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Autore: Adeia Di Elferas    30/04/2023    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Michelotto camminava con passo pesante, quasi con riluttanza, trovando molto fastidiosa la piena luce del sole di giugno che gli colpiva il volto. L'estate era arrivata con violenza, a Roma, rendendo le strade ancor più sporche e puzzolenti, e scaldando anche gli animi più tranquilli.

Anzi, al Corella pareva che quell'afa improvvisa avesse fatto inceppare anche la mente del suo Cesare, che giusto quella mattina, gli aveva chiesto di 'occuparsi' di Troches, il vecchio segretario del papa, ormai noto spergiuro.

Miguel gli aveva chiesto molto chiaramente se dovesse ucciderlo e lì per lì il Duca era parso perplesso, quasi sul punto di dire di no. Al che l'uomo stava per ribattere aspramente – cosa che non faceva mai col Borja – chiedendogli che altro si potesse intendere, con quell'ordine.

Di punto in bianco, Cesare aveva scosso la testa e aveva esordito: “Certo che lo ucciderai. E io voglio vedere.”

La logica, stanti anche i motivi che stavano per portare Francisco Troches alla morte, avrebbe detto di giustiziarlo in pubblico, o, quanto meno, di rendere noto a tutti il come e il perché sarebbe stato ucciso. Invece il Valentino aveva fatto pressione affinché il tutto avvenisse in una torre di sua conoscenza, a Trastevere. E lì si stava recando il Corella.

Nel momento in cui arrivò a destinazione e si fece riconoscere dalle quattro guardie che presidiavano l'ingresso, Michelotto iniziò subito a sentire i lamenti e il pianto dirotto del condannato.

Man mano che saliva le scale della torre, iniziò a sentire anche le parole di Cesare, che l'accusava di essersi appattato coi francesi, di aver fatto da delatore e, soprattutto, di aver tradito la fiducia di un 'vecchio' quale era il papa.

Francisco, in tutta risposta, piangeva e gridava, gridava e piangeva, disarticolando le parole e fondendo i suoi respiri affannosi a gemiti di puro panico.

“Dovevi pensarci prima – stava dicendo il Valentino, quando Miguel arrivò nella stanza che stava fungendo da patibolo – adesso è tardi. Non dovevi metterti a chiacchierare coi francesi... Che ti importava, dei nostri maneggi con la Spagna? Chi ti pagava? Cosa te ne veniva?”

Il segretario pianse ancor più forte, riuscendo appena a dire che lui non aveva fatto nulla, ma il Duca, apparentemente annoiato, agitò una mano per farlo tacere e si rivolse direttamente all'amico.

“Meno male che sei arrivato...” gli disse, sollevando un sopracciglio: “Non ne potevo più di tutta questa pantomima. Fai quello che devi.”

Michelotto esitò appena un istante e poi, facendo quello che gli riusciva meglio, ossia uccidere, si avvicinò veloce al Troches, lo prese per il collo e strinse, a mano nude, finché non lo sentì morire sotto alle sue dita.

Lasciò cadere il cadavere e poi tenne lo sguardo basso, chiedendosi che uomo fosse Cesare, che amico fosse, che cosa avesse nel petto al posto del cuore per costringere lui a occuparsi di tutte quelle cose, invece di farlo in prima persona, come sarebbe stato giusto per un uomo onorevole.

“Bene.” sussurrò il Duca, dedicando appena uno sguardo distratto al corpo del Troches: “Oggi stesso firmerò i documenti per elevarti signore di Montegridolfo.”

Il Corella si accigliò: non si era parlato di riconoscimenti, per quell'uccisione. Anzi, il Borja non l'aveva mai ricompensato specificatamente per nessuno degli omicidi che gli aveva chiesto di compiere per lui... Che fosse finalmente sorta in lui un po' di vergogna, per il modo in cui a volte lo trattava, ossia quasi come un servo?

“E domani farò in modo che mio padre ti conceda anche l'ufficio di Corte Savella.” sussurrò il Duca: “Credo che sia adatto alle tue capacità.”

Michelotto si accigliò. Alla Corte Savella si amministrava, in parte, la giustizia. Si trattava di una sorta di tribunale – dai processi molto sommari e dalla pena spesso già scritta ancor prima del loro inizio – con annesse carceri.

“Anzi – commentò Cesare, andando verso la porta, facendo un cenno affinché l'amico lo seguisse fuori – penso non sarebbe una cattiva idea far esporre dalla torre Savella proprio il corpo di questo infame... Farebbe capire a tutti che non scherzi.”

Il Corella fece una smorfia, che avrebbe voluto essere un sorriso, e non disse nulla. Come sempre, malgrado tutto, era bastato che il Valentino gli posasse una mano sulla spalla e avvicinasse il viso al suo con fare complice, per fargli dimenticare ogni amarezza e fargli accettare ogni sua decisione e disposizione.

 

Benché fosse tornato a Castello da pochissimo, Fortunati era già ripartito per Firenze, per preparare il terreno a Caterina, in modo da permetterle di recuperare Giovannino senza correre grossi rischi.

Anche se Lorenzo era ormai morto e sepolto, sia il piovano, sia la Tigre, sapevano che il piccolo Medici avrebbe potuto far gola anche ad altri soggetti, e dunque era fondamentale essere il più possibile cauti.

Così da qualche sera, la Leonessa aveva chiesto ancora a Galeazzo di farle un po' di compagnia davanti a un calice di vino. Faticava a prendere sonno, da sola, e di rado aveva voglia di occuparsi di altre cose, men che meno passare del tempo con Pier Maria che dormiva o – anche se un po' se ne vergognava – con Bernardino, che, dopo poco, diventava per lei difficile da gestire, non perché il ragazzino fosse particolarmente irrequieto o scontroso, ma perché mai come quando si sentiva sola la metteva in difficoltà riscontrare in lui tutte le somiglianze che c'erano con Giacomo e, a tratti, con Tommaso Feo, di cui non aveva più avuto notizie da anni.

Galeazzo si dimostrava ogni volta una presenza tranquillizzante, pacata e attenta. Caterina aveva cominciato a parlare con lui di qualsiasi argomento, prediligendo la politica e la guerra, e il giovane non si era mai azzardato a fare domande che la mettessero in difficoltà.

Solo quella sera, mentre sorseggiavano assieme un boccale di birra – avendo finito momentaneamente le più costose scorte di vino – il Riario si avventurò in un campo che fino a quel momento non aveva nemmeno osato sfiorare.

“Mi avete parlato a lungo dell'importanza di non lasciare in vita i traditori – disse, come preambolo, pulendosi con il dorso della mano il labbro superiore – e sono d'accordo con voi, senza dubbio... Solo... Mi chiedevo: come mai non avete ucciso anche i miei fratelli, Ottaviano e Cesare, dato che anche loro si erano macchiati di tradimento?”

La donna, che, in effetti, era stata la prima, quella sera, ad affrontare quell'argomento spinoso, non poté tirarsi indietro dal dare una spiegazione, per quanto parziale: “Forse avrei dovuto, ma versare il sangue dei propri figli è sbagliato, quale che sia il motivo che porta a farlo.”

Il Riario, annuendo appena, si trovò a commentare, per stemperare un po' la tensione: “Se ci fosse Sforzino, direbbe che nella Bibbia è pieno di genitori che sacrificano i figli...”

“Se è per questo, nella Bibbia è anche pieno di...” iniziò a dire la Sforza, ma non terminò la frase, perché, nel silenzio quasi perfetto della notte, sentì una lontana eco di zoccoli e, teso come la corda di un arco, saltò subito in piedi e andò alla finestra, per vedere chi stesse arrivando.

Mentre raggiungeva la finestra, però, la sua mente era distratta, riportata al passato dalla domanda del figlio. Solo riconoscere lo stile di cavalcata un po' incerto di Francesco le permise di accantonare il tutto, almeno per il momento, e concentrarsi di nuovo sul presente.

“Scusami...” disse, finendo con un sorso la sua birra e avvicinandosi al Riario, per mettergli una mano sulla spalla: “Sta tornando Fortunati e... Non vorrei sia successo qualcosa di brutto, per essersi deciso a tornare a un'ora così tarda...”

Galeazzo le diede ragione, offrendosi di accompagnarla alla porta, per sentire che avesse da dire il piovano, ma la donna fece subito segno di no.

Anzi, dopo un brevissimo tentennamento, chiese: “Ti spiacerebbe andare alla porta al posto mio e dire a Fortunati di raggiungermi in camera? Così non ci disturberà nessuno...”

Detto fatto, la Tigre si ritirò in stanza e attese una manciata di minuti appena, prima di vedere la porta spalancarsi e il piovano far capolino.

“Che succede?” gli domandò, senza lasciargli nemmeno il tempo di un saluto.

L'uomo, mordendosi il labbro, allargò le braccia, e poi, dopo aver chiuso la porta con attenzione, rispose, con tono disarmante: “Niente, va tutto bene... Avevo solo voglia di vederti e non mi andava di aspettare l'alba per partire.”

Sentendo di colpo tutta la tensione che era salita all'improvviso andare a spegnersi altrettanto repentinamente, la donna si mise a sedere sul letto, le spalle un po' curve e le mani in grembo: “Che diamine...” soffiò: “Avresti potuto farti anticipare da un messaggio...”

“Non credevo di spaventarti, arrivando stasera...” si difese lui, grattandosi appena la nuca e poi, con un mezzo sorriso, chiese: “Posso almeno darti un bacio?”

Sciogliendosi molto più di quanto avrebbe voluto, Caterina non si sottrasse a quella richiesta e, anzi, trovò piacevole l'odore di polvere e cavallo che l'uomo aveva addosso, sintomo di un viaggio percorso in fretta e su una strada resa secca dal sole di quei giorni.

“Quindi è tutto a posto, a Firenze? Non ci sono problemi, per andare a prendere Giovannino?” si informò lei, dopo avergli tolto con cura il mantello da viaggio e avergli messo a disposizione la sua bacinella d'acqua aromatizzata, per sciacquarsi il viso e le mani.

L'uomo annuì, mentre approfittava di quel rinfresco, e poi commentò: “Te lo avrei portato io direttamente, ma so che tieni a farlo di persona.”

“Infatti.” ammise lei, che, memore delle promesse fatte al suo figlio più piccolo, teneva particolarmente a far sì che il bambino si creasse il ricordo della madre che, come giurato, lo andava a recuperare per tenerlo poi con sé: “Quindi, quando potrò andare al convento?”

A quella domanda diretta, il piovano si irrigidì per qualche secondo, abbastanza per far sì che la Sforza capisse che qualcosa non andava proprio bene come egli le voleva far credere.

“Sarà meglio aspettare qualche giorno ancora...” prese tempo lui.

“E perché?” la Tigre, porgendogli un telo per asciugarsi, evitava di guardarlo in volto, fingendo di non essere particolarmente tesa.

Con un respiro profondo, il fiorentino si asciugò con calma e poi spiegò: “A Firenze sono attesi proprio in questi giorni sia i soldati del Gonzaga, diretti a Pisa, per far fronte comune coi fiorentini, sia gli uomini di re Luigi, per lo stesso identico motivo... Non vorrei che ci fossero dei tumulti o che, per qualche motivo, qualcuno potesse prenderti di mira...”

La Sforza, che si era aspettata dei motivi molto più gravi, si permise di rilassarsi e, anzi, con giovialità, ribatté: “La Francia aiuta Firenze contro Pisa, proprio mentre il papa aiuta Pisa contro Firenze... Sarà divertente vedere il pontefice restare seduto per terra, quando re Luigi metterà in chiaro chi comanda! E, a dirla tutta, è un gran sollievo che il Gonzaga si sia schierato tanto apertamente... Sapevo già che poteva esserci amico, ma ora ne ho la conferma.”

Felice che la donna l'avesse presa bene, Francesco si rilassò a sua volta e, con un sorriso un po' imbarazzato, chiese: “Potrei mangiare qualcosa? Sono partito senza cenare...”

“Qui sei come a casa tua, non devi nemmeno chiedere.” assicurò la Leonessa, dandogli un rapido bacio, quasi a sottolineare le sue parole.

 

Come sempre accadeva in quei casi, la giornata era stata pressoché inutile e le chiacchiere davvero interessanti si sarebbero fatto solo a tarda sera, davanti a un buon calice di vino. Sua moglie Isabella poteva prenderlo in giro quanto voleva, poteva sminuirlo e dirgli che non capiva nulla di politica, ma il Marchese di Mantova conosceva molto meglio di lei gli uomini e, in particolare, i signori avvezzi alle armi.

Per quel motivo, quando ricevette un invito ufficioso per andare a sorseggiare qualcosa assieme con La Trémouille, al Trivulzio e a Ercole Este, accettò all'istante, sicuro che il tavolo attorno a cui si sarebbero seduti a bere vino, sarebbe stato il vero tavolo delle trattative.

Reggio Emilia si stava dimostrando per loro un posto adatto a quel genere di incontri. Quasi ovunque c'erano locande tranquille, pronte addirittura a chiudere i battenti, se ben pagate, pur di lasciarli parlare in pace, senza testimoni sgraditi. Quella sera, su indicazione del Trivulzio, che sembrava il più a proprio agio in quella città, i quattro condottieri si trovarono in un'osteria affittata ad hoc e, ancor prima che fossero tutti seduti, l'oste aveva già portato loro non solo caraffe colme del suo vino migliore, ma anche del brasato e del brodo in cui navigavano degli strani maccheroni che sembravano ripieni, il cui profumo fece quasi girare la testa al Gonzaga, che si riempì subito una ciotola e, senza troppa creanza, impugnò il cucchiaio e cominciò ad assaggiare.

“Sono felice di vedere che la recente morte di vostra sorella, Madonna Chiara, non vi ha tolto l'appetito...” disse La Trémouille, con un che di aspro nel suo italiano dal forte accento d'Oltralpe.

In effetti la sorella del Marchese era morta abbastanza all'improvviso giusto pochi giorni addietro, e Francesco aveva avuto la notizia solo quella mattina. Forse, pensò con rancore, il francese sperava di essere il primo a dargli la notizia, tanto per renderlo più instabile. La realtà era che, oltre a esserne già informato, per il Gonzaga non si era trattato di una notizia così sconvolgente nemmeno quando l'aveva appresa appena dopo l'alba.

Chiara aveva appena un paio d'anni più di lui, ma non erano mai stati molto legati, sia perché da bambini erano stati cresciuti in due modi troppo differenti, sia perché lei si era sposata a diciotto anni non ancora compiti con Gilbert de Montpensier, andando presto a vivere con lui in Francia e restandoci anche una volta rimasta vedova.

“I morti sono morti – commentò quindi, secco, il Marchese – ma noi che siamo vivi dobbiamo mangiare...”

“Mio genero non avrebbe potuto esprimersi meglio.” lo spalleggiò l'anziano Duca di Ferrara: “Non sarà un oratore, ma è un uomo intelligente. Altrimenti non gli avrei mai concesso di sposare mia figlia Isabella...”

La Trémouille incassò bene quelle parole e il Trivulzio fece un sorriso per cercare di conciliare gli altri uomini presenti. Gli premeva che trovassero qualche accordo, che lo aiutassero a costruire una rete fitta, che permettesse tanto a lui, quanto al suo amico Troilo, che di lì a poco, sperava, si sarebbe insediato in pianta stabile con la moglie a San Secondo, di avere un'assicurazione per il futuro.

Da quel momento in poi, complice il buon vino e il cibo, il mantovano, il ferrarese, il milanese e il francese cominciarono a discutere in modo animato, ma pacifico.

Parlarono diffusamente degli ultimi eventi legati ai dissidi tra il papa e il re di Francia, tra Firenze e il papa, tra i francesi e gli spagnoli, tra i veneziani e tutti gli altri. Si confrontarono anche sulle notizie controverse riguardo le mosse di Gaspare Sanseverino, che, si diceva, stesse continuando a lasciare L'Aquila per poi rientrarvi, a seconda di come si comportavano i nemici. Si dava la colpa proprio a lui e ai suoi uomini della diffusione di focolai di peste di quella zona. Che fosse davvero colpevole o meno, era impossibile dirlo, ma, di certo, sarebbe stato uno dei crimini che, a guerra finita, gli sarebbe stato imputato.

“E poi c'è quel manigoldo di Prospero Colonna...” fece a un certo punto Ercole: “Ma è vero che lui e Andrea da Capua hanno scacciato i francesi?

“Sì, eccome.” assicurò La Trémouille, sentendosi chiamato in causa: “Scacciati da Capua... S'è preso anche Sessa Aurunca, Pontecorvo e Raccoguglielma...”

“Quindi re Luigi che intenzio ha, adesso, riguardo Napoli?” chiese il Gonzaga, rammaricandosi di aver già dato fondo a tutta la pasta in brodo che era stata offerta dall'oste.

“Nell'interesse di tutti – rispose il francese, guardando gli altri a uno a uno – il re dovrebbe fare un passo indietro, a Napoli, e concentrarsi sul vero pericolo: il papa.”

“A mio avviso, lo sta capendo...” annuì il Trivulzio, soddisfatto della piega che stava prendendo il discorso: “Basti vedere come il re abbia mandato uomini in aiuto di Firenze, contro Pisa, esattamente il contrario di quel che ha fatto il papa.”

“Anche io ho mandato i miei uomini contro Pisa, per aiutare Firenze!” si infilò il Marchese di Mantova, affinché fosse chiaro che la sua fedeltà andava interamente alla causa.

“Sapete cosa sarebbe bello?” chiese Gian Giacomo da Trivulzio, reso un po' meno cauto dal troppo vino bevuto: “Che la Tigre di Forlì riprendesse in mano la spada. Se si mettesse al nostro fianco, ai Borja verrebbe un accidente! Sarebbe come combattere contro un fantasma!”

“Quella donna è finita, assieme all'epoca dei cavalieri senza macchia e senza paura...” commentò, amaro, l'Este: “Adesso, e non mi piace che sia così, badate bene... Adesso è tutto in mano ai soldi, agli intrighi e ai cannoni... Mio figlio... Mio figlio Alfonso... Passa le sue giornate a costruire anime di spingarde e a fondere palle per falconetti! Credete ne sia felice? Nemmeno un po': lo preferirei a cavallo, o con la spada in pugno... Ma il mondo appartiene ai giovani, noi siamo solo quattro vecchi che hanno fatto il loro tempo. Il più giovane di noi ha già passato i quarant'anni, mentre il più vecchio... Che Dio ci scampi, preferisco non pensarci.”

“Che voi sappiate, è vero che il primogenito della Tigre è qui in Emilia?” chiese, seguendo il filo dei suoi pensieri, il Gonzaga, che, per vari motivi, non avrebbe disdegnato un incontro con il Riario, giusto per sondare il terreno e capire che cosa la Sforza pensasse, al momento, del loro rapporto in termini di diplomazia e amicizia.

A rispondere fu il Trivulzio, con una gran voglia di sviare il discorso dai Riario: “Forse... Ma non credo che trovereste gran piacere, nel vederlo. Dicono che sia un uomo grasso e svogliato, dedito al vino e alle donne, e che con gli affari della madre c'entri sempre meno...”

“Allora, forse, farei meglio a cercare un contatto con la figlia della Tigre... Se non ho capito male, ha sposato il De Rossi, o mi sbaglio? Non è lontano da qui...” insistette Francesco.

Gian Giacomo si morse il labbro e scosse il capo: “Sì, ma adesso sono a Roma, anche se andaste a San Secondo, non li trovereste. Senza contare che Madonna Bianca è una donna, non è certo a lei che dovreste parlare di certe cose...”

“Se la figlia assomiglia alla madre, di certo questa Madonna Bianca sarebbe un'interlocutrice ottima, per parlare di guerra...” scherzò il La Trémouille, facendo poi un sonoro sbadiglio e dicendo, dopo un paio di brevi imprecazioni in francese: “Vi spiace se mi ritiro? È tarda notte e il vino è finito... Mi sembra che ci siamo chiariti su molte cose.”

Il Trivulzio colse l'occasione al volo ed esclamò: “Anche io trovo sia venuto molto tardi... Vi andrebbe di ritrovarci ancora qui, domani sera? Se anche voi vi fermerete per qualche giorno ancora, trovo che sarebbe piacevole intrattenerci come questa sera...”

Tutti accettarono e si alzarono da tavola quasi nello stesso istante. Pagò per tutti il Trivulzio e diede di nuovo appuntamento a tutti loro per la sera seguente.

“Accompagnatemi ai miei alloggi...” fece, un po' a sorpresa, Ercole Este, chiamando a sé il genero Francesco: “Così mi direte bene come sta mia figlia...”

Il Gonzaga, che tutto avrebbe voluto fuorché parlare di Isabella con il suocero, fece un sorriso spento con la sua bocca storta e accettò con finto entusiasmo, arrivando perfino a dire: “Con immenso piacere...”

 

Quella notte, infine, Caterina aveva accolto nel suo letto Fortunati senza più voler far menzione né del recupero ormai prossimo di Giovannino, né di qualsiasi altro argomento che avrebbe potuto portare tra loro un qualche screzio, seppur minimo. Voleva solo sentirsi in pace, almeno per qualche ora.

La notte era già pienamente estiva, e malgrado la finestra lasciata appena aperta, la Leonessa aveva fatto fatica a prendere sonno. Era un po' sudata e il corpo caldo di Francesco accanto a lei non migliorava la situazione. In più, se l'uomo sembrava aver trovato il modo sia per sopportare l'afa, sia per liberare la mente e addormentarsi in fretta, lei stava per ricadere nella consueta trappola che la portava a perdersi in orribili memorie del passato.

Sapeva che, in buona parte, la colpa era delle parole di Galeazzo, del suo innocente richiamarla alla morte di Giacomo Feo e alla sua vendetta tronca, che aveva punito tutti, anche gli innocenti, ma non i principali responsabili, ossia Ottaviano e Cesare. 'E in parte Bianca', aggiungeva continuamente, con cattiveria, la sua coscienza.

Concentrandosi su sciocchezze, ripetendo a memoria vecchie poesie, cercando di trovare nelle ombre un senso, alla fine la donna riuscì ad assopirsi. Tuttavia il suo sonno fu relativamente breve e tremendamente agitato.

Nel suo incubo era coperta di sangue caldo e denso, sotto di sé c'era un tappeto di cadaveri, non dissimile a quello su cui aveva davvero camminato la notte della sconfitta a Ravaldino, tuttavia ogni volto che calpestava, ogni osso che si rompeva sotto il suo passo, ogni viscere che scivolava sotto il suo peso apparteneva non ai soldati che erano morti per lei in battaglia, ma agli uomini, alle donne e ai bambini che aveva ucciso o fatto uccidere lei stessa.

La pioggia che cadeva dal cielo era rovente, rossa, ferrosa: sangue puro. Le impastava gli occhi, la bocca, le tappava il naso, la soffocava. Cieca, sorda e muta, Caterina sentì il fiato mancarle in modo insopportabile. Si portò una mano alla gola, si cercò le labbra con le dita, quasi a volerle aprire con la forza, per costringersi a respirare, ma più indagava il suo viso, più non sentiva altro se non il calore del sangue.

Si svegliò con sollievo, sudata fradicia e tachicardica. Le sembrava ancora di non riuscire a respirare: ogni volta che provava a riempire d'aria i polmoni, emetteva una specie di fischio, ma non aveva la sensazione di trarne beneficio.

Si alzò dal letto di corsa e, nuda com'era, andò alla finestra socchiusa e la spalancò più che si poteva, sporgendosi in fuori, per far sì che il fresco della notte le liberasse la gola.

Fortunati, svegliato da tanto trambusto, riuscì a tornare lucido solo nel momento in cui la donna si era messa con il ventre contro il davanzale, protratta verso l'esterno.

Spaventato, anch'egli saltò giù dal letto e la raggiunse, temendo, forse, che la Tigre stesse per compiere un gesto inconsulto.

La Leonessa, che stava tornando, lentamente, a respirare, lo guardò confusa, mentre lui la stringeva a sé, allontanandola con cautela dalla finestra spalancata. Negli occhi del piovano c'era una strana paura, mista a una grande tristezza, ma la Sforza non vide né l'una né l'altra cosa. In quel momento in Francesco vedeva solo una figura capace di alleviare almeno in parte il suo tormento.

“Confessami.” gli sussurrò, appena udibile.

“Cosa..?” domandò il fiorentino, sicuro di aver capito male.

“Sei un prete: confessami.” ribadì lei, questa volta con voce più ferma, quasi con rabbia.

A quel punto Francesco avvampò e poi, sempre tenendola stretta a sé, ribatté: “Io... Io non posso confessarti... Men che meno così...” aggiunse, indicando se stesso.

“Se non indossi i tuoi paramenti non sei più un prete?” l'attaccò allora lei, innervosita soprattutto dalla propria inquietudine e solo secondariamente dalla ritrosia del piovano.

“Caterina...” si schiarì la voce Fortunati, conducendola, intanto, verso il letto, affinché entrambi potessero sedersi e parlare più tranquillamente: “Noi due... Che diamine. Sono il tuo... Amante.”

“Lo sei da parecchio, ma fai ancora così fatica a dirlo...” lo sbeffeggiò lei, ma senza aggressività, solo a mo' di intercalare.

“Dico solo che... Farei fatica a sentire certe cose... Io... Anche se so com'è stato il tuo passato, io ora sono più coinvolto e...” cominciò a dire lui, senza più guardarla.

“Non ho certo intenzione di elencarti il nome di tutti gli uomini che ho avuto in vita mia – lo zittì lei, di nuovo con rabbia – ho fatto cose ben peggiori, che cedere a quel tipo di tentazione.”

Percependo il profondo bisogno della donna che amava di scaricarsi la coscienza, Francesco deglutì un paio di volte e poi disse: “Potrebbe essere che ciò che mi confesserai non sia... Io... Non tutti i peccati possono essere assolti da un prete come me. Per alcuni servono prelati molto più...”

“Mi basta che tu mi ascolti.” mise in chiaro lei, ancor più determinata: “Se non mi potrai assolvere, andrò all'inferno, non mi interessa. Ma ho bisogno di parlarne adesso.”

Il piovano tentennò un istante ancora e poi, con un profondo sospiro, si passò una mano sugli occhi, per svegliarsi del tutto e accettò: “Va bene. Prima, però, lascia che mi vesta e che... Devo prendere la mia stola, nella mia stanza.”

Quando Fortunati tornò in camera, trovò Caterina con indosso un abito da camera, intenta ad accendere qualche candela.

“Devo mettermi in ginocchio?” chiese lei, tra il serio e il faceto.

“Siediti qui.” l'invitò lui, sistemandosi a sua volta sul letto e picchiettando con la mano accanto a sé.

La Sforza eseguì e, dopo qualche frase di rito, Francesco chinò la testa e sospirò: “Ti ascolto.”

Da quel momento in poi, come un fiume in piena, andando completamente a caso, la Leonessa gli parlò di tantissime cose, degli uomini che aveva ucciso, di quelli che avevano cercato di uccidere lei, parlò di Girolamo Riario, di Cesare Borja, si incolpò per non aver punito i suoi due figli maggiori per la morte di Giacomo Feo, ma, di contro, si giustificò per quella scelta, facendo notare che, in fondo, era la loro madre. Raccontò i suoi incubi ricorrenti, la frequenza con cui Ludovico Marcobelli ancora visitava le sue notti, e poi si perse in un confuso resoconto delle sue notti di follia, sia di quelle in cui si chiudeva nelle segrete della sua rocca per portare alla morte prigionieri di cui non conosceva nemmeno il nome, sia di quelle – malgrado le promesse fatte prima della confessione – in cui si sceglieva degli amanti casuali, anche in questo caso ignorandone spesso il nome.

Raccontò della volta in cui aveva fatto a pezzi un uomo, avendo cura che restasse vivo il più possibile, per soffrire fino all'ultimo istante, e di quando aveva deciso di non ricondurre mai e per nessun motivo Bianca alla morte del suo secondo amatissimo marito. Parlò di quello che aveva provato nel vedere il corpo disfatto di Giacomo e, qualche anno dopo, quello di Manfredi. Confessò di aver provato un profondo rancore proprio verso Fortunati, malgrado sapesse bene che non avrebbe potuto far nulla per salvare il faentino.

Alla fine, stremata, mentre iniziava a far chiaro, la donna tornò a parlare di Girolamo Riario, del desiderio bruciante di ucciderlo che aveva provato e dell'inspiegabile senso di inferiorità e paura che glielo aveva sempre impedito.

Dopodiché, senza più forze, si asciugò le guance che, sporadicamente nel corso della sua confessione, si erano bagnate di lacrime, e chiese: “Credi di potermi assolvere?”

“Degli sbagli di cui mi hai parlato ce n'è qualcuno di cui ti penti?” chiese l'uomo, sforzandosi di essere ligio al dovere, senza farsi trasportare troppo dall'umana pietà che provava.

“Di molti.” ammise lei.

“E di questi molti di cui parli, se potessi tornare indietro, ne ricommetteresti qualcuno?” si informò il piovano, il crocifisso stretto in mano e gli occhi bassi.

La Leonessa deglutì e poi, trattenendo di nuovo il pianto, ammise: “Quasi tutti.”

“Io...” Francesco era in seria difficoltà, ma sapeva che la cosa migliore per Caterina in primis sarebbe stata seguire le regole, così sospirò: “Io ti assolvo per tutte quelle colpe di cui ti penti e di cui, coscientemente, non ti macchieresti più. Per tutto il resto, c'è tempo, e alla fine so che potrò assolverti anche dal resto.”

“Quanti pater e ave devo recitare?” chiese a quel punto la Tigre, moderatamente soddisfatta da quell'esito non del tutto negativo.

“Passa più tempo coi tuoi figli, anche con Bernardino, che ha bisogno di te più ancora di Galeazzo e Sforzino. Sii una buona madre per Giovannino, quando sarà qui, e una buona nonna non solo per Pier Maria, ma anche per la povera Cornelia.” rispose lui, baciando la stola e togliendosela: “Questo servirà più di cento pater e di mille ave.”

Caterina, colta da uno slancio di affetto e gratitudine, si protese in avanti e lo abbracciò. Il piovano, stanco, ma abbastanza felice per l'apertura della donna che amava, ricambiò la stretta con piacere.

“E tra un paio di giorni, se Scipione ci farà sapere che in città non ci sono più soldati di passaggio, ti accompagnerò a Firenze a riprendere Giovannino.” aggiunse Fortunati: “Siete stati lontani anche troppo tempo, non è giusto tenervi separati anche solo un giorno più del necessario.”

“Davvero?” chiese lei, senza fiato.

“Sì.” assicurò lui: “Credo sia la cosa di cui tu abbia più bisogno in assoluto, in questo momento. E poi sai che c'è scritto, nei Proverbi della Bibbia...”

Felice come non si sentiva da tempo immemore, la milanese, si trovò a piangere di nuovo, ma stavolta di gioia e, stretta al suo Francesco, chiese: “No, che c'è scritto?”

“Un'attesa troppo prolungata fa male al cuore – recitò il fiorentino, sorridendo – un desiderio soddisfatto è albero di vita...”

 

   
 
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