Splendeva incredibilmente l’acqua del Lemano sotto il sole ardente di fine maggio.
Oscar sospirava, mentre gli scossoni della carrozza non le lasciavano prendere sonno, cosa che, da un certo punto di vista, avrebbe desiderato ardentemente, quasi per scacciare la possibilità di riflettere su quanto stava facendo. Nella tasca interna del suo giustacuore, due lettere sembravano trafiggerle il costato, come un dolce tormento: la prima iniziava con le parole “Con lealtà di Re, e con affetto di Padre”[2]; dell’altra, più che il contenuto, le risuonavano nell’animo il tono, quello di una donna che è felice per l’amica, che ama e stima, ma che è anche consapevole che quel cambiamento di vita significhi anche una interruzione dalla frequentazione quotidiana.
La nuova bambinaia di Louise Auguste, invece, Hélène, una bretone rubizza dalle lunghe trecce ravvolte intorno al capo, che aveva accettato quell'inedita, imprevista avventura con entusiasmo, sonnecchiava, anzi, dormiva saporitamente, mentre la piccola, forte dei suoi quasi sei mesi, gorgheggiava nella sua cesta porte-enfant, fra la bambinaia, che sosteneva la cesta con il braccio sinistro e André, che leggeva le Odi di Ronsard, una mano, la sinistra, a reggere la fine edizione rilegata in marocchino blu, l’altra, la destra, posata sul porte-enfant, a reggere dai sobbalzi e a carezzare leggermente il corpicino di quella bambina, alla quale, senza mettere conto dell’affetto tenerissimo che aveva immediatamente suscitato in lui, doveva anche la definitiva uscita da uno stallo di tanti, troppi anni, e la sua, la LORO nuova vita
Oscar, da parte sua, ogni tanto incrociava lo sguardo di André, che si levava dalle righe del volume di Ronsard verso di lei, quasi in sincrono, con un accenno di sorriso fra il dolce e il sornione, e pensava: pensava che il fazzoletto da collo che aveva comprato ad André[3] prima della partenza, in una delle ultime uscite ad Arras, gli stava davvero bene; che la giacca nuova di un bel blu cupo gli calzava a pennello, fasciandogli a perfezione le spalle ampie e quelle braccia così forti e muscolose dalle quali era tanto bello essere stretta, e scaldata, la notte (e qui Oscar arrossì lievemente); pensava che André era veramente bellissimo, e che era impossibile anche solo immaginare come avesse potuto non notare mai, in tutti quegli anni passati insieme, non solo la sua oggettiva avvenenza, ma nemmeno il suo amore per lei… e il proprio per lui; o forse, forse, non ne era stata consapevole, eppure quel sentimento c’era sempre stato, come le radici che, in profondità, tengono insieme il terreno nelle foreste, che non si vedono, ma che, tuttavia, gli impediscono di franare[4]… C’era sempre e da sempre, ed era stato la sua, la loro salvezza.
Anche quando lei non lo sapeva.
Anzi: soprattutto quando lei non lo sapeva.
Sorrise, e lo sguardo di André le sorrise a sua volta. E, finalmente, Oscar chiuse gli occhi. Li avrebbe riaperti solo un paio d’ore dopo, a Coppet, dove, nel piccolo borgo vicino al castello, André, con gli emolumenti degli anni di servizio di Oscar, e con la vendita dei gioielli dell’eredità dei nonni Jarjayes, aveva acquistato una piccola fattoria, circondata da un piccolo, ma prospero vigneto, mentre Oscar avrebbe svolto, al castello di Coppet[5] il compito di bibliotecaria e di precettrice di latino e greco, oltre che maestra di spada e di scherma, per i nipoti di Monsieur de Necker.
E poi pensò che, magari, un giorno Louise Auguste sarebbe tornata in Francia, e chi sa, forse con loro due.
Ma, per il momento, c’era solo l’abbacinante brillìo delle acque del Lemano, e la prospettiva di una vita nuova, palpitante di esperienze impreviste.
Con le guance rosse, e la pelle che aveva perso finalmente il colorito agonico di sempre, in favore di una sfumatura dolcemente dorata, Justine, ex Mademoiselle Legris, ora signora Laval, aveva salito con entusiasmo, a due a due, i gradini della scala che conduceva al piano nobile, tenendo sollevato l’orlo della robe à la Polonnaise bianca a fiorellini rossi, che le fasciava graziosamente il petto appena rimpolpatosi. Poi, arrivata alla soglia della sala da lettura dove era sicura di trovare il Colonnello con Monsieur Grandier, si bloccò, interdetta di fronte al vuoto assordante della stanza.
Solo, sulla scrivania, alla quale Monsieur André era solito sedere impegnato a leggere e annotare Ariosto e Rousseau, o a scrivere fitte righe su un misterioso libriccino che teneva sempre con sé, c’era una lettera, una delle tante che Oscar aveva scritto nei giorni precedenti la partenza. Questa recava sulla busta poche parole, scritte con la grafia bella e severa, elegante, ma senza svolazzi, del Colonnello:
Pour Madame Justine Laval née Legris.
Si avvicinò, la novella signora Laval, e lacerò, con mani un poco incerte, il bordo della busta, aprendo poi il foglio e scorrendo il breve testo, le labbra serrate, con emozione.
Dietro le sue spalle, i passi cadenzati di Monsieur Laval, che la raggiunse, dopo aver salito con lentezza le scale, i pollici infilati nelle tasche della finanziera color tabacco, il tricorno ancora in testa.
Fermatosi dietro la moglie, di cui aveva colto l’intimo turbamento dalla postura con le spalle irrigidite, appena quel tanto sollevate, che tanto bene aveva imparato a conoscere, negli anni, e nel corso di quelle sei settimane, le chiese, con la sua voce profonda e bonaria:
“Dov’è mai il Colonnello Jarjayes, mia adorata?”
“Ecco, mio caro, io credo…”, sussurrò Madame Laval, abbassando con un sorriso il braccio che reggeva la lettera vergata in quei caratteri fini ed eleganti dei quali non aveva mai visto l’eguale, “Credo proprio che il Colonnello de Jarjayes sia passato a miglior vita!”[6]
E ora, come diceva Luca Goldoni, con ossequi, ciao!!!
[1] La citazione è di Lamartine. Il perché, lo vedrete a brevissimo: la strofa con cui inizia la sua lirica più celebre, Le lac, “Il lago”, recita così: Ainsi, toujours poussés vers de nouveaux rivages,
Dans la nuit éternelle emportés sans retour,
Ne pourrons-nous jamais sur l'océan des âges
Jeter l'ancre un seul jour ?
Ma se il tono di Lamartine è malinconico e disperato, tipico di un uomo che si rifugia nel ricordo della felicità passata, mentre qui i nostri protagonisti sono protesi verso la felicità del futuro.
Dans la nuit éternelle emportés sans retour,
Ne pourrons-nous jamais sur l'océan des âges
Jeter l'ancre un seul jour ?
Ma se il tono di Lamartine è malinconico e disperato, tipico di un uomo che si rifugia nel ricordo della felicità passata, mentre qui i nostri protagonisti sono protesi verso la felicità del futuro.
[2] Veramente, queste sono le parole che introducono lo Statuto Albertino, ma mi piace immaginarle uscite dall’augusta penna di Luigi XVI nel momento in cui concede a Oscar il congedo a tempo indeterminato dalla Guardia Reale e una patente di matrimonio per André.
[3] E qui, doveroso, secondo omaggio a Lella73 e alla sua “There are the days of our life”, pubblicata su questo fandom.
[4][4] Mi perdonerà Emily Brontë, ma questo sognavo di poterlo scrivere anche io da tanto, tanto tempo: e a chi meglio si può adattare, oltre che a Catherine e Heatchcliff, se non a Oscar e André?
[5] Costruito dai Savoia nel XIII secolo, il castello fu trasformato in residenza da Necker nel 1767, e fu la dimora della di lui figlia, Madame de Staël: ancora oggi è visitabile, ed è una autentica delizia, da scoprire magari nel corso di una navigazione sul lago di Ginevra.
[6] Mi scuserete se ho concluso questa storia citando, abbastanza impunemente, l’ultima battuta de “I vestiti nuovi dell’imperatore” – e se non l’avete mai visto, vi consiglio di correre a procurarvi questo film.