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Autore: Orso Scrive    15/05/2023    1 recensioni
Alberto Manfredi e Aurora Bresciani ricevono l’incarico di gestire la sicurezza di una mostra dedicata alla storia della frontiera americana. Fare la guardia a vecchi cimeli privi di valore non sembrerebbe essere un incarico molto gratificante, per i due carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale. Ma dovranno presto ricredersi, quando la mostra verrà sconvolta da uno strano furto, che sembra collegato a un’antica maledizione degli indiani d’America e alla scoperta, ai tempi della frontiera, di una miniera misteriosa…
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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12.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

Alberto soffriva di vertigini. Le altezze lo terrorizzavano. Non doveva trovarsi lui stesso in un luogo alto, per sentirsi a disagio. Gli bastava guardare una persona in bilico su un precipizio, o addirittura pensare a un posto alto, per ritrovarsi con le mani madide di sudore freddo e il cuore che batteva all’impazzata. Il semplice fatto di guidare la macchina in montagna, con ampie vedute oltre il parapetto, gli infondeva una sensazione di malessere. Era stato così da sempre, fin da quando era bambino, probabilmente dalla nascita – aveva finito col convincersi che, in una vita precedente, fosse morto precipitando da un luogo alto – e non era mai riuscito a superare una tale paura.

Fatemi fare di tutto, ma non chiedetemi di salire in alto o di arrampicarmi.

Per questo, aveva sempre un vago timore quando si trattava di andare in montagna, o di affrontare una ripida strada circondata da burroni.

E anche per questo non poteva sopportare gli aerei. Se lo poteva, evitava come la peste quelle scatolette di lamiera volanti e si affidava mezzi di trasporti magari meno efficaci e più lenti, ma perlomeno ancorati al suolo.

Brutto posto, meditò, guardandosi attorno dopo aver superato le porte a vetri.

L’aeroporto, con i suoi pavimenti lucidi, le insegne, i negozi e le scale mobili, era una via di mezzo tra una stazione e un centro commerciale. I tabelloni luminosi appesi ai muri indicavano orari di arrivi e partenze degli aerei. In quel momento, e nelle ore successive, non ce ne erano di diretti verso gli Stati Uniti.

«Il Cairo», disse Shelton, sicuro di sé, indicando un monitor. «Probabilmente, Black Eagle era diretto lì. Dall’Egitto, avrebbe potuto trovare più facilmente un volo per l’America latina, da dove poi sarebbe risalito verso il Messico.»

Alberto non ribatté. Nemmeno Aurora disse nulla. L’archeologo poteva avere ragione così come aveva potuto tirare a indovinare. Ciò che contava, adesso, era che il ladro non fosse andato da nessuna parte, né verso Il Cairo né verso alcun altro luogo del mondo. Entrambi si guardarono attorno, cercando di capire dove si dovessero dirigere.

«Tenente Manfredi?» chiamò una voce femminile.

Tutti e tre si voltarono. Un uomo e una donna con indosso la divisa blu delle guardie aeroportuali si stavano avvicinando a grandi passi.

«Sono io», rispose Alberto, spiccio. «Lei è il sottotenente Bresciani», disse, accennando ad Aurora. Non perse tempo a presentare il professor Shelton.

«Ispettrice Esposito», si presentò la donna. «Lui è l’agente Martini.»

«So che il maresciallo De Crescenzo vi ha chiesto di fermare un sospettato di un furto…» cominciò a dire Alberto.

L’ispettrice fulminò con lo sguardo l’agente Martini, che abbassò lo sguardo, imbarazzato.

«Lo avevamo fermato, infatti», commentò lei, «ma questo incapace se l’è fatto sfuggire da sotto il naso.»

«Io non pensavo…» borbottò Martini, «…quello si è mosso come un fulmine… io…»

Shelton mosse un passo in avanti.

«Da Black Eagle non mi sarei aspettato di meno», asserì. «Quello è un Apache. Ha in corpo il sangue della sua stirpe. Conosce ogni trucco per sparire.»

L’ispettrice gli lanciò uno sguardo dubbioso, prima di dire: «Comunque, non può andare troppo lontano. Ho allertato tutti i miei agenti e ne ho messi due a ogni ingresso, e stiamo tenendo sotto sorveglianza i monitor della sicurezza. Deve essere nascosto in qualche posto che non riusciamo a inquadrare, per esempio un bagno o uno sgabuzzino, ma presto o tardi lo troveremo.»

«Speriamo più presto che tardi», brontolò Alberto, guardando un grande orologio digitale attaccato a una parete, che segnava la mezzanotte passata da un bel pezzo, «o Iannaccone diventerà una furia…»

Aurora, che non aveva smesso un solo istante di guardarsi attorno, rivolse un lieve sorriso all’ispettrice.

Incredibile, sorride! E non è il suo solito sorriso di scherno, o quella smorfia assassina che fa di solito, pensò Alberto.

«Avete almeno recuperato l’oggetto che il sospettato aveva con sé?» domandò lei.

L’ispettrice annuì.

«Sì, certo, quello lo abbiamo preso, come ha chiesto di fare il maresciallo», garantì. «L’ho messo sottochiave, nel mio ufficio.»

Shelton sembrava più che deciso ad assumere il comando della situazione. Probabilmente, si sentiva proprio come Custer a Little Big Horn. E il fatto che uno dei presenti si chiamasse come uno dei pochi scampati a quel massacro, doveva averlo ringalluzzito ancora di più.

«Allora è inutile andarcene a zonzo alla ricerca di Black Eagle, perché lui punterà a recuperare il vaso», disse. «Martini, presto! Ci preceda all’ufficio e monti la guardia! Dobbiamo tendere un agguato al muso rosso! È impossibile battere gli indiani in campo aperto, e quindi non possiamo fare altro che assumere le loro stesse tattiche, cogliendolo alla sprovvista.»

L’agente Martini, ancora un po’ vergognoso, lo guardò senza sapere che cosa dire. Poi spostò lo sguardo sulla sua superiore, che scrollò le spalle e fece una smorfia insicura.

Alberto e Aurora si scambiarono un breve sguardo. Il tenente lasciò andare un profondo sospiro.

«Sì, facciamo così», disse. «È probabile che il professore abbia ragione. Per favore, fateci strada.»

Dopo un ultimo istante di esitazione, l’agente Martini si incamminò attraverso l’aeroporto e il gruppetto gli andò dietro.

 

 
   
 
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