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Autore: Adeia Di Elferas    14/05/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Te l'ho già detto: sono più tranquillo, se ti fai accompagnare da Scipione...” ribadì una volta di più Fortunati.

“Non pensi che saprei difendermi anche da sola?” chiese Caterina, volendo fare una battuta di spirito, mentre mangiava un altro pezzetto di formaggio.

L'uomo non colse l'intento ironico della Sforza, e si adombrò. Improvvisamente anche la colazione abbondante che aveva davanti non gli sembrava più molto attraente.

“Che ho detto..?” domandò lei, percependo il suo repentino cambio d'umore.

“Nulla...” scosse la testa lui, afferrando, apposta, un po' di pane nero e iniziando a mangiarlo, per dissimulare il suo nervosismo.

In effetti da quando, un paio di notti prima, la Tigre si era confessata con Francesco, la donna aveva la sensazione che il piovano fosse molto guardingo nei suoi confronti. Anche se in un primo momento non sembrava essere rimasto colpito più di tanto dai suoi racconti – molti dei quali erano a lui già noti da resoconti di terzi – nel giro di un paio di giorni il suo atteggiamento aveva cominciato a tradire un certo disagio.

“Perché fai così?” indagò a quel punto la Leonessa, spaventata all'idea che Fortunati potesse allontanarsi pian piano da lei: “Non dirmi che è per quello che ti ho raccontato... Per la maggior parte, erano cose che sapevi già...”

Il silenzio del fiorentino fu più eloquente di tante parole. Anche se durò qualche secondo appena, per Caterina fu sufficiente per richiamare alla mente lo stato d'animo di Giovanni Medici nel momento in cui si era reso concretamente conto di cosa fosse capace.

Presa da una sorta di calmo panico, sicura che a breve avrebbe visto Francesco allontanarsi per sempre da lei – dato che, malgrado tutto, non riusciva a ritenerlo un uomo dalla stessa tempra del Popolano – la Sforza si schiarì la voce e chiese: “Hai paura di me?”

Finalmente Fortunati parve riaversi e, scuotendo con forza il capo, smise definitivamente di mangiare e rispose: “No.”

“Stai mentendo.” si ostinò a dire lei, assecondando una reazione un po' infantile, ma che non sapeva controllare: “Hai paura di me e adesso dirai che è stato tutto uno sbaglio e che hai bisogno di startene un po' per conto tuo a pregare o a curare gli affari di Cascina...”

“Sono entrambe cose che dovrei fare – ammise lui, deglutendo – ma preferisco stare qui con te.”

“Quindi non hai paura?” insistette lei, appena più morbida.

“Non più.” soffiò lui: “Ne ho avuta, e molta, per esempio quando è stato ucciso Manfredi e temevo che tu potessi ritenermi in qualche modo responsabile, arrivando, magari, perfino a uccidermi...”

Caterina si morse il labbro, quasi vergognandosi all'idea che, in effetti, era stata così furiosa con il piovano che, se nei giorni immediatamente successivi alla morte del faentino le fosse capitato tra le mani, forse avrebbe commesso qualche gesto inconsulto nei suoi confronti.

“Adesso ho solo paura di non essere all'altezza.” confessò il fiorentino, accigliandosi e poi tossicchiando per cambiare in fretta argomento: “Come dicevo prima, comunque, preferisco che Scipione ti accompagni... Anche se è meglio che io non sia con te, quando recupererai Giovannino, per non far capire quanto siamo stati d'accordo in tutta questa questione, preferisco che ci sia un uomo come Scipione a guardarti le spalle...”

Ancora intenta a decifrare l'ultima uscita del piovano, la sua paura di non essere all'altezza – di cosa, di preciso, la Tigre non lo capiva – la donna annuì e cedette: “Come preferisci... Tra quanto andremo in città?”

Francesco fece un sospiro, felice di sentire che, almeno, la Leonessa aveva accettato la scorta offerta, e rispose: “Se sei pronta, tra un'ora possiamo andare.” poi soggiunse, quasi avesse timore di sentirsi prendere a male parole per il suo ardire: “Potresti passare un attimo anche alle Murate... A Cornelia farebbe piacere vederti...”

Caterina ricacciò indietro la viva protesta che avrebbe voluto esibire e accettò, atona: “Va bene.”

 

“Come sta tua moglie?” la voce di Elena era flebile, ma i suoi occhi cercavano il viso del figlio con la consueta forza vitale, instancabili e fieri.

Jacopo Salviati, che era arrivato al capezzale della madre di buon mattino, messo in allarme dai servi che l'avevano vegliata di notte, trovandola agitata e insonne, fece un breve sorriso e rispose, anch'egli a voce bassa: “Bene. La gravidanza prosegue bene...”

Nel momento stesso in cui disse quelle poche parole, però, l'uomo si rese conto di aver detto una mezza verità. Che la gravidanza andasse per il meglio era ciò che si augurava, anzi, ciò che dava per ovvio. In realtà, negli ultimi giorni, tale e tanto era il pensiero per la salute di sua madre e per i problemi di Firenze, che aveva fatto meno caso del solito alla salute di sua moglie. E Lucrezia, dal canto suo, pragmatica com'era, aveva fatto di tutto per non concentrare le attenzioni su di sé, ma lasciarlo il più possibile libero di occuparsi di quelle spinose questioni.

“Non poteva essere altrimenti...” annuì la Gondi, con un certo orgoglio: “Lucrezia è una buona moglie e ha il fisico adatto a generare figli...”

Jacopo annuì, senza aggiungere altro. Avrebbe potuto parlare per ore e ore della moglie, elogiandola in ogni modo, ma non aveva fiato a sufficienza, quel giorno, per farlo.

“Ma dimmi...” fece Elena, cercando di sistemarsi sul letto, ma muovendosi lentamente, debole e incerta: “Quello che si dice è vero? Firenze sta vincendo contro Pisa?”

Per qualche minuto, il Salviati riuscì a parlare degli ultimi avvenimenti, spiegando come si stessero muovendo le varie alleanze, di come il re di Francia e il papa, formalmente amici, stessero combattendo su fronti opposti a Pisa, ma poi, come se tutte quelle cose non avessero alcuna importanza, tacque all'improvviso e, agitando una mano in aria, dopo un paio di minuti, concluse, mesto: “Non dovete preoccuparvi di queste cose, adesso. Pensate a stare bene.”

Quando più tardi, sul far del mezzogiorno, Jacopo si congedò dalla madre e tornò dalla moglie, ci mise qualche minuto, prima di parlare. Era visibilmente scosso e, dopo appena un saluto, tutto ciò che riuscì a fare fu cercare le braccia di Lucrezia, per farsi stringere.

La donna, che in quei giorni stava soffrendo più del solito il caldo e che combatteva con delle nausee strane, per il periodo della gravidanza, non gli si negò, lasciando che il marito cercasse in lei quel conforto quasi filiale.

“Come stai?” gli chiese, mentre ancora lo teneva vicino a sé, il pancione come unico ostacolo a un contatto più diretto.

Il Salviati scosse il capo, incapace di parlare. Non era mai stato bravo a esternare i propri sentimenti, specie quando questi erano negativi, per cui Lucrezia non insistette, continuando comunque a dargli il conforto che cercava.

“Sai, Fortunati ci ha mandato un messaggio.” annunciò, dopo un po', sia perché le premeva riferirne il contenuto al marito, sia perché era convinta che distrarre la mente per un po' dalle condizioni di salute della madre gli avrebbe solo fatto bene: “Dice che oggi la Tigre di Forlì dovrebbe essere a Firenze, per riprendersi suo figlio...”

“Sono felice per loro.” disse Jacopo, un po' asciutto, ma sinceramente lieto che una madre potesse infine riavere per sé il figlio.

L'intento reale della Medici, la cui mente non riposava mai, era quello di proporre di andare a incontrare la Sforza, approfittando del suo passaggio in città, ma prima ancora di provare a formulare quell'ipotesi, si rese conto che suo marito non si trovava nelle condizioni adatte per quel genere di impegno.

Perciò, deglutendo e allontanandolo appena da sé, Lucrezia buttò lì, quasi con aria casuale: “Se te la senti, quando tua madre starà meglio e io avrò partorito... Potremmo... Ecco, potremmo andare a Castello a trovare la Tigre e il piccolo Giovanni... Magari portandoci qualcuno dei nostri figli... Per esempio Maria, che ha quasi la stessa età e...”

“Non ti sembra che la nostra Maria sia ancora un po' troppo piccola, per combinare un matrimonio?” ribatté subito lui, con una certa aggressività.

La Medici si sentì colta in fallo. Jacopo altro non aveva fatto che saltare alle conclusioni, e l'aveva fatto bene, perché, nel profondo, era quello a cui aspirava la donna: far sì che la Leonessa di Romagna li conoscesse sempre di più e trovasse in una delle loro figlie una futura moglie per Giovannino. Cosa ci sarebbe stato più semplice e bello, per riunire di nuovo i due rami della famiglia e dare di nuovo a Firenze un Medici, che potesse guidare un domani la Repubblica?

“Allora potremmo andare solo noi due.” raddrizzò quindi il tiro: “In fondo con Madonna Sforza abbiamo ormai da tempo un rapporto di reciproco aiuto... Ora che mio cugino Lorenzo è morto credo che...”

“Sì, certo... Poi ci penseremo.” sospirò Jacopo, interrompendola.

Lucrezia era così poco avvezza a vedere il marito in quello stato, da arrivare a spaventarsene. Così, come se avesse davanti un prezioso ninnolo di vetro finissimo, si mosse lentamente e propose di andare a mangiare qualcosa.

L'uomo, mesto e accigliato, annuì, ma mise in chiaro: “Ho poca fame, però.”

“Mangerai poco, allora.” fece eco lei, assecondandolo come meglio poteva.

“E non ho... Non ho voglia di parlare.” concluse il Salviati, abbassando lo sguardo.

“Non parleremo.” convenne lei e, per dar subito seguito al suo proposito, si chiuse in un rispettoso silenzio, che mantenne per tutto il pranzo, nell'attesa che Jacopo riuscisse a dissipare almeno in parte le nubi nere che gli offuscavano l'anima.

 

La visita alle Murate era stata abbastanza breve, ma la Tigre era sicura che nemmeno Fortunati avrebbe potuto biasimarla per non essersi fermata di più da Cornelia. Aveva trascorso con la nipote circa un'ora, ma la bambina era stata con lei abbastanza distaccata – o, meglio, sembrava quasi intimorita – e la stessa Caterina aveva fatto fatica ad approcciarla con naturalezza, non avendo quasi alcuna confidenza con lei.

Suor Ubbidienza, poi, per quanto fosse una donna accomodante e pacata, non aveva fatto nulla per migliorare le cose, restando sempre presente e rivolgendosi alla piccola Riario quasi come se ne fosse la madre, portando la bambina ad aggrapparsi sempre di più a lei, ignorando costantemente la nonna.

Alla fine la Sforza si era congedata senza troppi ripensamenti e aveva ringraziato la monaca per la cura che aveva per la nipote.

In tutta risposta, Suor Ubbidienza aveva chiesto, con un velo tangibile di timore: “Ma... Porterete a casa con voi anche lei, prima o poi?”

Per la milanese fu un sollievo vedere la gioia sul suo volto tondo, quando rispose: “Non... Non credo.”

Scipione, che l'aveva attesa fuori per tutto il tempo alle Murate, avrebbe atteso fuori anche dal convento d'Annalena. Caterina gli promise che avrebbe fatto in fretta, e questo era il suo reale progetto: non voleva che suo figlio passasse un minuto di più dello stretto necessario con le suore.

Una monaca l'accolse con una certa freddezza, chiedendole se fosse lì per quello che il piovano di Cascina aveva annunciato, ossia prendere il bambino e sollevarle dall'incombenza di nasconderlo.

La milanese disse che era così e, innervosita dal tono inequivocabile della religiosa, che stava a indicare quanto l'intero convento fosse sollevato all'idea di togliersi dai piedi il piccolo Medici, fece presente che avrebbe saldato quanto di dovere il prima possibile.

La monaca scosse il capo, spiegando che era già stato tutto sistemato da Fortunati e non solo – e la Sforza pensò che stesse alludendo ai Salviati – e portò la Leonessa in una celletta vuota, chiedendole di aspettare: Giovannino, le disse, aveva raccolto i suoi pochi averi ed era pronto a incontrarla e partire con lei, ma prima voleva pregare ancora una volta nella cappella in cui lo faceva ogni giorno ormai da anni.

Alla Sforza suonò un po' strano che un bambino di poco più di cinque anni avesse espresso quel genere di desiderio, ma dovette ammettere con se stessa, con un velo di imbarazzo, anche Giovannino, per molti versi, era per lei un mezzo sconosciuto.

Quando finalmente il bambino venne condotto da lei, i suoi occhietti grigio scuro si spalancarono e così fecero le sue braccia. La Tigre era pronta e lo afferrò al volo quando, solido e forte come il bambino in salute che era, le saltò al collo.

“Appena saremo a casa – gli disse all'orecchio – ti metteremo abiti adatti a te e, se sei d'accordo, taglieremo questi capelli... Sono troppo lunghi, non trovi?”

Il Medici, che era costretto come sempre in abiti da bambina e che portava i capelli lunghi fin quasi alle spalle, annuì subito e, tenendosi sempre stretto alla madre, chiese: “Mi porti a casa adesso?”

“Sì, ti porto a casa.” ribadì la donna e, capendo che il figlio non si sarebbe staccato da lei nemmeno a viva forza, lo tenne in braccio, chiedendo alla monaca di aiutarla con il piccolo bagaglio.

Mentre usciva dal convento, il figlio in braccio come un trofeo, Caterina si trovò a pensare ancora una volta a quanto fosse cambiato il suo fisico. Solo fino a pochi anni addietro, avrebbe sollevato il peso di Giovannino senza sforzo alcuno, mentre ora, dopo appena pochi passi, aveva già il fiato corto.

Scipione, che aspettava paziente vicino al calesse, guardandosi a destra e a sinistra, per accertarsi che non ci fossero pericoli, nel momento stesso in cui vide uscire la Leonessa le andò incontro e si propose, vedendola un po' in difficoltà: “Devo tenere io il piccolo?”

Di certo la donna avrebbe approfittato delle braccia giovani e forti del Riario, ma a quelle parole Giovannino si era aggrappato a lei con ancor più forza, perciò scosse il capo e propose: “Tieni la borsa, magari...”

L'uomo sorrise, felice, nel profondo, di vedere la matrigna ricongiunta con quel figlio per il quale aveva smosso tutto quello che poteva smuovere, ed eseguì quanto gli era stato ordinato di fare.

Una volta saliti sul calesse – non senza fatica – e chiuso lo sportello, Caterina chiese al figlio, con delicatezza: “Ti va di sederti qui accanto a me?”

Il piccolo, che ancora non l'aveva lasciata un secondo, parve perplesso e non disse nulla.

Mentre Scipione dava ordine al conducente di partire, la Sforza si schiarì la voce e disse: “Non ti lascio. Stai tranquillo. Lo dicevo solo perché staresti più comodo...”

Apparentemente convinto sia dalla parole della madre, sia dalla carrozza che, finalmente, era in movimento, il bambino, con lentezza, lasciò l'abbraccio della Tigre e le si sistemò accanto, avendo cura di mantenere un discreto contatto fisico con lei, quasi avesse paura di vederla svanire da un momento all'altro.

Mentre il Medici cercava di occhieggiare fuori, cercando intanto la mano della madre con la sua, la donna lo osservò in silenzio. Cresceva a vista d'occhio e mai come in quel momento il suo profilo le aveva ricordato quello di Giovanni. Certo, i capelli erano molto più lunghi di come il Popolano li avesse mai portati e gli occhi erano di un colore decisamente diverso, eppure era certa che, in quel frangente, nessuno avrebbe potuto avere dubbi sull'esatta ascendenza di Giovannino.

“Somigli moltissimo a tuo padre...” gli disse, senza riuscire a trattenersi.

Il bambino, istintivamente, sorrise, ma poi, ricambiando lo sguardo, si fece pensieroso e ammise, con naturalezza: “Lui non lo ricordo.”

Era impossibile che fosse altrimenti, dato che Giovanni era morto quando il figlio aveva pochi mesi, perciò la Leonessa non si scompose più di tanti dinnanzi a quella dichiarazione, ma disse, cercando di approdare su argomenti meno spinosi: “I tuoi fratelli, Galeazzo, Bernardino e Sforzino, non vedono l'ora di vederti.”

Quella prospettiva, benché anche quei nomi per il Medici non fossero altro che idee astratte, lo mise di buon umore e, per il resto del viaggio, il piccolo non disse quasi nulla, ma sorrise di continuo.

Arrivati alla villa, Caterina si vide quasi costretta a lasciare il figlio nelle mani dei di lui fratelli che, incuriositi e felici, volevano passare del tempo con lui, tornando a conoscerlo e raccontandogli com'era la vita lì a Castello.

“Gli servirà un precettore.” disse piano Fortunati, mentre guardava Sforzino indicare i libri a Giovannino che, stranito, si grattava la nuca: “Tra non molto avrà sei anni... Se non vogliamo che sia un analfabeta, bisogna capire a che punto sia la sua istruzione...”

“Di anni ne ha poco più di cinque, tanto per cominciare... E poi... Una cosa per volta...” sussurrò la milanese, che in quel momento riusciva solo a pensare che, dopo tante tribolazioni, il suo ultimogenito era di nuovo con lei: “In fondo è appena arrivato, dobbiamo lasciarlo ambientare... Ci sono così tante cose nuove...”

“Ma da quel che ho potuto capire, le suore non gli hanno insegnato molto, se non qualche preghiera in latino... Latino che dubito lui capisca.” insistette il piovano.

“Ti ho detto che ci penseremo prossimamente.” tagliò corto la Leonessa.

“Il rischio è che faccia la fine di Carlo, che a quasi tredici anni fa ancora fatica a scrivere e a leggere l'ora!” sbottò Francesco, senza riuscire a trattenersi.

Arrabbiata per quell'esclamazione, la donne ribatté subito: “Parli di Bernardino come se fosse uno stupido, quando invece non lo è affatto!” la sua voce era abbastanza alta per essere sentita proprio dal Feo che, però, non diede mostra di averla udita: “E Giovannino imparerà quel che deve, ma quando sarà il momento. Deve ancora capire che fuori dal convento esiste il mondo, come credi che possa mettersi a studiare il latino o la matematica?”

Fortunati tacque, dandola vinta alla sua donna e poi, dopo quasi due minuti di silenzio, sospirò e chiese: “Quindi adesso che facciamo?”

“Tu non farai un bel niente.” fece Caterina, mentre il piccolo Medici tornava a cercarla con lo sguardo e, ignorando i fratelli che ne reclamavano l'attenzione, tornava a tendere le braccia verso di lei per farsi prendere: “Anzi, al massimo, se vuoi, mi aiuterai a tagliargli i capelli e manderai qualcuno a chiamare un sarto. Mio figlio ha bisogno dei vestiti da maschio... Basta con sottane e abiti lunghi...”

 

Lucrecia, nel momento stesso in cui capì che la lettera arrivava da Ostellato ed era stata scritta dalla mano di Pietro Bembo, non pensò più ad altro, se non a correre nelle proprie stanze per leggerla in santa pace.

Si scusò con le poche dame di compagnia con cui era, congedò il servo che le aveva portato il messaggio, pregandolo di non 'infastidire' Alfonso, quando fosse tornato, parlandogliene, e poi lamentò un forte mal di testa, chiedendo a tutti di lasciarla tranquilla almeno fino a sera.

Il caldo di giugno era opprimente e appiccicoso. La Borja vedeva le sue giornate inseguirsi senza senso, da quando lei e Pietro non si erano più visti. Era stato così crudele poter sfiorare la felicità, poter provare quella vertigine profonda che l'aveva presa nell'avvicinarlo, per poi ritrovarsi a bocca asciutta, affamata e assetata come una naufraga.

Certo, lui l'aveva riempita di lettere, i primi giorni, e così aveva fatto lei con lui, ma a breve il Bembo le aveva chiesto di rallentare la loro corrispondenza, per paura che potesse diventare troppo palese. Lucrecia immaginava, con amarezza, che fosse Isabella Este colei che Pietro temeva, visto che egli stesso non aveva mai negato nulla di quello che li aveva uniti...

La vita della Borja si era quindi tradotta in una sequela scialba di notizie da fuori Ferrara – Firenze aveva ottenuto Vico, suo fratello Cesare era diventato signore di Fermo, Firenze aveva poi preso anche Verrucola e tante altre questioni che a lei non interessavano per nulla – e di momenti di pura noia. L'unica distrazione a quella vuotezza erano le notti passate con Alfonso.

Anche se l'Este era un uomo ruvido, quasi sgrezzo, e anche se con Lucrecia faceva fatica a parlare anche solo di banalità, la Borja non poteva negare di aver sviluppato una dipendenza particolare nei suoi confronti. I fastidi dei primi tempi, le incomprensioni e gli imbarazzi erano svaniti e la loro vita matrimoniale, almeno nottetempo, era diventata molto piacevole, tanto, almeno, che la ragazza si diceva con grande onestà che probabilmente non avrebbe voluto rinunciarvi nemmeno se avesse avuto Pietro Bembo a sua completa disposizione.

In quell'ottica, per lei era ancora più complicato gestire il sentimento prepotente che sentiva nei confronti del poeta religioso. Era come un orpello superfluo, ma che voleva a tutti i costi, a patto, però, di non dover rinunciare all'indispensabile, ossia Alfonso.

Arrivata nelle sue stanze, aprì in fretta la missiva e lesse i versi che l'uomo le aveva scritto, ardendo di passione, corrodendosi nell'assenza di lei, che era la sua prima e più pressante priorità.

L'uomo faceva cenno al cuore di cristallo di cui tante volte avevano parlato e una strofa in particolare, portò Lucrecia a stringersi una mano sul petto: avess'io almen d'un bel cristallo il core, che, quel ch'i' taccio e Madonna non vede de l'interno mio mal, senza altra fede a' suoi begli occhi tralucesse fore.

La Borja lo trovò ardito, spiazzante... Ma del tutto conforme all'uomo che aveva imparato già a conoscere e amare. Così, senza altro indugio, decise di fare altrettanto, per ripagarlo della sua onestà e, soprattutto, del suo coraggio.

Prendendo carta e inchiostro, fece un lungo sospiro e scrisse: 'Miser Pietro mio – sospirò, pensando che quell'aggettivo, più di tutto, avrebbe racchiuso per lui l'amore che non poteva essere espresso in altro modo se non con possessività – circha el desiderio tenite intender da me lo incontro del vostro o nostro cristallo, che cusì meritamente se po reputar e chiamare, non saperìa mai che altro posserne dire o trovarçe salvo una estrema conformità, forse mai per nisun tempo ingualata. E questo basti, e risti per evangelio perpetuo.'.

Lucrecia rilesse tutto, con una sorta di febbrile eccitazione e poi, sospinta dalla voglia di sentirsi la protagonista di un'epopea cavalleresca, decise di donarsi un nome in codice, una sigla che solo il suo Pietro avrebbe capito e usato: 'Questo – scrisse, con un sorriso enorme – da qui avante serrà el mio nome: FF'.

Aggiunse la data, 24 giugno, e poi richiuse il biglietto, il cuore che correva veloce, l'animo completamente immerso in quello che in parte era amore e in parte era un gioco da bambini.

Affidò a un uomo di fiducia il messaggio, pregandolo di farlo avere a Bembo prima che potesse e poi tornò in camera, a sospirare ed estraniarsi da tutto, pensando solo al suo Pietro e fantasticando su quando si sarebbero rivisti.

Era più o meno l'ora di cena, quando Alfonso entrò in stanza e, un po' a sorpresa, le chiese: “Come stai?”

“Bene...” fece lei, alla finestra, un libro aperto sulle gambe e lo sguardo distratto.

“Mi avevano detto che avevi mal di testa, avevo paura che fosse successo qualcosa...” si difese lui, quasi in imbarazzo.

“Vai pure a cenare...” fece lei, con un lieve sorriso: “Io non ho fame...”

“Ho mangiato all'osteria.” ribatté lui, guardandosi le mani, come se si accorgesse solo in quel momento di quanto fossero sporche di polvere da sparo e grasso: “Non ti disturbo, vado nelle mie stanze...”

“Se hai già mangiato – propose Lucrecia, guardando il bel fisico slanciato del marito con una luce particolare negli occhi – potresti fermarti subito qui, non credi?”

Confuso come sempre quando era sua moglie a prendere quel genere di iniziative, l'Este sollevò le sopracciglia e poi, attirato da lei come una falena alla luce di una torcia, non si oppose e, anzi, le fu accanto prima ancora che lei potesse aggiungere qualcosa.

Mentre si lasciava sollevare dalle braccia forti di Alfonso, ormai abituata ai segni che il mal francese gli aveva lasciato sulle mani e non solo, Lucrecia rise come una ragazzina e, atterrando sul soffice letto, si disse che il Bembo, in fondo, avrebbe capito se una donna rispettabile come lei non se la sentiva di ignorare i propri doveri coniugali, benché fosse follemente, pazzamente e indubbiamente innamorata del suo Pietro...

 

“Dopodomani, a Firenze, si corre il palio di San Lò...” disse Fortunati, tanto per parlare, mentre si rigirava nel calice il vino: “In realtà sarebbe per Sant'Eligio, ma lo chiamano di San Lò... Si tratta del protettore degli orefici, maniscalchi e calderai...”

Caterina, seduta accanto a lui, non lo stava ascoltando con particolare trasporto, troppo concentrata su Giovannino che, attento, stava giocherellando con Bernardino, che, a quanto pareva, aveva uno spiccato talento per intrattenere un bambino della sua età.

In effetti il Feo si era dimostrato fin da subito un'ottima compagnia per il Medici, tanto che ormai condividevano in via stabile anche la camera da letto. Dato che Giovannino non voleva per nessun motivo dormire da solo, ma nessuno, a parte Bernardino, sembrava sopportare la sua pretesa di avere almeno una candela accesa per tutta la notte, quell'abbinamento era nato spontaneo già alla seconda notte del piccolo alla villa.

Il Medici, da che era arrivato, aveva subito sviluppato una vera e propria assuefazione per l'esterno, anelando ogni giorno di più di potersi spingere oltre il prato che stava davanti alla villa, fino al limitare del bosco e ancora più avanti. Ovviamente gli era stato impedito, almeno per il momento, di lasciare il perimetro della casa, e per rabbonirlo, Caterina aveva scoperto che un buon modo per tenerlo occupato era portarlo a vedere gli animali che avevano nella stalla e nella piccola aia coperta.

La reazione alla prigionia subita prima alle Murate e poi al convento d'Annalena si strava traducendo in un entusiasmo continuo nello scoprire il mondo e conoscere le cose che lo circondavano, anche se il chiodo fisso nella mente di Giovannino era la madre: non c'era momento in cui non la cercasse, o per un abbraccio o anche solo per uno sguardo. Si dimostrava tanto turbolento nel gioco, quanto coccolone nel cercare affetto. A volte citava la sorella Bianca, ma era evidente che ormai fosse per lui un ricordo lontano e confuso.

Vederlo tranquillo, seduto sul tappeto, preso dalle parole di Bernardino che, con un soldatino di legno in mano gli parlava di battaglie mirabolanti e gesta eroiche, per la Leonessa era gioia pura.

“Fanno una corsa di cavalli e chi vince ottiene il palio che Arezzo offre il giorno del Battista...” si premurò di precisare il piovano, dopo un lungo silenzio, ben capendo, però, che nessuno più lo stava ascoltando.

Oltre alla Tigre, immersa nell'osservazione amorevole di due dei suoi figli, c'erano Sforzino a frate Lauro intenti a discutere di un Santo e dei suoi martirii, e Galeazzo, seppur apparentemente concentrato sul suo calice di trebbiano, era in realtà concentrato sulla balia di Pier Maria che, seduta accanto al De Marzi – che dormicchiava – cercava di distrarre il piccolo De Rossi, in quei giorni tormentato dalla nascita di un nuovo dentino.

Quella sera erano tutti in quella sala perché era ritenuta la più fresca della villa, ma, proprio a causa di quell'affollamento, si stava in fretta trasformando in un piccolo forno. Francesco, indispettito soprattutto dalla scarsa attenzione che stava ricevendo, era sul punto di dichiarare che sarebbe andato a riposare, senonché uno dei servi arrivò nella stanza con un messaggio per lui e per la Tigre.

Fortunati prese la lettera, capendo subito che si trattava di notizie luttuose. Lesse in silenzio, mentre Caterina, finalmente, lo degnava del suo interesse.

“Ci vogliono far sapere – rivelò alla fine, accigliandosi – che è morta la madre di Jacopo Salviati, Madonna Elena...”

“E perché ce lo fanno sapere?” chiese la Sforza, accigliandosi a sua volta, ma per un motivo diverso.

Il piovano si schiarì la voce e, notando come i figli della Tigre stessero andando avanti nelle loro attività come nulla fosse, disse: “Be'... Siete parenti, alla fine... Tu sei la vedova di Giovanni, che era cugino di Lucrezia, che è la moglie di Jacopo... Madonna Elena era sua suocera e...”

“Va bene, va bene, non agitarti...” lo fece tacere la milanese, capendo che, in fondo, aveva ragione lui: “Domani scriverò un biglietto di condoglianze.”

Moderatamente soddisfatto, Francesco annuì ed era sul punto di dire qualcosa quando un lampo abbagliante squarciò il cielo buio con tanta violenza da far voltare tutti verso la finestra.

Il tuono assordante che ne seguì fece scoppiare in lacrime Pier Maria e, allo stesso tempo, fece sì che Giovannino scattasse in piedi e si lanciasse tra le braccia della madre, in cerca di riparo.

“State tranquilli, è solo un temporale...” fece frate Lauro, serafico come sempre, andando alla finestra a controllare la veridicità delle sue stesse parole, ma, non appena lo fece, si rese conto di essere stato troppo ottimista.

Il vento sferzava il bosco vicino con una violenza inaudita, il cielo era una macchia nera indistinta, trafitta di continuo dalle saette e, nel giro di pochi secondi, il fracasso dei tuoni si mescolò a quello della pioggia che, grossa e pesante, si riversò come una furia sui vetri attraverso cui il frate stava guardando.

“Credo che sarebbe meglio andare a controllare che tutte le finestre siano chiuse e...” fece Bossi, voltandosi verso gli altri.

La Leonessa capì al volo la gravità della situazione e si attivò subito. Avrebbe potuto starsene tranquilla in poltrona e dare ordine agli altri di darsi da fare, ma aveva passato una vita a essere in prima linea, non poteva cambiare il suo modo di pensare e agire proprio quella sera.

Dando con fatica il figlio a Francesco – che lo prese in braccio con presa salda, malgrado le rimostranze del piccolo – gridò: “Chi se la sente: con me! Dobbiamo andare a mettere al sicuro le bestie: lo stalliere da solo non ce la può fare!”

   
 
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