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Autore: Adeia Di Elferas    30/05/2023    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“E cosa dovrebbe essere più importante da sapere, per noi?” chiese Caterina, non con ironia, ma con sincero bisogno di qualcuno che la orientasse: “Che il Cardinale Soderini è tornato dalla Francia vivo e vegeto, o che la città lo ha acclamato quando ha fatto la Messa a Santa Maria del Fiore?”

Fortunati, che aveva invece interpretato la domanda della Leonessa come un tentativo di provocarlo, fece un respiro profondo e mise in chiaro: “La politica di Firenze è molto importante, per te, essendo anche tu cittadina di Firenze. È bene che tu sappia tutto. Immagino che ti importi poco del ritorno del Cardinale, così come della schiera di cavalli e giovani che Firenze ha mandato alla Badia di Fiesole per scortarlo poi fino in città, ma...”

“No, non mi hai capito.” lo fermò la Sforza, con un sospiro di frustrazione: “E non usare quel tono con me. Non sono una discente indisciplinata, ma una tua pari, per non dire un tuo superiore...”

Francesco comprese il proprio errore e, schiarendosi la voce, guardò verso Giovannino che, come sempre, quando era possibile, cercava di stare in braccio alla madre, e chiese: “E questo bel giovanotto? Quando iniziamo a insegnargli un po' di latino?”

Il piccolo Medici aveva già avuto modo di dimostrare un carattere irrequieto, che si addomesticava solo agli ordini della madre. Probabilmente nel plurale usato dal piovano, si sottintendeva proprio la sua speranza di convincere Caterina ad affiancare chiunque fosse stato incaricato di istruire il bambino.

Già i servi di casa avevano avuto modo di provare il temperamento del piccolo che, come liberato da una gabbia, correva e si scatenava a ogni pie' sospinto, e nessuno aveva osato avanzare rimostranze con la Leonessa, temendone la collera. Quest'omertosa sopportazione, secondo Fortunati, non avrebbe portato ad altro che a un'esacerbazione dei difetti di Giovannino, fino a renderlo ingestibile.

“Vuoi provare tu a insegnargli il latino?” chiese la milanese, sollevando un sopracciglio.

“L'altro giorno ha tirato i capelli alla balia di Pier Maria solo perché gli ha chiesto di non correrle accanto mentre teneva in braccio il piccolo!” esclamò il fiorentino.

“Non glieli ha tirati davvero.” ribatté Caterina, un po' risentita.

“Solo perché è troppo basso. Se fosse riuscito a saltare fino ad afferrarglieli, l'avrebbe fatto!” fu la recriminazione a voce acuta del piovano.

“Come immaginavo...” fece allora la donna, con un altro sospiro, scuotendo appena la testa: “Mi toccherà cercare qualcuno che sia più temerario di te. In fondo, non tutti possono domare un piccolo leone, non trovi?”

Giovannino, in tutto quel dibattito, era rimasto incollato alla madre, guardando il fiorentino di sottecchi coi suoi occhietti di un verde tanto scuro da sembrare neri. Francesco era sicuro che stesse capendo molto più di quanto non desse a vedere. Lo spettacolo a cui stava assistendo silenzioso non era solo quello di una Leonessa che difendeva il proprio cucciolo, ma quello di una Sforza che rimetteva in riga con arguzia – con arroganza, pensò in realtà Fortunati – un sottoposto.

L'uomo stava pensando a come controbattere, quando frate Lauro si affacciò nella sala e, guardando la Tigre, disse: “Madonna, è arrivato questo per voi.”

Caterina si alzò, convincendo Giovannino a lasciarla finalmente, e prese il messaggio, ringraziando Bossi. Lo aprì subito e si accorse che si trattava di una breve di Creobola.

Bianca le aveva già anticipato tramite una lettera giunta qualche giorno addietro che la serva sarebbe rientrata a Castello. Non aveva dato molte spiegazioni, scrivendo solamente che riteneva potesse servire di più alla madre che a lei, essendo in procinto di partire per San Secondo.

Creobola, nelle poche righe scritte nella sua grafia precisa, ripeteva sostanzialmente quanto preannunciato dalla Riario, aggiungendo che era già in strada e sarebbe arrivata al massimo nel giro di un giorno dall'arrivo del messaggio, se i suoi calcoli erano buoni. Chiudeva rallegrandosi del fatto che anche 'Madonna Bianca e il suo augusto sposo' avevano infine lasciato Roma e si apprestavano a raggiungere 'due importanti città' prima di arrivare a destinazione.

“Passeranno da Reggio e Parma...” dedusse la donna, non vedendo quali altri città potesse intendere Creobola: “Forse dovrei scrivere a Ottaviano...”

Fortunati, che si era alzato e si era messo a leggere da sopra la spalla della donna, scosse il capo e consigliò: “Io lascerei che sia Bianca stessa a farlo, nel caso voglia incontrarlo. Sa benissimo che suo fratello non è lontano da Piacenza e che quindi potrebbe raggiungerla velocemente...”

La Tigre, che si fidava ciecamente della figlia e del suo giudizio, si trovò a convenire con il piovano: “Hai ragione. Io non farò assolutamente nulla. Bianca è adulta e sa come muoversi. Posso solo darle un parere o un aiuto nel caso in cui me lo chiedesse...”

Per qualche secondo ancora la Sforza parlò della figlia, augurandosi a voce alta che un viaggio impegnativo come quello non andasse a complicare la gravidanza già abbastanza avanzata. Solo quando l'argomento fu esaurito, la donna tornò a concentrarsi su Giovannino, che allungava le braccia verso di lei, in silenzio, come faceva spesso.

Mentre lo prendeva, la milanese si rivolse di nuovo a Francesco e fece notare: “Comunque non hai ancora risposto alla domanda che ti ho fatto riguardo al Cardinale Soderini...”

“Che domanda era..?” fece lui, accigliandosi.

“Lascia perdere...” sospirò allora lei e poi, rivolgendosi al figlio, chiese: “Andiamo a vedere se Bernardino e Galeazzo vogliono tenerti un po' con loro a fare esercizio?”

Il Medici si morse il labbro e poi annuì, aggiungendo: “Con la spada.”

“Sì, con la spada.” rise Caterina, fondamentalmente felice che il figlio esprimesse il desiderio di esercitarsi nella scherma.

“Crescerà come un piccolo selvaggio...” provò a rimarcare di nuovo Fortunati, mentre la Tigre guadagnava la porta.

“Allora cercagli un precettore.” lo istigò lei: “Ti lascio carta bianca.... Ma dovrai dire a suddetto precettore che io non potrò pagare granché, finché non avrò concretamente l'eredità di Giovanni.”

“E allora sborserò quel che serve di tasca mia...” borbottò il piovano, suscitando un'altra risata della donna.

Anche Francesco, dopo un primo momento, sorrise. Era bello vedere Caterina ridere e spianare le solite rughe di preoccupazione che le scurivano il viso. Da quando Giovannino era alla villa, i momenti di leggerezza non erano più una rarità. Se per far durare quel delicato incantesimo il piovano doveva ingoiare un po' di rimbrotti e qualche battibecco sull'educazione del piccolo Medici, era disposto a farlo.

“A proposito di sborsare di tasca tua...” fece a quel punto la Leonessa, tra il serio e il faceto: “La tempesta della scorsa settimana ha aperto uno squarcio nel tetto. Ho dato un'occhiata, con Galeazzo, ma ci vorranno almeno un paio di uomini capaci per aiutarci a sistemarlo... Ti andrebbe di chiedere in giro e reclutare quelli che, a parità di muscoli e acume, costano meno?”

Il piovano, che in effetti aveva sentito la donna lamentarsi di quel danno già qualche giorno addietro, annuì e rispose: “Come la mia signora comanda.”

 

Bianca e Troilo avevano lasciato Roma ormai da giorni. La prima parte del viaggio era stata la più complicata, ma, paradossalmente, anche quella che avevano preferito.

Occupati a lasciare il Lazio senza correre troppi rischi, avevano attraversato gli Appennini, scontrandosi con un paio di intemperie notevoli, per quel periodo dell'anno. Si erano dovuti guardare le spalle non solo da possibili nemici in agguato, ma anche dai soliti ladri che pullulavano sulle vie più trafficate. Una mattina, uno degli uomini di fiducia del De Rossi, aveva sventato proprio l'attacco di un gruppetto di borseggiatori, restando lievemente ferito.

Per la Riario era stato quasi un divertimento medicarlo e seguirne la guarigione, seguendo i consigli e le ricette di sua madre Caterina.

In generale, in quei primi giorni, lei e il marito avevano vissuto continuamente a stretto contatto, in presenza dei soldati di Troilo – che lui aveva a cuore che la moglie considerasse soldati al servizio di entrambi e non solo di lui – e, malgrado i fastidi fisici legati alla gravidanza ormai avanzata, Bianca era stata sempre bene. Di giorno viaggiava sul carretto che il consorte aveva insistito per rivestire di cuscini e stoffe morbide, mentre di notte, di solito, si fermavano in una locanda o, se non era possibile, montavano delle piccole tende da campo, quasi fossero un esercito in forma ridotta.

Arrivati a Reggio, invece, la questione si era fatta molto più complicata. Troilo era atteso, ed era un uomo noto, per quanto fosse stato di rado in quella città. In molti erano curiosi, tanti altri volevano parlargli per provare a corromperlo per avere dei favori, altri ancora volevano capire da che parte stesse realmente, ora che la Francia e il papato sembravano aver rotto l'idillio che li legava fino a pochi mesi prima.

Tutto ciò si era tradotto, per Bianca, in una sequela continua di inviti a pranzo e a cena, di incontri con questa o quell'altra dama, di pettegolezzi e lunghe ore senza attrattiva alcuna a discutere di cose di cui non le importava granché.

Quando, esauriti gli incontri necessari, avevano lasciato Reggio, la Riario ne era solo stata felice.

Anche a Parma c'erano degli impegni da onorare, ma, per la giovane, si trattava di cose molto più interessanti. Quella città stava vedendo, proprio in quei giorni, una concentrazione molto particolare di personaggi importanti.

Oltre al Trivulzio – che attendeva con ansia di riabbracciare l'amico Troilo – erano in zona Ercole Este, il Trémouille e Francesco Gonzaga. Ovviamente Gian Giacomo aveva preso contatti per tempo con il De Rossi affinché li raggiungesse a uno dei loro incontri e l'emiliano non aveva alcuna intenzione di rifiutarsi.

“Vorrei portarti con me, a quest'incontro...” fece Troilo, mentre si preparava per raggiungere gli altri per un incontro fissato per quella sera.

Bianca, una mano sulla schiena, che le faceva un po' male a causa dei disagi del viaggio, lo guardò con un sorriso a metà e scosse il capo: “Anche io vorrei esserci, lo sai.” fece un profondo sospiro e aggiunse: “Ma cosa direbbero di te? Che hai bisogno di tua moglie, perché altrimenti non sapresti cosa dire? Oppure che sei così geloso di me da non fidarti a lasciarmi sola nemmeno due ore?”

“Magari penserebbero che sei una donna di valore, come tua madre, e che a mio avviso la tua opinione è importante e...” provò a dire lui, mentre la moglie gli sistemava il colletto del giubbone e lo controllava da capo a piedi per controllare che fosse in ordine.

“Non se ne parla.” fece Bianca, smettendo di sorridere e facendosi terribilmente seria: “Meglio che non ricordino troppo chi è mia madre, né che io sono sua figlia.”

“Ma il Gonzaga è amico di tua madre e...” provò il De Rossi, ma ancora una volta la giovane lo zittì.

“Mia madre è una presenza scomoda per tutti.” decretò: “Anche quelli che ne vorrebbero sfruttare la storia per andare contro al papa, avrebbero preferito saperla morta a Ravaldino. Una Tigre morta come una martire sarebbe stata molto più utile che non una Leonessa senza più artigli che vive tranquilla e protetta da Firenze.”

“Ne parli in modo molto duro.” sussurrò l'uomo, incupendosi a sua volta.

“Anche lei direbbe quello che ho detto io.” fece presente la Riario: “E se non fosse così, avrebbero cercato un contatto, anche indiretto, con lei, per riorganizzarsi contro il papa.”

Troilo, questa volta, poté solo stringere le labbra e darle ragione con un cenno del capo.

“Non parlare di me, mai.” riassunse infine Bianca: “Se qualcuno ti fa domande dirette a riguardo del nostro matrimonio o di me in generale, rispondi solo che per ora ti sembro una buona moglie, e che sto per darti il tuo primo figlio. Al massimo aggiungi qualche commento volgare, che a quella gente piace sempre. Per il resto, non dire nulla.”

 

“Sì, cominceranno oggi a battere quattrini bianchi e grossoni di venti quattrini...” stava spiegando Alamanno, anche se Jacopo, che pur gli aveva posto una domanda su cosa stesse succedendo alla zecca di Firenze quel giorno, non lo stava ascoltando da un pezzo.

La casa, quel 19 luglio, era silenziosa e caotica allo stesso tempo. Lucrezia aveva cominciato ad avere le doglie di prima mattina e, mentre il clima fuori si arroventava sotto al sole dell'estate, serve e levatrici si erano impossessate del comando e si erano messe a dare ordini a destra e a manca.

Il cugino di Jacopo, che ultimamente visitava spesso i Salviati, si era trovato lì per caso e, capito che la Medici stava per partorire, aveva deciso di restare, per poter dare conforto e, all'occorrenza, per dare un aiuto. Le nascite erano sempre un'incognita, in fondo, e non si sapeva mai se e quando sarebbe servito, per esempio, un medico o un prete.

Le ore si erano susseguite tutte uguali, e Alamanno aveva fedelmente fatto da spalla per il cugino, digiunando, proprio come lui, e restando immobile sulla stessa panca al suo fianco per tutto il tempo.

Dalla camera di Lucrezia non arrivavano notizie ormai da parecchio, né si sentivano grida, tanto meno il solito vociare delle pie donne che si affaccendavano per la partoriente. Jacopo, che dalla morte della madre non era ancora riuscito a fare pensieri che potessero dirsi pienamente positivi, iniziava a temere il peggio.

Era talmente cupo e annichilito, da non trovare nemmeno la forza di esprimere a parole i suoi timori. Tutto quello che riusciva a fare era guardare un punto fisso davanti a sé e, di quando in quando, porre una domanda banale ad Alamanno e lasciarlo rispondere a lungo, senza mai interromperlo e, soprattutto, senza mai ascoltarlo.

Finalmente, era ormai pomeriggio inoltrato, una delle serve corse nella sala in cui i due uomini aspettavano. Guardò il padrone di casa e gli chiese di seguirlo. Solo perché Jacopo sembrava prossimo a svenire, la donna si premurò di anticipare che tutto era andato bene, che sua moglie l'aspettava e che non c'era nulla di cui preoccuparsi.

Rincuorato da quelle premesse, l'uomo arrivò nella stanza della Medici con il cuore un po' più leggero e quando la vide, stremata, ma viva e sorridente, con già un fagottino tra le braccia, intenta a cercare di allattare il neonato, Jacopo si permise davvero di tornare a respirare.

“Ti presento Cornelia.” disse Lucrezia, con la voce sottile, mentre cercava di nuovo di imporre il capezzolo alla piccola che, però, sembrava non volerne sapere: “Vuoi prenderla in braccio?” chiese subito dopo, quasi a voler mascherare quella ritrosia della poppante dandola al marito.

L'uomo non si era accorto di quella strategia, così non fece osservazioni in merito, ma prese con gioia la bambina, osservandone il viso pallido e gli occhioni schiacciati, ancora non abituati alla luce: “Sono così felice che stiate entrambe bene...” sussurrò.

La Medici annuì appena e poi, allungando una mano verso il marito, aggiunse: “Vedrai che adesso andrà tutto bene...”

Il Salviati annuì, anche se nella sua mente c'era spazio solo per un pensiero, in quel momento, ossia che, a differenza di quando erano nati tutti gli altri suoi figli, non avrebbe potuto darne notizia a sua madre Elena.

Come se potesse sentire i pensieri del marito, Lucrezia si accigliò e disse piano, indicando con lo sguardo la neonata: “Se non avessimo già una figlia con il suo nome, avremmo chiamato lei Elena.”

Jacopo, sforzandosi di sorridere, fece un cenno con il capo e poi si schiarì la voce, cercando di portare altrove il discorso: “Avremmo potuto chiamarla Clarice, come tua madre...”

Siccome spesso quella proposta aveva suscitato battute irritate, ma tutto sommato ironiche, da parte della Medici, l'uomo restò un po' spiazzato, quando, invece la donna si incupì e rispose, cambiando davvero argomento: “Potresti chiedere alla levatrice se mi è permesso bere un sorso d'acqua? Ho le labbra secche e ho sudato moltissimo, con questo caldo...”

“Certo.” sussurrò lui e, rendendo la piccola Cornelia a Lucrezia, che tentò di nuovo di portarla al seno, andò subito a cercare la levatrice.

 

Troilo inclinò la testa di lato, cercando di non fare troppo caso all'accento francese del Trémouille, che stava dicendo quanto lo impensierisse il fatto che Miguel de Corella stesse radunando truppe per i pontifici.

“Ha fatto anche uccidere due Capitani di tradiotti – spiegò il francese – che avevano chiesto e ottenuto una licenza per recarsi dal Valentino...”

“Per gente come i Borja i permessi e i salvacondotti sono solo carta straccia.” ribatté secco il Duca di Ferrara: “Hanno lasciato l'onore e l'integrità in Valencia. A Roma hanno portato solo avidità e perfidia...”

Tutti i presenti sapevano quanto l'Este, nel profondo, fosse un credente. Si era vantato più volte di aver dato ospitalità a una monaca in odore di santità ed era quindi logico che più di altri si sentisse schifato dal modo in cui Alessandro VI e suo figlio spadroneggiavano sulla Santa Sede, piegandola a usi e costumi discutibili. Anche altri papi si erano abbandonati al vizio e al peccato, ma, tutti erano concordi su questo, nessuno l'aveva mai fatto con la stessa sfrontata impudicizia del papa borgiano.

“Adesso, comunque, la vostra priorità è invadere il Regno di Napoli.” fece il Marchese di Mantova, masticando a bocca aperta, il grosso indice, unto dal grasso del pollo che stava divorando, puntato contro il francese: “Se siamo qui è perché voi francesi volete assicurarvi che noi vi sosterremo, se il papa dovesse mettervi i bastoni tra le ruote...”

“Siete sempre molto chiaro, nell'esprimervi.” commento il Trivulzio, cercando di suonare più diplomatico di quanto non si sentisse.

Da qualche giorno non si sentiva bene e il suo medico non riusciva né a capire cosa avesse, né, quindi, a trovargli una cura che alleviasse il suo malessere. Aveva già deciso, terminati gli incontri importanti a Parma, di andare a Vigevano, dove avrebbe avuto a disposizione cure migliori. Gli premeva, però, prima assicurarsi che tutto stesse andando nella direzione da lui sperata.

“Io parlo come un soldato parla ad altri soldati.” fece il Gonzaga, guardando Gian Giacomo e poi provando a guardare anche il De Rossi, quasi sperasse di trovare un alleato in quell'emiliano tanto taciturno: “Le cose vanno dette come sono, almeno tra noi...”

“E allora perché non ci dite come mai avete accettato la nomina papale, come Capitano Generale della Chiesa?” domandò l'Este, pungente.

Il genero, per lui, era a tratti un mistero insondabile. Non lo trovava un uomo abbastanza sveglio da potersi tenere in equilibrio tra troppe funi sospese, ma nemmeno così sciocco da aggrapparvisi senza rendersi conto del pericolo...

“Vostra figlia Isabella sa quello che fa, suppongo.” ribatté Francesco, sibillino solo fino a un certo punto.

Quelle poche parole, infatti, bastarono al ferrarese per capire chi avesse deciso di far camminare il Gonzaga in quell'intrico sospeso, e, allo stesso tempo, bastarono per tranquillizzarlo: “Allora sarete per noi una preziosa risorsa.” disse, prendendosi appunto mentale di incontrare la figlia quanto prima, per domandarle spiegazioni.

“Tornando alla questione di Napoli...” riprese la parola il Trivulzio, evitando, provvidenzialmente, che il Trémouille trovasse il tempo di fare qualche battuta di spirito circa l'ingerenza di una donna come Isabella nei maneggi del marito: “Quel che si dice su Gaspare Sanseverino è vero? Ha dovuto abbandonare l'Aquila assieme al Gaglioffi?”

“Fabrizio e Prospero Colonna hanno preso la città, sì.” confermò l'Este, che si era tenuto molto informato su quei movimenti al sud.

“Sembra che da lì il Sanseverino se ne sia andato a Cittaducale e poi verso Orvieto e San Lorenzo, ma nel frattempo molti dei suoi sono stati uccisi e svaligiati.” confermò il Gonzaga, benché non sapesse se quelle fossero solo chiacchiere o realtà comprovate.

Gli uomini discussero ancora per un'oretta di cosa era stato fatto e di cosa ancora andava fatto, e poi, quando venne il momento di congedarsi, ormai a sera più che inoltrata, il Trivulzio trovò il modo di avvicinarsi all'amico Troilo e parlargli senza che nessuno li ascoltasse.

“Vorrei poter incontrare la tua sposa.” gli sussurrò.

Il De Rossi, che trovava l'amico cereo e affaticato, fu tentato di sviare il discorso chiedendogli innanzitutto come stesse, ma il Trivulzio non gliene diede il tempo.

“Fammi sapere quando e come posso vederla.” lo pregò.

“Non c'è alcun problema... Anche se prima voglio dirlo anche a lei...” prese tempo Troilo, non comprendendo tutta quell'urgenza: “Nel frattempo, se posso anticiparle qualcosa io...”

“Voglio vedere direttamente lei.” ribadì il milanese: “Voglio capire se suo fratello Ottaviano è o meno un possibile alleato. Non è lontano da qui, ma non ho ancora capito se incontrarlo potrebbe essere un bene o un male. Dicono che sia solo dedito al vino e alle belle donne...”

Il De Rossi si morse il labbro e poi, puntando le iridi color dell'ambra sull'anziano amico, disse, con grande onestà: “Non conosco Ottaviano, non posso parlarne né bene e né male, per diretta esperienza. Conosco, però, mia moglie e mi fido del suo giudizio, quindi posso dirti che di guerra e politica potresti parlare molto meglio con Bianca che non con Ottaviano.”

“Come sospettavo...” sospirò il Trivulzio: “A maggior ragione, voglio vederla.”

“Stanotte le dirò che me l'hai chiesto. Domattina ti farò sapere se e quando ti incontrerà.” rispose l'emiliano.

A metà strada tra il divertito e l'allarmato, Gian Giacomo fece una risatina ed esclamò: “Credevo che fossi tu a comandare in casa tua... Invece hai detto che mi farai sapere se mi vorrà incontrare...”

Troilo non rispose, abbassando un attimo lo sguardo, incerto su come gestire quell'attacco che, da uno come il Trivulzio, non si sarebbe aspettato. Volle imputare quella frecciatina al dolore che evidentemente l'uomo provava, alla malattia che lo corrodeva, quale che fosse, ma non ci riuscì del tutto.

“Che ti ha fatto quella ragazzina, Troilo?” chiese il Trivulzio, con un sorriso incredulo.

“Non è una ragazzina. È mia moglie. È la figlia di una donna che ha tenuto sotto scacco l'Europa intera per mesi... Nel suo sangue scorre quello dei Visconti e degli Sforza.” precisò il De Rossi, cupo: “Mi è pari, non subordinata. Quindi sarà lei a decidere se incontrarti o meno.”

Capendo di aver commesso un errore a rivolgersi a quel modo all'amico, il Trivulzio si schiarì la voce e, allargando un po' le braccia, come ad ammettere le proprie colpe, sospirò: “Hai ragione, sono stato scortese. Però, stanotte, ti prego, cerca di ammansirla abbastanza da farle dire di sì. Per me è davvero importante poterle parlare.”

“Deciderà con la sua testa.” rimarcò l'emiliano.

Gian Giacomo, appoggiandosi al prestante amico, fece una risatina, questa volta leggera, e commentò: “Non essere sempre così serio...” poi gli diede un colpetto sul braccio e concluse: “Io scommetto che sai bene come metterla di buon umore e renderla ben disposta... Prima fai quello che devi, e poi falle sapere che voglio incontrarla.”

Il De Rossi, tornato nel palazzo in cui erano ospiti lui e la moglie, ancor prima di cambiarsi gli abiti, andò subito nella stanza di Bianca. Trovava scomodo che lui e la sua sposa avessero due appartamenti differenti e nemmeno molto vicini tra di loro, ma la giovane aveva insistito affinché non facesse resistenze su quel punto: se quelle erano le buone maniere, per chi li ospitava, loro avrebbero fatto del loro meglio per rispettarle, almeno di facciata.

La Riario era ancora sveglia, con la sua copia personale del ricettario della madre tra le mani. Non aveva con sé altri libri, a parte un libriccino di preghiere e una copia di poco valore di un dispensario di alchimia, dunque, quando voleva distrarsi con la lettura non aveva molta scelta. Anzi, proprio quell'obbligo dettato dalla necessità la stava portando a studiare più a fondo le ricette di sua madre, comprendendo meglio non solo il loro funzionamento e la loro composizione, ma anche e soprattutto il mondo di sua madre.

Troilo la salutò in fretta e, prima ancora di levarsi anche solo i calzari o il giubbone, ancora accaldato dalla strada fatta quasi di corsa, le riferì parola per parola, nel modo più fedele possibile, tutto ciò che si era detto all'incontro con il Trémouille, il Gonzaga, l'Este e il Trivulzio.

La giovane, accarezzandosi pensosa di quando in quando il ventre gonfio, annuiva e a tratti poneva qualche breve domanda. Era evidente come il resoconto del marito stesse suscitando in lei ragionamenti e valutazioni di ogni sorta. Se non fosse stato tanto ansioso di saperne il parere finale, Troilo le avrebbe di certo chiesto di descrivergli anche il fine lavorio che stava portando avanti nella sua testa.

“Per il momento, noi non dobbiamo esporci.” concluse la Riario: “Nessuno può dire come finirà questa guerra, né se quelli che ora gridano alla ribellione si ribelleranno davvero al papa. È già successo qualche mese fa...”

Il De Rossi annuì appena, chiedendosi come avrebbero fatto di preciso a non schierarsi per nessuno, dato che lui, comunque, arrivava da anni di militanza per i francesi, pur non avendo mai avuto diretti rapporti con il Vaticano, in merito alle questioni belliche.

“Noi a ognuno diremo che capiamo la loro posizione, ma che abbiamo una rocca di rimettere in piedi, un bambino da crescere e le campagne da pacificare e rimettere in ordine.” sospirò la donna, grattandosi pensierosa la tempia: “Non ci diremo contrari a nessuno, e se qualcuno ci chiederà di esprimerci in modo chiaro contro il papa, risponderemo che per via di mia madre, che ne è stata prigioniera, ci è difficile esprimerci in modo... Gentile.”

“C'è un'altra cosa.” disse allora il De Rossi e, cercando anche stavolta di usare i termini più simili a quelli usati dal Trivulzio, riferì la richiesta del condottiero.

Un po' a sorpresa, la Riario rise, divertita: “Questo Trivulzio ti ha dato un buon consiglio...”

“Ossia?” chiese l'uomo, confuso.

“Di addolcirmi, per farmi dire di sì...” ribatté lei, scherzosa, strizzandogli l'occhio.

L'emiliano, che aveva ancora la testa all'incontro, non credeva possibile che invece Bianca stesse già pensando ad altro: “Ma immagino sarai stanca...”

“Se non ne hai voglia, basta dirlo.” tagliò corto lei, cercando di dissimulare una certa delusione.

Indugiando sul corpo della sua sposa, che per via del caldo era scoperta e indossava solo una leggera veste da camera, Troilo sembrò vacillare. In fondo, pensò, era inutile arrovellarsi ancora sulla politica, dato che sua moglie gli aveva già dato una ricetta giusta per sopravvivere almeno a quel primo momento di confusione diplomatica.

“E del Trivulzio che mi dici?” le chiese, prima di cedere una volta e per tutte ai suoi movimenti sinuosi che, per quanto sembrassero casuali, ad altro non servivano se non a irretirlo.

“Lo incontrerò.” assicurò lei: “Non voglio che parli con Ottaviano e creda che tutti i Riario sono degli idioti...”

Questa volta anche il De Rossi rise e poi, alleggerendosi finalmente un po' dai vestiti che portava addosso da tutta sera, si stese accanto alla moglie e le accarezzò il pancione: “Non vedo l'ora di essere a San Secondo. Là nessuno potrà dirci cosa dire e cosa fare e nemmeno in che stanza dormire...”

“Allora vuoi proprio dormire e basta, stanotte.” lo punzecchiò di nuovo lei.

Divertito da quell'insistenza, l'uomo la baciò e poi, cercando, come ormai da qualche settimana dovevano fare per via della gravidanza avanzata, di stringere a sé la moglie in modo da non darle fastidio né farle male in alcun modo, le sussurrò: “Sì, voglio dormire, ma dopo...”

 

Caterina diede ancora un colpo di tosse e poi tornò a concentrarsi sulle staffe del cavallo che aveva scelto appositamente per far provare a Giovannino l'ebrezza di stare in sella.

Non aveva, nella sua piccola scuderia, nessuna bestia che fosse della taglia giusta per un bambino di poco più di cinque anni, ma il Medici aveva insistito molto e la donna non se l'era sentita di negargli ancora quella gioia. Aveva rassicurato mille volte il piovano, dicendo che non sarebbe salita in sella a sua volta e che sarebbe rimasta a tiro d'occhio, in modo che nessuno, nemmeno tra la servitù, potesse avere il minimo sospetto che volesse scappare.

Anche se Lorenzo era morto e anche se Semiramide Appiani aveva dichiarato di non voler dar seguito al processo, di fatto il tribunale stava ancora cercando di esprimersi a riguardo dell'eredità e dunque era fondamentale non commettere passi falsi proprio in quel momento.

“Perché non hai ancora preso nessuno dei tuoi intrugli, per farti passare quella tosse?” chiese Fortunati, arrivando alle spalle della Tigre.

La donna, che aveva iniziato ad avere qualche fastidio da un paio di giorni, agitò la mano in aria e rispose: “Colpa del caldo. Si suda troppo e viene la tosse... Non è necessario prendere nulla, per ora.”

“Come vuoi.” si arrese il piovano: “Oh, arriva il nostro piccolo cavaliere...”

Giovannino, che era stato preparato di tutto punto da Galeazzo e Bernardino, sembrava un fantoccio da addestramento, più che un cavaliere. Per paura che potesse farsi male, i fratelli lo avevano ricoperto di protezioni, convincendolo a mettere anche in testa una sorta di elmo posticcio imbottito di stoffa. A quanto pare anche Creobola aveva contribuito, coi suoi consigli, a raggiungere quel risultato che aveva qualcosa di esilarante.

La Leonessa, nel vederlo, si lasciò sfuggire una risata e poi, controllando una volta di più i finimenti del cavallo, lasciò le briglie a Francesco – che, suo malgrado, le dovette prendere – e andò a recuperare il figlio.

Dopo un altro colpo di tosse, lo prese sotto le ascelle e, facendo più fatica di quanto avrebbe creduto, lo issò di peso sul cavallo. La bestia quasi non si accorse del peso del bambino, mentre Giovannino, serio e attento come non mai, si aggrappava alla criniera.

“Tieni queste – gli disse la madre, porgendogli le redini e mostrandogli come impugnarle – e tieni bene i piedi nelle staffe... Sono un po' lunghe, ma non ne abbiamo di migliori...”

Benché le avesse accorciate al massimo, infatti, il bambino arrivava appena agli staffili, ma ciò non bastò a demoralizzarlo. Fiero e impettito come un piccolo comandante, mentre la donna faceva muovere in avanti il cavallo, il piccolo Medici fece del suo meglio per seguire le indicazioni della madre.

Sotto lo sguardo d'approvazione dei fratelli e del piovano, il bambino fece avanti e indietro qualche volta, fino a che in lontananza si vide arrivare un altro cavallo, ben più veloce. Era di certo un messaggio.

Caterina attese con pazienza che il messaggero fosse più vicino e poi fece un cenno a Fortunati, affinché andasse lui a sentire che novità c'erano. L'uomo eseguì e così la Leonessa restò al suo posto, in attesa.

Il piovano ringraziò il messaggero e lo congedò, prelevando la lettera e tornando da Caterina: “Si tratta di un messaggio di Bianca.”

La donna, lasciando un momento la guida del cavallo a Galeazzo, aprì subito il messaggio, per capire se fosse foriero di notizie positive o negative. Quando comprese che si trattava, perlopiù, di notizie politiche, si morse il labbro e lanciò un'occhiata a Giovannino che, pur sempre concentratissimo, continuava a occhieggiare verso di lei, per reclamarne di nuovo l'attenzione.

“Scusatemi tutti... Devo... Voglio leggere subito questo messaggio con calma...” disse infine la Sforza, senza riuscire a trattenersi: “Galeazzo, Bernardino... Pensate voi a vostro fratello? Quando è stanco, fatelo scendere...”

Il Medici guardò la madre allontanarsi, già immersa nella lettura, e si adombrò. Non fosse stato per una certa cocciutaggine – che si manifestava ogni giorno di più – che gli imponeva di mantenere il viso inespressivo, probabilmente si sarebbe messo a piangere.

Bernardino colse quella sfumatura rabbiosa e triste allo stesso tempo e, con un sorriso rassicurante, si rivolse al fratellino e spiegò: “Nostra madre è così... Ci ama molto, ma la guerra verrà sempre prima di ogni altra cosa, per lei...”

Giovannino deglutì e, fingendo di aver capito alla perfezione ogni implicazione di quella dichiarazione, disse: “È giusto che sia così.”

Il Feo e il Riario si scambiarono uno sguardo perplesso e poi Galeazzo, convinto che il Medici avesse parlato senza troppa cognizione di causa, decise di gettare acqua sul fuoco prima ancora che divampasse, facendo eco: “Vero: è giusto che sia così...”

   
 
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