Giochi di Ruolo > Il Richiamo di Cthulhu
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Autore: MedusaNoir    19/04/2023    0 recensioni
Arkham, ottobre 1928. La brillante studentessa di Biologia Ellen Lawlier viene convocata dal decano Miller per un consulto: la carcassa di una creatura ignota è stata rinvenuta sulle sponde del Miskatonic River e l’università ha deciso di mettere in piedi un’equipe per indagare. Ben presto si ritroverà immischiata in qualcosa di più grande: streghe, cultisti, una pesante eredità e quattro libri sui quali tutti vogliono mettere le mani...
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II

 

«Passatemi il bisturi.»

«Signorina Baker, sono io l’anatomopatologo, forse dovrei…»

«Professoressa Baker. Voi pensate agli umani e passatemi il bisturi.»

Le voci continuavano a inseguirsi alle sue spalle; le era balenata l’idea di mettersi di fronte alla scena, ma poi aveva optato per sedersi dall’altro lato del secondo tavolo, in modo da tenere a bada la curiosità. Aveva del lavoro da fare sull’epidermide della carcassa, e solo dopo avrebbe osservato lo scempio che i due dottori e la docente di Biologia Animale stavano facendo sul resto del corpo. Erano già in ritardo, era il momento di dire basta alle distrazioni.

Quella mattina, dopo il ritrovamento del dottor Proctor, il decano aveva quasi avuto un mancamento; per fortuna, aveva pensato Ellen, Crown era già lì per un’eventuale autopsia su Miller. Non si erano trovati davanti un bello spettacolo, ma nemmeno uno dei peggiori: a eccezione della carcassa viscida e integra sul tavolo e del ricercatore impiccato appena sopra, il laboratorio appariva in ordine. Ellen si era appuntata mentalmente anche un dettaglio che era certa le sarebbe tornato utile in una discussione futura.

La sicurezza del Campus era stata allertata e il dottor Proctor era stato sciolto dalla fune, calato sul pavimento e, accertata da Crown e Fauerbach la sua effettiva dipartita, spostato infine nell’obitorio del St Mary, a pochi isolati del Tyner Science Lab. Sfortunatamente, la barella era passata davanti al dipartimento di Educazione Fisica, i cui studenti si stavano per gran parte esercitando nel campo esterno, e a quello di Medicina, adiacente uno dei dormitori; nel giro di un quarto d’ora, l’intero Campus era stato messo al corrente di ciò che era accaduto, più o meno. Erano cominciate a circolare voci sull’identità della vittima e l’ingresso al laboratorio A era stato vietato in quanto scena del crimine, ma la Baker si era impuntata, e per la prima volta Ellen si era trovata d’accordo con lei: il loro lavoro doveva proseguire, molto tempo era già stato perso, quindi che la carcassa venisse spostata nel laboratorio B. E così era stato fatto.

Un altro particolare che a Ellen non era sfuggito era stato il sollievo dei due uomini di guardia. Non avevano assecondato la Baker per galanteria o per togliersela dalle palle come avrebbero fatto in qualunque altro contesto, bensì perché si sentivano a disagio in presenza della creatura. Ellen aveva notato il sudore imperlare il volto di uno di loro mentre la Baker aveva avanzato le sue pretese.

L’indagine aveva potuto riprendere a distanza di qualche ora, dopo che Crown e il suo assistente ebbero effettuato l’autopsia su Proctor, dichiarando che, nonostante la giovane età e una brillante carriera davanti a sé, la causa della morte era stato effettivamente un suicidio. Una volta entrati nel laboratorio B, sempre forniti di mascherina e guanti protettivi, si erano divisi il lavoro: la Baker, Crown e Fauerbach avevano deciso di analizzare la carcassa da vicino, operando anche su di essa un’autopsia, mentre Janet ed Ellen avevano preso posto al tavolo accanto, preferendo concentrarsi su alcune parti asportate alla creatura: un lembo di pelle coriacea, un’unghia e una delle branchie. Ellen era curiosa, ma intenzionata a non rivolgere alla “star” di quella giornata più dell’attenzione necessaria: anche lei si sentiva a disagio guardandola.

Le aveva scoccato qualche occhiata da quando erano a lavoro, per cui si era fatta un’idea della creatura con cui stavano avendo a che fare. Corrispondeva ovviamente alla descrizione di Janet, ma c’erano altri particolari che la caratterizzavano: aveva le sembianze di un enorme anfibio, tutte e quattro le zampe palmate e branchie tra la testa e le spalle; l’addome era bianco, a differenza del resto del corpo, che variava tra il verde spento e il grigio; infine – ed era ciò che la spronava a smettere di guardarla – aveva dei tratti tanto somiglianti a quelli umani da farle drizzare i capelli. Ellen si era aspettata una sorta di pesce gigante, o un anfibio come una rana parecchio cresciuta, non una creatura umanoide. Adesso comprendeva l’urgenza di Janet di farlo esaminare dall’università: avrebbe portato alla Miskatonic parecchio prestigio scoprire cosa fosse.

Le tornò in mente un particolare. «Janet…» esordì, rivolta all’amica che era china sull’unghia da cui stava delicatamente asportando il terriccio. Da archeologa, sapeva agire delicatamente e teneva in considerazione fattori esterni come l’ambiente; infatti, era stata la prima a ipotizzare che la creatura non fosse morta nel fiume, ma che vi fosse stata trasportata. D’altronde, come mai un essere simile era stato avvistato soltanto adesso? Il Miskatonic River divideva in due la città, ma non era un bacino abbastanza ampio da nascondere l’esistenza di anfibi del genere.

«Mh?» fece lei in risposta.

«Con chi stavi passeggiando ieri mattina?»

Sarebbe parsa la domanda di un’amica gelosa in altri contesti, se ad esempio fossero state a Boston, luogo in cui l’archeologa risiedeva tra un viaggio e l’altro; ad Arkham, però, Janet aveva solo un’amica e una manciata di conoscenti, che per quanto ne sapeva Ellen erano tutti di sesso maschile.

Janet esitò. «Ah… sì. Ecco, si trattava di un’amica di Boston. Sto dormendo a casa sua, te lo avevo accennato.»

No, mi avevi solo accennato che non dormivi nel Campus.

«È una storia complicata, ma… ci trovavamo in zona di notte. Eravamo con un nostro comune amico e con un maggiordomo…»

«Janet, ti sto perdendo. Di che cazzo parli?»

La sua schiettezza fece emettere a Janet una risatina nervosa. «Te l’ho detto, è una storia complicata, te la racconterò in un altro momento.»

Ellen interpretò il breve lasso di silenzio che seguì come un «Forse».

«Eravamo là per un altro motivo, diretti all’Ye Olde Booke Shoppe, hai presente?»

Ellen annuì. Un po’ tardi per una scappata in libreria, pensò.

«Non dovevamo esattamente… essere visti.» Janet aveva cominciato a parlare a voce bassa e in maniera concitata. «Comunque, tornando in auto il maggiordomo di Giraud…»

«Giraud?»

«Giraud Des Chateaubriand, l’Arcivescovo» Janet fece un cenno con la mano per minimizzare e andare avanti, ma ora Ellen la fissava a occhi spalancati. «Comunque sia, Jeremy – il maggiordomo – si era allontanato dall’auto in nostra assenza e aveva notato questa grossa creatura sulla riva del fiume. Era proprio sotto la luce di un lampione…»

«Un lampione?»

«Sulla strada sopra, ovviamente. Siamo scesi a controllare perché Alexander si sentiva scosso…»

«Alexander?»

«Ellen, lascia stare e ascoltami! Comunque, quando ci siamo trovati davanti la carcassa abbiamo deciso di chiamare la polizia. Chi poteva avere ammazzato una creatura così grande? E se ce ne fossero state altre in giro?»

«Ma Miller ha detto che il ritrovamento è stato fatto di prima mattina…»

Janet avvampò. «Beh…» tentennò. «Non saremmo dovuti essere là, ecco. Quindi ho aspettato l’alba, sperando che nessun altro si imbattesse nella carcassa, e poi sono tornata lì con Lilyan.»

«Che è la tua amica.»

«Sì» confermò, prima di rimanere un attimo in silenzio. Sapeva quale domanda stava per porre Ellen.

«Miller non avrebbe mai accettato di farla esaminare, non è vero?»

«Ho dovuto smuovere le acque rivolgendomi a Wingate. Suo padre, Nathaniel Peaslee, ha un’onorata carriera alle spalle, e la parola del figlio viene tutt’ora presa in considerazione. Perciò…»

“Onorata carriera” era un modo carino per dire “il vecchio pazzo che vive nel Campus”, ma Ellen non la corresse e trasse invece le conclusioni.

«Peaslee Jr ha fatto girare la voce della scoperta e poi l’ha riferito anche a Miller, che non avrebbe più potuto tirarsi indietro.»

Janet sorrise dietro la mascherina, ma Ellen riuscì a capirlo dagli occhi azzurri che le brillarono.

«Però non mi hai ancora spiegato chi siano i tuoi amici e cosa ci facevate…»

«Cazzo!»

L’esclamazione della Baker, poco adatta al suo repertorio di imprecazioni, le fece sussultare entrambe. Avevano tranciato la carotide della creatura? Per la sua conformazione fisica, Ellen non poteva dare per scontato che il sangue non scorresse ancora denso e liquido.

Tuttavia, si trovò davanti solo il ventre aperto della creatura. Janet si portò le mani alla bocca, ma Ellen dovette avvicinarsi per vedere meglio.

Nel ventre ormai privo di vita, giacevano due uova.

 

***

 

Ellen voleva quelle uova. Analizzare dei gusci non comportava osservare anche la loro madre., prospettiva che non la entusiasmava; inoltre, era certa di ottenere maggiore prestigio da un simile esame, piuttosto che da un lembo di pelle.

La Baker, ovviamente, glielo impedì.

«No» esclamò ferma, mettendosi tra Ellen e la carcassa. «Non permetterò che una studentessa faccia danni.»

«Mi hanno chiamata a partecipare, non sono una sprovveduta.»

«Sì, vi ha invitata un’archeologa» sibilò la professoressa. Si voltò verso Janet. «Perdonatemi, dottoressa Holmes, ma è la pura verità: voi non sareste qui se non aveste ritrovato la carcassa. Immagino che nel suo campo siate un’eccellenza, tuttavia anche il professor Peaslee ha compreso che i suoi studi da psicologo sarebbero stati inutili in…»

«Credo nelle doti di Ellen» la interruppe Janet, e un calore scaldò il cuore dell’amica. Adesso l’archeologa fronteggiava la Baker, gli occhi fissi nei suoi. «È vero, è solo una studentessa, ma non imparerà niente se verrà ostacolata dai suoi stessi insegnanti.»

«In effetti, mi ricorda un po’ come eravate voi dieci anni fa…» provò a inserirsi Crown, ricevendo uno sguardo rabbioso dalla professoressa.

La Baker non voleva cedere. Incrociò le braccia al petto, poi proseguì: «La signorina Lawlier non ha mai guidato una spedizione, né un’equipe, compito che all’inizio del pomeriggio avete affidato a me, se non erro.»

«Perché vi siete imposta» ribatté Ellen.

«Perché sono la più qualificata, e il dottor Fauerbach può confermarvelo.»

Il medico, chiamato in causa, lasciò perdere l’esame visivo delle uova e sollevò il capo. Si schiarì la voce, ma nei suoi occhi apparve una scintilla che svelò a Ellen come non si sentisse a disagio. Si stava divertendo, proprio come tutti i suoi colleghi durante le lezioni della Baker. Avvertì montare la rabbia.

«La professoressa Baker ha ragione, dottoressa Holmes. La vostra amica potrà anche essere una valida studentessa, e non dubito delle motivazioni che, oltre alla vostra insistenza, hanno convinto il decano ad annetterla all’equipe… Tuttavia, ho avuto modo di lavorare con la professoressa Baker in passato, e so che il suo approccio, seppure rude, è appropriato per il tipo di ricerca che stiamo svolgendo.»

Quanti paroloni per leccarle il culo, pensò Ellen.

Stava per ribattere, quando tutti furono attratti da un rumore alle loro spalle. Nel corso della discussione, si erano allontanati dal primo tavolo da lavoro, quello su cui giaceva la carcassa, ma pur senza vederlo ciascuno di loro riconobbe il crepitio di un guscio rotto.

Cinque paia di occhi si concentrarono sulla creaturina che stava nascendo. Una zampa palmata si fece largo tra le crepe del guscio, riversando fuori un liquido amniotico denso e giallastro. Ellen sporse il collo per avvicinarsi all’essere, ma la mano di Fauerbach si posò sulla sua spalla per impedirglielo. Subito dopo, capì che qualcosa non andava.

L’uovo misurava venti pollici, ma la zampa che si era guadagnata l’uscita ne era lunga quindici, e continuava a crescere; quando finalmente si posò sul ventre della madre, era abbastanza grande da circondare l’altro uovo. Ellen mosse d’istinto un piede indietro, calpestando quello di Crown, che lasciò andare un gemito. A quel rumore, gli occhi della creatura neonata, ormai del tutto fuori dal guscio, scattarono su di loro.

Poi fu il turno del suo intero corpo.

Si lanciò su Fauerbach, il più vicino, ma il medico lo respinse con la lente di ingrandimento che teneva ancora in mano.

Nel laboratorio si scatenò il panico, perché la creatura non smetteva di aumentare di stazza.

Ellen si lanciò nel corridoio, seguita da Janet, che nella corsa sbatté contro un becher e si tagliò con il vetro. L’odore del sangue parve benefico per la rabbia della creatura, che si mosse ancora verso di loro. Ripresero a fuggire e, quando Ellen lanciò uno sguardo dietro di sé, notò che quell’idiota di Crown aveva lasciato la doppia porta spalancata. Imprecando si strappò via la mascherina, che le impediva di respirare regolarmente, e corse verso l’uscita.

Quando mancavano solo due svolte, una mano la afferrò e la spinse indietro, all’interno di una nicchia. Sentì il guanto rotto premerle contro il viso, e a malapena riconobbe Fauerbach. La testa era andata a sbattere contro il suo torace, ma Ellen non si lamentò del colpo: il cuore le martellava rapidissimo, trattenne perfino il respiro per evitare di essere udita. Dall’altro lato, nascosti in altre rientranze dei muri in corrispondenza delle porte, Ellen riconobbe Janet, Crown e la Baker.

Era così vicina a Fauerbach che avrebbe potuto sentire l’odore del suo dopobarba. Immaginò che fosse così, perché il tanfo che le arrivava alle narici nascondeva ogni altro olezzo. Avvertì il suono strascicato dei passi lungo il pavimento per un tempo che le parve infinito, prima di notare le quattro zampe della creatura che si muovevano lente, sollevandosi appena, ancora bagnate dal liquido amniotico. Chiuse gli occhi in preda al terrore, il tanfo mefitico sempre più vicino…

Poi passò. Non seppe come, né quanto ci mise, ma la prima cosa che avvertì fu la fine della presa di Fauerbach. La sua bocca ora era libera e lei espirò profondamente, tossendo perfino, e dal rumore proveniente dall’altro lato del corridoio comprese che anche altri avevano avuto la sua stessa reazione.

«È entrato in un laboratorio» mormorò Fauerbach. «Corriamo fuori.»

 

***

 

Ancora una volta, la sicurezza del Campus era stata allertata con solerzia. Per fortuna, a causa del suicidio di Proctor, nel Tyner Science Lab erano rimasti soltanto loro cinque, e questo aveva permesso alla professoressa Baker e al dottor Fauerbach di serrare la porta principale dell’edificio senza alcun tipo di rimorso; provvidenzialmente, i due uomini preposti al sorvegliamento del laboratorio A erano in cortile a fumare, e l’equipe aveva impiegato diversi minuti per convincerli che non stavano mentendo sulla bestia che li aveva aggrediti. Il gruppo aveva poi spiegato la situazione al resto delle guardie e al decano Miller, e insieme avevano deciso di imbastire una storia per gli altri residenti nel Campus, in modo da evitare scandali o richieste di spiegazioni. Che genere di spiegazioni avrebbero potuto dare, in fondo? Non avevano una risposta neanche per se stessi.

Nel giro di un paio d’ore, l’intero Tyner Science Lab era stato messo sotto osservazione e loro erano stati mandati a fare i bagagli per una nottata fuori dall’ordinario. Il decano, infatti, aveva insistito che fossero tutti riuniti nel Faculty & Graduated Residence, dove già dormiva Fauerbach; secondo Miller, sarebbero stati più al sicuro se fossero rimasti uniti. Un grande atto di empatia che nascondeva un misero piano: Miller voleva evitare che diffondessero informazioni, e il modo migliore e più rapido per farlo era rinchiuderli in un edificio mezzo vuoto, confinati su due piani e con un portiere pronto ad avvertirlo nel caso in cui uno di loro avesse tentato di uscire o di ricevere visite.

C’erano state delle lamentele da parte dei membri dell’equipe, ma tutte poco convinte; avevano ben altro nella testa. Ellen aveva dovuto attendere l’assegnazione della stanza prima di aprire di nuovo bocca, e l’aveva fatto solo per vomitare. Poco dopo, seduta sul pavimento dalla propria stanza e con una mano premuta contro la fronte, Ellen cercava di razionalizzare quanto accaduto.

La risposta data agli studenti, ai professori e a tutti gli altri lavoratori o abitanti del Campus era stata semplice, lineare e sotto ogni aspetto credibile: dei vandali erano entrati nel Tyner Science Lab, violando le misure di sicurezza, e questo aveva fatto imporre al decano Miller una chiusura completa dell’area. La carcassa era quella di un animale marino, niente di particolare, e il suicidio di Proctor era del tutto scollegato dal suo ritrovamento. In effetti, Albert Proctor stava passando un brutto periodo, aveva problemi sia in ambito accademico che personale, e questa era forse la sola verità in quell’ammasso di bugie: chi lo conosceva aveva affermato che Proctor fosse davvero sul punto di mollare il lavoro, dopo che il suo fidanzamento era stato sciolto proprio per via del suo grosso impegno all’università e di una spedizione in partenza della quale non aveva intenzione di fare parte.

Il suicidio del ricercatore era dunque archiviabile per Ellen, e d’altronde l’autopsia effettuata sul corpo non aveva dato indizi discordanti. Poteva inoltre togliere di mezzo l’idea dell’avvelenamento, poiché Proctor indossava guanti e mascherina mentre si toglieva la vita. Questo, tuttavia, poneva un altro quesito: perché?

No, si disse, doveva pensare ad altro, per esempio a come giustificare l’esistenza di quelle creature. Sperava che fossero state annientate dalle guardie, che perlomeno disponevano di armi. Ciò fece nascere un’ulteriore domanda in lei: se avesse avuto una pistola con sé, avrebbe sparato?

Neanche so come cazzo si usi una pistola, si rispose subito.

D’accordo, via il pensiero sulle armi e pure sul suicidio di Proctor. Cos’erano quelle creature e come erano finite nel Miskatonic River? Qualcosa le solleticò la mente, un ricordo che non riuscì ad acchiappare, ed era la seconda volta che accadeva dopo la loro fuga. Sospirò e si rimise in piedi, diretta verso il proprio letto.

A differenza dei suoi nuovi “compagni di dormitorio”, Ellen era potuta rientrare in fretta all’Upman Hall e prendere una camicia da notte e un cambio per il giorno dopo. A Janet e alla professoressa Baker, che dormivano sul suo stesso piano, erano state fornite delle vesti nuove dalla lavanderia dell’università, e così era stato per Crown, che ora alloggiava al secondo piano – gli uomini e le donne non potevano dormire in camere adiacenti nemmeno quando ne andava della loro sicurezza, constatò.

Si era addormentata da poco quando udì un tonfo sordo all’esterno. Scattò a sedere e accese l’abat-jour. Altri rumori si inseguirono nel corridoio.

Rumori di lotta, comprese.

Si alzò stando attenta a non produrre alcun suono, poi appoggiò l’orecchio alla porta. Sì, aveva ragione: qualcuno stava combattendo là fuori. Com’era possibile? C’erano solo Janet e la Baker sul suo piano, eppure…

Un urlo le fermò il cuore per un attimo.

Janet!

Fu sul punto di spalancare la porta e correre da lei, poi una sensazione di déjà-vu si impossessò del suo corpo. Arretrò tremando, continuando a sentire le urla disperate di Janet provenire dal corridoio, e avrebbe davvero voluto uscire ad aiutare l’amica – ma come? – e avrebbe davvero desiderato mettersi tra lei e ciò che minacciava di farle del male, una bestia i cui suoni rauchi si facevano spazio nella sua testa, riecheggiando furiosi.

Invece continuò ad arretrare fino al muro, gli occhi fissi sulla porta, e scivolò lungo la parete con le mani premute contro le orecchie.

Un urlo, ancora una volta di Janet.

Un urlo più disperato che mai.

Un urlo spezzato a metà.

   
 
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