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Autore: Adeia Di Elferas    13/04/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina era nella stanza, seduta contro la testata del letto, tra le lenzuola ancora sfatte, e stava leggendo la missiva appena arrivata da Roma, scritta dal pugno di sua figlia Bianca. Stava scendendo la sera, ma faceva ancora caldo e la luce era ancora forte.

Il clima quasi estivo non era adatto a chiudersi già in stanza, ma non appena aveva saputo che la lettera arrivava dalla Riario, l'aveva afferrata ed era corsa nella sua camera per potersi sottrarre ai sguardi indiscreti, nel caso in cui le parole della giovane avessero suscitato in lei reazioni particolari. Si aspettava, infatti, che nel messaggio si facesse di nuovo cenno alla gravidanza, e, siccome non aveva voglia di parlarne con nessuno, per il momento, preferiva averne notizia in solitudine.

In realtà, per trovare un cenno alla gravidanza nelle parole di Bianca, la Sforza dovette arrivare all'ultima riga. Addirittura, ancor prima di parlare del figlio che aspettava, la Riario le aveva nominato Baccino da Cremona, facendo presente che l'uomo sarebbe stato molto felice di poter tornare al servizio della madre, appena possibile. Oltre che delle sorti del cremonese, la giovane spostava l'attenzione su fatti riguardanti l'Italia e i movimenti militari che condizionavano la penisola.

Le frasi stilate dalla figlia erano intrise di politica e di fatti bellici, parlavano di Dionigi Naldi, di Miguel de Corella e dei maneggi tra i Borja e i pisani. La Tigre era sorpresa da quel taglio, così austero e allo stesso tempo così utile, dato dalla giovane, eppure le bastò qualche minuto per rendersi conto che non c'era nulla di cui sorprendersi: Bianca era sempre stata pragmatica, fin da bambina, solo che a volte lei se n'era scordata, confusa dai suoi modi gentili e dalle sue passioni così femminili, come quella per il ricamo o il canto, da non capire quanto invece avesse appreso da lei la capacità di analizzare e sintetizzare anche situazioni complesse in termini di diplomazia, strategia e tattica.

Rincuorata circa il bambino che sarebbe nato, secondo i suoi calcoli, più o meno a settembre, la Tigre rilesse tutto daccapo, concentrandosi via via sui vari punti toccati dalla figlia. La questione pisana la impensieriva molto, specie ora che veniva a sapere di quegli strani maneggi a Roma tra il Corella, Troches e gli emissari venuti appositamente da Pisa. Se il papa si diceva tanto pronto a schierarsi contro Firenze per difenderne gli avversari, allora davvero la Repubblica aveva perso l'amicizia del pontefice...

La Leonessa stava per arrivare alla facile conclusione che ora i Borja erano passati dall'essere uno scomodo alleato per la città che l'ospitava all'essere un temibile nemico, quando qualcuno bussò con insistenza alla sua porta.

Immaginando che non fosse Fortunati – che aveva perso ormai del tutto l'abitudine di annunciarsi quando andava da lei – e trovando strano che uno dei suoi figli o frate Lauro l'andasse a cercare a quel modo, Caterina scattò in piedi, lasciando da parte la lettera della figlia e andò ad aprire.

“Che ci fai qui?” chiese, confusa, trovandosi davanti Scipione Riario, accaldato e sudato, probabilmente smontato da cavallo giusto una manciata di minuti prima.

“Sono venuto subito da Firenze per portare una notizia... Messer Fortunati, che mi ha visto arrivare, mi ha detto di venire pure di sopra a parlartene di persona...” il giovane era stanco, ma non sembrava che la notizia che portasse fosse tragica.

Per meglio dire, il giovane aveva un'espressione compita, ma sembrava volersi trattenere dall'esultare. Era come se dovesse riferire qualcosa di molto positivo, ma che, per educazione, non se la sentisse di sottolineare con troppa enfasi la sua gioia.

Messa in difficoltà da quello strano atteggiamento, la milanese sbottò: “Dimmi perché sei qui e basta!”

“Questa mattina, dicono che fosse già passata l'alba... Ecco, questa mattina Lorenzo è morto.” si risolse a rivelare il Riario.

Caterina sbatté un paio di volte le palpebre e poi sentì il bisogno di sedersi. Indietreggiò fino al letto e poi si lasciò cadere, come senza forze. Era una notizia attesa – anzi, una notizia sperata – ma nel momento stesso in cui la stava ricevendo, la Tigre si rese conto di non essere pronta quanto credeva a quel radicale cambiamento delle sue prospettive.

Ovviamente era un miglioramento, almeno per quel che riguardava Giovannino, ma...

“Purtroppo non so dire quando si terranno le esequie...” riprese Scipione, non sapendo come interpretare il mutismo della matrigna.

La donna sollevò appena un sopracciglio e commentò: “Poco male... Non credo che io sarei una presenza gradita...”

Il giovane annuì, e poi, semplicemente, le lasciò qualche minuto per metabolizzare bene quanto accaduto. Accantonando, a fatica, il pensiero di Giovannino, la Sforza si chiese come sarebbe andata a finire, a quel punto, Firenze. Fino a poco prima, le sue erano state solo lontane ipotesi, ma ora che il Popolano era morto, senza lasciare, a quel che sapeva, eredi dal fervente vigore politico, verosimilmente la sua linea di pensiero sarebbe stata velocemente dimenticata, se non addirittura demonizzata, e la Repubblica avrebbe voltato una volta per tutte le spalle ai vecchi amici, rendendoli i suoi peggiori nemici.

Il legame più stabile che Firenze aveva con il papa era morto e dunque sia i fiorentini, sia il pontefice non avevano più una scusa per fingersi anche solo di facciata amici.

Il re di Francia avrebbe seguito di pari passo Rodrigo Borja nel suo cambio di fronte, oppure avrebbe dimostrato anche in quell'occasione la sua insofferenza verso quegli strani valenciani, arrivando perfino a preferir loro Firenze? Qual era l'alleanza che conviniva di più a Luigi XII: una Repubblica commercialmente e intellettualmente florida, ma militarmente confusa, o uno Stato impantanato nei debiti dovuti al lusso, ma in grado di comprarsi i migliori eserciti del mondo?

La Leonessa si trovò a sperare che Francesco, il figlio del suo fratellastro Gian Galeazzo, potesse in qualche modo influenzare le scelte del re... Ma capì subito che quell'idea aveva qualcosa di folle: prima di tutto dubitava che Francesco fosse cosciente di tutte le sottili trame che la legavano a filo doppia con la sorte di Firenze e, al contempo, dubitava che un ragazzo, da quel che sapeva prigioniero in un'abbazia, potesse influire sul pensiero di Luigi XII...

Scipione restava ancora in silenzio, lo sguardo basso, rispettando il silenzio assorto della Tigre. La donna gliene era grata, perché sapeva che se non si fosse fatta all'istante un quadro completo della situazione, probabilmente non ci sarebbe riuscita più, non con la stessa lucidità, almeno. Infatti sapeva che per lei il primo pensiero, uscita da quella stanza, sarebbe stato per Giovannino e tutto il resto, la guerra, la politica e la diplomazia, sarebbero finite in un angolo.

Così, sforzandosi di concentrare tutte le sue elucubrazioni in quei pochi minuti, si trovò a ricordare delle chiacchiere che aveva sentito per bocca di Fortunati: in Francia c'era un altro giovane rampollo che, forse, sarebbe stato loro molto più utile del povero Francesco Sforza. Si trattava di Francesco Maria Della Rovere, uno dei nipoti prediletti di Giuliano Della Rovere, acerrimo nemico di Rodrigo Borja e possibile suo oppositore nel medio termine.

La milanese quasi sorrise tra sé, pensando che non era possibile che Giuliano non avesse provato a sfruttare il nipote per soffiare sulla cenere dell'insofferenza del re, per farne a lungo andare divampare un vero e proprio incendio.

“Firenze come ha preso la cosa?” si informò a un certo punto la Leonessa.

Scipione si schiarì la voce e ammise: “Non l'ho capito, sinceramente... Purtroppo non ho ancora abbastanza amicizie da potermi fare un'idea chiara.”

“Non importa... Dirò a Fortunati di scrivere subito ai suoi amici, i Salviati, per capire come si muoveranno quelli che contano...” fece lei, pensosa.

Per qualche minuto, la Tigre e il Riario tacquero, ciascuno immerso nei suoi pensieri. Non era difficile pensare che a Firenze in molti avrebbero presto addossato le colpe di ogni cosa a Lorenzo, essendo lui morto, ma restavano almeno due grosse incognite: cosa avrebbe fatto sua moglie Semiramide, ora che era sola, e come i loro cugini si sarebbero posti nei loro confronti, i Salviati in primis.

“Ti fermi, per la notte?” chiese, senza preavviso, Caterina.

Scipione sollevò un sopracciglio. Anche se inizialmente la sua idea era stata quella di riposarsi davvero per una notte lì alla villa, dopo quelle ultime battute scambiate con la milanese aveva cambiato idea.

“Anche se non sono riuscito a inserirmi tra le famiglie che contano, forse è meglio che torni subito a Firenze.” disse: “Conosco molta gente nelle osterie e nei bordelli... Non saranno le sale dell'alta società, ma sono un polso notevole, per certe cose...”

“Hai ragione.” convenne subito la Sforza: “Riparti pure quando vuoi. Prima, però, passa nelle cucine e fatti dare qualcosa per rinfrescarti... Del vino o dell'acqua... E qualcosa da mangiare. Fatti fare un uovo sbattuto, magari...”

“Uovo sbattuto..?” chiese, perplesso, il Riario.

Caterina sospirò e fece un breve sorriso: “Fidati. Uova e zucchero. È una cosa che mi facevano a Milano, quando ero piccola... Ho spiegato alla cuoca come farlo, e se la cava bene...” buttò gli occhi al cielo: “In fondo non ci vuole un genio per riuscirci... Comunque, ti darà energia. Adesso che le galline che abbiamo si sono messe a far uova tutti i giorni, almeno quelle non ci mancano...”

Il ragazzo ringraziò e disse che avrebbe seguito il consiglio, poi salutò la matrigna, che gli diede congedo senza dargli l'incombenza di andarla a salutare appena prima di ripartire. In realtà l'aveva sollevato da quel piccolo obbligo solo perché voleva discutere con Fortunati e non voleva essere disturbata.

“Però, prima di rimetterti in viaggio, ti prego, saluta i ragazzi...” concluse, alludendo ai suoi figli.

“Per Bernardino – fece Scipione, avendo ben cura di non chiamarlo Carlo, benché ormai vi fosse abituato – resta sempre valida la mia proposta di farlo stare un po' con me in città.”

“Adesso non è il momento.” ribatté Caterina: “Aspettiamo che si sgonfi la bolla della morte di Lorenzo e che... E che sistemi questa cosa di Giovannino. Poi, se Bernardino insisterà, allora approfitterò una volta di più della tua gentilezza.”

 

“No, no, è mio dovere andare dai miei cugini...” fece Lucrezia, ostinata, senza più guardare il marito, che, immobile, se ne stava sul suo scranno, a fissare il pavimento.

La discussione, tra i Salviati, era iniziata nel momento stesso in cui era arrivata la notizia della morte di Lorenzo, quella mattina. Il quesito era semplice: se fosse o meno opportuno per la Medici andare a far visita alla vedova del cugino, dati i difficilissimi trascorsi tra i due rami della famiglia e, ancor di più, stanti le attuali tensioni.

Le posizioni, però, si erano poco alla volta invertite. La donna aveva in un primo momento rifiutato del tutto l'idea, mentre il marito aveva suggerito che sarebbe stato giusto, da parte loro, porgere almeno formali condoglianze, certo, anzi, che Semiramide avrebbe deposto presto le armi, dato che le ostilità nate tra i Popolani e i figli del Magnifico poco avevano a che fare con lei.

Discutendone, però, man mano che la Medici dava ragione al Salviati, vedendo, anzi, in una sua visita in quel frangente non solo una possibilità di riavvicinamento ai cugini, ma anche un mezzo per indagare su quale fosse la posizione di Semiramide in merito a Giovannino e alla sua custodia, Jacopo si trovava a contestare l'opportunità, per la moglie, di recarsi a casa di una potenziale nemica proprio ora, che era a circa due mesi dal parto.

“Fino a poco fa – le fece notare, con tono stanco, l'uomo – eri decisa a non inviare nemmeno una lettera di cordoglio e ora vorresti restare là tutto il tempo necessario per scoprire se la vedova di tuo cugino andrà avanti o meno con il processo per l'affidamento di quel bambino...”

Lucrezia, stranita nel vedere Jacopo tanto scontroso, si accigliò e fece notare: “Fino a poco fa, invece, eri tu a dirmi che sarebbe stata una buona idea andare da loro...”

Il Salviati si passò una mano sulla fronte. Faceva un gran caldo quel giorno, e quella notte aveva dormito male. La notizia, al mattino, della morte di Lorenzo l'aveva solo fatto sentire peggio.

“Mia madre non sta bene, lo sai...” disse piano, alludendo al resoconto fatto dai dottori giusto il giorno prima: “E ho paura che se inizia questo caldo... Insomma, non sono tranquillo.”

“E che c'entra tua madre con la mia visita dall'Appiani?” contrattaccò la Medici, ricominciando a girare per la sala, una mano sul pancione e l'altra sulla schiena.

“Hai quasi trentatré anni.” disse lui, pacato, ma con fermezza: “Non sei più una ragazza. Hai già partorito tante volte e... Hai sentito la levatrice.”

“Quella donna non sa di che parla.” tagliò corto Lucrezia, che, in realtà, si era spaventata molto davanti alle perplessità della levatrice che la stava seguendo: “Dice che questo figlio non sarà forte come gli altri, ma lo fa solo perché ogni volta che la chiamo a visitarmi tu la paghi a dovere. Non fosse che un po' di vergogna l'ha anche lei, ci scommetto che si inventerebbe che sto per morire, pur di passare i giorni al mio capezzale, per farsi pagare...”

Proprio mentre diceva quelle parole, un dolorino le attraversò il ventre, facendole fare una smorfia e facendo richiudere, istintivamente, la mano che teneva tesa sul pancione.

Jacopo, terrorizzato, si alzò di scatto e la raggiunse: “Stai bene?”

La donna sospirò, maledicendosi per non essere riuscita a nascondere meglio quel fastidio e poi scosse il capo: “Sto benissimo. Fa caldo, e per colpa tua sono stata in piedi delle ore...”

“Colpa mia?” chiese il marito, allibito.

“Se non mi avessi costretto a discutere ogni singola cosa, quest'oggi, me ne sarei stata tranquilla a riposare...” sbuffò lei, tornando poi a guardarlo, cercandone gli occhi un po' persi e ricordandosi solo in quel momento di quanto il Salviati fosse teso non solo per lei, ma anche e soprattutto per la madre Elena: “Stai tranquillo – gli sussurrò, quindi, accarezzandogli la guancia – mi farò portare fino al palazzo, abbraccerò Semiramide, resterò pochi minuti, pregherò per l'anima di Lorenzo e poi tornerò a casa, sana e salva.”

L'uomo scosse il capo: “Verrò con te, ovviamente.”

“No, oggi è meglio di no.” sospirò lei: “Tu andrai al funerale, ma a casa, nel palazzo che era di mio padre, nel palazzo in cui ho vissuto anni felici, io... Io voglio andarci da sola.”

Senza più trovare argomentazioni, Jacopo annuì e si fece da parte, quasi a voler dare anche coi fatti il suo benestare.

“Perché non vai a trovare tua madre?” gli chiese la Medici, appena prima di lasciare la sala: “Le farà piacere vederti...”

Il marito annuì, anche stavolta senza dire nulla e poi, guardando un attimo fuori dalla finestra, riuscì solo a suggerire: “Sta quasi facendo buio... Cerca di tornare prima che sia notte. Mi sentirei più tranquillo...”

“Lo farò.” promise la donna.

 

“Devo capire cosa pensa quella donna.” fece Caterina, per la terza volta nel giro di pochi minuti, dando le spalle a Fortunati.

L'uomo, premendosi la punta delle dita sulle tempie, per la terza volta rispose: “Lascia che lo faccia io.”

La Tigre, poco dopo aver lasciato Scipione, aveva cercato il piovano e si era chiuso con lui in una delle salette che venivano usate meno, dando ordine alla servitù di non disturbarli per nessun motivo. Si erano messi a discutere della morte di Lorenzo e di tutte le sue implicazioni e così, dopo quasi un'ora di serrata conversazione, erano giunti alla questione di Giovannino, ed entrambi erano stati concordi nel dirsi cauti, non sapendo come la vedova del Popolano avrebbe davvero gestito la cosa.

Secondo Francesco, era molto probabile che l'Appiani lasciasse perdere, troppo presa dal tenere insieme la sua famiglia ed evitarsi la condanna morale di Firenze che, morto il marito, sarebbe ricaduta forse su di lei. La Leonessa, allora, aveva ribattuto facendo presente quanto le avrebbe fatto comodo, proprio per quel motivo, avere i possedimenti terrieri e i soldi che, altrimenti, sarebbero spettati a Giovannino.

Fortunati, allora, aveva puntualizzato che dei soldi che erano stati di Giovanni, a quanto ne sapeva, non ce n'erano quasi più, e in quanto alle ville e ai terreni, era difficile pensare che Semiramide fosse disposta a prendersene il carico, gestendoli e mettendoli a frutto. Ancora una volta, la milanese aveva opposto un'obiezione logica: proprio perché sarebbe stata sola e senza altri mezzi era probabile che l'Appiani fosse più che disposta a impiegarsi come amministratrice di quei beni.

Alla fin fine, l'unico punto su cui erano del tutto concordi era sul fatto che la vedova del Medici andasse contattata, per capire cosa avesse in mente e, essendo fresco il lutto, che fosse necessario indirizzarla verso la decisione giusta, nel caso in cui non fosse sembrata incline a farlo da sola.

La diatriba, dunque, s'era accesa riguardo a chi spettasse il compito di parlare con Semiramide.

“Ascolta...” soffiò a un certo punto Caterina, guardando il sole che scendeva all'orizzonte, stringendosi nelle spalle: “Forse... Forse non è una buona idea andare da lei adesso.”

“Come mai..?” chiese l'uomo, sorpreso da un tale repentino cambio di idea.

La Sforza, complice quel tramonto di maggio che, per certi versi, ricordava quelli più malinconici di fine agosto, aveva ripensato alla morte di Giacomo. Si era chiesta – benché ci fossero sostanziali differenze tra la dipartita del Feo e quella di Lorenzo – come avrebbe reagito lei se, proprio all'indomani della morte del marito, qualcuno che riteneva nemico si fosse presentato da lei, con la scusa di farle le condoglianze, ma con l'intento reale di convincerla a fare qualcosa che forse non avrebbe voluto fare.

“No, è un errore e basta.” scosse di nuovo il capo, staccando lo sguardo dal cielo insanguinato, che ormai davvero le riportava alla memoria in modo troppo vivido la sera in cui il suo Giacomo aveva perso la vita: “Manda avanti i Salviati. Sono loro cugini, in fondo. Hanno più motivi di me di volerla consolare, anche se i due rami della famiglia non andavano d'accordo...”

Il piovano tacque qualche istante, poi, trovando la cosa ragionevole, convenne: “Farò come dici. È meglio che vada subito a Firenze, allora... Vado subito a far preparare il cavallo. Non vorrei che i Salviati prendessero qualche iniziativa da soli, anticipandoci...”

“Mi lasci sola, stanotte, allora...” sospirò Caterina, che d'improvviso sentiva non solo un gran freddo, non motivato dalla temperatura di quella sala, ma anche un profondo vuoto: “Non preferisci partire domani, con la luce? Non hai paura di perderti, partendo a quest'ora?”

“Scipione è ancora nelle cucine, da quello che so – fece il fiorentino, senza capire a fondo la richiesta della sua amante – mi accompagnerò a lui e arriverò a Firenze sano e salvo...”

La Tigre strinse le labbra e, brusca, rispose: “Va bene, fai come credi.”

L'uomo sollevò le sopracciglia e, alzando i palmi, dichiarò: “Credevo che anche tu ritenessi importante agire in fretta...”

“Hai ragione...” si sgonfiò la Leonessa, appoggiandosi alla parete con la schiena, lo sguardo basso e triste: “Solo che... Ah!”

Quell'ultimo sbotto sorprese Francesco che, impotente, la guardò battere le mani l'una nell'altra con rabbia e poi mettersi a camminare veloce per la sala.

“Che c'è?” chiese il piovano, confuso.

“Se solo Baccino fosse qui!” esclamò lei, senza ragionare, troppo trascinata dai tumulti della propria anima, per valutare lucidamente chi fosse l'uomo a cui stava facendo quel genere di confidenza: “Mia figlia mi ha scritto dicendomi che non aspetta altro che essere chiamato qui, al mio servizio! Se solo avessi lui... Ma come faccio? Il papa, al momento, non si ricorda nemmeno più della sua esistenza, ma se per caso venisse a sapere che da Roma l'ho fatto venire qui a Castello, di certo farebbe qualcosa per... Capirebbe! Capirebbe che quando ci hanno presi lui non era solo un coppiere, per me. Capirebbe tutto e agirebbe di conseguenza, Dio solo sa come!”

“Lo vorresti qui per mandare lui a Firenze a parlare coi Salviati?” domandò Fortunati, con scarsa convinzione, scuro in volto e ben consapevole di star soffiando su un fuoco che lui per primo non voleva scatenare.

“Lo vorrei qui per...” iniziò a rispondere Caterina, ma, appena prima di dire il vero motivo per cui avrebbe voluto il suo giovane amante di nuovo al suo cospetto, si frenò, guardò il fiorentino e deglutì un paio di volte, prima di riuscire a dire: “Perdonami, io... Io non volevo... Ho parlato senza pensare...”

“Non preoccuparti.” sussurrò il piovano, avvilito, ma deciso a non mostrare fino in fondo il suo dolore per le parole della donna che amava al punto da calpestare ogni sua convinzione, pur di stare accanto: “Ora... Vado... Vado a preparare un piccolo bagaglio e partirò con Scipione. Parlerò coi Salviati. Sistemeremo tutto e poi... Poi vedrai che potrai andare a riprenderti Giovannino senza pericolo.”

Mentre Fortunati andava alla porta, mortificata per il proprio scarso tatto, Caterina mosse un paio di passi veloci verso di lui, cercando di fermarlo, posandogli una mano sul braccio: “Francesco, davvero, perdonami... Non intendevo dire che preferirei lui... Io ho solo...”

“Prima o poi il papa morirà.” disse l'uomo, senza riuscire a guardarla in viso: “E allora potrai far venire qui messer Baccino senza che ci sia pericolo.”

Seguendo l'impeto del momento, decisa a non lasciarlo partire con qualcosa di irrisolto tra loro, dato che anche quel genere di viaggio, per quanto breve, poteva rivelarsi insidioso, la donna tirò a sé il fiorentino e lo baciò. Egli rispose dapprima con riluttanza, ma poi si lasciò prendere la mano e solo dopo un lungo momento di esitazione, riuscì ad allontanarsi da lei.

“Io ti aspetto, ricordatelo.” gli assicurò la Leonessa.

Fortunati fece un breve sorriso e schiuse le labbra, per dire che lo sapeva, ma che sapeva anche che sarebbe bastato poco, per vedersi scavalcato da qualcuno di più giovane e più affascinante, ma non riuscì a dire nemmeno mezza parola. Così alzò appena una mano, in segno di saluto, e lasciò la sala, già pensando a cosa avrebbe detto ai Salviati, una volta che fosse arrivato in città.

 

Lucrezia faticava a scrollarsi di dosso la sensazione gelida che l'aveva colta nel momento in cui aveva attraversato il cortile di palazzo Medici per andarsene e tornare a casa. Malgrado fosse ormai passata la metà di maggio e malgrado a Firenze sembrasse già estate, un refolo di vento l'aveva scossa nel profondo, facendole sentire una differenza abissale tra il calore dell'abbraccio che aveva scambiato con Semiramide poco prima e il freddo di quella breve folata.

Aveva raggiunto la propria dimora immersa nei suoi pensieri, rivedendo ogni dettaglio del palazzo che un tempo era stato casa sua, e ripercorrendo minuziosamente tutto il dialogo che era intercorso tra lei e l'Appiani.

Mentre toglieva il mantello leggero e lo porgeva a un servo, la Medici ancora ragionava sulle parole che la cugina acquisita aveva speso per suo padre Lorenzo, che tutti avevano conosciuto come il Magnifico. Era rimasta colpita dalla sincera stima che Semiramide sembrava nutrire per il ricordo di quell'uomo che, di fatto, l'aveva costretta a essere la moglie di un Medici di scarto. Anzi, Lucrezia ne era rimasta talmente colpita da aver in parte ammesso le colpe del padre, spiegando di sapere bene quale torto avesse fatto a Lorenzo e Giovanni e, di rimando, alle loro rispettive mogli ed eredi.

Quasi in un gioco al rialzo, l'Appiani aveva convenuto, ma aveva anche detto che Lorenzo, poi, aveva esagerato nella vendetta, procurando danni ingenti ai Medici tutti e scacciando Piero, fratello di Lucrezia, senza che ve ne fosse un concreto motivo, dato che, a suo avviso, non si era trattato di un atto commisurato a quanto subito in precedenza.

Lucrezia aveva di rimando sostenuto che suo fratello Piero, purtroppo, non era stato l'uomo che ci si sarebbe aspettati di veder nascere dal Magnifico, ma aveva seguito comunque l'onda, convenendo che sì, Lorenzo era stato eccessivo nel farlo cacciare da Firenze.

In tutto ciò si erano inseguite denunciando le colpe delle reciproche parti e trovandosi concordi su quelle della parte opposto, ma nessuna delle due aveva anche solo sfiorato l'argomento principale: cosa ne sarebbe stato di Giovannino.

L'unico accenno possibilmente riconducibile a quella questione se l'erano riservato proprio per la fine del loro incontro.

“Non è giusto, credo, che qualcuno abbia a soffrire per la cecità altrui, com'è successo al vostro Lorenzo e al povero Giovanni, che si sono trovati senza eredità per colpa di mio padre e della sua avidità.” aveva sussurrato la Medici, mesta.

Semiramide aveva annuito e aveva ribattuto: “Gli uomini hanno molti limiti, ma noi donne possiamo far sì che le cose cambino. E che cambino in meglio.”

Quella frase aveva lasciato una buona sensazione a Lucrezia che, nell'impeto del momento, vedendo il volto stanco e triste dell'Appiani, non si era trattenuta e l'aveva abbracciata. Tra loro, il pancione della Medici aveva creato una certa distanza, ma il gesto era stato comunque pieno d'affetto e condivisione.

“Ti aspettavo prima...” la voce di Jacopo fece quasi sobbalzare la moglie, che era appena entrata in camera: “Si era detto che saresti tornata quando ancora faceva chiaro...”

“Abbiamo parlato un po'... E anche di cose interessanti. Dammi un momento e ti dico tutto...” gli disse la donna, andandosi a sedere un istante sul letto, per riprendere fiato: “Ma comunque tu non avresti dovuto essere ancora da tua madre?”

“Voleva riposare.” spiegò lui, con un'alzata di spalle.

Alla Medici non piaceva quel clima. Detestava profondamente il grigiore della morte. Aveva passato qualche ore a casa di Semiramide, dove la morte aveva appena bussato alla porta e ora, in casa propria, si trovava Jacopo, atterrito all'idea che sua madre Elena potesse non avere ancora molto da vivere...

“Credo che Giovannino potrà tornare a casa presto.” decise quindi di esordire la Medici, giusto per rendere l'aria più fresca e leggera.

Risvegliato da quell'ottimismo, Jacopo raddrizzò un po' le spalle e le chiese di spiegarsi meglio. La moglie non si fece pregare e, mentre si lasciava aiutare a spogliarsi, riportò quasi parola per parola tutto ciò che lei e la vedova del Popolano si erano dette.

“E Pierfrancesco che cosa dice?” chiese a un certo punto il Salviati, rendendosi conto che Lucrezia aveva nominato il figlio di Lorenzo all'inizio del suo racconto, per poi non nominarlo più, come se non fosse stato più presente da un certo momento in poi.

La Medici confermò subito il suo sospetto: “Ero lì da una decina di minuti, quando ha chiesto il permesso di andarsene e sua madre gliel'ha concesso...” disse: “Semiramide non ha detto a voce alta quello che pensava, ma sono convinta che sapesse che suo figlio sarebbe andato per bettole... Sai cosa si dice in giro di lui.”

“Dovrà stare attento a spendere soldi in vino scadente e meretrici... Ormai non hanno molta liquidità...” soppesò il Salviati: “Si tratta di svaghi costosi...”

“E da quando sai quanto costano i servizi di una meretrice dei bassifondi di Firenze?” chiese, con tono scherzoso, Lucrezia.

Jacopo, a cui finalmente spuntò un sorriso giocoso in volto, schiuse le labbra per ribattere a sua volta con un qualcosa di spiritoso, ma non fece in tempo a dar voce ai suoi pensieri, perché qualcuno bussò alla porta.

“Chi è?” chiese Lucrezia, portandosi istintivamente una mano al petto, che in quel momento era coperto unicamente dalla sottoveste.

“Non volevo disturbare a quest'ora, ma vorrei parlarvi...” rispose la voce un po' soffocata di Fortunati.

I Salviati avevano dato ordine alla servitù di lasciar passare il piovano a qualsiasi ora del giorno e della notte, anche senza che venisse dato loro preventivo avviso, quindi non si sorpresero più di tanto nel capire che fosse lui alla porta.

“Dammi quella...” fece Lucrezia, indicando al marito una sopravveste abbastanza spessa da coprirla a dovere: “Entrate!” esclamò poi, una volta che si fu sistemata.

Francesco, un po' provato dai ritmi di viaggio serrati a cui Scipione l'aveva involontariamente costretto, salutò entrambi i coniugi con calore e poi chiese: “Siete già stati dalla vedova?”

Con un sospiro, malgrado le fosse tornato qualche dolorino al ventre, la Medici si prestò volentieri a ripercorrere di nuovo la sua visita al palazzo, stavolta tralasciando alcuni momenti che riteneva troppo privati per essere condivisi con Fortunati.

“Dunque pensate che Madonna Semiramide non andrà avanti con la causa di affidamento?” si permise di chiedere l'uomo, sentito tutto il resoconto.

“A mio avviso non farà nulla.” confermò Lucrezia, sicura delle proprie parole.

“E suo figlio? C'è rischio che il giovane Pierfrancesco voglia in qualche modo portare avanti la battaglia del padre?” si informò il piovano, deciso a vagliare ogni possibile pericolo.

Questa volta fu Jacopo a rispondere: “Credo che Pierfrancesco sia troppo impegnato a correre dietro a qualche sottana, per pensare a ville, campi e denaro...”

Francesco sollevò le sopracciglia e commentò: “Non dico che faccia bene a ragionare così, ma se lo fa, a noi sta bene.”

“Domani, comunque, io andrò al funerale e... Terrò gli occhi aperti.” fece il Salviati: “Guarderò chi si avvicinerà a lei e al figlio... Cercherò di carpire il più possibile...”

“Bene, bene...” annuì il piovano, facendo poi un lungo sospiro, come a dire che era pronto ad accomiatarsi.

“Madonna Sforza come sta?” chiese Lucrezia, in parte per pura curiosità, in parte perché il suo vecchio progetto di far sì che in qualche modo un domani Giovannino tornasse in seno ai Medici non era mai stato davvero accantonato.

“Come volete che stia...” sbuffò l'uomo: “Come un animale selvatico messo in gabbia...”

“Mi auguro che abbia almeno qualche bel giovane tra i suoi servi.” si lasciò sfuggire la donna, resa meno cauta nel parlare dalla stanchezza.

“Che intendete dire..?” chiese Francesco, fingendo di non capire, ma avvampando.

Accortasi di aver osato troppo, Lucrezia si schiarì la voce e rispose: “Ebbene... Diciamo che le sue abitudini non sono un mistero... Lei stessa, mi pare, non le ha mai negate. Credo che difficilmente abbia deciso di non concedersi alcuno svago, malgrado il suo stato di sorvegliata speciale.”

Fortunati non sapeva come rispondere, perciò balbettò un vago 'non saprei', sperando che la sua barba scura bastasse a coprire il rossore violento che l'aveva preso.

“Se voi non foste un sant'uomo quale siete, come tutti ben sanno – esclamò il Salviati, per risolvere la questione e portare quell'incontro a una conclusione – di certo la Tigre di Forlì non si sarebbe fatta problemi a sedurre anche voi, malgrado l'abito che indossate!”

“In fondo siete un bell'uomo – convenne la Medici – è solo grazie alla vostra notoria rettitudine, se con voi non ha provato a mettere in atto le sue arti...”

Il piovano si grattò il collo, a disagio, mentre i due Salviati si concedevano una risata leggera, quella che usavano tra amici – quale ritenevano essere anche Francesco – dopo una battuta un po' cattiva, ma detta senza vera malizia.

“Restate qui, per la notte...” fece Lucrezia, dopo un po', quando Fortunati disse che si sarebbe ritirato per riposare, essendo abbastanza stanco.

“No, grazie... Sono ospite di messer Riario.” spiegò lui: “Non voglio esservi d'incomodo.”

“Come preferite...” ribatté Jacopo: “Vi accompagno alla porta...”

La Medici, una mano sul ventre rigonfio, salutò con un cenno e augurò al religioso una santa notte, senza spostarsi dal letto su cui era rimasta seduta per tutto il tempo.

“Non prendetevela, per quello che abbiamo detto prima...” sussurrò il Salviati, mentre lui e Francesco erano quasi al salone d'ingresso: “Quando siete arrivato, io e mia moglie stavamo facendo dei discorsi un po'... Be', diciamo che a volte facciamo qualche battuta di spirito anche noi e...”

“Non preoccupatevi. Lo capisco perfettamente e trovo non ci sia nulla di male, in fondo.” lo frenò Fortunati: “Malgrado l'abito che porto, sono un uomo di mondo anch'io.”

Per una frazione di secondo, Jacopo ebbe la sensazione che quell'affermazione nascondesse qualcosa di preciso, ma siccome subito dopo il piovano sorrise e gli augurò una santa notte, lasciò perdere e ricambiò il saluto, aspettando che l'ospite uscisse dal palazzo, sparendo nel buio della notte fiorentina.

 

 

   
 
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