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Autore: Glenda    17/05/2023    2 recensioni
Firenze, primi duemila.
Artin ha trent'anni e già sa di vivere in un mondo ostile: padre in galera, madre in ospedale, lavoro intermittente e tre fratelli da mantenere, barcamenandosi ogni giorno tra assistenti sociali, bollette e microcriminalità dei quartieri popolari. Finché, il giorno in cui pensa di non farcela proprio più, un misterioso uomo che gli somiglia come un gemello gli propone un patto terrificante...
Questa è una storia d'ambientazione realistica ma dal tono magico-fiabesco, che riprende il filone tradizionale del principe e il povero e degli scambi di identità: ci sono protagonisti eroici, ottimismo, redenzioni inaspettate, gentilezza come se piovesse, e i miracoli accadono. Anche se lo sfondo è cupo. Anche se il mondo è pieno di falsità, macchinazioni, apparenze e ferocia nascosta.
Dunque astenersi i non amanti dei buoni sentimenti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Domenica mattina Vittorio suonò il campanello mentre Artin era ancora in pigiama.

Le finestre erano spalancate perché il cielo era limpido e aveva odori di primavera, anche se l'aria era ancora frizzante, imbevuta della nevicata di qualche settimana prima.

Vittorio si accomodò in cucina e si preparò il caffè come se fosse in casa propria. Artin non si era mai fermato a riflettere su quel gesto: anzi, fino ad allora gli era parso persino naturale, vista la sua estraneità a quel posto.

Ma dal giorno della loro ultima discussione, non riusciva a smettere di pensare ad Elia, a immaginare di essere lui, a cercare di scoprire quale fosse il vero rapporto che lo legava a Vittorio, dato che né l'uno né l'altro avevano mostrato desiderio di farglielo capire.

Cosa provava Elia di fronte ad un gesto del genere? Non la sentiva come una violazione di intimità? Ricordò le lamentele di una sua collega, durante l'ultimo lavoro che aveva svolto: una moretta con occhi accesi, lentigginosa, a cui non era riuscito a chiedere di uscire prima che lo licenziassero. Si arrabbiava un giorno sì e uno no con sua madre perché entrava a farle le pulizie di casa mentre lei non c'era, la soffriva come una vera e propria invasione. Artin le diceva di non prendersela, che avere una madre che si prende cura di noi è bellissimo, e che lui avrebbe fatto volentieri a cambio, ma lei gli rispondeva che la casa era “la sua fortezza”: “non solo fortezza come castello” spiegava “ma fortezza come una delle quattro virtù cardinali, hai presente? Prudenza, giustizia, temperanza e fortezza… Non forza, ma fortezza, che è qualcosa di più della forza. Io pago da sola il mutuo di questa casa, pagare per una casa è come pagare il sogno di camminare con le proprie gambe. Voglio avere un posto in cui chiunque, amico o nemico, bello o brutto, quando entra debba chiedermi il permesso.”

Forse Vittorio non si era comportato con Elia in modo diverso da come si comportava con lui: entrava nella sua vita e la indirizzava, senza neppure pensare, come la madre della sua amica, di essere un ospite sgradito. Chissà se gli aveva mai chiesto di andare a letto con una potenziale cliente, se lo aveva istruito su come comportarsi con una donna, se gli aveva detto in che modo si doveva sorridere. Eppure gli voleva bene: la stretta della sua mano su quel tetto non mentiva.

Ma Elia, invece?

 

- Oggi dobbiamo andare da tua madre. – fece Vittorio, a bruciapelo.

- Eh? -

Artin per un attimo desiderò che gli stesse davvero offrendo di accompagnarlo all'ospedale a vedere sua mamma, ma sapeva che non poteva essere così

- Dalla madre di Elia. Bisogna che tu ci vada. Lo ha chiesto troppe volte, e non possiamo più far finta di niente. -

- La… madre di Elia? -

Elia non gli aveva mai nominato una madre. Neppure Vittorio lo aveva fatto. Possibile che a entrambi fosse sfuggita una cosa talmente importante?

- No, non ti ho parlato di lei. – lo prevenne - Ma non ti era necessario per il tuo lavoro. -

- Non mi era necessario? - Artin si sentì colto sul vivo – Sapere se la propria madre è viva o morta secondo te non è necessario? Pensi che il mio approccio alla vita sarebbe lo stesso, se mia mamma potesse parlarmi, abbracciarmi, darmi un consiglio… ? Se avesse potuto, io non sarei nemmeno qui!-

Vittorio lasciò sfumare le sue domande in un breve silenzio.

- Sei molto legato a tua madre? - chiese poi.

Quella richiesta lo calmò. Era la prima volta che Vittorio s’informava sulla sua vita precedente, e il suo sguardo era quello che lo aveva colpito quel giorno in ospedale: depositario di verità.

- Mia mamma mi ha insegnato a sorridere. Perché a sorridere si impara, non è un dono di natura. Si impara come sorridere, e a chi, e come mai… e questo cambia la natura di un sorriso. Io ho imparato che ciascuno di noi sta combattendo una battaglia di cui non sappiamo nulla, e quindi un sorriso se lo merita. -

- Non mi avevi mai detto nulla di lei. -

C'era qualcosa che somigliava a un senso di colpa, in quella frase.

- Non me lo hai mai chiesto. Ma tanto sai già tutto, no? -

- Non lo so da te. -

- Vittorio, oggi tu sei strano! -

Gli rivolse un sorriso allegro, per sdrammatizzare.

- Non l’ho mai chiesto neppure a lui. -

Abbandonò la domanda tra le pareti di quella casa, testimoni dell'assenza.

- Non ho mai chiesto ad Elia come si sentisse, dopo che sua madre si è ammalata. Sembrava non esserne stato sfiorato. Andava a trovarla ogni tanto, ma solo perché da un figlio ce lo si aspetta. Elia faceva sempre ciò che ci si aspettava da lui, riusciva addirittura a prevederlo. Non gli ho mai chiesto cosa provasse. Si dà per scontato che a una madre si voglia bene: siamo tutti stati educati a questa idea. Ma sotto rapporti così ancestrali ci sono forze profonde che spesso non siamo in grado di capire – si fermò, come per prender fiato - Il padre di Elia era il mio migliore amico. Una notte di agosto si è buttato dalla finestra. -

Non aggiunse altro, si alzò per mettere la tazzina nel lavandino, e Artin capì che la conversazione era finita.

 

La madre di Elia aveva l'alzheimer. Si era ammalata relativamente giovane, e la malattia era già ad uno stadio avanzato. Non teneva il conto dei giorni e la memoria a breve termine era completamente scomparsa. Vittorio non gli aveva detto nulla della sparizione di suo figlio: gli aveva raccontato che era andato all'estero qualche mese per lavoro, ma lei lo aveva già dimenticato. Chiedeva di lui tutte le volte, si tranquillizzava di fronte alla spiegazione, e la volta successiva chiedeva nuovamente.

Vittorio aveva detto ad Artin che aveva scelto di non farli incontrare perché temeva che lei lo avrebbe riconosciuto, così come aveva fatto lui: la malattia annebbia la mente ma non l'istinto.

Poi però aveva cambiato idea, e non gli aveva detto perché.

Artin non sapeva se quella visita fosse un atto di dolcezza o di crudeltà, ma aveva lasciato che la corrente lo trascinasse ancora una volta, lo spingesse ancora più a fondo nella vita di Elia.

La casa della famiglia Avanzini era impressionante: un palazzo antico affacciato sull'Arno, dalle cui finestre si vedevano la biblioteca nazionale e il campanile di Santa Croce. In confronto, l'appartamento che Elia aveva scelto per vivere era decisamente modesto.

I mobili dell'ingresso sembravano emersi dalla bottega di un antiquario, ma non avevano sapore d'antico perché erano tirati a lucido, non un graffio o un segno di vita. Però c'erano piante ovunque: piante verdi, piante da fiori, piante grasse; portavano in quelle stanze senso di respiro.

La badante lo accolse con freddezza: nel suo stringergli la mano senza partecipazione c'era un rimprovero non espresso. Nessuno si poteva permettere di rimproverare Elia Avanzini di non essere un buon figlio, ma si poteva rendere palpabile quel pensiero: Artin per un momento desiderò che lei parlasse, e lo facesse con franchezza, come se attraverso di lui quelle parole potessero arrivare al vero Elia e avessero la forma di un refolo di vento. La vita del suo gemello era piena di polvere.

La signora Avanzini sedeva in poltrona in salotto, e ricamava. Artin trovò bello vedere le sue mani muoversi e pensare che il corpo in qualche modo conserva l'abilità di creare anche quando la mente non lo asseconda più.

- Mamma… - mormorò, quasi difendendosi da quella parola – Mamma… -

- Elia! Peccato che arrivi solo ora! È passata a trovarti quella ragazza, quella così carina, dovresti invitarla a cena, una volta. -

Artin si voltò verso Vittorio in cerca di consiglio, ma lui gli fece cenno di lasciarla parlare.

- Dovresti portarmi una fidanzata. Non posso morire senza averti visto sposato. I figli di tutte le mie amiche si sono sposati. Digli qualcosa tu, Vittorio. -

Pronunciò quell'ultima frase con il tono della consuetudine, e lo sguardo di Artin cadde sulle fotografie appese alle pareti: Elia bambino, una foto di nozze, e in tutte le altre De Nistri, come se fosse un membro della famiglia. La sua ingerenza in quelle vite era così tangibile che persino lui se ne sentì appesantito.

- Ma io ce l'ho una fidanzata, mamma. -

Artin si sedette accanto a lei, e le sorrise con tutta la dolcezza di cui era capace.

- Oh! Ed è una ragazza per bene? La famiglia la conosci? -

Avrebbe voluto risponderle che no, che la famiglia non l'aveva mai vista e che questo non aveva importanza: che era triste che sua madre per prima cosa non gli chiedesse qual era il suo nome.

Ma continuò a sorridere.

- Sono sicuro che ti piacerà. -

La madre di Elia si rivolse a Vittorio.

- Davvero? -

- Davvero. – confermò lui.

- Ma quella ragazza così carina che è venuta a trovarti… -

Riprese in mano il suo ricamo, diede un paio di punti, poi alzò gli occhi ed Artin vide la bellezza che resiste e poi scompare.

Pensò all'uomo della stazione.

- Elia… tu sei morto? -

Un brivido lo scosse fino alla punta dei piedi

- Ed io? Io sono morta? -

 

Quella casa metteva voglia di fuggire. Era come se i fantasmi di mille cose non dette aleggiassero tra le mura. Quando furono fuori e si sedettero in macchina, Artin si sentì sollevato.

- Lei era innamorata di te? - buttò fuori, come se dovesse liberarsi di un peso.

- Che razza di domanda è questa? -

- La tua presenza è ovunque. Persino tra lei e suo figlio. -

Vittorio ripeté la frase che doveva aver eletto ad alibi già altre volte.

- Suo marito era il mio migliore amico. -

- E quindi? -

- E quindi, quando è morto mi sono occupato di loro. Fine della storia. -

Artin provò il desiderio di colpirlo: aveva fatto la commedia per lui, aveva il diritto di sapere.

- Allora, perché ti senti in colpa? -

Vittorio non rispose, mise in moto e fece manovra.

- Non importa che lo dica a me. Però credo che avresti dovuto dirlo ad Elia. -

Lui accese la radio per interrompere quella conversazione: una canzone dolce si diffuse nell'abitacolo.

 

Il bambino rincorreva
la sua barca di carta,
che ci vedeva la vita,
ma il tempo non ha tempo,
l'orologio s'incarta,
la bussola è impazzita
cammini dentro una nebbia
di persone e di cose
che ti facevano sognare,
e hai voglia di andar via
senza accampare scuse
per non aver saputo amare,
quando hai finito tutte le più inutili scuse
per potere restare

 

La macchina si fermò sotto il palazzo, in doppia fila, ma Artin esitava a scendere.

- Non è vero che nulla ha mia toccato la mia vita. – fece Vittorio d’improvviso, senza guardarlo in faccia – Una persona l'ha fatto. La amavo, ma lei non voleva essere la mia famiglia. Lei era una che va, io uno che resta. E siccome non potevo avere una famiglia che comprendesse lei, ne ho trovata una già fatta, accanto ad una donna che, per paura o per abitudine, non sarebbe mai andata da nessuna parte. Sì, forse Serena mi ha amato. E sì, forse Elia mi ha odiato perché non ho saputo amarla, ma sono rimasto nella loro vita lo stesso. Ho fatto per loro tutto ciò che credevo fosse giusto fare. Ho fatto di Elia il mio socio, l'ho voluto dov'era a tutti i costi, ho fatto in modo che avesse la migliore delle carriere possibili. Ho protetto Serena, ne ho avuto cura, ho cercato di farle avere tutto ciò che desiderava, l'ho aiutata a crescere suo figlio come se fosse mio. Ho sbagliato? Può darsi, visto come sono andate le cose. Ma tu, tu che credi di capire tutto, tu che credi di potermi dire cosa sarebbe stato meglio per me… cosa avresti fatto al posto mio? Oh, certo. Tu non saresti stato al posto mio. Tu avresti fatto come Elettra. E come Elia. Tu te ne saresti andato, forse pensando di far bene. Ma non è sempre facile, e non è sempre bene. Nella vita si è legati da tanti fili. -

Artin ebbe un breve tremito che lo costrinse a rannicchiarsi nelle proprie spalle.

Non aveva mai pensato a questa immagine, affascinato da sempre dal pericolo della libertà. Ma sua madre era stata legata dal filo di Giovanni Dorsi, e lui, ora, era legato a quello di Elia Avanzini.

Avrebbe voluto poter tagliare i fili di Vittorio, ma capiva che ogni taglio avrebbe riaperto una ferita. Avrebbe voluto ancora sentirlo parlare di lei, di chi era, del perché l'aveva persa, di perché, perché aveva scelto di fingere l'amore. Ma era ingiusto.

Aveva ragione lui.

Aveva dannatamente ragione: al posto suo, lui si sarebbe sentito in trappola, e non sarebbe riuscito a trovare le ragioni per restare.

Come aveva fatto quella notte, accettando la proposta del diavolo.

Era così: in cima a quel palazzo, credendo di far bene, non aveva fatto altro che andarsene.

Come Elia.

“A volte morire è troppo semplice.” gli aveva detto Vittorio “E’ molto più difficile vivere.” Per la prima volta si rese conto di quanto avesse senso la frase che gli era parsa così banale allora, di quanto parlasse di sé, proprio mentre Artin lo accusava di essere freddo. Elia aveva scelto la strada facile, in cui non doveva più rendere conto a nessuno. In cui non c'erano più fili. E lo aveva fatto anche lui. Non solo: aveva desiderato di farlo ancora, ed ancora, in quei mesi, trovando un modo per lasciare quella vita, e riprendersi la propria: Vittorio lo sapeva benissimo.

Tutti se ne andavano, e lui restava.

Incapace di imitarli, legato dai fili.

Per paura?

Forse no.

Forse, dietro tutti quegli apparenti gesti di ribellione, c'era meno coraggio che nel rimanere fermi.

O forse entrambe le alternative erano sbagliate, e non c'era la terza.

Non c'era: ma c'era l'affetto che si accorgeva di provare per quell'uomo, un affetto potente e doloroso, che lo faceva sentire soffocato.

- Scusami. – mormorò – Scusami, Vittorio. -

  
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