Nella foto, come immagino Agnese.
L’attrice è Giulia Roberto, dalla docufiction “Figli
del destino”, nel ruolo di Lia Levi sopravvissuta alla Shoah.
Capitolo 62
La pellicola dei ricordi
Prima parte
- Agnese -
“Vorrei tu fossi qui.
O io lì.
O noi dovunque.”
Fabrizio Caramagna
Stazione
di Roma Termini, 24 maggio 1947
Dopo
mille chilometri e più, ventiquattr’ore di viaggio, tre infiniti e tortuosi
anni di vita, i piedi di Hermann toccavano di nuovo terra italica. Con valigia
in pelle alla mano, il cappello Panama nell’altra e nell’incavo del braccio la
giacca color beige in tinta con i pantaloni e il panciotto rigorosamente
sbottonato come aperti erano anche i primi bottoni della camicia bianca, con
qualche chilo in meno e ruga d’espressione in più, gli occhiali da sole a
nascondere le occhiaie e altresì, inconsciamente, il suo passato da SS che gli
occhi avrebbero potuto riflettere, scese dal treno.
Un
pensiero che mai gli aveva sfiorato la mente lo trafisse come una freccia
dritta al cuore, costringendolo a fermarsi tra il caotico andirivieni della
gente nell’ora di punta: non sapeva dove cercarla. Preso dalla foga di
ritornare al più presto in Italia e ossessionato dal desiderio di ritrovarla,
non s’era mai fermato a pensare che di Sarah non conosceva nemmeno l’indirizzo
di casa. Di lei, in effetti, sapeva poco o niente.
A
Fossoli, aveva letto e riletto più volte il dettagliato resoconto del suo
arresto e pensò che unico punto di riferimento dal quale iniziare concretamente
a cercarla potesse essere la chiesa situata nel rione Castro Pretorio, non molto
lontano da lì, dov’era stata catturata dalle SS insieme ai bambini e al prete,
traditi da una soffiata di un parrocchiano delatore. Al Grande Reich, Sarah era
costata 1.500 lire, quanto un bambino.
Tutto
ciò che un tempo era banale normalità, adesso gli suscitava ribrezzo e ancor
più il pensiero che anch’egli l’aveva comprata con la promessa di una
sopravvivenza più dignitosa, con una tavoletta di cioccolato, un paio di calze
nuove.
Roma
era immensa, rutilante, tra la suggestione di antiche rovine e lo struggimento
di macerie belliche, chiassosa e, da ogni volto il cui sguardo tentava di
schivare, sembrava irradiarsi la voglia di tornare a vivere. Com’era diversa
dalla malinconica e disperata Berlino, divisa tra le potenze occupanti,
schiacciata dal senso di colpa.
Dalle
mura in laterizio, all’esterno la chiesa si presentava in puro stile
neoclassico, sobria, con due iscrizioni sulla facciata dedicate alla Vergine.
Esitò prima di entrarvi giusto il tempo di quietare il tremore di non saper
cosa aspettarsi, di poter sbagliare nel relazionarsi con chi avrebbe incontrato,
magari tradendosi con un accento troppo marcato o l’eloquenza di uno sguardo a
un determinato argomento.
L’interno
della chiesa si riproponeva nella medesima semplicità, creando un’atmosfera
intima e di raccoglimento che induceva a rivolgere lo sguardo al Crocifisso
dominante la navata centrale. Fonti di distrazione a un eventuale dialogo
interiore iniziarono ad essere l’andirivieni di una perpetua intenta ad
adornare l’altare con paramenti rossi e lo strepito di note prodotto
dall’organaro alle prese con l’accordatura dell’organo a canne sulla cantoria
in controfacciata.
Rivolse
lo sguardo indietro, verso l’alto, lì dove sapeva che Sarah aveva cantato sin
da bambina, finché non divenne apolide. Era stata lei a confidarglielo in un
momento la cui dolcezza valeva sicuramente la pena ricordare, eppure, tra le
immagini, quelle più belle della loro storia, che presero a scorrergli veloci
nella mente, non riusciva a focalizzarne il ricordo.
Con
eguale velocità, a ritroso, la pellicola dei ricordi si riavvolse, interrotta
improvvisamente dalla perpetua, una donna all’incirca della sua età, con capelli
riccissimi color castano ramato che fuoriuscivano dal velo in pizzo bianco, i
tratti del viso morbidi e le guance ricoperte di lentiggini. Fu pervaso dalla
strana e assurda sensazione di averla già vista da qualche parte.
“State
cercando qualcuno?” La cadenza austera sembrava collidere con lo sguardo ch’era
pregno di accoglienza.
Sospirò
mutamente per liberarsi dalla residua paura dell’errore, prima di risponderle
sereno e sicuro: “Sì, dovrei parlare con il parroco.”
“Domani
celebreremo la Pentecoste e il parroco è molto impegnato in questo momento”,
disse, mentre enfatizzava il diniego scuotendo il capo, “potreste ripassare con
calma lunedì mattina.”
S’impanicò
all’idea di dover ancora attendere e posticipare di nuovo il ricongiungimento
con Sarah e ancor di più lo turbò il pensiero che, in fin dei conti, il prete
potesse non saperne affatto di lei e ch’egli potesse addirittura essere don
Franco, miracolosamente sopravvissuto ad Auschwitz.
“Io
non posso aspettare. Ho fatto un lungo viaggio per venire fino
a qui”, dichiarò, senza nascondere la sua agitazione, rivelando così un accento
straniero che non sfuggì all’attenzione della donna.
Ancor
prima delle parole, furono gli occhi ad esprimere il sospetto. “Voi avete un
accento particolare. Da dove venite? Come vi chiamate?”
Non
esitò Hermann nel recitare il copione che aveva preparato e ripetuto più volte,
conscio del fatto che, prima o poi, qualcosa, come il suo aspetto nordico o il
suo accento troppo tedesco, lo avrebbe tradito.
“Vengo
dalla Svizzera, ma, prima del ’38, io e la mia famiglia vivevamo a Bolzano. Mio
padre, ebreo, nativo di Roma, s’era trasferito lì da ragazzino per lavoro e
aveva conosciuto mia madre, austriaca. A casa parlavamo regolarmente il
tedesco. Sono tornato in Italia per cercare mio zio, il fratello di mio padre e
come unico indirizzo di riferimento ho questa chiesa. Potete aiutarmi? Sono
Bonanni, piacere”, disse, porgendole la mano.
La
donna sgranò gli occhi in un’espressione mista tra meraviglia e sconcerto e,
mentre continuava a tenergli la mano, ribatté con voce afona, tremante: “Quindi
voi siete il cugino di Sarah?”
Trasalì,
sforzandosi di non darlo a vedere, agitato da quell’improvvisa, strana tensione
che aveva pervaso la sua interlocutrice e, adesso, anche lui al pensiero che
alla sua Sarah potesse essere accaduto qualcosa di brutto.
“Sarah
fu deportata al campo di Fossoli insieme alla mia povera figliola ed è stata
l’unica della sua famiglia e del gruppo di bambini affidati alla protezione di
don Franco ad aver fatto ritorno”, disse la donna, avendo interpretato come
assenso il suo silenzio ed egli ne comprese lo stato emotivo.
Innanzi
a sé v’era una madre che viveva nel limbo del lutto, tra l’attesa del ritorno e
la realtà della perdita e, osservandone le fattezze, rivide una bambina con i
capelli ricci e castani e il viso pieno di lentiggini. Era la madre della
bambina a cui Sarah aveva regalato la sua tavoletta di cioccolato e per la
quale, insieme ad altre cinquemila anime, lui aveva decretato la condanna al
viaggio fatale. Agnese.
“Ma
che io sappia non è più qui”, concluse la donna, riferendosi a Sarah e non fu
tanto per tal rivelazione ch’egli deviò lo sguardo e ritrasse la mano.
“Se non è sincero,
se l’amore è vero, muori dentro.
Un sentimento puro,
no, non ha futuro, se ti perdo.
Darei la mia vita che non è infinita
a un prezzo onesto,
ma per fortuna che,
che poi ci siamo trovati.”
Blanco & Mina, Un briciolo di allegria