Capitolo
II
«Passatemi il
bisturi.»
«Signorina Baker,
sono io l’anatomopatologo, forse dovrei…»
«Professoressa Baker.
Voi pensate agli umani e passatemi il bisturi.»
Le voci continuavano a
inseguirsi alle sue spalle; le era
balenata l’idea di mettersi di fronte alla scena, ma poi
aveva optato per
sedersi dall’altro lato del secondo tavolo, in modo da tenere
a bada la
curiosità. Aveva del lavoro da fare
sull’epidermide della carcassa, e solo dopo
avrebbe osservato lo scempio che i due dottori e la docente di Biologia
Animale
stavano facendo sul resto del corpo. Erano già in ritardo,
era il momento di
dire basta alle distrazioni.
Quella mattina, dopo il
ritrovamento del dottor Proctor,
il decano aveva quasi avuto un mancamento; per fortuna, aveva pensato
Ellen,
Crown era già lì per un’eventuale
autopsia su Miller. Non si erano trovati
davanti un bello spettacolo, ma nemmeno uno dei peggiori: a eccezione
della
carcassa viscida e integra sul tavolo e del ricercatore impiccato
appena sopra,
il laboratorio appariva in ordine. Ellen si era appuntata mentalmente
anche un
dettaglio che era certa le sarebbe tornato utile in una discussione
futura.
La sicurezza del Campus era
stata allertata e il dottor
Proctor era stato sciolto dalla fune, calato sul pavimento e, accertata
da
Crown e Fauerbach la sua effettiva dipartita, spostato infine
nell’obitorio del
St Mary, a pochi isolati del Tyner Science Lab. Sfortunatamente, la
barella era
passata davanti al dipartimento di Educazione Fisica, i cui studenti si
stavano
per gran parte esercitando nel campo esterno, e a quello di Medicina,
adiacente
uno dei dormitori; nel giro di un quarto d’ora,
l’intero Campus era stato messo
al corrente di ciò che era accaduto, più o meno.
Erano cominciate a circolare
voci sull’identità della vittima e
l’ingresso al laboratorio A era stato vietato
in quanto scena del crimine, ma la Baker si era impuntata, e per la
prima volta
Ellen si era trovata d’accordo con lei: il loro lavoro doveva
proseguire, molto
tempo era già stato perso, quindi che la carcassa venisse
spostata nel
laboratorio B. E così era stato fatto.
Un altro particolare che a
Ellen non era sfuggito era
stato il sollievo dei due uomini di guardia. Non avevano assecondato la
Baker
per galanteria o per togliersela dalle palle come avrebbero fatto in
qualunque
altro contesto, bensì perché si sentivano a
disagio in presenza della creatura.
Ellen aveva notato il sudore imperlare il volto di uno di loro mentre
la Baker
aveva avanzato le sue pretese.
L’indagine aveva
potuto riprendere a distanza di qualche
ora, dopo che Crown e il suo assistente ebbero effettuato
l’autopsia su
Proctor, dichiarando che, nonostante la giovane età e una
brillante carriera
davanti a sé, la causa della morte era stato effettivamente
un suicidio. Una
volta entrati nel laboratorio B, sempre forniti di mascherina e guanti
protettivi, si erano divisi il lavoro: la Baker, Crown e Fauerbach
avevano
deciso di analizzare la carcassa da vicino, operando anche su di essa
un’autopsia,
mentre Janet ed Ellen avevano preso posto al tavolo accanto, preferendo
concentrarsi su alcune parti asportate alla creatura: un lembo di pelle
coriacea, un’unghia e una delle branchie. Ellen era curiosa,
ma intenzionata a
non rivolgere alla “star” di quella giornata
più dell’attenzione necessaria:
anche lei si sentiva a disagio guardandola.
Le aveva scoccato qualche
occhiata da quando erano a
lavoro, per cui si era fatta un’idea della creatura con cui
stavano avendo a
che fare. Corrispondeva ovviamente alla descrizione di Janet, ma
c’erano altri
particolari che la caratterizzavano: aveva le sembianze di un enorme
anfibio,
tutte e quattro le zampe palmate e branchie tra la testa e le spalle;
l’addome
era bianco, a differenza del resto del corpo, che variava tra il verde
spento e
il grigio; infine – ed era ciò che la spronava a
smettere di guardarla – aveva
dei tratti tanto somiglianti a quelli umani da farle drizzare i
capelli. Ellen
si era aspettata una sorta di pesce gigante, o un anfibio come una rana
parecchio cresciuta, non una creatura umanoide. Adesso comprendeva
l’urgenza di
Janet di farlo esaminare dall’università: avrebbe
portato alla Miskatonic
parecchio prestigio scoprire cosa fosse.
Le tornò in mente
un particolare. «Janet…»
esordì,
rivolta all’amica che era china sull’unghia da cui
stava delicatamente
asportando il terriccio. Da archeologa, sapeva agire delicatamente e
teneva in
considerazione fattori esterni come l’ambiente; infatti, era
stata la prima a
ipotizzare che la creatura non fosse morta nel fiume, ma che vi fosse
stata
trasportata. D’altronde, come mai un essere simile era stato
avvistato soltanto
adesso? Il Miskatonic River divideva in due la città, ma non
era un bacino
abbastanza ampio da nascondere l’esistenza di anfibi del
genere.
«Mh?»
fece lei in risposta.
«Con chi stavi
passeggiando ieri mattina?»
Sarebbe parsa la domanda di
un’amica gelosa in altri
contesti, se ad esempio fossero state a Boston, luogo in cui
l’archeologa
risiedeva tra un viaggio e l’altro; ad Arkham,
però, Janet aveva solo un’amica
e una manciata di conoscenti, che per quanto ne sapeva Ellen erano
tutti di
sesso maschile.
Janet esitò.
«Ah… sì. Ecco, si trattava di
un’amica di
Boston. Sto dormendo a casa sua, te lo avevo accennato.»
No, mi avevi solo accennato
che non dormivi nel Campus.
«È una
storia complicata, ma… ci trovavamo in zona di
notte. Eravamo con un nostro comune amico e con un
maggiordomo…»
«Janet, ti sto
perdendo. Di che cazzo parli?»
La sua schiettezza fece
emettere a Janet una risatina
nervosa. «Te l’ho detto, è una storia
complicata, te la racconterò in un altro
momento.»
Ellen interpretò
il breve lasso di silenzio che seguì
come un «Forse».
«Eravamo
là per un altro motivo, diretti all’Ye
Olde
Booke Shoppe, hai presente?»
Ellen annuì. Un
po’ tardi per una scappata in libreria,
pensò.
«Non dovevamo
esattamente… essere
visti.» Janet aveva
cominciato a parlare a voce bassa e in maniera concitata.
«Comunque, tornando
in auto il maggiordomo di Giraud…»
«Giraud?»
«Giraud Des
Chateaubriand, l’Arcivescovo» Janet fece un
cenno con la mano per minimizzare e andare avanti, ma ora Ellen la
fissava a
occhi spalancati. «Comunque sia, Jeremy – il
maggiordomo – si era allontanato
dall’auto in nostra assenza e aveva notato questa grossa
creatura sulla riva del
fiume. Era proprio sotto la luce di un lampione…»
«Un
lampione?»
«Sulla strada
sopra, ovviamente. Siamo scesi a
controllare perché Alexander si sentiva
scosso…»
«Alexander?»
«Ellen, lascia
stare e ascoltami! Comunque,
quando ci siamo
trovati davanti la carcassa abbiamo deciso di chiamare la polizia. Chi
poteva
avere ammazzato una creatura così grande? E se ce ne fossero
state altre in
giro?»
«Ma Miller ha
detto che il ritrovamento è stato fatto di
prima mattina…»
Janet avvampò.
«Beh…» tentennò.
«Non saremmo dovuti essere
là, ecco. Quindi ho aspettato l’alba, sperando che
nessun altro si imbattesse
nella carcassa, e poi sono tornata lì con Lilyan.»
«Che è
la tua amica.»
«Sì»
confermò, prima di rimanere un attimo in silenzio.
Sapeva quale domanda stava per porre Ellen.
«Miller non
avrebbe mai accettato di farla esaminare, non
è vero?»
«Ho dovuto
smuovere le acque rivolgendomi a Wingate. Suo
padre, Nathaniel Peaslee, ha un’onorata carriera alle spalle,
e la parola del
figlio viene tutt’ora presa in considerazione.
Perciò…»
“Onorata
carriera” era un modo carino per dire “il
vecchio pazzo che vive nel Campus”, ma Ellen non la corresse
e trasse invece le
conclusioni.
«Peaslee Jr ha
fatto girare la voce della scoperta e poi
l’ha riferito anche a Miller, che non avrebbe più
potuto tirarsi indietro.»
Janet sorrise dietro la
mascherina, ma Ellen riuscì a
capirlo dagli occhi azzurri che le brillarono.
«Però
non mi hai ancora spiegato chi siano i tuoi amici e
cosa ci facevate…»
«Cazzo!»
L’esclamazione
della Baker, poco adatta al suo repertorio
di imprecazioni, le fece sussultare entrambe. Avevano tranciato la
carotide
della creatura? Per la sua conformazione fisica, Ellen non poteva dare
per
scontato che il sangue non scorresse ancora denso e liquido.
Tuttavia, si
trovò davanti solo il ventre aperto della
creatura. Janet si portò le mani alla bocca, ma Ellen
dovette avvicinarsi per
vedere meglio.
Nel ventre ormai privo di
vita, giacevano due uova.
***
Ellen voleva quelle
uova. Analizzare dei gusci
non comportava osservare anche la loro madre., prospettiva che non la
entusiasmava; inoltre, era certa di ottenere maggiore prestigio da un
simile
esame, piuttosto che da un lembo di pelle.
La Baker, ovviamente, glielo
impedì.
«No»
esclamò ferma, mettendosi tra Ellen e la
carcassa. «Non permetterò che una studentessa
faccia danni.»
«Mi hanno chiamata
a partecipare, non sono una
sprovveduta.»
«Sì, vi
ha invitata un’archeologa»
sibilò la professoressa. Si voltò verso Janet.
«Perdonatemi, dottoressa Holmes,
ma è la pura verità: voi non sareste qui se non
aveste ritrovato la carcassa.
Immagino che nel suo campo siate un’eccellenza, tuttavia
anche il professor
Peaslee ha compreso che i suoi studi da psicologo sarebbero stati
inutili in…»
«Credo nelle doti
di Ellen» la interruppe Janet, e un
calore scaldò il cuore dell’amica. Adesso
l’archeologa fronteggiava la Baker,
gli occhi fissi nei suoi. «È vero, è
solo una studentessa, ma non imparerà
niente se verrà ostacolata dai suoi stessi
insegnanti.»
«In effetti, mi
ricorda un po’ come eravate voi dieci
anni fa…» provò a inserirsi Crown,
ricevendo uno sguardo rabbioso dalla
professoressa.
La Baker non voleva cedere.
Incrociò le braccia al petto,
poi proseguì: «La signorina Lawlier non ha mai
guidato una spedizione, né un’equipe,
compito che all’inizio del pomeriggio avete affidato a me, se
non erro.»
«Perché
vi siete imposta» ribatté Ellen.
«Perché
sono la più qualificata, e il dottor Fauerbach
può confermarvelo.»
Il medico, chiamato in
causa, lasciò perdere l’esame
visivo delle uova e sollevò il capo. Si schiarì
la voce, ma nei suoi occhi
apparve una scintilla che svelò a Ellen come non si sentisse
a disagio. Si
stava divertendo,
proprio
come tutti i suoi colleghi durante le lezioni della Baker.
Avvertì montare la
rabbia.
«La professoressa
Baker ha ragione, dottoressa Holmes. La
vostra amica potrà anche essere una valida studentessa, e
non dubito delle
motivazioni che, oltre alla vostra insistenza, hanno convinto il decano
ad annetterla
all’equipe… Tuttavia, ho avuto modo di lavorare
con la professoressa Baker in
passato, e so che il suo approccio, seppure rude, è
appropriato per il tipo di
ricerca che stiamo svolgendo.»
Quanti paroloni per leccarle
il culo,
pensò Ellen.
Stava per ribattere, quando
tutti furono attratti da un
rumore alle loro spalle. Nel corso della discussione, si erano
allontanati dal
primo tavolo da lavoro, quello su cui giaceva la carcassa, ma pur senza
vederlo
ciascuno di loro riconobbe il crepitio di un guscio rotto.
Cinque paia di occhi si
concentrarono sulla creaturina
che stava nascendo. Una zampa palmata si fece largo tra le crepe del
guscio,
riversando fuori un liquido amniotico denso e giallastro. Ellen sporse
il collo
per avvicinarsi all’essere, ma la mano di Fauerbach si
posò sulla sua spalla
per impedirglielo. Subito dopo, capì che qualcosa non andava.
L’uovo misurava
venti pollici, ma la zampa che si era
guadagnata l’uscita ne era lunga quindici, e continuava a
crescere; quando
finalmente si posò sul ventre della madre, era abbastanza
grande da circondare
l’altro uovo. Ellen mosse d’istinto un piede
indietro, calpestando quello di
Crown, che lasciò andare un gemito. A quel rumore, gli occhi
della creatura
neonata, ormai del tutto fuori dal guscio, scattarono su di loro.
Poi fu il turno del suo
intero corpo.
Si lanciò su
Fauerbach, il più vicino, ma il medico lo
respinse con la lente di ingrandimento che teneva ancora in mano.
Nel laboratorio si
scatenò il panico, perché la creatura
non smetteva di aumentare di stazza.
Ellen si lanciò
nel corridoio, seguita da Janet, che
nella corsa sbatté contro un becher e si tagliò
con il vetro. L’odore del
sangue parve benefico per la rabbia della creatura, che si mosse ancora
verso
di loro. Ripresero a fuggire e, quando Ellen lanciò uno
sguardo dietro di sé,
notò che quell’idiota di Crown aveva lasciato la
doppia porta spalancata.
Imprecando si strappò via la mascherina, che le impediva di
respirare
regolarmente, e corse verso l’uscita.
Quando mancavano solo due
svolte, una mano la afferrò e
la spinse indietro, all’interno di una nicchia.
Sentì il guanto rotto premerle
contro il viso, e a malapena riconobbe Fauerbach. La testa era andata a
sbattere contro il suo torace, ma Ellen non si lamentò del
colpo: il cuore le
martellava rapidissimo, trattenne perfino il respiro per evitare di
essere
udita. Dall’altro lato, nascosti in altre rientranze dei muri
in corrispondenza
delle porte, Ellen riconobbe Janet, Crown e la Baker.
Era così vicina a
Fauerbach che avrebbe potuto sentire l’odore
del suo dopobarba. Immaginò che fosse così,
perché il tanfo che le arrivava
alle narici nascondeva ogni altro olezzo. Avvertì il suono
strascicato dei
passi lungo il pavimento per un tempo che le parve infinito, prima di
notare le
quattro zampe della creatura che si muovevano lente, sollevandosi
appena,
ancora bagnate dal liquido amniotico. Chiuse gli occhi in preda al
terrore, il
tanfo mefitico sempre più vicino…
Poi passò. Non
seppe come, né quanto ci mise, ma la prima
cosa che avvertì fu la fine della presa di Fauerbach. La sua
bocca ora era
libera e lei espirò profondamente, tossendo perfino, e dal
rumore proveniente
dall’altro lato del corridoio comprese che anche altri
avevano avuto la sua
stessa reazione.
«È
entrato in un laboratorio» mormorò Fauerbach.
«Corriamo fuori.»
***
Ancora una volta, la
sicurezza del Campus era stata
allertata con solerzia. Per fortuna, a causa del suicidio di Proctor,
nel Tyner
Science Lab erano rimasti soltanto loro cinque, e questo aveva permesso
alla
professoressa Baker e al dottor Fauerbach di serrare la porta
principale dell’edificio
senza alcun tipo di rimorso; provvidenzialmente, i due uomini preposti
al
sorvegliamento del laboratorio A erano in cortile a fumare, e
l’equipe aveva
impiegato diversi minuti per convincerli che non stavano mentendo sulla
bestia
che li aveva aggrediti. Il gruppo aveva poi spiegato la situazione al
resto
delle guardie e al decano Miller, e insieme avevano deciso di imbastire
una
storia per gli altri residenti nel Campus, in modo da evitare scandali
o
richieste di spiegazioni. Che genere di spiegazioni avrebbero potuto
dare, in
fondo? Non avevano una risposta neanche per se stessi.
Nel giro di un paio
d’ore, l’intero Tyner Science Lab era
stato messo sotto osservazione e loro erano stati mandati a fare i
bagagli per
una nottata fuori dall’ordinario. Il decano, infatti, aveva
insistito che
fossero tutti riuniti nel Faculty & Graduated Residence, dove
già dormiva
Fauerbach; secondo Miller, sarebbero stati più al sicuro se
fossero rimasti
uniti. Un grande atto di empatia che nascondeva un misero piano: Miller
voleva
evitare che diffondessero informazioni, e il modo migliore e
più rapido per
farlo era rinchiuderli in un edificio mezzo vuoto, confinati su due
piani e con
un portiere pronto ad avvertirlo nel caso in cui uno di loro avesse
tentato di
uscire o di ricevere visite.
C’erano state
delle lamentele da parte dei membri dell’equipe,
ma tutte poco convinte; avevano ben altro nella testa. Ellen aveva
dovuto
attendere l’assegnazione della stanza prima di aprire di
nuovo bocca, e l’aveva
fatto solo per vomitare. Poco dopo, seduta sul pavimento dalla propria
stanza e
con una mano premuta contro la fronte, Ellen cercava di razionalizzare
quanto
accaduto.
La risposta data agli
studenti, ai professori e a tutti
gli altri lavoratori o abitanti del Campus era stata semplice, lineare
e sotto
ogni aspetto credibile: dei vandali erano entrati nel Tyner Science
Lab,
violando le misure di sicurezza, e questo aveva fatto imporre al decano
Miller
una chiusura completa dell’area. La carcassa era quella di un
animale marino,
niente di particolare, e il suicidio di Proctor era del tutto
scollegato dal
suo ritrovamento. In effetti, Albert Proctor stava passando un brutto
periodo,
aveva problemi sia in ambito accademico che personale, e questa era
forse la
sola verità in quell’ammasso di bugie: chi lo
conosceva aveva affermato che Proctor
fosse davvero sul punto di mollare il lavoro, dopo che il suo
fidanzamento era
stato sciolto proprio per via del suo grosso impegno
all’università e di una
spedizione in partenza della quale non aveva intenzione di fare parte.
Il suicidio del ricercatore
era dunque archiviabile per
Ellen, e d’altronde l’autopsia effettuata sul corpo
non aveva dato indizi
discordanti. Poteva inoltre togliere di mezzo l’idea
dell’avvelenamento, poiché
Proctor indossava guanti e mascherina mentre si toglieva la vita.
Questo,
tuttavia, poneva un altro quesito: perché?
No, si disse, doveva pensare
ad altro, per esempio a come
giustificare l’esistenza di quelle creature. Sperava che
fossero state
annientate dalle guardie, che perlomeno disponevano di armi.
Ciò fece nascere
un’ulteriore domanda in lei: se avesse avuto una pistola con
sé, avrebbe
sparato?
Neanche so come cazzo si usi
una pistola, si rispose subito.
D’accordo, via il
pensiero sulle armi e pure sul suicidio
di Proctor. Cos’erano quelle creature e come erano finite nel
Miskatonic River?
Qualcosa le solleticò la mente, un ricordo che non
riuscì ad acchiappare, ed
era la seconda volta che accadeva dopo la loro fuga. Sospirò
e si rimise in
piedi, diretta verso il proprio letto.
A differenza dei suoi nuovi
“compagni di dormitorio”,
Ellen era potuta rientrare in fretta all’Upman Hall e
prendere una camicia da
notte e un cambio per il giorno dopo. A Janet e alla professoressa
Baker, che
dormivano sul suo stesso piano, erano state fornite delle vesti nuove
dalla
lavanderia dell’università, e così era
stato per Crown, che ora alloggiava al
secondo piano – gli uomini e le donne non potevano dormire in
camere adiacenti
nemmeno quando ne andava della loro sicurezza, constatò.
Si era addormentata da poco
quando udì un tonfo sordo all’esterno.
Scattò a sedere e accese l’abat-jour. Altri rumori
si inseguirono nel corridoio.
Rumori di lotta,
comprese.
Si alzò stando
attenta a non produrre alcun suono, poi
appoggiò l’orecchio alla porta. Sì,
aveva ragione: qualcuno stava combattendo là
fuori. Com’era possibile? C’erano solo Janet e la
Baker sul suo piano, eppure…
Un urlo le fermò
il cuore per un attimo.
Janet!
Fu sul punto di spalancare
la porta e correre da lei, poi
una sensazione di déjà-vu si
impossessò del suo corpo. Arretrò tremando,
continuando a sentire le urla disperate di Janet provenire dal
corridoio, e
avrebbe davvero voluto uscire ad aiutare l’amica – ma
come? –
e avrebbe davvero desiderato
mettersi tra lei e ciò che minacciava di farle del male, una
bestia i cui suoni
rauchi si facevano spazio nella sua testa, riecheggiando furiosi.
Invece continuò
ad arretrare fino al muro, gli occhi
fissi sulla porta, e scivolò lungo la parete con le mani
premute contro le
orecchie.
Un urlo, ancora una volta di
Janet.
Un urlo più
disperato che mai.
Un urlo
spezzato a metà.