a mantenere alto l'onore di tuo marito, Mina» fece la donna, poggiandole una mano sulla spalla. «Noi mogli dobbiamo portare loro il massimo rispetto, e pretenderlo quando necessario. È una cosa che presto imparerai anche tu, figlia mia» e si rivolse poi a Miyako, poggiandole l'altra mano sul ginocchio scoperto dal vestito. La ragazza abbassò lo sguardo, intimidita da quelle parole. 
Mina la osservò con tenerezza: quanto si era sentita in soggezione i giorni in cui si era deciso del suo matrimonio con Tadayoshi!
Aveva provato un misto di emozioni diverse fra loro, era arrivata al giorno fatidico con tante paure ed insicurezze addosso. E le cose non erano migliorate col passare del tempo, anzi. 
Le preoccupazioni e le ansie si erano triplicate, Mina concepiva il suo status di moglie come un vero e proprio dovere, e tutto questo influiva poi nel loro rapporto, che diventava freddo e distaccato, apatico. 
Quando faceva l'amore con lui, Mina contava mentalmente quante spinte mancavano alla fine, fissando il soffitto con aria neutra, provando puntualmente un forte disagio, ogni volta.
Erano state davvero poche le volte in cui era riuscita a lasciarsi andare con lui, a sentirsi coinvolta, a percepire il suo amore con una profondità tale da sentirsi stordita.
Per la precisione, solo due volte in nove mesi di matrimonio.
E adesso Tadayoshi si era giustamente scocciato di lei e della sua incapacità di soddisfarlo e di assecondarlo, ripiegando su una donna come Rurika, spigliata e divertente.
In cuor suo, Mina pregò che a Miyako non toccasse la sua stessa sorte. Non conosceva il giovane tenente Hitomura, ma si augurò che potessero vivere insieme un matrimonio quanto meno felice, sereno. E che Miyako non si dovesse mai sentire una donna a metà, sbagliata, nei confronti del marito.
«Credo sia arrivato il momento di andare» fece Mina, alzandosi con calma dalla sedia. Masumi la seguì per riflesso. «È stato un piacere fermarmi a chiacchierare con voi».
In quel momento aveva il cuore troppo ferito per poter continuare a restare lì seduta con loro, nonostante donna Rieko l'avesse elogiata e non ripresa per il suo richiamo poco carino nei confronti di Rurika.
«Sì, vero, siamo stanche morte! Poi i miei figli mi reclamano» aggiunse Masumi, sorridendo allegra. Tutte le donne sedute al tavolo le salutarono con un cenno del capo, gentili. Rurika mosse semplicemente le dita in un chiaro segno di saluto che voleva essere del tutto amichevole. Per Mina, invece, fu l'ennesima pugnalata al cuore. Non la sopportava tutta quella confidenza da parte sua.
«Ti prego, Mina-chan, rinnovate il mio invito a vostra madre e vostra nonna. Sarò ben lieta di ospitarle al ricevimento di nozze di mia figlia» ribadì cordiale Rieko, elargendo un sorriso delicato e fine.
Mina abbassò il capo, acconsentendo alle sue parole, dopodiché prese sotto braccio sua sorella e si allontanò piano dal tavolo.
Il chiacchiericcio tornò nuovamente dopo qualche minuto. E il cuore di Mina sprofondava sempre più, ad ogni passo.
 

Durante tutto il tragitto in macchina, le due sorelle non spiccicarono parola. 
Masumi guardava di sottecchi la sorella maggiore, indecisa se parlarle o lasciar correre. Non voleva rimproverarla, voleva soltanto aiutarla ad aprirsi.
Poi però prese coraggio.
«Quindi sarebbe lei la Rurika di cui mi avevi parlato?» chiese delicatamente la più piccola, spiando con la coda dell'occhio l'eventuale reazione della sorella.
Mina non disse una parola, nè fece un cenno di diniego o affermazione. Guardava fissa la strada davanti a sè.
«Ad essere bella, lo è eccome» mise le mani avanti Masumi, decretando l'ovvio.
«Ma... sono certa che Tadayoshi non la vedrebbe mai in quel senso». Era sincera Masumi mentre dichiarava la sua verità. Mina continuò testarda a non aprire bocca.
Erano finalmente giunte davanti al cortile della villa di Masumi.
Prima di scendere, quest'ultima tentò un ultimo approccio, più timido.
«Qualsiasi problema tu stia affrontando con tuo marito, sarebbe meglio che ne parliate. Invece di auto sabotarti prima del tempo, sarebbe opportuno che tu lo senta dire stesso da lui come stanno le cose» le consigliò Masumi, guardandola impietosita. Mina non le rivolse lo sguardo, continuava a guardare la strada sterrata davanti a sé. Le mani stringevano convulsamente il volante, se avesse avuto più forza lo avrebbe scaricato a terra senza farsi troppi problemi.
«E non imbronciarti, che poi ti escono le rughe!» le disse poi Masumi, avvicinandosi a lei per darle un bacio sulla guancia.
Mina le si accostò leggermente, socchiudendo gli occhi.
«Poi quando ti vengo a trovare indossa il vestito fiorito, così vedo come ti sta» le disse ancora, cercando di stemperare il suo malumore. A giudicare dal principio di sorriso che Mina produsse, Masumi potè ritenersi sollevata.
Una volta rimasta sola in auto, Mina guidò fino a casa. 
Parcheggiata la macchina nel capannone, diede libero sfogo alle lacrime, poggiando la fronte sulle mani strette al volante.
Singhiozzava violentemente, come non faceva da tanto tempo.
«Perché? Tadayoshi, perché?» si lamentò, iniziando a colpire a palmo aperto il volante. Ogni volta che vedeva quella donna, Mina non poteva fare a meno di immaginare lo sguardo di suo marito che le si poggiava addosso, incantato. 
Si era ormai rassegnata all'idea che non avrebbe mai potuto competere con Rurika, con il suo fascino straniero e la sua favella mordente e simpatica. 
Lei in confronto era semplicemente un pezzo di carne che respirava, illudendosi di essere felice e soddisfatta di quella vita che le aveva dato tanto, ma che le aveva anche tolto tutto. 
L'unica cosa che avrebbe voluto in quel momento era sparire tra i cuscini del letto e piangere, urlando come una matta.
E per la prima volta, dopo molto tempo, Mina desiderò che Tadayoshi tornasse a casa il più tardi possibile. Non avrebbe sopportato un altro sguardo di circostanza, nè l'ennesimo rifiuto. O lo strazio di provare ad amarlo col suo corpo senza riuscirci. Nonostante il cuore morisse dalla voglia di essere affidato e cullato dalle sue mani grandi e forti. 


 
***


L'ultimo carico di medicinali e cibo doveva essere caricato sulla camionetta quanto prima, e Vince aveva constatato che non farsi aiutare a sollevare quelle casse pesanti era stato uno degli errori più grandi commessi fino ad allora. 
Aveva la schiena e le braccia a pezzi, complice l'allenamento mattutino in palestra che si era concesso andando oltre i suoi sforzi fisici. Anche il vecchio Jimmy lo aveva rimproverato: se avesse continuato così, prima o poi sarebbe collassato di sicuro come una pera cotta al suolo. 
Ma tutto quell'allenamento e quel movimento a Vince giovava, nonostante tutto. I suoi compagni sfogavano le loro nevrosi sulle donne del campo, lui lo faceva con la boxe. Lo preferiva di gran lunga al mettere le mani addosso a quelle povere ragazze.
Da quando era finito in stanza in Giappone nel 1956, non gli era mai passato per la testa di andarsi a divertire con prostitute o semplicemente frequentando donne libere del posto. E di proposte ne aveva ricevute parecchie, data la sua prestanza fisica e il suo privilegio di marines. 
Aveva provato a frequentare anche la comunità bianca che si trovava poco fuori la cittadina, spinto da Mark quelle volte che andava a trovare la famiglia, ma la situazione lì non era molto diversa da quella che vigeva al campo base. Anche lì vi erano donne, perfino sposate, che per ottenere un tozzo di pane si vendevano ai soldati, sia americani che giapponesi, non badando minimamente di essere viste e in seguito punite per le loro azioni.
Ovunque posasse lo sguardo, Vince notava solo devasto, devasto e tristezza. Soltanto la natura sapeva regalare ancora qualche emozione spontanea.
Nonostante il Giappone stesse pian piano cominciando la sua ascesa economica, vi erano ancora molte zone povere e disagiate, ferme ancora alla realtà post bellica, e la prefettura dove si trovava in quel momento era proprio una di quelle.
Grattandosi la nuca sudata, Vince sbuffò sommesso, appoggiandosi stanco alla camionetta. Strofinò i palmi aperti lungo le cosce coperte dal tessuto sintetico dei pantaloni e strizzò gli occhi con foga.
Fu quando rialzò lo sguardo davanti a sé che il mondo tornò a prendere colore e vitalità.
Meg era uscita dall'infermeria, con il suo solito passo ballerino e il viso di bambola perennemente crucciato. Vince non poté fare a meno di sorridere nel vederla.
Il suo sunshine gli sapeva rischiarare anche le giornate più uggiose, nonostante negli ultimi tempi erano stati capaci soltanto di ferirsi a vicenda, senza concedersi tregua. O meglio, fosse dipeso da Vince, la tregua sarebbe arrivata anche subito. Era Meg l'osso duro tra i due, non risparmiandogli neanche un colpo.
La vide mentre si stringeva quello scialle striminzito sulle spalle scoperte, era dimagrita troppo in quei mesi, dormiva troppo, fumava e beveva troppo... 
Vince avrebbe mentito se avesse ammesso di non essersi minimamente preoccupato per lei in quegli ultimi tempi. 
Ma avvicinarsi per parlare, anche solo per chiederle come stava, faceva sorgere in lui sempre mille dubbi. Dopotutto, lui non aveva più niente a che fare con lei e con la sua vita. Ormai si era limitato ad osservarla da lontano, mangiandosi le mani per tutte le volte che si era autoimposto di non intervenire quando qualcuno dei suoi compagni la importunava. 
Perso in quei pensieri, ad un tratto notò che a Meg le scivolò qualcosa di mano, che si accinse a raccogliere di tutta fretta. 
Senza pensarci troppo, il marine la raggiunse, scattando come una molla.
«Hai bisogno di aiuto?» esordì lui, con voce calda e confortevole. Meg ebbe un sussulto nel sentire quella voce a lei tanto familiare. I suoi grandi occhi azzurri lo fissarono attoniti, e Vince si trattenne dal lasciarle una carezza innocente sul viso. Aveva perso il conto di tutte le volte che, in passato, le aveva carezzato le palpebre con il pollice ruvido, mentre lei affondava beata la guancia nel suo palmo caldo e accogliente, come una gatta intenta a fare le fusa. 
Tuttavia, Meg distolse lo sguardo, tornando in sé.
«Non ne ho bisogno» sbuffò, e Vince notò che le orecchie erano diventate porpora. 
Quando Meg s'imbarazzava, ricordò, le orecchie erano i primi connotati in assoluto a prendere fuoco. 
Lui si chinò lo stesso, aiutandola a raccogliere ciò che le era caduto. Erano pillole bianche, leggermente schiacciate e di forma ovale. Meg le raccolse per poi pulirle sulla gonna del vestito blu scuro di raso, che le copriva il corpo come un fazzoletto, prima di riporle in una boccetta di vetro. Vince le notò il torace magro e gli venne un magone in gola. 
Dacché ricordava, Meg era sempre stata magra, ma a quei livelli... 
«Non ti senti bene?». Fu più forte di lui, non riuscì a starsene zitto, a continuare quel nascondino insensato con il proprio cuore.
Meg lo guardò di nuovo, non tradiva alcuna espressione particolare. Soltanto le orecchie erano diventate livide, contrastando con l'azzurro meraviglioso delle sue iridi. 
«Perché me lo chiedi?» bofonchiò, coprendosi il petto con lo scialle. Si era accorta dello sguardo contrito dell'americano addosso, e non lo sopportò affatto. Vince si umettò le labbra prima di parlare.
«Ti ho vista uscire dall'infermeria. Ho pensato che-»
«Dovresti pensare un po' ai cazzi tuoi, Vince. Sto bene!» sbraitò la ragazza, finendo di raccogliere le pillole sul terreno, e accertandosi di chiudere bene la boccetta. Intenta in quei procedimenti, non si accorse che lo scialle le cadde di dosso, svolazzandole lungo le gambe magre. Vince fu più lesto, lo raccolse prima che finisse a terra, altrimenti si sarebbe sporcato inevitabilmente.
Prima di porglielo, indugiò con le dita sul tessuto grezzo, come se non avesse realizzato di avercelo tra le mani. 
Meg glielo strappò di mano, sistemandoselo sulle spalle con una certa accortezza. 
A Vince gli tornò alla memoria il suo modo elegante di rivestirsi, dopo aver trascorso uno di quei pomeriggi passati ad amoreggiare nello stanzino di Shibuya. Era sempre stata una danza di gesti quella che compiva Meg davanti a lui. E Vince non faceva altro che ammirare quella meraviglia in religioso silenzio, baciandola ovunque e con rispetto lungo tutto il corpo solo attraverso un semplice sguardo.
Erano stati gli unici momenti in cui aveva visto Meg tanto serena e felice. Era sempre stata di poche parole, Vince era stato quello chiacchierone. Non aveva smesso neanche un minuto di parlare della sua famiglia, dei suoi cugini, dei suoi amici in America... Vince raccontava, e Meg lo ascoltava con un principio di riso stampato in volto, accoccolata al suo petto nudo.
A Vince mancavano da morire quei momenti perduti, lontani. Gli mancava sussurrarle rassicurazioni e parole dolci, gli mancava vederla sciogliersi in un lieve sorriso alle sue battute, gli mancava sentire il suo cuore battere all'unisono con il suo, dopo il trasporto fisico della passione che avevano consumato.
«Sei sempre bella» gli sfuggì, senza controllo. Meg si fermò e lo fissò, come se non avesse capito. In realtà aveva capito benissimo, perché il cuore le si era fermato per qualche minuto in petto, bloccandole il respiro. 
«Ma che sciocchezze dici?» si difese, superandolo con finta disinvoltura. Ma Vince le afferrò il polso, con un'espressione tra il preoccupato e il serio. Meg non oppose resistenza, non subito almeno.
«Mi dici a cosa ti servono quelle pillole?» chiese Vince, un po' duro nella voce. Meg fece per divincolarsi, ma l'altro strinse il polso più forte, costringendola a guardarlo in faccia.
«Sono per Kouki? Le medicine sono per lui?» chiese, e una strana ansia gli invase il petto a quella prospettiva.
Meg strattonò forte, riuscendo a liberarsi dalla sua presa.
«Non ti devo nessuna spiegazione, nè su di me e nè su tu-» Meg si morse la lingua a sangue per autopunirsi della stupidaggine che stava per compiere.
Tuo figlio. Kouki è tuo figlio.
Sarebbe stato tutto molto più semplice, tutto più lineare, se solo Meg gli avesse detto la verità fin da subito. 
Che se si era rifugiata al campo base due anni fa, quando aspettava Kouki, era stato soltanto perchè aveva sperato di rivederlo, di lasciarsi proteggere da lui, di diventare la famiglia che, attraverso i suoi racconti, Meg aveva, per la prima volta nel corso della sua breve vita, sognato di avere, con lui e il loro bambino, tutti e tre insieme.
Ma quando era giunta al campo, di Vince non vi era stata traccia. 
E ritrovarselo davanti, dopo quasi un anno dalla nascita di Kouki, era stato spiazzante, triste, umiliante. Lei, ridotta ad un gabinetto vivente, e lui, sempre allegro e socievole, ma con un velo marcato di malinconia e tristezza negli occhi smeraldini che si ritrovava.
Meg avrebbe dovuto dirglielo subito che Kouki era stato il frutto del loro amore, sempre se per lui era stato tale. E in cuor suo, nella sua testa di bambina, aveva anche quasi sperato che lo stesso Vince lo avesse capito da solo che fosse suo, suo e di nessun altro. Ma quando Vince si era trovato a chiederle esplicitamente chi fosse il padre di Kouki, lì Meg non ci aveva più visto. Si era ripromessa che gliel'avrebbe fatta pagare in ogni modo, in ogni momento, per aver anche solo instillato il dubbio con le sue parole, facendola sentire una povera pazza che si era aggrappata al nulla pur di sopravvivere in quella giungla.
«Non ti devo nessuna spiegazione! Sono fatti miei! Miei e basta!» si lamentò lei, i nervi a fior di pelle e lo scialle stretto attorno alle spalle. Tremava di freddo, Vince lo aveva percepito, e l'istinto di riscaldarla nel suo abbraccio dovette reprimerlo con la forza.
«Va bene» alzò allora le mani «Va bene, non ti agitare» precisò, abbassando lo sguardo. Si era fatto del male da solo, come era prevedibile.
Meg intanto era pronta ad alzare i tacchi e correre via da lui. Tuttavia, rimase lì ferma, a tormentarsi il labbro inferiore a morsi, con la boccetta di vetro talmente stretta tra le mani, da rischiare di spaccarla.
«Sorry».
Vince non potè credere alle proprie orecchie. Non ci volle credere subito.
«I'm sorry if I treated you badly» la voce di Meg era rauca, bassissima. Gli occhi due sfere incandescenti, luminose.
Per un breve, velocissimo istante, Vince volle zittire la ragione e tutto ciò che la riguardava. Porse la sua mano a Meg, con gentilezza.
«Vieni con me?» le chiese, puntando i suoi occhi verdi bellissimi ed innocenti nell'oceano tremulo dello sguardo della bionda.
Meg inizialmente lo squadrò riluttante, non mostrandosi accondiscendente. Ma la voglia di tornare a stringere quella mano, la stessa mano che un tempo l'aveva saputa toccare con immenso amore, era più forte di qualsiasi altra resistenza.
Si lasciò dunque tentare dai ricordi, e il calore del palmo di Vince le penetrò fin dentro le ossa, provocandole i brividi.
Istintivamente, Meg aveva inteso che la stesse portando in un luogo appartato, non si seppe spiegare neanche il perché. Probabilmente era stato per abitudine; ogni volta che le veniva tesa una mano, si ritrovava o con la schiena spalmata al muro o piegata in avanti, mordendosi l'interno delle guance per tutto il tempo.
Quando si avvicinarono alla camionetta, Vince le lasciò la mano con naturalezza, senza guardarla. Meg allora si appoggiò con la schiena al retro del veicolo,
tirandosi lentamente su il vestito e spostando verso il basso le mutandine. Ormai quello era un gesto che compiva con una naturalezza assurda, dava sempre per scontato che ognuno dei soldati la volesse soltanto per scopare. Che lo facesse anche Vince... beh, non avrebbe potuto recriminargli nulla, dopotutto era un uomo anche lui, e avrebbe voluto soddisfare anche lui determinati bisogni. E a lui, paradossalmente, si sarebbe concessa quasi con naturalezza.
Ma quando l'italo-americano si voltò con la cassa di viveri tra le mani, accigliò lo sguardo.
«Mi daresti una mano con le casse più piccole?» non fece alcun riferimento a quel gesto che le aveva visto fare. Lasciò che l'indignazione gli montasse solo nel cuore, in quel momento.
Meg alzò lo sguardo, riprendendo vita improvvisamente. E per la prima volta, dopo molto tempo, si vergognò di ciò che stava facendo. Si tirò giù il vestito, che per fortuna non aveva alzato di molto, e si sistemò in fretta l'intimo, mortificata.
Ma cosa stavo facendo? Vince... Vince non mi farebbe mai questo.
Meg avrebbe voluto piangere, piangere a dirotto per quella figuraccia, ma si limitò a respirare, come le aveva insegnato Lily. Respirare, socchiudendo gli occhi.
«Soltanto se te la senti, però». 
Vince era imbarazzato quanto lei. Se l'avesse vista anche solo per sbaglio in faccia in quel preciso momento, avrebbe sferzato un pugno verso la lamiera, tranciandosi una mano nel peggiore dei casi. 
«No, nessun problema» affermò la giovane meticcia, intenta ad asciugarsi col polso quelle poche lacrime sfuggitegli lungo il viso senza controllo.
Si riassestò in fretta, e si avvicinò alle casse strofinando le mani tra loro per darsi calore. 
«Puoi indossare la mia giacca se vuoi» le propose Vince, fissandola di lato, intento a sistemare sulla camionetta la cassa che aveva tra le mani. 
«No, non posso» scosse il capo Meg, guardandosi intorno con aria sospetta.
Di rimando, anche Vince lo fece, ma non vi era anima viva nei paraggi.
«Qui non c'è nessuno. Se hai freddo, puoi indossarla».
«Meglio di no» fece Meg, trattenendo a stento un brivido che l'aveva colta all'improvviso.
Vince non insistette oltre. Era già stato qualcosa il riuscire a convincerla ad aiutarlo, sebbene non era l'aiuto in sè che gli serviva, ma poterla avvicinare con calma, senza troppe urla a fare da intralcio.
La vide mentre prendeva, con piccoli sforzi, le casse più piccole contenenti i medicinali e le sigarette di contrabbando e sistemarle sulla camionetta in silenzio ed accortezza. 
Meg si decise a parlare solo alla fine, quando aiutò Vince a sistemare l'ultima cassa sul veicolo.
«A chi le dovete distribuire tutte queste casse?» chiese la ragazza, con fare timido.
«Li riforniamo alla zona dei locali in periferia, che poi smerciano nel contrabbando». A Vince fece molto strano dover ammettere quelle cose, stesso a lui parevano un vero e proprio controsenso.
Meg sbuffò una leggera risata.
«A cosa ci siamo ridotti... a chiedere l'elemosina al nemico» commentò poi, con aria sprezzante, a tratti anche triste.
Vince si umettò le labbra a quella verità spiazzante.
«Già» affermò, un po' in colpa. «Mi piace pensare che sia un modo per chiedere scusa, in qualche modo, anche se dubito fortemente che gli Stati Uniti siano davvero pentiti delle loro azioni».
Meg sapeva a cosa Vince facesse riferimento. Aveva solo tre anni quando avvenne il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki, e soltanto vagamente ricordava il trambusto che si era generato alla base americana dove lei e Joe vivevano assieme al loro padre. 
Ne aveva scoperto i dettagli solo tempo dopo, ciò che quel disastro aveva comportato alla vita di tutti loro. Quella bomba aveva continuato ad uccidere anche a distanza di anni, mietendo vittime di ogni genere ed età con quel suo gas letale che aveva sporcato l'aria ed il terreno. Una maledizione perenne per aver voluto ottenere troppo, più di quanto l'Impero giapponese avrebbe potuto permettersi. 
«Anche il Giappone ha commesso le sue colpe» dichiarò Meg, asciutta, intenta ad accarezzare il legno ruvido della cassa appena poggiata.
«In una guerra non esistono vincitori o vinti. Solo fortunati e meno fortunati. E a quanto pare a voi è andata di lusso» e fissò Vince con una strana luce negli occhi, accecandolo.
Personalmente, Vince non si sentiva nè dalla parte dei fortunati e nè nella fazione opposta: fosse dipeso da lui, la guerra non si sarebbe mai fatta.
La guerra, da ragazzino, l'aveva vissuta soltanto attraverso i giornali e le dichiarazioni alla radio dei politici, suo padre non era neanche partito per il fronte, essendo un emigrato italiano, per di più infermo ad un occhio.
Perciò Vince non aveva mai davvero pensato che un giorno si sarebbe ritrovato ad indossare una divisa e sbattuto di conseguenza in una qualche colonia remota del Pacifico, senza alcun preavviso.
«A volte mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se non fossi mai venuto qui» si lasciò sfuggire Vince, strofinandosi l'indice sotto al naso, cercando di apparire disinteressato. Meg continuò a guardarlo, stringendo le braccia sotto al seno.
«Sarebbe stata di sicuro più felice, immagino» brontolò, cercando di mostrarsi indifferente. Rischiò di graffiarsi nell'affondare le unghie nella carne.
Toccò a Vince guardarla poi.
«Non saprei dirlo con certezza. Mi manca sempre casa, ma qui avevo qualcuno da cui tornare». Le si avvicinò, con le mani infilate nella tasca dei pantaloni. «E tu sai bene di chi sto parlando».
Meg deglutì nel vederselo così vicino. Non sarebbe riuscita ad essergli totalmente indifferente neanche se avesse voluto.
Tutto le era mancato di lui, tutto.
A partire dai suoi occhi, dalla sua bocca, la sua voce, le sue carezze, i suoi baci...
Fece anche lei un passo verso di lui, guardandosi la punta delle ballerine. 
«E tu sei tornato in questa merda soltanto per me?» chiese Meg, volutamente sprezzante. «Non ti credo» dichiarò poi, distogliendo lo sguardo lentamente. 
«Te lo avevo promesso Meg che ti avrei portato via con me» affermò il giovane, duro e inflessibile, una smorfia di rabbia gli si dipinse in volto.
«Sei tu che non ti sei presentata a quell'appuntamento!».
Lì Meg lo guardò con ferocia, nel sentirsi richiamare a quel modo proprio su quella faccenda.
«Cos'è, uno scherzo? Sei tu che non sei venuto. Ti ho aspettato invano sotto al ponte, ma tu non sei mai arrivato! Sei tu che te ne sei andato lasciandomi qui da sola!» Meg gli urlò quelle parole adirata, portandosi impercettibilmente una mano sulla pancia piatta. Ricordò il dolore, la paura di non rivederlo mai più, mentre suo figlio era ancora un minuscolo puntino che dimorava nel suo grembo. Il terrore che Maerata tornasse a prenderla e farle vivere nuovamente quell'inferno a cui l'aveva costretta dall'età di tredici anni, l'aveva tenuta lì, sotto a quel ponte, con il cappotto stretto addosso e la sciarpa a coprirle metà volto, con la cieca speranza che Vince sarebbe apparso di lì a poco per condurla via, in America, dove avrebbero cominciato sicuramente una nuova vita insieme.
«Cosa dici, Meg?!» si difese il ragazzo, incredulo e stupito.
«L'appuntamento era alla stazione di Shibuya. Te lo avevo scritto sul biglietto!» Vince era sicuro di ciò che affermava, non l'avrebbe mai presa in giro riguardo a quella faccenda. 
Meg lo fissò persa, non riuscendo a fare subito mente locale.
«Mi hai dato appuntamento sotto al ponte... avevi scritto così» rispose debolmente Meg, più per convincere sé stessa che il marines davanti a lei.
Poco dopo scosse il capo, infastidita.
«Ma tanto ormai, che importanza ha? Non contiamo più niente l'uno per l'altra».
Meg gli diede le spalle dopo quella chiosa amara, che sapeva di lancinante sconfitta, come petricore dopo la pioggia.
Vince abbassò lo sguardo a terra, desolato. Si sentì impotente e stupido, non riusciva ad accettare che ad averlo diviso da Meg fosse stato un malinteso, una sciocchezza di poco conto. 
Per molto tempo aveva pensato che Meg non fosse voluta venire quel giorno per paura, perché temeva davvero la serietà e l'importanza di quel passo troppo grande da compiere. Vince lo aveva accettato, seppur con grande afflizione.
Tornato in America, le aveva scritto un sacco di lettere, una quantità notevole. Ma non ne aveva spedita nemmeno una, alcune le aveva conservate, altre bruciate nella stufa. Aveva cercato di dimenticarla, ma poi si era deciso a tornare in Giappone. Voleva ritrovarla ed affrontarla una volta per tutte.
E quando si accorse di averla più vicino di quanto avesse immaginato, era rimasto senza parole. Ancor di più quando si era trovato davanti Kouki, con quei suoi occhi talmente grandi da sembrare più occidentali che a mandorla.
Quando le aveva chiesto di chi fosse figlio, una parte di lui, una piccolissima parte, avrebbe voluto sentirsi dire che fosse suo, un pezzo della sua stessa carne. 
Voleva sentirselo dire, anche urlare addosso se fosse stato necessario. Ma la reazione della ragazza era stata inaspettata. Vince aveva letto nei suoi occhi delusione e dolore profondo. Non aveva minimamente pensato che quella semplice domanda avrebbe potuto farle tanto male.
E adesso si crogiolava a pensare a delle soluzioni, a dei modi per potersi riavvicinare a lei senza ferirla o umiliarla ulteriormente, più di quanto non avesse già fatto.
Ripensò alla boccetta contenente quelle pillole che Meg aveva versato distrattamene sul selciato solo pochi istanti prima. Vince voleva saperne di più, non aveva smesso di rimuginarci sopra nemmeno per un minuto.
«Senti...» esordì il marine debolmente, aspettandosi l'ennesimo rifiuto. Meg gli dedicò attenzione, anche se imbronciata.
«Quelle pillole... lo so che non sono fatti miei, ma-»
«Sono spermicidi» lo precedette lei, rendendo le labbra sottilissime.
Vince aggrottò le sopracciglia, preso in contropiede. La sorpresa della sua risposta repentina non gli aveva fatto cogliere il messaggio adeguatamente.
«La dottoressa Hudson ci procura settimanalmente dei contraccettivi da usare durante i rapporti» spiegò asciutta, con il suo solito fare spiccio. Si sistemò lo scialle sulle spalle magre, stringendovisi dentro protettiva.
«Però la maggior parte di loro si vergogna a chiederli. Di solito è Nijiko che ce li distribuisce, quando Lily non c'è» Meg guardava un punto imprecisato del terreno, mentre era lì a spiegare con naturalezza quelle cose a Vince, senza far trapelare neanche un briciolo di emozione.
«Stavolta mi sono proposta io di andarli a prendere. Tutto qui» e chiuse quel discorso facendo spallucce, sempre mantenendo lo sguardo abbassato.
Vince annuì sommesso, dandosi per l'ennesima volta dello stupido nell'arco di quella mattinata.
«Non dovremmo arrivare a tanto se solo i tuoi amici usassero quel coso di lattice che non ricordo mai come si chiama» brontolò poi Meg, un po' scontrosa.
«Condom» specificò Vince, e un leggero sorriso gli bagnò le labbra. 
Gli era tornato in mente la prima volta che ne aveva indossato uno davanti a lei, poco prima di fare l'amore. Meg l'aveva guardato storto e anche un po' offesa. L'aveva percepita come un'azione di paura e di estrema diffidenza nei suoi confronti, come se l'avesse reputata sporca e lurida.
Ci volle un po' prima che Vince la convincesse sul fatto che, più che per lui, lo stava facendo per lei, per proteggerla.
Non che fosse andato chissà con chi in quel periodo, ma le condizioni igieniche al campo base non erano sempre delle migliori, in quella settimana in particolare era anche mancata l'acqua corrente a causa di un tifone, e l'ultima cosa che Vince avrebbe voluto era di farle contrarre qualche infezione a causa della sua scarsa igiene personale. 
Tra l'altro, per lei era stata una novità. Non lo aveva mai visto indossato addosso a nessun altro prima di lui, e sebbene all'inizio le avesse dato un po' fastidio l'attrito, si era poi abituata quasi subito. Vince aveva sempre saputo come scioglierla
«Non mi pare che tu fossi molto entusiasta di usarlo, però» volle prenderla in giro bonariamente il ragazzo, anche se il terrore di poter risultare inopportuno covava in un angolo, minaccioso.
Meg alzò un sopracciglio, sfidandolo con lo sguardo. «Questo però è stato prima che qualcuno mi spiegasse la sua importanza» rettificò, tenendo il mento alto con superbia, e gli occhi fissi sul selciato. 
«Per colpa di Terence, Mieru ha dovuto pensarci da sola a porvi rimedio» commentò la bionda, guardò ovunque fuorché il volto di Vince, che immaginò esterrefatto. «E per quanto riguarda me, una palla al piede mi basta e mi avanza. Trovarmi a crescere anche il figlio di uno di voi... piuttosto mi ammazzo» e Meg gli diede nuovamente le spalle, stavolta rossa anche in viso. 
Non lo ricommetto lo stesso errore, mai più.
«Se non volevi problemi, allora perchè non hai abortito anche tu, come ha fatto lei?». Come se l'avesse letta nel pensiero, Vince le porse quella domanda quasi con durezza, neanche si fosse sentito tirato in causa all'improvviso.
Meg si girò di scatto, agguerrita. Avrebbe voluto spintonarlo, schiaffeggiarlo, urlargli in faccia che era un emerito stronzo. Ma si trattenne, semplicemente perché la sua, dopotutto, non era stata una domanda stupida. 
Perché una persona come lei, inaffidabile, sciocca, irascibile, aveva comunque deciso di farla nascere quella creatura, rovinandogli eventualmente la vita, il futuro, il domani?
«Tu davvero mi stai ponendo questa domanda?» ruggì lei, gli occhi in tempesta.
«Proprio tu? Che ti sei riempito la bocca di belle parole, di tante promesse...» iniziò poi a spingerlo sul petto, sempre più forte, colpendolo sulla divisa verde scuro «e cosa ne è stato? Te ne sei scappato in America abbandonandomi qui da sola, con tuo figlio in grembo!» Meg si rese conto troppo tardi di averlo detto. Di esserselo lasciato sfuggire come una stupida, nella foga del momento. 
Guardò Vince negli occhi, e li trovò talmente sgranati da sembrare quasi che stessero per schizzare fuori dalle orbite.
Lui lo sapeva, lo aveva sentito. Quando aveva sentito parlare i suoi genitori in merito al richiamo del sangue, Vince aveva sempre pensato che fosse soltanto qualcosa di romanzato, qualcosa su cui scrittori e poeti buttavano fiumi e fiumi di parole belle e meravigliose. 
Con Kouki quel torcinio di budella e mancanza d'aria li aveva avvertiti prepotentemente. 
Era suo, era sempre stato suo, e aveva rovinato tutto chiedendo delucidazioni a Meg. 
Per un attimo, il marine sentì una voragine aprirsi sotto i piedi, sentì freddo fin dentro le ossa, il respiro gli si era aumentato di volume di minuto in minuto.
Meg nel frattempo imprecò mentalmente per tutta la sua stupidità, allontanandosi all'indietro da lui. Doveva andarsene, chiudersi nel suo alloggio e sfogare le sue urla su di un povero cuscino di fortuna.
Prese in effetti per allontanarsi, ma Vince la bloccò per un braccio.
«Lasciami» disse atona, persa in sé stessa. Vince cercò di portarsela al petto, ma Meg si ritrasse, muovendo braccia e mani come una furia.
«Ti ho detto di lasciarmi... Lasciami stare Vince, LASCIAMI IN PACE!».
L'urlo che cacciò Meg fu talmente straziante che Vince dovette strizzare le palpebre per resistere a tutta quella rabbia, a quell'implosione in corso.
Le tappò la bocca con violenza, abbracciandosela contro con vigore. Meg non la smetteva di urlare, di produrre suoni animaleschi, le mani che si appigliavano ovunque come artigli, e le lacrime che avevano inondato le guance e di conseguenza la mano dell'altro. 
Vince rimase stoicamente dov'era, impassibile, mentre stritolava tra le proprie braccia Meg, furiosa e ribelle come un animale selvaggio ridotto in schiavitù contro il suo volere.
Stravolto e con gli occhi arrossati, Vince si accorse che qualcuno aveva fatto caso a quelle urla e si stava dirigendo proprio nelle vicinanze del camion dove loro si trovavano in quel momento.
Non ci pensò due volte, afferrò Meg di peso e andò nel lato opposto al camion, nella direzione opposta da dove stavano giungendo gli altri marines
Si accasciò a terra, esausto, con Meg ancora stretta al petto. Si era zittita di colpo nel sentire le voci inequivocabili degli altri soldati, gli occhi azzurri puntati da tutte le parti, il fiato corto.
Il calore delle braccia di Vince che stava contribuendo a farle perdere il senno.
La sua mano che dalla bocca era passata alla fronte, stringendo forte sulle tempie. E per un brevissimo momento che parve durare un'eternità, Meg si sentì rinata, come se quel demone che aveva preso possesso dei suoi pensieri e delle sue azioni l'avesse lasciata in pace. Tutti i ricordi brutti, tutti i pensieri opprimenti, si erano ritratti lontano, dandole finalmente respiro.
Avvertì il petto di Vince muoversi all'unisono con il suo, sentendosi un tutt'uno con il suo corpo, con le sue lacrime, il suo respiro.
Avrebbe voluto dirgli di non smettere di stringere, di restare così per sempre. 
Quando i soldati si allontanarono, constatando il falso allarme, Vince tornò ad avere il pieno controllo delle sue azioni. Meg si era fatta silenziosa, fissava il vuoto davanti a sé, catatonica.
Fece per alzarsi, scostandosi con calma dall'abbraccio dell'italo-americano, fece difficoltà a rimettersi i piedi, non aveva ancora riacquistato del tutto la sensibilità alle gambe. Ma doveva allontanarsi da lui, doveva...
Vince però non le mollò i fianchi neanche per un secondo. Anche lui si era alzato a fatica, ancora con il fiatone.
I loro sguardi s'incatenarono tra loro, tremuli, spaventati, scioccati.
Un oceano di zaffiri incastonato nel tappeto di smeraldi dell'altro.
Le loro bocche si cercarono senza controllo, si morsero, si divorarono convulsamente.
Avrebbero dovuto parlare, dirsi tante cose, ma le loro anime erano state divise troppo a lungo per poter anche solo anteporre il volere della ragione all'urgenza di toccarsi, cercarsi e desiderarsi.
 
Una volta raggiunto l'alloggio di Meg, fecero l'amore con una disperazione ed un'intensità mai provata prima di allora.
Mandarono al diavolo ogni dovere, ogni responsabilità. Quel bisogno non accennava ad arrestarsi, anzi aumentava a dismisura con l'incalzare della passione e delle loro emozioni fuori controllo.
E dopo tanto tempo, Meg tornò a sentirsi viva, speciale, bellissima, tra le braccia di Vince. Tornò ad urlare, a godere, a ridere tra le lacrime. Tornò a quell'appartamento a Shibuya, dove tutto era cominciato. 
Dove era nata la speranza e la voglia intensa di vivere, di viversi, di darsi una seconda possibilità.
Tornò tutto ad essere di nuovo possibile.

 
 
*Il termine bara (tr. rose) veniva utilizzato in Giappone tra gli anni '60 e '70 per indicare la comunità omosessuale, similarmente all'uso della parola pansy negli Stati Uniti d'America (fonte: Wikipedia)
 
**Le frasi in corsivo sono pronunciate in coreano.

 
 
// Revisionato in data 20/01/24 //

 
Ehilà, gente!!
Sono riuscita ad aggiornare prima di quanto immaginassi! 🤗
Vero, sono trascorsi quasi 3 mesi dall'ultimo aggiornamento, considerando anche che nel mezzo c'è stato anche il Writober (che devo ancora concludere, ma è un'altra storia 😅) più altre vicissitudini quotidiane. In questo periodo, se non ci fosse stata la scrittura, probabilmente sarei impazzita più di quanto già non lo sia normalmente 🤭🤭
Sono davvero contenta di essere tornata con questo chapter ☺ è un po' lunghetto, ma spero piaccia e intrattenga lo stesso, che l'attesa sia valsa la pena. 
Mi erano davvero mancati tutti, ma questa pausa mi è servita anche per chiarire le direttive di alcune teste calde che è stato davvero difficile tenere a bada (Mario e Meg, sì sto parlando di voi 🧐)
Spero vi faccia piacere tornare qui almeno tanto quanto fa piacere a me 🤭
Per il prossimo capitolo, sarò sincera, non credo uscirà prima di Gennaio, ma cercherò di farlo comunque uscire prima che inizi la sessione, così da non lasciarvi in attesa troppo a lungo. 
Portate solo un po' di pazienza, perchè il bello (e il brutto) deve ancora venire...
E Mario e i suoi amici hanno ancora molto da mostrarvi ✌
Detto questo, vi saluto, e ci vediamo con gli ultimi aggiornamenti del Writober, di Parlami, ho ancora bisogno di te scritto insieme alla mia partner in crime effe_95, e forse ci vediamo anche per l'Avvento...
Ehm, volevo dire, alla prossima, figliuoli!
Buona lettura 💋
   
 
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