Storie originali > Avventura
Segui la storia  |       
Autore: Orso Scrive    16/05/2023    1 recensioni
Alberto Manfredi e Aurora Bresciani ricevono l’incarico di gestire la sicurezza di una mostra dedicata alla storia della frontiera americana. Fare la guardia a vecchi cimeli privi di valore non sembrerebbe essere un incarico molto gratificante, per i due carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale. Ma dovranno presto ricredersi, quando la mostra verrà sconvolta da uno strano furto, che sembra collegato a un’antica maledizione degli indiani d’America e alla scoperta, ai tempi della frontiera, di una miniera misteriosa…
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

13.

 

 

Monti della Superstizione, Arizona, marzo 1865

 

 

Gli ultimi raggi di sole morente all’orizzonte stavamo tingendo di rosso le montagne, aguzze e brulle. Picchi frastagliati e solitari sembravano sfidare il cielo con le loro forme ardite, scavate e logorate dal lento e inarrestabile attacco del tempo. Nubi di polvere color del sangue si sollevavano verso l’immensità, sospinte da vento caldo e secco che spirava dal meridione. Nonostante fosse appena cominciata la primavera, la calura era opprimente come se fosse stata già piena estate.

Avanzando al passo, le gambe larghe sulla sella, i piedi nelle staffe e le mani callose strette attorno alle briglie della sua cavalcatura, Jacob Waltz sudava in modo copioso. I capelli, lunghi e brizzolati, sfuggendo da sotto il cappello che gli ombreggiava gli occhi azzurri gli si incollavano alle guance, ispide di barba non rasata da diversi giorni. Anche gli abiti gli si erano attaccati addosso, come una seconda pelle. Il cinturone, da cui pendeva la fondina con la “Colt”, gli segava i fianchi. Si sentiva spossato, come se fosse sul punto di svenire. Il suo fisico, così abituato alla freschezza delle Alpi Bavaresi, non era ancora riuscito ad adattarsi al clima arido di quella zona lontana e desertica del Nuovo Mondo, di quella frontiera ancora tutta da conquistare.

«Ehi, Olandese, che ne diresti di fermarci qui, per la notte?! Comincio a non poterne più!»

Waltz fece girare di tre quarti il cavallo stanco, per poter guardare in faccia il suo socio. Weisner, come lui, si chiamava Jacob. E, proprio come lui, era nato e cresciuto in terra germanica: in Assia, per la precisione, mentre Waltz veniva dalla Baviera. Si erano conosciuti quando, sul finire del decennio precedente, erano partiti entrambi verso il Nuovo Mondo in cerca di quella fortuna che non erano riusciti a trovare nella loro vecchia Europa. Avevano deciso di mettersi in società, dividendo gli utili – se ce ne fossero stati – e spartendosi in egual modo pericoli e disillusioni.

Gli americani, lo avevano scoperto molto presto, facevano fatica a distinguere tra i tedeschi – che in inglese si chiamavano Deutsch – e gli olandesi – Dutch. A dire il vero, nemmeno si sforzavano di fare e di capire la differenza tra i due termini. Per quegli uomini rudi, che stavano ancora colonizzando, chilometro dopo chilometro, un immenso territorio selvaggio e inospitale, denso di insidie, non esisteva alcuna differenza tra il tedesco e l’olandese, due lingue semplicemente incomprensibili, parlate in luoghi di cui non sapevano nulla.

Così Waltz, che dei due soci era il portavoce, a causa del fatto che l’inglese e lo spagnolo di Weisner si limitassero a pochissimi vocaboli storpiati, era diventato per tutti “The Dutchman”, l’Olandese. E, alla lunga, lo era diventato anche per il suo socio e, da ultimo, per se stesso.

«Sì», rispose l’Olandese, stringendo gli occhi contro il riverbero e guardandosi attorno. «Credo che possiamo fermarci. Inutile proseguire le ricerche con il buio.» Individuò un pianoro roccioso piuttosto liscio, circondato da alcuni cactus e altri cespugli rinsecchiti, dove avrebbero potuto sdraiarsi per la notte. «Vieni, andiamo là.»

In breve tempo, il campo fu pronto. Il fuoco cominciò ben presto a scoppiettare dentro un piccolo cerchio di sassi, e Weisner vi pose sopra una casseruola per far bollire l’acqua in cui mettere a mollo la carne di maiale secca e salata che trasportavano sotto le selle.

«Darei un braccio, per avere almeno un pezzetto di lardo con cui cambiare un poì il sapore di questa roba», commentò, girando di malavoglia il cucchiaio di legno nella pentola ribollente.

Mentre il suo socio si occupava della cena, l’Olandese provvide ad abbeverare i cavalli a una pozza d’acqua che trovò poco distante. Dopo averli fatti mangiare attaccando loro un sacchetto pieno d’avena davanti alla bocca e averli legati a un tronco rinsecchito, prese dalla sella la sua carabina a leva “Henry” e tornò a sedersi vicino al fuoco. Si lasciò cadere con un grugnito e lasciò andare un sospiro di stanchezza, poggiando il fucile sulle gambe. Non che temessero l’attacco di qualche predone, ma la cautela non era mai troppa, in quelle lande infestate da indiani e animali selvatici.

«Stai cominciando a diventare un cuoco sopraffino», scherzò l’Olandese, masticando un boccone di carne dura e salatissima pescato dalla casseruola.

«Magari, quando avremo trovato il tesoro, potrò impiantare un ristorante e far mangiare a questi zoticoni di americani qualche specialità tedesca», borbottò Weisner, serio.

L’Olandese annuì e, infilata la mano destra sotto la giacca, ne estrasse una vecchia carta, rinsecchita, ingiallita e piena di pieghe. La dispiegò alla luce del piccolo falò, rivelando quella che appariva essere come una vecchia mappa. Vi apparivano montagne, deserti e brevi corsi d’acqua. A corredo delle immagini, c’erano alcune parole in corsivo, alcune in inglese, altre in spagnolo.

«Sono certo che, ormai, non manchi più molto», borbottò, facendo scorrere le dita sulla carta. «Il tesoro del capitano Kidd non deve essere lontano, lo sento.»

Weisner gettò solo uno sguardo sfuggevole alla vecchia mappa. Per quello che lo riguardava, non c’era alcuna differenza tra i disegni e le parole scritte. In tutta la sua vita, aveva imparato soltanto a vergare – in modo stentato e insicuro, tenendo con cautela la penna con tutte e cinque le dita – le lettere J.W., che gli servivano come firma.

«Se quel vecchio corsaro ha davvero sepolto tra queste montagne il frutto delle sue scorrerie», proseguì l’Olandese, «noi lo troveremo.»

Era entrato in possesso di quella carta per un caso fortuito.

Mentre si trovava a Londra, poco prima della partenza verso il Nuovo Mondo, si era imbattuto in un prete che aveva trascorso quarant’anni in America, e che adesso si stava recando a Roma per poter ammirare da vicino il Soglio di Pietro prima di essere troppo vecchio per farlo. Waltz, per avere qualche informazione in più riguardo al luogo in cui si stava recando, aveva invitato il prete in un pub e gli aveva offerto una birra, in cambio di una bella chiacchierata. Non che il prete gli avesse saputo rivelare un granché di utile, tutto preso a decantare la bellezza e la santità della Città dei Papi, dove finalmente – di lì a pochi giorni — avrebbe messo piede. Ma quando se n’era andato, un po’ alticcio a causa delle birre ingollate, che intanto erano diventate quattro, aveva scordato sul banco una cartella di cuoio piena di vecchi documenti.

Waltz, accortosene dopo qualche minuto, aveva cercato di seguirlo in strada per restituirgliela, ma il prete si era ormai dileguato nel dedalo di vicoli bui, umidi e sporchi dei dintorni del porto di Londra. Così, preso dalla curiosità, aveva aperto la cartella e dentro vi aveva trovato la mappa. A vergarla doveva essere stato un altro prete, vissuto nel secolo precedente, che l’aveva firmata con il nome di Eusebio Francisco Chini.

A Jakob Waltz non era servito che un istante a comprendere che, quella mappa, avrebbe potuto fare la sua fortuna. Quella vecchia carta ingiallita che indicava un luogo di cui non aveva mai inteso parlare – i Monti della Superstizione – celava il segreto del tesoro del capitano Kidd, un favoloso bottino, frutto di anni e anni di scorrerie e arrembaggi, riguardo al quale si favoleggiavano le più svariate storielle. Ne era certo.

Almeno, se aveva decifrato bene l’oblunga e sbiadita calligrafia di Padre Chini. E, soprattutto, se aveva correttamente interpretato la lettera “C” che si trovava all’inizio di una parte della carta che era stata strappata e perduta a causa dell’usura e del tempo.

Ma, altrimenti, cos’altro si sarebbe potuto trovare, al termine di una mappa, se non il più favoloso tesoro mai ammassato da un audace pirata?

Non c’erano dubbi: quella solitaria lettera “C”, non poteva che essere l’iniziale di “Capitano Kidd”.

«Noi lo troveremo, Weisner», disse ancora l’Olandese. «E saremo così ricchi che non avremo più alcun bisogno di lavorare, altro che aprire un ristorante: saranno gli altri, a preparare da mangiare a noi e a servirci a tavola.»

Gli occhi dell’Olandese si alzarono dalla carta e si persero a contemplare in lontananza il profilo delle montagne. Erano tanto aguzze da ricordare torrioni medievali e guglie di cattedrali gotiche. Una misteriosa città scavata dalla natura, che attendeva soltanto il loro arrivo per poter rivelare tutti i segreti di cui era la custode.

E, al di sopra del mistero, aleggiava qualcos’altro, qualcosa che l’Olandese poteva percepire come se fosse stato solido, vicino.

Il miraggio e insieme il richiamo dell’oro.

L’oro che presto avrebbe cambiato per sempre le loro vite.

 

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Avventura / Vai alla pagina dell'autore: Orso Scrive