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Autore: Atheus    12/09/2009    1 recensioni
L'autore è pregato di inserire un'introduzione che presenti una trama o una citazione della storia. Lely1441, assistente amministratrice
Genere: Triste, Malinconico, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Arrivò una sera d’estate, quando la luce del sole lasciava spazio all’imbrunire che anticipa la notte. L’astro di fuoco disegnava rosse figure sulla piatta superficie del mare che venivano casualmente infrante dal lento moto delle piccole onde provocate dalla brezza leggera della sera.
Scorsi in lontananza una figura troppo grande e troppo scura per essere una depressione sotterranea riflessa dall’acqua. Ci impiegai non poco per capire che erano i relitti di una nave sui quali stava deposto il corpo di un uomo.
Gridai a squarciagola ed i contadini del mio villaggio che lavoravano e trovavano riposo nei pressi della spiaggia vennero a vedere il perché delle mie grida.
“Che succede Noemi?” chiese il primo che mi raggiunse.
“Guardate all’orizzonte” spiegai “Ci sono i relitti di una nave e su di essi la figura di un uomo!”.
Presero una barca e vogarono verso la carcassa dell’imbarcazione per recuperare il superstite, poi ritornarono a riva. Nel frattempo avevano convocato sulla spiaggia il dottore dell’isola affinché visitasse il sopravvissuto.
Quest’ultimo era un giovano uomo sui trent’anni. Aveva un corpo robusto martoriato da delle profonde ustioni che lo rendevano praticamente deforme. Prima dell’incidente che lo aveva ridotto così doveva essere stato un bell’uomo.
“Signora nostra dell’Oceano” esclamò il dottore “Quest’uomo va curato immediatamente! Portatelo subito nel mio studio! Fate in fretta!”.
Così con dei mezzi di fortuna tutti si equipaggiarono per eseguire l’ordine ed il ferito venne infine trasferito alla meta stabilita.
Per le poche ragazze non ancora donne che erano rimaste al villaggio c’era poco da fare, quindi nei giorni a venire il mio compito principale fu quello di badare a lui quando il medico non trafficava sul suo corpo con bisturi e bende. Era un compito non facile e molto noioso, soprattutto quando l’impetuosità giovanile mi spingeva ad uscire per gustare la luce del sole. Ma tentavo di offuscare queste voglie e di placare la noia rammendando.
Fu proprio quando stavo lavorando su un disegno molto complicato che il ferito, dopo una settimana di mutismo e di immobilità assoluta, emise un gemito addolorato.
Quando ciò avvenne andai nel’ufficio del dottore per informarlo della cosa, ma quando riferii con tutto l’entusiasmo che avevo in corpo ciò a cui avevo assistito non parve molto elettrizzato della cosa.
“C’è poco da essere allegri, Noemi” mi disse “Quell’uomo soffre di una malattia incurabile”.
“Ma le dico che ha emesso un gemito, e se ha la forza per lamentarsi del dolore allora non tutto è perduto” insistetti io.
A quel punto il dottore si alzò dalla propria scrivania ed andò a chiudere la porta del suo studio che, nella fretta di entrare per informarlo, avevo lasciato aperta.
“Vedi Noemi”  disse mentre spingeva più in là la propria sedia per sedersi vicino a me “Quell’uomo ha patito le pene dell’Inferno. Qualcosa ha bruciato la sua carne fino a ridurlo allo stremo, e queste condizioni unite ai potenti raggi solari tipici di questa stagione ed alle infezioni provocate dal sale dell’acqua marina hanno aggravato non poco la sua drastica condizione di naufrago.
“Il problema non sta, o meglio, non sta interamente nel suo corpo. Bensì nel suo cuore, in tutti i sensi possibili ed in-terpretabili. Quando l’ho aperto per poter osservare le condizioni degli organi interni tale organo si sottraeva alle mie cure, respingendo le mie mani ed i miei attrezzi. Una cosa che non avevo mai visto perché nessuno degli abitanti di quest’isola felice ne aveva sofferto prima d’ora”.
Ancora non capivo, e fissavo il dottore dubbiosa.
“Noemi… quell’uomo ha perso la voglia di vivere!”.
Passai da dubbiosa ad incredula in un battibaleno. Allora nella mia infanzia gioiosa e spensierata una tale affermazione aveva dell’incredibile.
“Ma com’è possibile una cosa del genere?”.
“Non sono in grado di risponderti. Riesco a curare gli acciacchi ed i dolori del corpo, ma quelli della mente non sono proprio il mio campo. L’unica cosa che al momento andrebbe fatta è quella di pregar la Dea del mare affinchè lui trovi la pace e la pianti con questa scelleratezza”.
Tutto questo mi cadde addosso, quasi volessi assumermi il dolo e la responsabilità dell’intera faccenda. Ma a colpirmi maggiormente fu la dichiarata e disillusa impotenza del medico innanzi ad un fatto tanto stravagante ed anomalo. Lui, che sull’isola insieme al sindaco ed al re era considerata la figura più importante di tutte, chinava la testa sconfitto su tutti i fronti della propria amata professione.
“No!” esclamai allora, testarda come ogni ragazzina “Non voglio arrendermi in questa maniera! Veglierò su di lui fino alla fine se necessario, ma vedrete che riuscirò a togliere questo germe malefico dal suo cervello ed a guarirlo!”.
Il dottore rise debolmente, quasi si fosse sforzato dinanzi alla palpabile tristezza della vicenda. “Fai pure” mi disse “Un po’ di compagnia e di comprensione non potranno che giovargli. Ma temo che la tua sia una battaglia contro il vento... per quanto ti sforzi non puoi affrontare un nemico che non puoi né vedere né toccare”.
“Vedremo” dissi, e me ne ritornai dalla stanza da cui ero venuta.
E fu lì che passai il resto delle mie giornate, eccezion fatta per quando dovevo nutrirmi o svolgere altre funzioni cor-porali. Ma il naufrago non replicò più quel cenno che aveva acceso in me la tenue speranza di un suo miglioramento. L’unica cosa che cambiava era il colore della mia pelle che diveniva sempre più pallida ogni giorno che le negavo i raggi a cui era abituata.
Ma alla fine, dopo settimane di attesa e chilometri di stoffa ricamata, ecco che dalla sua bocca uscirono nuove parole. Beh, più che frasi di senso compiuto erano grugniti, ma pur sempre qualcosa…
Allentai le bende intorno alla bocca in modo da rendergli più semplice il parlare. Ed alla fine ecco che riuscì a dire una frase intera.
“… sei ancora qui ragazzina?”.
Non era certo quello che avrei voluto sentire dopo tutto quel tempo speso pazientemente al suo capezzale. Ma non mi arresi e lo incitai a parlare ulteriormente.
“Ce la fai a parlare ancora?” gli chiesi “Hai la forza di formulare un lungo discorso che ci possa dire qualcosa su come curarti, straniero?”.
“Sì, certo che ce l’ho...” disse, e mi si illuminò il viso dalla gioia “... ce l’ho sempre avuta, solo che non volevo farlo con te. Se ora lo sto facendo è perché la tua presenza sta diventando opprimente...”.
Il mio entusiasmo calava gradualmente. Quell’uomo era stato ritrovato solo e sembrava volersi lasciare morire nello stesso stato. Persino la sua voce, leggermente censurata dalle bende che gli avvolgevano il corpo e gli premevano la gola, trasmetteva tutto ciò...
“Il medico dice che ti stai lascando morire” dissi io, come se volessi ammettere in maniera velata la mia resa.
“Compimenti” fece lui, accennando fra le bende e le ustioni un grottesco sorriso sarcastico “Deve essere molto bravo se è riuscito a diagnosticare una cosa tanto evidente...”.
La sua ironia mi feriva, ma non volevo rendere evidente una tale cosa. Però, se il tutto fosse continuato su quel piano sarei presto esplosa e le mie speranze di recuperare quel povero infelice sarebbero svanite del tutto.
Decisi quindi di risparmiarmi i vari sotterfugi e di schiacciare il tasto scordato della tastiera.
“Perché vuoi lasciarti morire?”.
Stavolta fu lui ad accusare il colpo inferto dalle mie parole. Digrignò i denti e sentii una zona sanguigna delle ustioni scoppiettare per via dell’ingente quantità di sangue trasportata lì dall’adrenalina che aveva invaso il corpo del mio interlocutore.
“Bada bene alle domande che porgi ragazzina” disse lui “Non hai l’età per capire e questi sono argomenti ben più grandi di te”.
Un sibilo causato dal vento si librò nell’aria. Ma non era come i suoni che i più tanti erano abituati a sentire… era vellutato ed argentino come la sinfonia d’un flauto d’oro. Gli scienziati dell’isola dicevano che era l’eco del vento che soffiava fra i monti, dove stavano certi cristalli affilati che ne tagliavano l’impalpabile sostanza producendo quel suono.
Tutto ciò però parve sconvolgere lo straniero, che si portò i moncherini che gli rimanevano al posto delle mani alle orecchie e prese a strillare disperatamente.
“Quel suono!... quel dannato suono... chiudi la finestra, non voglio sentirlo!”.
“Non preoccuparti straniero” dissi, mentre mi apprestavo ad assecondare il suo desiderio “È solamente l’eco del vento che…”.
“Certo che no!” mi interruppe l’uomo non appena il suono smise di esistere dopo che ebbi serrato le imposte “I medici e gli scienziati non possono ridurre a delle semplici formule matematiche un dolore così grande! E come hanno spiegato il fatto che in questa zona si sente solo da una settimana?”.
Questo piccolo ma significativo particolare mise il caos nella mia mente. Un semplice naufrago in fin di vita era riuscito a mettere in dubbio le certezze inculcatemi dai migliori ricercatori dell’isola.
“Beh, i nostri scienziati si sono tenuti in contatto con tramite dei messaggi scambiati con dei falchi con isole più avanzate della nostra, e questa teoria è il frutto del’unione dei loro sforzi”.
Stavolta il naufrago prese a ridere. “Tutto ciò mi consola” disse quando si fu ripreso da quell’attacco di risa che lo aveva colto “Ciò vuol dire che non sono l’unico a soffrire per la masnadiera di cuori delle acque…”.
Quell’ultima frase mi colpì subito. Senza volerlo aveva ceduto ed aveva ammesso che dietro al propri dolore c’era una storia. E quella storia riguardava una donna.
“Era così bella che ti ha spinto a tutto ciò?” chiesi, forte della mia convinzione.
Allora il naufrago si zittì. Leggevo molto terrore nei suoi occhi, ma anche molta rabbia. Una rabbia trascendentale.
“Non costringermi a diventare cattivo” sibilò.
“Credi di farmi paura? Ti sbagli!” ribattei “Sei solo un uomo grande, grosso e capriccioso, che non vuol affrontare i propri problemi e preferisce farsi compatire dagli altri!”.
Ed ecco che con uno scatto improvviso alzò il braccio sinistro e mi afferrò per la gola. Non era una presa salda dato che era non poco indebolito dal suo passato, ma la velocità del gesto e l’ira che trasudava quasi palpabile dal suo sguardo mi stupirono più del dovuto, compensando ciò che mancava nel resto.
Una vescica sulla sua schiena esplose, costringendolo a mollare la presa dal dolore, quindi ritornò in una posizione distesa pur con qualche spasmo causato dal fastidio.
“Visto cosa mi hai fatto fare mocciosa?” ansimò fra i denti.
Lo spettacolo era veramente pietoso. Il naufrago si lamentava avvolto in maniera grottesca fra le bende che iniziavano a sfilarsi, mentre altre vesciche lungo tutto il corpo presero a esplodergli macchiando letto e fasciature di sangue e pus. Avrei voluto andarmene, trascinarmi lontana da quella strana storia ma non riuscivo ad alzarmi dalla mia sedia... se ero rimasta lì fino a quel punto, fino a riuscire a strappare una confessione seppur labile da quelle labbra avare, ci sarà stato un motivo…
E comunque sapevo troppo per andarmene.
“Non ci credo” ansimai quasi fra le lacrime “Non puoi essere sopravvissuto a chissà cosa per concludere la tua vita così! A che senso sbeffeggiare il mortale abbraccio della fiamma e dei tuoni di fuoco per lasciarsi morire? Per di più in maniera così anonima! Ci sarà pure un qualsivoglia motivo se la sorte ti ha fatto arrivare fino a qui!”.
Finalmente scoppiai in un pianto disperato dopo il mio breve e disperato monologo e, fra le rughe e le escoriazioni, riuscii a notare un’espressine corrucciata nel viso del mio interlocutore.
“Stupida bamboccia...” disse il naufrago, con tono oramai rassegnato “È proprio vero che voi donne sapete come convincere gli uomini nel fare qualsiasi cosa voi vogliate”.
Alzai lo sguardo, lentamente, stupita dell’effetto delle mie parole.
“Mi hai convinto. Se è per far tacere quella tua voce petulante ti racconterò cosa mi è successo...
“Mi chiamo Zaffiro Rundell, e sono un cacciatore di stelle. Fin da piccolo avevo avuto paura dell’acqua ma ero sempre stato affascinato dalle navi, quindi decisi di diventare il capitano di una nave volante. Prenderne una insieme a tutti gli schiavi necessari per mantenerla mi costò tantissimo, impiegai molto tempo che pagai in fatica e sudore per avere i soldi necessari, ma ogni gemito ed ogni respiro che impiegai per compiere ciò fu alla fine ricompensato.
“Mio zio inoltre, essendo uno dei pionieri di quella professione, mi aveva istruito più volte sui rudimenti della vita in cielo e tutte le sue lezioni mi avevano reso sicuro di quello che stavo per fare come solo poche cosa prima avevano saputo fare. Prima di morire mi aveva regalato addirittura una bandiera da appendere all’albero maestro, sicuro che ce l’avrei fatta a coronare il mio sogno… E difatti fu proprio sotto l’ombra di quello stendardo che levai l’ancora per la prima volta.
“Rammenterò per sempre quel giorno. La nave, la mia bellissima nave, si levò dalla terra leggera e sicura. Un bruciore doloroso ma al contempo piacevole mi attraversò il corpo per concentrarsi infine nella testa. E con tutta questa adrenalina in corpo girai il timone verso la mia prima stella”.
“È difficile catturare le stelle?”.
“Abbastanza se non conosci bene l’arte e qualche mossa speciale, molte delle quali mi erano state insegnate proprio da quel sant’ uomo di mio nonno. Devi sapere però che le stelle crescono in maniera molto lenta ma costante. Quindi quelle più vecchie - ovvero quelle che hanno un millennio di vita o poco più - diventano troppo pesanti e non riescono a stare fisse sulla Volta Celeste, e finiscono per cadere. Ma quando toccano il suolo si trasformano in semplice roccia, quindi noi cacciatori le prendiamo prima che tocchino terra e sempre nel cielo le lavoriamo in maniera speciale rivendendole poi come pietre preziose contenenti pura luce astrale.
“Basterebbe venderne mezza dozzina per smettere di lavorare per tutta la vita, quindi renditi conto del loro valore”.
“Allora perché hai continuato?”.
“Per vari motivi... la manutenzione di una nave è molto dispendiosa, dovevo pagare gli schiavi ed una costosissima operazione a mio padre. Ma comunque... l’ebbrezza di correre insieme all’aria ed al vento come un loro pari mi esaltava troppo! Era la sensazione che nessuna luce astrale avrebbe mai potuto ripagare!
“In breve tempo la mia fama di cacciatore fece il giro di terre, mari e cieli, ed i miei servigi vennero richiesti da tutti i nobili del mondo. Guadagnavo così tanto che persino le paghe che davo ai miei schiavi erano tanto elevate che in poco tempo tutti loro poterono comprarsi la libertà. Quando ciò avvenne attrezzai la ma amata nave in modo che potesse essere guidata da una sola persona. E così continuai la mia attività con ancora più entusiasmo di prima.
“Almeno fino a che non successe l’irreparabile... Stavo dando la caccia ad una stella particolarmente grande che avrebbe illuminato l’harem di uno sceicco, per la felicità delle sue duecentosei mogli. Giravo il timone e lanciavo le reti come un forsennato, ma la stella non voleva saperne di essere catturata. Così provai, per il gusto del brivido, a compiere una mossa azzardata... troppo azzardata.
“La stella colpì in pieno la mia nave guastandola irrimediabilmente. Lentamente presi a cadere, acquistando velocità mano a mano che il tempo passava, fino a che non rovinai sulle acque di un non identificato oceano.
“Solo quando la vista cominciò a diventarmi sempre più debole mi resi conto del mio timore dell’acqua, e se non fosse stata la marea di sicuro sarebbe stata la paura ad uccidermi.
“Tutto quello era troppo per la mia mente, che preferì spegnersi lasciando il mio corpo solo ad affrontare il tutto. Ma poco prima di entrare nel mondo dell’oblio vidi l’acqua ritirarsi, prendendo forma solida formando quindi le sembianze di una persona…”.
“Era la donna a cui avevi accennato?”.
“Sì, proprio lei…”.
“Vuoi dire che ti sei innamorato di una dea del mare?”.
“Può essere. Io ricordo solo di essermi svegliato su uno scoglio ed un’immensa e bellissima faccia femminea che solcava dalla spuma delle onde mi guardava.
“Si chiamava Miraonda ed era la dea del mare dell’ovest. Si era innamorata di me quando, di notte, mi aveva visto dare la caccia alle stelle. Diceva che nei miei occhi aveva visto un’incredibile passione. Una passione che molto si distanziava dalla devozione che fedeli e sacerdoti del suo culto le riportavano con le loro egoistiche preghiere di mortali.
“Ella voleva provare cosa significa essere soggetti ad una passione, come diceva lei, pura e senza fanatismi di sorta. Una passione puramente umana che le facesse dimenticare la sua odiata natura divina, serva dei suoi stessi servitori, che la sottomettevano con richieste e implorazioni sempre crescenti.
“Non potei resistere a questa preghiera. Ella, sì fiera e maestosa, che con un solo schiocco delle dita poteva inondare un’isola e decretarne la sorte degli abitanti, si era prostrata davanti a me scongiurandomi di una cosa che le avrei dato spontaneamente. La superficie del mare che dominava rifletteva la luce delle stelle nel cielo, imprigionandola nei suoi occhi. Il suo sguardo era la stella perfetta che inconsciamente stavo cercando.
“Accettai estasiato la proposta e mi avvolse nel suo abbraccio divino. L’estasi mi avvolse, gonfiandomi i muscoli e dilatandomi i polmoni come se fossero stati utilizzati per la prima volta per il mio primo vagito di neonato. Una rinascita nel pieno della giovinez-za. Alle mie energie se ne erano sommate di nuove rendendomi doppiamente entusiasta della mia esistenza.
“Si sfamava della mia carne facendola ricrescere in maniera sempre più afrodisiaca. Io completavo lei e le completava me. Avevo trovato qualcosa che miracolosamente era ancora più emozionante del cacciare le stelle, poiché avevo raggiunto quella più imprendibile facendola mia, immergendomi poi nel suo sguardo.
“Ma le cose così belle sono destinate a durare poco. La nostra relazione venne scoperta dai fedeli di lei che naturalmente non la videro di buon occhio. Il più fanatico dei suoi sacerdoti la interpellò più volte scongiurandola di riservare a lui lo stesso trattamento che era toccato a me. Ma le rifiutò.
“Quella nuova esperienza con me aveva reso Miraonda più incline a soddisfare i capricci della sua parte umana, e rifiutò la richiesta del monaco in maniera sempre più umana ogniqualvolta che questi la replicava. Dopo i muti silenzi di diniego degli inizi arrivò a parlare a lui come se fosse un suo pari, dato che era troppo abituata a fare lo stesso con me sempre più durante il giorno, ed anche durante la notte.
“Successe dunque l’irreparabile... quel monaco, dopo l’ennesimo rifiuto della mia amata, fondò un proprio culto che aveva come scopo il combattere la nostra relazione. Riuscì a radunare solo pochi uomini deboli di spirito, ma con essi decise di attaccare il tempio ove risiedevo assieme a Miraonda.
“Fortunatamente durante i miei mille viaggi in cielo avevo incontrato un marinaio che negli anni passati era stato asassino di corte per il suo re e da egli avevo appreso delle mosse efficaci con le quali riuscii a farmi valere per i primi minuti dell’attacco. Poi intervenne Miraonda che con un secco urlo rese i corpi dei nostri nemici di sabbia, ed il tutto ebbe fine.
“Dopo quella notte smise di parlare con me. Si adoperava per esaudire le preghiere dei suoi fedeli, poi la notte ritornava nelle Schiere Celesti alle quali gli esseri della sua natura sono destinati. Fino a che un giorno non mi comunicò che a quei luoghi voleva far ritorno per sempre.
“Secondo il suo divino parere il nostro amore non era fatto per durare, almeno non quietamente. Quello verificatosi pochi giorni prima era il primo di una lunga serie di attacchi che avremmo dovuto affrontare. Inoltre a complicare il tutto c’era la mia essenza di mortale, che mi avrebbe condotto nel regno delle ombre, luogo che lei non poteva raggiungere dato che il suo dominio era sul mare ed era relegata quindi al mondo delle acque.
“La scongiurai in ogni maniera. Le dissi che per lei avrei raggiunto il luogo al di là del Firmamento dove si diceva che il tempo trovava riposo, e che l’avrei portata con me, affinché potessimo vivere il nostro amore per l’eternità. Ma ciò che ottenni fu un rifiuto, amaro quanto quelli che il suo passato sacerdote aveva ottenuto.
“Solo che al cosa più ironica e dolorosa era che lui non aveva mai avuto la fortunata occasione di sentire il candore e l’ebbrezza che Miraonda era in grado di dare. A me invece tale meraviglia veniva tolta, e non avrei più potuto viver senza di lei ed il suo amore.
“Disperato, passai dei mesi per costruire una barca nuova. E con le poche monete che mi rimanevano, dato che molte erano state distrutte o perdute quando la stella aveva colpito la mia imbarcazione, comprai dei barili colmi di esplosivo. Quindi a lavoro compiuto, con la mia nuova nave raggiunsi un punto del mare che fosse abbastanza lontano dalla riva affinché nessun potesse soccorrermi, e lì mi feci saltare in aria.
“L’ultima cosa che sentii del mondo, insieme al ruggito delle fiamme ed allo scrosciare dell’acqua, fu il pianto di Miraonda. Il cui gemito attraversa il mondo da una settimana”.
A quel puto il naufrago smise di parlare. Intanto il mio corpo aveva perso sensibilità.
Una lacrima mi scendeva lenta da una guancia, ma non avvertii la sua presenza. Non percepivo minimamente la pressione che esercitava la parte inferiore del mio corpo che poggiava sulla sedia. Era come galleggiare nel nulla delle proprie convinzioni.
“È dunque questa la tua storia straniero?” chiesi, con voce rotta ma comunque composta.
“Certo. Tutto qui. Né più né meno”.
“Ma… è una storia tristissima”.
“Sì, hai ragione. Non auguro a nessuno una sorte come la mia, ma evidentemente qualcuno non deve aver riservato nei miei confronti la medesima cortesia. La cosa più buffa però è che sento le forze mancarmi solo ora che ho terminato di raccontarti tutto quanto” disse, con un sorriso appena accennato coma una sottile ombreggiatura aggiunta con del carboncino “Chissà, forse era proprio de-stino che tu venissi a conoscenza di tutto questo”.
Pochi minuti dopo uscii dalla stanza alla ricerca del dottore, per potergli comunicare la morte del naufrago.

Il funerale dello sventurato avvenne quella stessa notte. Purtroppo, non essendo un abitante dell’isola, dovettero seppellirlo lontano dal cimitero come voleva la tradizione, in modo che le sue origini pagane non infettassero i corpi degli altri defunti che ora trovavano ristoro. La cerimonia fu comunque molto solenne, in onore di quella povera anima abbandonata dalla buona sorte.
Per rispetto della suo spirito, che nella morte aveva finalmente trovato la pace, decisi di non raccontare nulla delle sue vicissitudini e tribolazioni d’amore agli altri abitanti dell’isola. Quindi il mio rapporto al medico consistette nell’ammissione di aver vegliato invano al capezzale di un uomo moribondo, sia nel fisico che nell’animo.
Non ebbi nemmeno il coraggio di partecipare alla veglia in suo onore tanta era la tristezza nel pensare al racconto della sua vita.
C’era una sola cosa da fare, e quindi la feci.
Mi diressi verso la spiaggia, e non appena sentii la fredda acqua del mare bagnarmi i piedi la chiamai...
“Miraonda! Miraonda!”.
Ella rispose al mio richiamo emergendo dalla spuma, proprio come Zaffiro mi aveva detto. Prima una grande onda da cui tutto ebbe inizio che divenne il naso, circondato in seguito da ammassi d’acqua consolidatisi in pezzi di guance, occhi, labbra, fino a formare un viso completo.
E che viso! Le parole di Zaffiro, erano state tanto appropriate da renderle giustizia. Era come la totale immensità del mare riassunta in tutta la sua magnificenza in un singolo elemento.
“Allora è vero che ultimamente osi mostrarti spesso agli umani” le dissi.
Silenzio. La cosa mi snervava parecchio.
“Ed hai anche perso la forza per farti rispettare da loro. Oppure si tratta solamente del fatto che ti ritieni tanto miserabile da non pretendere e volere manco il rispetto dei tuoi sottoposti?”.
“È stato lui a dirti di riferirmi tali parole?” chiese con una voce profonda e senza emozioni, fredda come le acque di cui era regina durante l’inverno.
“No!” risposi “Ho sentito la sua storia e l’ho visto morire. Quello che mi stai sentendo pronunciare è stato partorito unicamente dalla mia testa, per esprimere lo sdegno che provo per te! Come hai potuto illudere in quella maniera un uomo tanto devoto a te senza fare nulla per fermare la sua disperata scelleratezza mentre la compiva nel tuo elemento?”.
Stavolta mi guardò negli occhi, determinata e quasi furente. In essi leggevo pura determinazione nel far valere le sue azioni passate.
“Crudele?” fece, con tono più risoluto e vivo, più appartenente ad una donna che ad una dea “Chi è più crudele... io che ho tentato di porre miseramente rimedio a quella situazione od il destino tanto beffardo da crearci così diversi? Se anche son una dea il mio cuore è pur sempre quello di una donna. Potrò ridurre in cenere le persone, distruggere le città, o far cadere nel sonno eterno tutte le creature del mare con un solo sbadiglio... ma chi mai potrà alleviare le mie fatiche, o farmi provare le gioie del mio sesso e della maternità? I miei seni divini non sentiranno la mortale sensazione di labbra infantili che da essi traggono nutrimento.
“Ho solo trovato, nel mio affannoso cercare, la compagnia di un uomo che mi amava non per la mia natura divina, ma per il fatto che io ero disposta ad accettare la sua.
“Ma il suo cuore avrebbe retto per sempre alle avversità che ci volevano separare? Anche quando non sarebbe stato più lesto e giovane, ma bensì lento e vecchio? Ed a quel punto, come si sarebbe sentito nel sapere che avrei continuato il mio regno nel mare dell’ovest, giovane e forte come sempre, ma senza di lui? Anche nel mondo dell’ombra sarebbe riuscito a sopportare questa sorte per l’eternità, sapendo che io non avrei mai potuto raggiungerlo in quel luogo di mortali?
“Mi sono comportata in quella maniera per spingerlo ad allontanarsi, e lui ha deciso di farlo nella maniera più estrema. L’ho trascinato con le mie correnti su quest’isola affinché si salvasse, ma la sua volontà ha avuto la meglio alla fine.
“L’unica cosa che ho potuto fare è stato lanciarmi in un pianto disperato, riconoscibile in quel suono che i vostri scienziati senza sentimenti hanno ridotto ad un mero suono provocato dal vento. E piangere a quanto pare è l’unica maniera in cui le donne, siano esse dee o mortali, hanno occasione di sfogare la loro rabbia.
“Ora decidi te, ragazza, chi fra me e Zaffiro ha sofferto maggiormente. Il mio amato, che nonostante i suoi travagli ha trovato finalmente la pace nei campi elisi... od io, che controvoglia ho dovuto cacciarlo per il suo bene, e che pagherò per l’eternità il fardello causato dall’incomprensione del mio gesto...
“Decidi te ragazzina, e quando saprai cosa abbiamo provato entrambi, vieni a darmi il responso delle tue riflessioni”.
Detto ciò scomparve. Si voltò, dandomi le spalle, tramutando il suo fisico di carne in acqua, accompagnando tale azione con quel sibilo tanto melodioso quanto malinconico e penetrante. Ci volle molto tempo prima che quel suono scemasse del tutto.
Ed io non ero riuscita a replicare in alcun modo.

Passarono gli anni.
La tristezza per la morte del naufrago scomparve in gran fretta, soppiantata dal ricordo dell’ultimo bacio rubato o di un lavoro che non poteva essere rimandato altrimenti.
Perfino le tecnologie evolvevano nelle loro migliorie, ma il mistero dello strano sibili che si propagava in tutti i mari non trovava soluzioni, e gli scienziati si affidavano a teorie sempre più assurde ed improbabili che però sembravano soddisfare tutti.
Gli uomini intanto avevano dimenticato cosa significava essere tali. E nei loro occhi non brillava più la voglia di avventure di Zaffiro. La mera esistenza fine a sé stessa divenne la loro unica ambizione, consolidandosi come tale mano a mano che il tempo passava. Erano nati col solo scopo di vivere fino a che non fossero morti. Insieme a loro si disfaceva anche la loro era.
Il tempo passò anche per me. Crebbi e divenni donna. Ancora oggi gli uomini decantano le forme del mio corpo, allegandoci molte proposte. Ed alla fine, come tutte le mie simili, feci la scelta su colui che era meno peggio degli altri... ma nonostante ciò non posso fare a meno di chiedermi se sono paragonabile a Miraonda. Ora, che sono una donna sposata con dei figli. Che passo le mie giornate a badare alla mia casa in attesa che mio marito ritorni per portare ciò che è necessario per vivere.
Alla fine pure io sono decaduta insieme ai miei simili. Anch’io come loro aspetto solo di morire, ed intanto inganno il tempo, illudendomi di aver adempito ai miei doveri.
Ed ogni notte, speranzosa di aver vissuto abbastanza e di essere sufficientemente esperta sull’argomento, scendo in spiaggia per provare a rispondere al quesito che Miraonda mi propose la prima e l’ultima volta che la vidi. Ma ogni notte torno indietro, poiché le parole mi si bloccano in gola. Ed ogni volta che ritorno sui miei passi, sento quel sibilo straziante, e non posso fare a meno di pensare alla sua storia... quella di un cacciatore di stelle e della dea del mare dell’ovest. E del loro amore.
L’unica nota positiva che riesco a trovare in tutto questo, è il fatto che son l’unica a sapere dell’origine di quel suono. E conscia di ciò, non posso far altro che camminare e continuare a vivere.
  
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