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Autore: Glenda    09/05/2023    2 recensioni
Firenze, primi duemila.
Artin ha trent'anni e già sa di vivere in un mondo ostile: padre in galera, madre in ospedale, lavoro intermittente e tre fratelli da mantenere, barcamenandosi ogni giorno tra assistenti sociali, bollette e microcriminalità dei quartieri popolari. Finché, il giorno in cui pensa di non farcela proprio più, un misterioso uomo che gli somiglia come un gemello gli propone un patto terrificante...
Questa è una storia d'ambientazione realistica ma dal tono magico-fiabesco, che riprende il filone tradizionale del principe e il povero e degli scambi di identità: ci sono protagonisti eroici, ottimismo, redenzioni inaspettate, gentilezza come se piovesse, e i miracoli accadono. Anche se lo sfondo è cupo. Anche se il mondo è pieno di falsità, macchinazioni, apparenze e ferocia nascosta.
Dunque astenersi i non amanti dei buoni sentimenti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Vittorio non riusciva a capire quale fosse il rapporto che lo legava ad Artin. L'unica cosa che gli era chiara era che quell’uomo sembrava avere una specie di dote per mettere gli altri di fronte non tanto a ciò che erano ma a ciò che avrebbero voluto essere. Aveva fatto così con Rebecca, lo aveva fatto con lui e certamente aveva fatto con Linda.

Qualcosa lo rendeva simile ad un alito di vento, che passa tra i capelli delle belle donne e tra le gonne delle puttane, accogliendo tutto senza sporcarsi mai, ed inesorabilmente quel vento sollevava i veli sotto i quali aveva nascosto, consapevolmente o meno, i propri sentimenti.

Aveva già vissuto tutto questo, e lo aveva sotterrato così bene da impedirsi di farlo venire a galla, ma nel sentire Artin parlare, nel sentire Artin gridare, arrabbiarsi o gioire, l'ombra di lei si materializzava ancora nella sua stanza, bianca e nuda, col suo sorriso senza perdono.

- Mi chiamo Elettra, ma tu chiamami “Libertà”. -

Libertà era la parola di Artin, ed era anche quella dell'unica donna che aveva amato.

- Io sono aria, Vittorio. Posso conformarmi al contenitore che mi accoglie, ma sempre aria resto. Per stare accanto a me, si deve essere liberi. -

Lui non era mai stato acqua o aria, semmai era stato argilla: si era lasciato plasmare dagli altri in una forma, ed era rimasto in quella, perché non aveva saputo tornare indietro. Cambiare avrebbe voluto dire bruciarsi nel fuoco.

- Vittorio, l’amore, quando è Amore, è senza cervello, ed anche senza cuore. L’amore è egoista e taglia come lama. Forse il mio modo d’amarti è impuro, ma non conosco altre forme d’amore. Amarmi e aver cura di me sono due cose che non puoi fare insieme, e che non posso lasciarti fare. Tu sei capace di grande affetto, ma non di grande amore, ed io ho bisogno di grandi amori per esistere. -

Dove aveva messo quella forza?

Dove aveva messo la passione e il dolore che servono per vivere e morire?

Forse li aveva persi a 15 anni, quando suo padre aveva fatto a pezzi la sua chitarra sfasciandola sul pavimento, e non li aveva più ritrovati.

Graziano De Nistri non sopportava che qualcuno della famiglia prendesse una qualsiasi iniziativa da lui non autorizzata. E soprattutto non sopportava che suo figlio potesse suonare in una band con quei debosciati dei suoi amici. Vittorio aveva osservato i frantumi del suo strumento, così innocenti da sentirci ancora dentro il gemito del legno che si spezza, e si era messo a piangere. Poi si era scagliato contro suo padre gridando che "non poteva decidere dalla sua vita". Ed era stato allora che lui gli aveva detto: "Ricordati che un uomo può fare ciò che vuole se è abbastanza intelligente da non farsi scoprire. E tu non lo sei stato."

In quella breve frase era morto il suo unico slancio di ribellione adolescenziale.

Col tempo aveva fatto tesoro del consiglio: era diventato talmente bravo a mentire da apparire imperscrutabile ai suoi stessi genitori. E a poco a poco aveva smesso di arrabbiarsi in modo brusco, o ridere in modo sfacciato e spontaneo, perché la gente - la “sua“ gente - amava le mezze misure: erano più rassicuranti.

Dopo la laurea, il padre lo aveva portato con sé in viaggi d'affari, incontri con "gente che conta" e occasioni mondane: lo considerava il figlio perfetto, era orgoglioso di presentarlo agli altri e di affidargli incarichi di responsabilità. La sua famiglia, la gente che frequentava, quelli che per gusto di forma chiamava "amici" non conoscevano di lui niente di più che l'immagine che voleva dare, e lui dava agli altri esattamente quello che si aspettavano di ricevere. Era così che era iniziata la scalata al potere.

Ma poi, era arrivata lei e gli aveva parlato delle rose.

Ed aveva illuminato tutto.

- I miei nonni erano giardinieri: mio nonno era specializzato in rose. Rose dei colori più improbabili, rose di due colori diversi, rose come non immagineresti mai. Mio nonno era un genio e un folle. Uccise l’amante di mia nonna e poi si impiccò. -

Ed aveva distrutto tutto.

- Ci pensi? Mio nonno. Un mite floricoltore. Sparò ad un altro uomo per amore. Mia nonna ha vissuto nell’odio per lui e nel rimpianto per quell’amore. Quale dei due sentimenti stupisce di più? L’odio o il rimpianto? Un uomo che uccide per una donna, senza secondi fini, senza brama di denaro, senza sperare di farla franca è una persona estremamente egoista… ma quale donna, nel fondo più oscuro di se stessa, non trova appassionante che un uomo uccida e muoia per lei? -

Aveva ricoperto ogni cosa con petali di rose.

- Mia nonna, per tutta la vita, nel giorno dell’anniversario ha portato sulla sua tomba una rosa blu, un fiore che rappresenta l’ “amore imperfetto”. Sai una cosa? A mia madre tu piaceresti tanto. Lei si preoccupa sempre degli uomini che frequento, teme che siano come suo padre, che coltivino “amori imperfetti”. Certamente vedrebbe in te tutte le cose belle che hai: la sensibilità, la dolcezza, la premura per il futuro e l’attenzione per il presente. E vorrebbe che ti sposassi. -

Aveva trafitto ogni cosa con le spine delle rose.

- Ma io non posso farlo. Io non posso sposarmi, avere dei bambini, portarli in vacanza al mare, andare a cena dai parenti. Io non posso mettere un bel vestito e farti fare bella figura in società. Io non posso essere la donna che vorresti. Perché io l’ho vista, la rosa blu di mia nonna… ed è la cosa più bella che si possa vedere: il suo odore non si avverte con i sensi, ma con gli occhi. Ti entra dentro e ti fa perdere la testa. Ed io l'ho persa, infatti. Io sono imperfetta. -

 

Aveva conosciuto Elettra negli anni ottanta. Allora aveva la stessa età di Artin, eppure, proprio come Elia, aveva già una posizione di prestigio. Si erano incontrati in una chiesa, durante al matrimonio di chissà che lontano amico o parente: erano talmente tanti i riti mondani a cui veniva invitato e a cui non poteva dire no, che davvero erano tutti un fascio nella sua memoria.

Però ricordava bene lei: in tempi non sospetti, ostentava numerosi tatuaggi, che non si era preoccupata di tener nascosti, anzi, che mostrava apposta, attraverso una maglietta che lasciava la schiena in buona parte scoperta.

Una donna - che poi avrebbe saputo essere sua madre - la stava rimproverando; dal suo angolo non era riuscito a sentire cose dicesse, ma aveva sentito bene la risposta di lei, anche perché l'aveva deliberatamente pronunciata in modo che fosse capita.

- Guarda che Dio ci ha creato nudi! -

Forse era stata la noia di quel pomeriggio afoso, forse il fatto che la gente che aspettava sul selciato di quella chiesa non aveva granché da dire, o forse solo la bellezza di quella ragazza dai capelli rossi, ma Vittorio aveva riso.

Lei aveva colto quella risata, e gli aveva lanciato un'occhiata d'intesa, mentre sua madre continuava:

- Se vai a casa di una persona importante, ti devi vestire bene… e allora, nella casa del Signore… -

- Quando vengo a trovare papà, mi faccio forse la piega? Mi metto l'abitino della festa? Che lo chiamiamo “padre nostro” a fare, se poi dobbiamo comportarci con Dio come ci comporteremmo con una persona che nemmeno conosciamo? In casa di un papà, ci si deve vestire come si sta meglio, anzi, non ci si deve neppure pensare. Ma tu vuoi fare piacere alla gente… e allora basta essere chiari: dimmi “il modo in cui ti sei vestita scontenterà gli sposi”. Lo capisco. Sono nata per scontentare. Ma non tirare in ballo Dio, che non c'entra niente. -

Aveva fatto un discorso accalorato, eppure non c'era nessuna nota di rabbia nella sua voce: sembrava che si divertisse, che stesse solo ripetendo un giochino a cui era abituata.

Durante la celebrazione non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Poi, d'un tratto, la vide uscire dalla chiesa: non resistette e la seguì.

Fuori, la trovò che fumava una sigaretta, seduta sul bordo di un'aiuola. I capelli rossi brillavano al sole, e le sue spalle scoperte mostravano i segni di un'abbronzatura presa senza curarsi di abbassare le spalline del costume. Era davvero fuori posto, lì: aveva ragione sua madre, nel dire che non sembrava vestita per un matrimonio. Jeans ed anfibi, e quella schiena scoperta… chiunque l'avrebbe trovata volgare, eppure aveva il viso meno volgare che avesse mai visto. Infantile, acqua e sapone. Sembrava un'adolescente nel corpo di un'adulta.

- Ciao. – gli disse, facendo cenno con la mano.

- Ciao. – fece eco lui.

- Non le sopporto, le cerimonie. Sono così finte. Lo sai che lei non è nemmeno credente? E lui va a messa solo per Natale. Ma si sposano in chiesa perché fa più scena. Mi fa rabbia. -

- Tu sei credente? -

Non sapeva come gli venisse così spontaneo darle del tu, e farle una domanda tanto personale. Succedeva, e gli piaceva come gli fosse facile.

- Sì. – rispose lei – Ma non nel modo che ci si immagina quando lo si dice. Sono credente perché voglio credere che siamo destinati a durare. Sono credente perché mi piace l'idea di un Dio che ti comanda di amare tutti, ma non ti spiega come. Ti dice semplicemente di farlo, e non giudica come lo fai, se la tua intenzione è vera. Tutte le altre cose sono stronzate e non mi interessano. La chiesa ha costruito monumenti ingombranti su fondamenta semplici. Le fondamenta non reggono e crolla tutto: tutto quello che fanno diventa un teatro di burattini. Ed io mi annoio, perciò. Anche tu ti annoiavi? -

- No. Sono uscito per seguire te. -

Non era mai stato così sfacciato: aveva iniziato a corteggiarla in un modo che non gli aveva insegnato nessuno. Proprio come aveva detto lei.

Si erano innamorati, e l'amore li aveva annullati completamente. Per mesi avevano quasi scordato le proprie identità, avevano messo da parte le proprie singole vite. Era stato naturale, finché l'amore era stato solo amore, ma poi l'amore aveva dovuto tornare a intrecciarsi con la vita, e la vita di Vittorio de Nistri non era la vita di Elettra.

Elettra immaginava la vita tutti i giorni, ogni mattino si svegliava e diventava quello che aveva voglia di essere. Non poteva averla con sé ad una festa, non poteva portarla a cena dalla sua famiglia: la scenetta che aveva visto sulla porta della chiesa con sua madre, si ripeteva con lui, ogni volta. Avrebbe voluto che l'amore bastasse, ma non bastava. Avrebbe desiderato seguirla, diventare anche lui aria per mescolarsi con lei, ma lei non lo aiutava. Avrebbe voluto che lei gli tendesse la mano, che lo guidasse a piccoli passi nel suo mondo, invece per Elettra c'erano solo il tutto o il nulla, il subito o il mai. Quelle mezze misure rassicuranti in cui aveva imparato a stemperare la vita, erano le radici che lei non voleva mettere. Elettra era troppo libera per lui, e lui aveva imparato che troppa libertà era pericolosa.

Ricordava ancora come fosse ieri il giorno in cui gli aveva chiesto: “uccideresti per me?” ed era rimasta stupita che lui avesse esitato a risponderle. Quello era stato il momento in cui entrambi avevano pensato di non amarsi abbastanza.

Forse non avevano capito l'amore, non avevano saputo curarlo e farlo crescere, lui credendo che la sua libertà significasse disamore, lei pensando che venire incontro all'altro fosse una distorsione dell'amore.

Una mattina, se ne era andata.

Aveva lasciato solo una rosa sul letto.

Non si era mai chiesto se lei avesse desiderato che lui la cercasse. Non si era chiesto se fosse anche quello un modo di nutrire l'amore. Eppure avrebbe potuto farlo: ne aveva i modi, i mezzi. Avrebbe potuto trovare dove stava, raggiungerla sotto la finestra, magari con un mazzo di rose blu. Scegliere l'amore imperfetto. Ma aveva avuto paura. Paura di perdere quei giorni in un tentativo di renderli duraturi. Paura di non essere in grado di trasformarsi, e finire per cercare di trasformare lei. Paura di tutta quella libertà, che non è sempre una cosa bella. Paura di non essere in grado di uccidere per lei.

Aveva deciso di perderla. Non aveva scelto lei, lo aveva fatto lui.

Poi aveva chiuso tutto in una scatola e l'aveva sigillata bene.

Dentro la stessa scatola aveva costretto Elia e la sua famiglia: un perverso surrogato dell'amore.

Elia aveva deciso di rompere il coperchio. Elia ne era fuori, adesso.

Elettra.

Elia.

Artin.

Ciascuno di loro, alacremente, con cattiveria, aveva rimesso insieme, scheggia dopo scheggia, i pezzi di quella chitarra rotta.

Ora, nulla sarebbe più tornato a posto.

 

  
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