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Autore: Adeia Di Elferas    13/06/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Non mi hai ancora detto di cosa abbiate parlato di preciso tu e Gian Giacomo...” fece Troilo, con aria casuale, mentre le ruote del calesse su cui viaggiavano incappavano in una buca, facendoli sobbalzare.

Fin dall'incontro tra Bianca e il Trivulzio, l'uomo aveva cercato a più riprese di farsi raccontare ogni cosa, ma la giovane era stata reticente ai limiti del mistero, e questo non aveva fatto altro che renderlo via via sempre più nervoso.

Già aveva digerito a fatica il fatto che l'amico – ripartito il giorno dopo quell'abboccamento, per andare a curarsi a Vigevano – avesse preteso di vedere da solo la Riario, ma, ancor di più, non aveva gradito che lei accettasse quella condizione. Bianca gli aveva poi fatto notare che, così com'era stato giusto che lei non andasse alla riunione a cui aveva partecipato lui, per non suggerire che ci fossero delle ingerenze, così era giusto che lui non partecipasse alla sua, di riunione.

Il De Rossi sarebbe stato anche disposto a soprassedere, se non fosse stato che poi, a differenza sua, la moglie non aveva detto altro se non un laconico 'è stata una chiacchierata interessante'.

“Siamo quasi a San Secondo...” fece notare lei, cercando di sbirciare dal finestrino, per capire quanto ancora mancasse di preciso: “Se proprio vuoi, ne parleremo con calma dopo...”

“Dopo quando? Sai che ci aspetta una giornata intera di festeggiamenti, vero?” chiese lui, risentito e cupo: “E poi non vorrai passare la nostra prima notte di nozze a parlare...”

La Riario sorrise. Avevano deciso ormai da tempo che quel 28 luglio, una volta arrivati a San Secondo e osservato un giorno di festa per permettere al popolo di conoscerli e collegare i loro volti al potere, avrebbero celebrato un matrimonio senza sfarzi né clamori, alla presenza della madre di Troilo e di pochi altri invitati. Il matrimonio che li aveva uniti a Roma aveva disgustato entrambi e non volevano che fosse l'unica memoria concreta delle loro nozze.

“Se proprio lo vuoi sapere – cedette alla fine Bianca, stremata dal viaggio, benché quella mattina fossero partiti da appena un'ora, e dal caldo – mi ha ripetuto quello che mi avevi già detto tu e poi...”

Il lungo sospiro che fece era il preludio di una spiegazione che, era evidente, non avrebbe voluto fornire. Tuttavia lei per prima desiderava che quel giorno fosse un giorno lieto e di festa e, dunque, per non rovinarlo col cattivo umore del suo sposo, si vide costretta ad affrontare quella prova.

Gli spiegò delle voci che il Trivulzio aveva sentito in Emilia, di come in Romagna ci fossero molte sacche di fedeli alla Tigre e di come, invece, quelli che il Valentino aveva messo al potere soffiassero sulle ceneri di Ravaldino, per alzare il fuoco del malcontento. Non era il popolo, insomma, a rifiutare l'idea di riavere Caterina come signora, ma i cani da guardia del Borja, che, purtroppo, avevano la voce più grossa degli altri e sapevano influenzare gli eventuali partigiani stranieri della Sforza. Chi avrebbe mai appoggiato una restaurazione, immaginando che il popolo non avrebbe dato man forte alla rivolta? Troppe congiure erano finite male per la mancanza di appoggio da parte della gente comune...

“L'unica speranza concreta – fece la donna – è riprendere prima Imola, che, notoriamente, è una città più docile. Anche se, per farlo, prima serve una cosa fondamentale...”

“Ossia?” domandò il De Rossi, che era rimasto immobile per tutta la dissertazione, chiedendosi quanto sua moglie avesse ragionato su ogni singolo aspetto della questione senza mai provare la necessità di condividere con lui i suoi pensieri.

“Ossia...” Bianca si morse il labbro, guardandolo poi per un lungo istante, quasi avesse paura di esporsi troppo nel dire quel che doveva dire, ma risolvendosi infine in un soffio: “Ossia, prima il papa dovrebbe morire.”

Quella dichiarazione, buttata lì a quel modo, poteva significare tutto e niente. La Riario e il Trivulzio si stavano rimettendo al caso, sperando che il pontefice morisse per qualche motivo casuale al più presto? Stavano suggerendo che qualcuno dovesse forzare la mano al destino? O forse avevano addirittura già deciso come portare Alessandro VI alla tomba?

Bianca era una donna dalle mille sfaccettature, Troilo ormai lo aveva capito bene, e ne restava ogni volta sorpreso. Sapeva benissimo che la moglie era stata istruita in un certo modo, aveva vissuto in un certo ambiente... Poteva davvero pensare a un omicidio rischioso, come quello del papa..?

“Siamo quasi arrivati, credo...” fece la giovane, indicando fuori dal finestrino il profilo un po' incerto di quella che, a suo avviso, doveva essere la rocca in cui avrebbe vissuto da quel giorno in poi.

“Sì, siamo quasi arrivati...” convenne l'uomo, ancora immerso nei suoi pensieri.

“Dobbiamo montare a cavallo, allora...” fece Bianca, che, non volendo sentire ragioni, malgrado l'avanzata gravidanza, aveva deciso che avrebbero fatto il loro ingresso in città a cavallo, trionfanti come un re e una regina.

Il De Rossi, da quel momento in poi, non ebbe più molto tempo per pensare. Prima di tutto aiutò la moglie a montare a cavallo nel modo più sicuro possibile e poi, al suo fianco, si mise alla guida del ristrettissimo corteo che li accompagnava.

Man mano che le porte di San Secondo si avvicinavano, Troilo dovette a viva forza contrarsi solo sull'immediato presente e, che fosse stato per il suo sforzo di volontà, o per le contingenze del momento, non appena furono sulla via centrale della città, aveva dimenticato quasi del tutto lo scambio di battute avuto prima con la moglie.

Bianca, dal canto suo, spalancava gli occhi blu e guardava rapita tutto ciò che la circondava. Aveva visto posti ben più sfarzosi di San Secondo, che ancora portava chiari i segni delle guerre e delle distratte dominazioni sforzesche, ma ogni angolo, per lei, rappresentava non solo qualcosa di nuovo, ma anche qualcosa di importante e dunque non c'era un dettaglio, nel panorama, che non le stesse a cuore.

La gente era in festa, gridava in una lingua dall'accento che la Riario riusciva a capire, benché fosse diverso da quello forlivese che aveva imparato crescendo e anche da quello milanese che aveva sempre animato ogni parola di sua madre. L'Emilia, si rese conto sentendo proprio le grida di giubilo dedicate a lei e al marito, poteva rappresentare una sorta di congiunzione tra quelle due anime che aveva sempre cercato intimamente di unire: la Romagna che l'aveva vista bambina e poi donna e Milano, la cui voce l'aveva messa al mondo e cresciuta.

La cavalcata, volutamente lenta, li portò fino all'ingresso della rocca. Sulle merlature un po' sdentate c'era un manipolo di non più di quindici soldati. A Bianca sembravano molto pochi, vista la mole della struttura che, anche se mal messa, era enorme, ma non fece commenti, continuando a sorridere.

Varcarono la porta d'accesso principale, lasciandosi alle spalle la folla festante e il fracasso, restando soli con il battere ritmico degli zoccoli in terra e il vociare degli uomini di scorta.

“Finalmente siete entrambi qui!” la voce di Angela Scotti Douglas fece sì che il figlio la cercasse con lo sguardo e, una volta vistala, smontasse di sella con un balzo e le andasse incontro.

Bianca attese con pazienza che madre e figlio si abbracciassero, approfittandone per studiare il profilo austero, ma bello della suocera. Solo quando fu lo stesso De Rossi a staccarsi dalla donna, fu la stessa Angela ad attirare l'attenzione sulla Riario.

“Madonna Bianca...” fece la Scotti Douglas, avvicinandosi alla nuora, ancora a cavallo: “Dunque mio figlio è stato troppo trattenuto nel descrivervi come bella e affascinante...”

La ragazza sorrise e poi, posandosi una mano sul ventre gonfio – su cui scivolò subito lo sguardo compiaciuto della suocera – ribatté: “Credo sia stato troppo trattenuto nel descrivere anche voi come una donna saggia e gentile...”

“Avrete modo di conoscervi meglio...” fece lui, le guance un po' rosse sotto la barba bionda, mentre andava a porgere il suo aiuto alla moglie, per aiutarla a smontare di sella.

Non appena Bianca fu di nuovo saldamente coi piedi in terra, la suocera le si avvicinò, la guardò con un sorriso placido e poi le chiese: “Posso abbracciarvi?”

La Riario annuì e lasciò che la donna la stringesse a sé, per quanto il pancione lo permettesse. In quel breve contatto, la giovane percepì una concreta volontà di farla sentire benaccetta e apprezzata, il che la pervase di un senso di gratitudine che fu come un balsamo, dopo quella lunghissima giornata.

“Adesso venite...” fece Angela, stringendosi un po' nelle spalle, sotto la leggera mantella, malgrado facesse molto caldo: “Mettetevi un attimo comodi, andate nella vostra stanza... C'è tempo per far tutto, adesso...”

 

Quel 28 luglio Roma era stata attraversata da una notizia che aveva suscitato molte chiacchiere, ma soprattutto molte perplessità. Il papa aveva annunciato in modo ufficiale che suo figlio, il Duca di Valentinois, sarebbe presto partito per una nuova spedizione in Romagna.

A molti parve strano, innanzitutto, che il pontefice ne facesse una questione pubblica, dato che, seppur con tutti i problemi del caso, dalla caduta di Caterina Sforza, Imola e Forlì, e a ruota quasi tutte le altre città della zona, era in mano borgiana. Sembrava superfluo che il Valentino vi si recasse addirittura con una spedizione ufficiale. C'erano forse dei tumulti? C'era in ballo qualche moto di rivolta? All'Urbe non erano arrivate simili notizie...

Qualcuno, addirittura, diceva che in realtà Cesare non fosse in partenza per la Romagna, ma che, assieme a tutti gli uomini di recente reclutati dal Corella, stesse per partire addirittura alla volta della Toscana. Se per andare contro Firenze o a Pisa, però, nessuno avrebbe saputo dirlo...

Anche di quello avevano parlato, a pranzo, il Cardinale Federico Sanseverino e l'ambasciatore di Francia, e nessuno dei due aveva saputo darsi una risposta precisa.

Erano giunti a fine pasto con ancora il nome del pontefice e quello del figlio sulle labbra, quando finalmente avevano deciso di salutarsi e darsi appuntamento al giorno seguente, per continuare il discorso, magari, davanti a un'altra mezza dozzina di pietanze e del buon vino.

Giusto per sgranchirsi le gambe e far sì che la digestione fosse migliore, il Sanseverino decise di accompagnare alla porta i suoi ospiti e, in uno slancio di generosità, offrì all'ambasciatore la sua mula, per trasportare più agevolmente alcuni doni di cui l'aveva omaggiato.

Arrivati al portone, il Cardinale salutò dapprima la piccola scorta dell'ambasciatore e poi l'ambasciatore stesso. Mentre era ancora lì, sorridente e un po' appesantito dal cibo e dal vino, a tenere le mani del suo ospite, ricordandogli la promessa di vedersi anche il giorno seguente, degli strani movimenti attirarono il suo sguardo.

Acuto come i suoi fratelli Gaspare e Galeazzo, che di mestiere avevano sempre fatto i soldati, ma non altrettanto veloce – non avendo lui, invece, mai fatto il soldato – Federico puntò l'indice contro una squadra di non meno di venti uomini che si stava avvicinando a loro con fare minaccioso.

Sotto il sole cocente di quel giorno di luglio, in una via insolitamente silenziosa e solitaria, i quaranta uomini mascherati estrassero bastoni e pugnali e senza troppe cerimonie, si lanciarono contro l'ambasciatore e la sua scorta.

Il trambusto fu tale e talmente improvviso che il Cardinale non seppe dire come, ma riuscì a tirare tutti in casa e a serrare il portone prima che anche solo uno dei quaranta malintenzionati potesse infilarvi un piede.

“Siete ferito?” chiese al francese, senza fiato.

Il diplomatico scosse il capo, chiedendosi, nella sua lingua, chi mai fosse stato ad aggredirli e, ancor più angosciosamente, come fosse possibile che Roma, culla del cristianesimo e della legge, fosse diventata una città in cui si poteva essere aggrediti così, alla luce del sole, in pieno giorno, per di più dinnanzi alla dimora di un alto prelato.

Il Sanseverino gli diede ragione su tutto, unendo il proprio disappunto a quello del francese, e poi, con cautela, lasciata passare circa un'ora, mandò in avanscoperta le sue guardie.

Gli uomini rientrarono dopo poco, facendo sapere che in terra, morto, era rimasto uno degli staffieri del Cardinale, quello che portava la mula offerta da Federico al suo ospite. La bestia era stata solo ferita, e non le erano stati portati via né la sella né i finimenti, men che meno i doni che già aveva assicurati alla groppa.

Quella semplice evidenza bastava al Cardinale per capire che quello non era stato un attacco a scopo di rapina, ma qualcosa di molto più pericoloso. Restava da capire chi fosse il mandante e, soprattutto, chi fosse il vero bersaglio, se lui o l'ambasciatore.

Fornendogli una scorta aggiuntiva, il Sanseverino convinse infine il francese a lasciare il suo palazzo per tornare ai propri alloggi, e, una volta solo, si chiuse nel proprio studio per scrivere immediatamente ai suoi fratelli, in particolare a Gaspare.

Fracassa adesso era al soldo francese... Poteva essere che il papa, ultimamente in rapporti non idilliaci con il re di Francia, avesse voluto colpirli per le loro simpatie d'Oltralpe?

Con un sospiro pesante, il Cardinale fece gli scongiuri – facendosi poi anche un segno della croce, ricordandosi dell'abito che indossava – e sperò con tutto se stesso che i suoi congiunti sapessero illuminarlo sul da farsi dato che lui, proprio, non se la sarebbe sentita di lasciare Roma. Alessandro VI stava creando un clima instabile e di terrore senza nemmeno rendersene conto. Nessuno sapeva più chi fossero gli amici e chi i nemici... Era assurdo da dire, ma qualsiasi altro papa sarebbe stato meglio. Qualsiasi.

“Se solo il papa morisse...” bisbigliò tra sé, premendosi poi una mano sulle labbra, quasi avesse paura che i muri potessero riferire le sue parole a qualcuno.

 

A San Secondo, quel 28 luglio era passato rapido come un fulmine e, allo stesso tempo, aveva stremato i suoi protagonisti come un anno intero di fatiche.

Bianca era stata molto felice nel vedere come l'intera corte – poco numerosa e composta, per quel che poteva capire, da persone di media ambizione e senza grosse o palesi invidie nei confronti dei De Rossi – l'avesse già accettata di buon grado, così come la madre di Troilo, che non aveva perso occasione per riservarle una parola gentile o un gesto di affetto.

Il Conte e Marchese di San Secondo, di contro, era stato teso per tutto il tempo, desideroso di abbandonare i festeggiamenti e trovare un po' di pace con la consorte. Negli anni che aveva passato lontano da casa aveva imparato ad apprezzare l'essenziale e sperava con tutto se stesso che la Riario fosse d'accordo con lui, in futuro, nel limitare allo stretto necessario i fasti e i ricevimenti.

Verso sera i due erano stati condotti dal prete che avrebbe concelebrato con loro di nuovo le nozze.

Come previsto, non c'era quasi nessuno, con loro. Si erano detti che sottolineare troppo quella cerimonia avrebbe potuto portare qualcuno a dubitare della prima o, per estensione, a parlare male del papa e del Vaticano, e tutto serviva loro, in quel momento, tranne che quello.

Dopo qualche frase e formalità di rito, i due sposi uscirono dalla cappella circondati da un piccolo gruppo di spettatori, tra cui spiccava Angela Scotti Douglas, che, prima fra tutti, fece di nuovo le congratulazioni al figlio, per poi avvicinarsi alla nuora, darle un bacio sulla guancia e, tenendole una mano sul ventre, sussurrare: “Spero che qui troverai una casa amorevole, così come hai trovato in mio figlio un marito devoto.”

Malgrado non ce ne fosse un effettivo bisogno, i pochi presenti volevano onorare l'usanza della messa a letto, che, nell'ottica comune, sarebbe servita ai due novelli sposi per togliersi dall'imbarazzo del momento, sospinti da lazzi e motti volgari e in parte già spogliati dagli invitati ubriachi e ridanciani.

Uno dei soldati presenti, amico di Troilo, indicando il pancione della Riario, fece notare a tutti quanto fosse superfluo, ormai, per quei due utilizzare certi mezzucci per ridurre l'imbarazzo, ma nessuno dei presenti volle saperne e così, in modo molto più scherzoso e caloroso di quanto fosse successo a Roma, la messa a letto si fece e in grande stile.

Bianca rise, grata a quelle persone che, anche se ancora non la conoscevano, la trattavano con delicatezza, e non solo in riguardo al suo stato. Si lasciò in parte spogliare e spettinare e altrettanto fece Troilo, dimostrandosi meno restio del solito nel prendersi in giro da solo.

Quando finalmente vennero chiusi in camera, da fuori arrivavano ancora le risate e i motteggi degli amici del De Rossi, ma lui e la Riario non li ascoltavano più. Malgrado tutto, quel vecchio, stupido e poco efficace espediente per accendere la passione tra due sconosciuti, nel loro caso, stante la loro complicità e il loro amore, ebbe un buon effetto, e nel giro di pochi istanti si trovarono stesi sulle coperte ancora tese e ordinate, pronti a donarsi l'un l'altra una notte molto diversa da quella che erano stati costretti a inscenare a Roma.

Quando alla fine, veramente senza più forze e desiderosi di dormire, dopo quella giornata infinita, si trovarono stesi l'uno accanto all'altra, Bianca fece un lungo sospiro e disse: “Da domani, voglio visionare la rocca, specie nei suoi punti più critici, e i libri contabili. Voglio capire che manovre d'azione abbiamo.”

Troilo sorrise. Non si era aspettato nulla di diverso da una donna come sua moglie. Benché amasse anche il suo lato dolce e a tratti remissivo, l'adorava quando mostrava il suo aspetto più pragmatico e deciso.

“Come la mia signora comanda...” rispose, con aria soddisfatta, prendendola una mano e portandosela alle labbra, per un bacio.

 

Caterina era rimasta un po' perplessa nel ricevere un messaggio da parte di Baccino, da Roma. Si erano detti più volte, per interposta persona, di evitare di contattarsi in modo diretto, per evitare spiacevoli inconvenienti in caso di intercettazione da parte di qualche spia del Valentino, ma sembrava che il cremonese, quella volta, non potesse proprio aspettare di trovare un intermediario.

Luglio ormai era agli sgoccioli: poche ore ancora e sarebbe iniziato agosto e il caldo non solo non demordeva, ma si era fatto ancora più cupo e umido, portando spesso nubi nere verso sera che, però, non risolvevano la calura, né portavano pioggia.

Proprio mentre il cupo cielo che ormai aveva imparato a conoscere incombeva su di lei, la Tigre, con la scusa di andare a controllare che avessero sistemato bene il cavallo usato nel pomeriggio da Giovannino, andò verso le stalle.

Non aveva ancora letto la missiva di Baccino e sapeva che il suo era un atteggiamento stupido, ma aveva voluto aspettare che la giornata fosse quasi finita, prima di farsela rovinare da qualche possibile cattiva notizia.

Ora che, tutto sommato, godeva di un minimo di libertà d'azione in più, in fondo, poteva permettersi di usare la scusa di andare nelle stalle per rimanere da sola qualche minuto all'aperto.

Appena voltato l'angolo della villa, dopo un'occhiata alla nuvolaglia malevola che la spiava, la donna aprì finalmente la lettera. Era molto breve, ma arrivava subito al dunque.

In virtù della sua posizione, Baccino era venuto a sapere che il Valentino non stava andando in Romagna, come aveva fatto credere il papa, ma verso la Toscana, probabilmente verso Pisa o, forse, addirittura verso Firenze.

Il terrore, subitaneo e incontrollabile, che la Leonessa provò le impedì di leggere le ultime righe, in cui il cremonese si rallegrava del fatto che Bianca fosse già partita, dato che a Roma imperversavano febbri da calore e da malaria, e che tutti, nessuno escluso, erano in grande pericolo, se non fosse piovuto a breve.

Tutto ciò che la mente della Sforza riusciva a capire, in quel momento, era che Cesare Borja, alla testa di un esercito – piccolo o grande che fosse non lo sapeva e non le sembrava nemmeno importante, in quel momento – stava marciando verso la Toscana. Verso Firenze... Verso di lei.

Senza fiato, riuscendo a stento a restare in piedi, la donna si guardò in giro spaesata. Doveva tornare alla villa, doveva avvisare tutti del pericolo...

Quel giorno Fortunati era andato in città e ancora non era tornato... Avrebbe dovuto dare ordine anche a lui di mettersi al sicuro... Ma come?

 

Francesco aveva cercato di percorrere la strada da Firenze a Castello nel minor tempo possibile. Si era recato dai Salviati, per congratularsi di persona per la nascita della loro ultima figlia, e, ovviamente, documentarsi sulle ultime notizie.

La sua permanenza, però, era stata ancor più breve del previsto e, fosse dipeso da lui, sarebbe tornato dalla Tigre già nel primissimo pomeriggio. Un temporale, invece, l'aveva bloccato per quasi tre ore, e quando era ripartito aveva dovuto affrontare una strada che sembrava un pantano, che l'aveva ulteriormente rallentato.

Anche quando arrivò alla villa stava piovendo, anche se, dalla condizione del terreno, era evidente che avesse cominciato da poco. Le notizie che portava non erano buone e quindi, inconsciamente, dopo aver lasciato la sua povera cavalcatura nella stalla, il suo passo si fece lento e incerto e, quando finalmente arrivò al portone della casa, una forza invisibile sembrava trattenerlo dall'entrare.

Creobola, però, si era accorta di lui con grande anticipo e, aspettandolo, gli aprì prima ancora che lui potesse annunciarsi.

“Madonna non sta bene...” disse, senza troppi giri di parole, allarmata: “Non so cosa le sia successo... Verso sera s'è chiusa in camera e non vuole uscire, non vuole vedere nessuno, nemmeno il suo bambino...”

Quell'ultimo accenno a Giovannino impensierì più di ogni altra cosa il piovano che, maledicendosi per essere arrivato a tarda sera, non si curò di bagnare in giro con gli stivali zuppi e corse alla camera della Leonessa.

Aprì la porta d'impeto e si trovò davanti uno scenario che gli ricordò così da vicino una scena del passato da annichilirlo. Caterina, spaurita e con il fiato corto, era nell'angolo della stanza e lo fissava in silenzio. Non fosse stato per gli abiti in ordine e puliti, Francesco avrebbe potuto dire che la sua amata fosse ancora tra le grinfie del Valentino, al Belvedere di Roma...

“Cos'è successo..?” chiese l'uomo, quasi senza voce.

La milanese deglutì un paio di volte, ma non rispose. Nelle ore che aveva passato da sola in camera, era riuscita, in parte, a razionalizzare quello che provava, ma non riusciva ancora a controllare del tutto le proprie reazioni.

Sapeva benissimo che il Borja non sarebbe arrivato alla villa da un momento all'altro e sapeva anche che, in tutta probabilità, lei non sarebbe stata il suo primo pensiero una volta giunto in Toscana... Eppure non riusciva a togliersi di dosso la sensazione ripugnante di avere di nuovo le mani del Valentino addosso, di avere il suo odore nelle narici, la sua voce nelle orecchie, il suo corpo sopra al suo, a schiacciarla, a umiliarla e a farle provare un genere di dolore e di vergogna che si era giurata di non provare mai più dopo la morte di Girolamo Riario.

Perciò, sempre senza dire una parola, indicò la lettera di Baccino a Fortunati e questi, guardingo, la raccolse e la lesse. Da come strinse le labbra, Caterina comprese che per lui la notizia del Valentino in avvicinamento non era una vera e propria novità.

“In città dicono che sia diretto ad Arezzo...” commentò lui, a voce bassa: “Infatti stanno richiamando da Pisa le truppe per spostarle nell'aretino...”

“Arezzo non è poi così lontana da Firenze...” sussurrò la Sforza, non trovando alcun ristoro nelle parole del piovano.

“Ma...” fece allora lui, lambiccandosi per trovare un punto di vista che alleviasse l'evidente pena della sua amata: “Anche tua figlia te l'ha scritto, qualche giorno fa, no? Si stanno organizzando per dar contro al Valentino... Non riuscirà mai a marciare sulla Toscana... I condottieri ribelli si muoveranno prima che possa anche solo arrivare in vista di Firenze...”

“Non possono essere così veloci...” scosse il capo lei, sentendo la gola riempirsi di spilli e il respiro tornare a farsi molto irregolare: “Tempo che troveranno davvero un accordo e capiranno di dover venire verso Firenze, il figlio del papa avrà già messo le tende in piazza della Signoria!”

Francesco, pur non avendo consistenti argomenti per contraddirla, cominciò a fare ipotesi svariate, alludendo spesso al tempo instabile, alle mille risorse dei ribelli, alla paura che il papa, tutto sommato, aveva dei francesi e dei veneziani, che aspettavano solo un suo passo falso, parlò perfino della guerra a Napoli e delle implicazioni che distrarre così tante truppe verso Firenze avrebbe portato.

Sapeva che una Caterina lucida e ragionante non avrebbe mai dato ascolto alle sue parole, che a tratti avevano un che di surreale, ma era evidente che la Leonessa stesse cercando un appiglio qualsiasi a cui aggrapparsi e, nel giro di una ventina di minuti, cominciò a calmarsi.

Mentre parlava, senza accorgersene, Fortunati si era avvicinato sempre di più alla milanese, tanto che ormai, solo ad allungare una mano, l'avrebbe potuta toccare. Forse proprio quella consapevolezza lo portò a rassicurarla una volta di più e poi a protendersi appena verso di lei.

“Vedrai che andrà tutto bene...” le disse e, sporgendosi un po', ne cercò la guancia, per darle un breve bacio atto a veicolare dolcezza e affetto, più che passione o desiderio.

La Tigre, però, era tesa quanto la corta di un arco pronto a scoccare e quindi, nell'istante esatto in cui vide il piovano avvicinarsi così tanto, reagì d'impulso, dandogli uno spintone.

Sorpreso, l'uomo rimase dov'era, le labbra appena schiuse in una domanda che non riuscì a trovare voce, perché la Sforza, preda di un tremito irrefrenabile, per costringerlo ad allontanarsi gli diede un altro colpo, questa volta più forte e deciso, tanto che il fiorentino per poco non perse l'equilibrio.

Passò un minuto buono prima che entrambi riuscissero a decodificare cosa fosse successo. Da un lato Francesco abbassò lo sguardo e si scusò, rendendosi conto che la Tigre non era in sé, come ogni volta in cui il ricordo del Valentino prorompeva nella sua anima ferita. Dall'altro, Caterina, pur non sapendo dominarsi, si rese conto di aver avuto una reazione immotivata e violenta e il dispiacere per essere stata tanto rude con un uomo che le aveva solo fatto del bene la portò a trovarsi gli occhi lucidi e la gola in fiamme.

“Perdonami...” gli sussurrò, appena udibile.

“Va tutto bene.” ribatté lui, stando a distanza, e continuando a chiedersi quanto male il Borja potesse averle fatto, per averla ridotta in quel modo, per averle messo al collo quella catena invisibile che, a distanza di anni, ormai, ancora a volte le toglieva il fiato e la ragione.

Dopo qualche interminabile istante ancora di studio reciproco e silenziose domande interiori, Fortunati si schiarì la voce, ma non disse nulla.

“Ci sono... Ci sono altre novità, da Firenze?” chiese lei, quasi più per rompere il silenzio che per un reale interesse.

L'uomo scosse il capo e poi indugiò un attimo, prima di dire: “Immagino che stanotte vorrai restare da sola...”

La Sforza scosse subito il capo: “No, no... Ho paura.”

Quell'ammissione, in un certo senso molto semplice, era per una donna come la Leonessa una vera e propria rarità. Il piovano l'avrebbe definita quasi una dimostrazione di fiducia senza pari.

“Potresti dormire nella stanza di Giovannino...” propose: “Lo sai che lui non vuole dormire mai da solo... La balia non ci va molto d'accordo e Galeazzo patisce un po' l'abitudine del fratello di avere sempre accesa qualche candela di notte...”

“Preferirei stare con te.” rispose lei, atona: “Ma forse hai paura a restare solo con me, stanotte...”

Francesco si grattò il mento, coperto da una barba corta, ma disordinata, frutto di un paio di giorni di incuria: “No, non ho paura... Solo non vorrei suscitare in te brutte sensazioni.” disse, sperando di essere capito: “Forse non hai bisogno di aver vicino un uomo, stanotte, ma i tuoi figli...”

“Invece voglio che ci sia tu, con me.” si incaponì lei.

“E se nel sonno dovessi per sbaglio allungare un braccio verso di te, toccandoti, che faresti? Mi prenderesti a pugni?” chiese Fortunati, incapace di trattenersi, al solo fine di far ragionare Caterina.

“Lo vedi?” ribatté allora lei, nervosa: “Hai paura di me, non mi sbagliavo.”

“No, è che...” provò a dire lui, ma senza trovare le parole giuste per continuare.

“Resterò sulla sedia, alla scrivania. Tanto non penso che riuscirei a dormire.” decretò la Tigre: “Tu starai nel letto, comodo. Così tu non correrai rischi e io non sarò qui da sola.”

Il fiorentino protestò e provò a opporsi, ma, come ormai la sua esperienza gli aveva insegnato, era impossibile far cambiare idea alla Sforza, quando era davvero decisa a fare qualcosa.

Così, dopo aver parlato ancora un po' e aver atteso che Francesco mangiasse qualcosa e si rinfrescasse dopo il difficile viaggio affrontato da Firenze a Castello, la Leonessa si sistemò sulla sedia, le braccia incrociate sul petto, mentre l'uomo si stese sulle lenzuola fresche di bucato.

La notte stava raggiungendo il suo culmine e, vinto dalla stanchezza fisica e da quella mentale, alla fine il piovano cedette al sonno. Caterina, invece, come aveva predetto, non riusciva nemmeno a rilassarsi un minimo. La sua mente correva di continuo a quanto stava accadendo in Italia e al modo in cui il Valentino stava procedendo nel suo folle progetto atto ad assoggettare buona parte della penisola. Poteva davvero sperare che qualche condottiero infastidito dallo strapotere dei Borja mettesse a rischio tutto quanto per contrastare il figlio del papa?

A conti fatti, chi stava facendo qualcosa di concreto? Nessuno, a suo avviso, nemmeno il Trivulzio, che faceva ormai da tempo il doppio gioco, per tacere di Francesco Gonzaga che, a quanto sapeva, era Capitano Generale della Chiesa e non aveva alcun interesse reale a ribaltare il dominio dei valenciani...

Di colpo, così subitaneo da farla saltare sulla sedia, un lampo squarciò il cielo. In un primo momento, nei secondi che passarono tra il fascio di luce accecante e il rombo del tuono, la Tigre si chiese se Giovannino e Pier Maria si fossero spaventati, ma già mentre il rumore si placava e iniziava furioso il battere della pioggia, il pensiero era svanito.

Francesco si era mosso nel letto, aveva fatto un mezzo sbadiglio, svegliato da quel cruento incipit di temporale, e aveva guardato la stanza buia, per capire se la Sforza fosse ancora alla scrivania.

Proprio mentre lui individuava la sua ombra, però, lei si era già alzata e stava andando verso di lui.

Si sedette, dapprima, sul ciglio del materasso e si prese un istante la testa tra le mani. Il cielo venne squassato da una nuova saetta e dal suo tuono, e la pioggia parve intensificare la sua battaglia.

Allora, lentamente, Caterina si coricò e, mentre il piovano restava immobile, tra lo spaventato e il curioso, la donna si protese un po' verso di lui, inducendolo ad abbracciarla.

Capendo che non si sarebbe ritirata dal suo tocco, Fortunati la strinse a sé, con affetto e dolcezza, e le sussurrò: “Stai meglio?”

“Ho pensato che c'è una soluzione, anche abbastanza semplice, a questa situazione...” soffiò lei, di rimando.

“Quale sarebbe?” indagò allora lui, ancora assonnato.

“Che il papa morisse.” rispose lei, fredda.

Il fiorentino si irrigidì un solo istante, poi sollevò le sopracciglia e preferì non fare ulteriori domande. Non voleva, in quella notte di tempesta, chiedere alla sua donna se intendesse dire, in linea generale, che sarebbe stato meglio che il papa rendesse l'anima a Dio, oppure se volesse suggerire l'opportunità di forzare i tempi della natura.

Nel primo caso, Francesco sarebbe stato del tutto d'accordo con lei. Inoltre il pontefice non era un anziano decrepito, ma nemmeno un ragazzino, e si diceva che a Roma imperversassero febbri e malanni di ogni sorta, in quelle settimane...

Nel secondo caso, invece, cercare di uccidere il papa sarebbe stato non solo molto pericoloso, ma anche molto difficile, visti i loro scarsi mezzi e i loro pochi amici. Ovviamente, poi, sarebbe stato anche moralmente deprecabile...

Mentre si arrovellava sulle parole di Caterina, Francesco la sentì via via rilassarsi tra le sue braccia e, apparentemente insensibile al cataclisma che agitava il mondo fuori dalla villa, ai tuoni, ai lampi e alla grandine – perché quel picchiettare frenetico lasciava intendere che ormai grandinasse – la sentì addormentarsi.

Le diede un leggero bacio sulla fronte e poi, stando attento a non muoversi per non disturbarla, la vegliò fino alle prime luci dell'alba, mentre il temporale pian piano si diradava il sole tornava a splendere, feroce e violento come solo il primissimo sole d'agosto sapeva essere.

 

   
 
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