Benvenuti
al capitolo che
ho scritto fin’ora. Da questo momento gli aggiornamenti si
faranno più sporadici
(di quelli che già sono) per ragioni personali.
Un bacio
RLandH
Ps
– Tecnicamente avevo
fatto un disegno per questo capitolo, ma … ci ho
avvertitamente lanciato dentro
uno spoiler ahaha
PS 2 - Uhm, credeteci ho meso ma siamo in dirittura di arrivo per il TITOLO I.
P A R T E P R I M A
L ‘
I N V I O L A B I L E
T I T O L O I
I
G I O C A T O R I
C A P I T O L O I X
I O S P E R O
C H E S
I A T
V
V N G
I O R N O
A S V E G
L I A R T I
E
N O N S
E N T I R L A
P I V’
“Ti
piacciono così?” aveva
domandato lei, con un tono pieno di curiosità, sfiorando con
i polpastrelli le
punte ritte dei capelli di Iren.
Il suo amico
si era guardato i
capelli in uno specchio di bronzo lucido e levigatissimo. Lei aveva
fatto un
buon lavoro con i capelli di Iren, aveva raccolto una matassa piena di
intrecci, lunga e ricca di incuria in qualcosa che somigliava
all’umano. Il
nero era tornato lucido come una pietra pomice ed avevano riacquisito
stranezza,
ma anche una nuova forma. La ragazza aveva accorciato le punte di
molto, la
matassa non toccava più le scapole, ed era andata ben oltre
le-orecchie-o-le-spalle come la moda imperiale voleva. I capelli di
Iren erano
un solo dito di stanza dalla sua pelle, corti come quelli di un
ragazzetto
pronti per l’hakademya, tranne che sulla
fronte, dove leggermente più
lunghi cadevano per coprire gli occhi grigio-nero.
“Sì”,
aveva risposto laconico Iren;
il suo viso era ancora bianco come quello di uno spettro, le occhiaie
viola
come unico colore sul volto emaciato. “Grazie”
aveva aggiunto Iren, forzando un
sorriso, facendo illuminare il suo viso perfetto. La ragazzetta era
avvampata
sulle guance, che erano divenute rosse, come se il suo amico invece di
un
ringraziamento le avesse chiesto la mano in matrimonio; la ragazza
aveva
farfugliato qualcosa, probabilmente più appropriato dire che
avesse squittito –
come un topolino.
La ragazza era
una domestica, non
di palazzo, ma di una famiglia nobile – che tagliava i
capelli per arrotondare
le entrate – si poteva vedere dall’abito che
sfoggiava, era semplice, ma il
materiale era ottimo e resistente, ciniglia arancione, l’orlo
delle maniche,
del colletto e della gonna avevano una decorazione semplice in filo
zenzero con
delle spighe. Aveva ricordato a Saiji Adda quando svolgeva un lavoro
simile.
Certo, la lunga lista di abiti che Adda aveva indossato era andata dal
cotone
duro alle stoffe più morbide, da quando appena bambina
portava il vassoio per
aiutare sua sorella, fino a che era stata la guardarobiera di Canadea,
al posto
di qualche nobile dama.
La donna
indossava una cintura che
le fermava la stoffa alla vita, evidenziato il ventre piatto e i
fianchi tondi,
in quello non somigliava ad Adda.
Saiji provava
un senso orribile di
estraniazione a quei pensieri. Da un lato, pensando a quelle sorelle,
Saiji
ricordava quelle lune come rinchiuso in una prigione, con
un’angoscia, rabbia e
dolore che inzuppavano ogni fibra di lui stesso, guidato dal solo
desiderio di
voler urlare come una bestia; e dall’altro, dopo tutta
l’acqua che era piovuta,
quello tempo sembrava un sogno, qualcosa che era esistito
sì, ma che era passato,
splendido anche e che come tutte le cose che erano avvenute e che mai
più
potevano essere raggiunte: era meraviglioso.
“Sir, tocca a lei” aveva aggiunto la ragazza,
indicandolo con il pettine
d’osso.
Saiji aveva
annuito, sollevandosi
dallo sgabello dove era acciambellato, per occupare la sedia che Iren
aveva
appena liberato, mentre con un certo manierismo continuava a far
passare le
dita pallide sui capelli nerissimi.
Lui aveva guardato la ragazza, “Sistema solo la lunghezza. Ho
adottato la
maniera ghaadiana aveva dichiarato subito; la corolla superiore lunga,
fino
all’attaccatura delle orecchie e poi fino alla nuca, corti
quasi da essere
rasati.
“Vuole che lavori anche sulla barba?” aveva chiesto
la ragazza. Saiji sapeva
che erano passate più lune di quanto fosse necessario
perché sulle sue guance
l’ombra non sembrasse più l’ombra
delicata che prevedeva l’etichetta fioriana.
Iren era decisamente più bravo da quel punto di vista, il
suo viso era rimasto
imberbe. Saiji l’aveva guardata, “Certo,
sì, sbarbami come un poppante” le
aveva dato il permesso.
La ragazza
aveva inumidito i suoi
capelli con un panno bagnato, per cercare di sciogliere il ricciolo dei
suoi
capelli, teneta tra i denti le forbici, mentre con una mano aveva il
pettine
per distendere i nodi, ma Saiji aveva potuto sentire le dita nude della
ragazza, passare più e più volte tra i suoi
capelli ammirata.
“Che stai facendo?” aveva chiesto curioso e confuso.
“Perdoni
questa impudente, Sir, ho
perso il controllo di me stessa. Sono capelli morbidi, i più
morbidi che abbia
mai sentito ed il colore: sembra sangue!” aveva ammesso.
Saiji era
rimasto colpito, sapeva
che i suoi capelli potevano guidare stranezze, “Di eosiani ne
ho visti, ma mai
con capelli così. Morbidi sì, ma i ricci sono
sempre stretti e mai di un colore
del genere” aveva spiegato. Saiji aveva annuito,
“Perché sono eosiano solo per
metà. Mio padre era ghaadiano, con sangue tulpee”
aveva raccontato senza
vergogna.
I capelli
rossi erano un’eredità
del suo vecchio, ma lui aveva avuto capelli rossi come fuoco
crepitante, quella
tonalità così scura e sorprendente, era venuta
assieme a sua madre. La sua
marra aveva i capelli scuri come legno bruciato e per qualche scherzo
del
destino, i capelli di Saiji erano usciti così. Non castagni,
mogano,
castano-ramato, ma sanguinello.
Però
gli piaceva pensare che quel
colore di capelli fosse un dono di suo padre, Saiji aveva ereditato
tanto dalla
sua marra, l’incarnato – di cui lui aveva una
tonalità solo leggermente più
chiara – le labbra piene, il naso dritto come una freccia,
gli occhi dalla
forma allungata, la forma del viso, la massa dei capelli, le labbra ed
ogni
cosa. Da suo padre aveva preso il rosso, l’altezza
– anche se il suo genitore
era stato filiforme come un chiodo – ed il colore scuro degli
occhi, tutte cose
evidentissime, ma che sembrano sparire rispetto a ciò che
aveva avuto da sua
madre.
“Prima
di sapere il suo nome mi
riferivo a lui come … il rosso” aveva mentito
Iren, era stato la melanzana
rossa, la bestia rossa ed altri epiteti raziali anche meno gentili.
“Anche io,
sapete?” aveva dichiarato audace la ragazza, “Mia
madre è fioriana fatta e
finita, ma mio padre è un ferriano, mezzo eriaco e mezzo colomynato!” aveva
detto piena di allegrezza e
vivacità sulla voce, facendo inclinare ancora il capo di
Saiji, per indugiare
con il pettine d’osso e le forbicine sui capelli.
“Anche
lei immagino” aveva aggiunto
la ragazza guardando Iren di sottecchi, “Al nord esistono un
sacco di fioriani
bianchi” aveva replicato lui, gonfiando le guance.
Meglio
così, aveva pensato Saiji,
meglio che mentisse.
Dopo aver
tagliato il crine, la
ragazza aveva oliato le guance ed il collo di Saiji, ma quando si era
allontanata per raccogliere la lama piatta per raderlo, Iren, con uno
scatto fulmineo,
e troppo irruento, le aveva preso un polso. Lei era sussultata e non
aveva
potuto trattenere un urlo. “Ci penso io, scusa. Ha un mento
appuntito e la
gente si taglia sempre” si era giustificato vergognoso,
lasciando la presa dal
polso della ragazza.
“Certo” aveva detto la ragazza, leggermente
turbata, “Il prezzò varrà …
niente!
Niente” aveva detto, la sua espressione si era addolcita come
miele, quando
Iren le aveva sorriso.
Lei aveva
allungato la lama, dal
lato dell’elsa al suo amico, “Viviamo in un mondo
assai poco gentile. Anche il
Vecchio Imperatore, che il suo fiore cresca forte nel Bel Giardino, si
faceva
radere la barba solo con cocci rotti e dalle fidate mani delle sue
figlie”
aveva raccontato.
Dicerie da
toletta! Saiji lo
sapeva per esperienza personale, lo
aveva anche visto, l’imperatore si faceva radere con il filo,
alla maniera
eosiana, e da una sola delle sue figlie – la minore.
Il Vecchio
Vivirian II poteva anche
amare il suo successore, ma riconosceva un pericolo, non avrebbe mai
offerto la
carne tenera all’Imperatrice. “Si può
essere la rappresentazione di
Dio-in-terra ma essere comunque carne alla mercè degli
uomini” aveva sussurrato
Iren con cupezza neanche celata, gli occhi scuri rivolti distanti a
pensieri
che avrebbe dovuto soffocare. “Che il suo fiore cresca alto e
rigoglioso” aveva
detto invece Saiji. “Che il suo fiore cresca alto e
rigoglioso” aveva
cinguettato la ragazza, anche se il suo tono era parso molto meno
partecipe.
“Comunque, per tranquillizzarti, nessuna mania. Il mio amico
ha ragione: ho un
mento complicato” aveva ammesso con una punta di divertimento.
La ragazza
aveva scosso il capo,
facendo oscillare i lisci capelli, “In tale caso,
lasciò voi signori soli. Vi
aspetterò per il pagamento al pian terreno. Mio padre ha
inchiodato la finestra,
perciò non ci sono altre uscite” aveva detto,
muovendo la mano in un segno di
saluto.
“Mai
ci permetteremo, mia signora”
aveva detto calma Iren, “Obbligata” aveva detto
lei, “Obbligato” aveva risposto
il suo amico, chinando anche il capo, lei era sparita poi dietro una
porta.
“Pensavi
mi avrebbe tagliato la
gola? Con te qui, presente?” aveva chiesto Saiji, nel momento
in cui avevano
sentito il rumore della porta sbattere, sapeva che la sua voce e la sua
allegrezza si era esaurita subito. Iren lo aveva guardato:
“Una volta pensavo
che l’Anima Condivisa fosse la massima aspirazione che ogni
uomo potesse
aspirare. Quel piccolo pezzo destinato a riunire uno spirito rimasto
tragicamente spezzato in due corpi” aveva esclamato
drammatico. Saiji aveva
sollevato un sopracciglio rosso, “Ho imparato, da
te, a pensare sempre
il peggio; se lei avesse voluto aprire un sorriso sulle tua gola, da un
orecchio all’altro, lo avrebbe fatto con me presente o
meno” aveva stabilito
Iren, serio mortalmente.
Saiji era
cresciuto imparando
diffidando di tutto il mondo, dopo aver perso i suoi genitori
– eppure, ogni
tanto, doveva riconoscere una certa innocenza in se stesso e si
dispiaceva, non
poco, che fosse stato costretto ad soffocare come
un’erbaccia, quell’innocenza.
“Però
non sarebbe successo e lo sai
anche tu” aveva commentato Saiji, le probabilità
che l’ornatrice fosse una
pazza con la passione del sangue erano comunque basse.
Iren gli aveva
tirato i capelli e
portato la lama alla gola, “Sicuro di avere le mani
ferme?” aveva chiesto
Saiji. “Il mio corpo sta bene, ora”
aveva dichiarato.
Lo spirito
meno, aveva dovuto
prendere altro Latte d’Uccello, Zegros era riuscito a
procurarne un po’ a
Saiji, questo aveva tirato su Iren, abbastanza da non farlo apparire un
morto,
ma un’imitazione di essere umano. Quando era tornato dal suo
amico, dopo la
notte alla Serra, Iren era riuscito a liberarsi i piedi, ma non il
bavaglio
dalla bocca e le mani, ci aveva provato, i polsi erano frastornati,
feriti,
sanguinanti. Il suo corpo si era riempito di lividi a causa degli urti
guidati
dalla rabbia convulsa.
Saiji aveva
sentito la lama gelida
scorrere lungo la pelle imbevuta. “Una volta la mia sposa mi
ha fatto la barba,
te lo ho mai raccontato? Mi è venuto in mente sentendo prima
l’ornatrice” aveva
detto disinvolto Iren.
“Tu non hai barba” era stata la risposta di Saiji,
occhieggiandolo, lo vedeva
alla rovescia quasi.
“Lo so, vorrei dirti che penso volesse avere semplicemente un
momento di puro
potere, lì con un coltello alla gola con il rischio di
uccidermi ma non è un
pensiero” aveva ammesso.
“Diciamo
che l’aver tentato di
ucciderti potrebbe effettivamente portare credito a questa
ipotesi” aveva
valutato Saiji.
Iren aveva riso spontaneamente, “Può darsi. Ma in
quel momento è stato così diverso
perché io lo ho sentito davvero, che lo voleva,
così come ho sentito che
non poteva. Dal tagliarmi la gola è passata ad inghiottirmi
intero” aveva
ammesso, “Ed io ho sentito tutto e lei sentiva tutto
di me” aveva
considerato.
“Iren, davvero, non voglio sapere queste cose”
aveva detto evasivo Saiji.
Non sapeva
neanche lui se stesse
parlando del sesso e del legame di due anime condivise. Non gli piaceva
pensare
a quell’argomento, sentiva le vecchie cicatrici sul suo petto
bruciare, come se
la lama bollente fosse sulla sua pelle.
“Mi
chiedo se ogni giorno si svegli
aspettando speranzosa di non sentirmi più” aveva
commentato acre Iren.
La lama era
scesa di nuovo, prima
di risalire raso sulla sua guancia.
Moria diceva
che un uomo poteva
vivere tutta la sua vita senza mai incontrare la sua anima condivisa e
vivere
ugualmente bene – una vita che non sarebbe mai stata del
tutto completa, ma che
poteva essere soddisfacente – ma era impossibile sopportare
la rottura di un
legame.
Lui diceva che
il mondo diventava
più freddo: nessun fuoco poteva riscaldare il corpo, nessun
raggio del sole
poteva allietare lo spirito e nessun abbraccio poteva rasserenare il
fuoco.
Freddo e solo freddo.
“Io spero che sia tu un
giorno a svegliarti e non
sentirla più” aveva commentato Saiji
alla fine, nervoso.
“Il Latte d’Uccello aiuta anche in
questo” aveva ammesso Iren, poi aveva
sospirato, “Vorrei ucciderla. Lo vorrei
proprio” aveva ammesso.
“Mi
spaventi quando fai questi
discorsi con una lama alla mia di gola. Non vorrei ti facessi
trasportare
troppo dalle tue emozioni” lo aveva rimproverato Saji.
“Se ti tagliassi la
gola, amico mio, poi dovrei tagliare anche la mia e far risparmiare a
tutti il
tempo che ci impiegherebbero ad uccidermi” aveva canticchiato
Iren.
“Tagliami questa barba e smettila di fare il
cazzone” aveva replicato lui,
alzando una mano come a scacciare una mosca.
“Poi
ti va di accompagnarmi alla
funzione?” aveva chiesto, mentre recuperava
dell’olio da barba da mettere sulla
sua pelle, era così lento in quell’operazione che
su una guancia si era
seccato.
“Dopo aver piantato la Spiga speravo vivamente di non dover
più partecipare a
queste stronzate” aveva dichiarato Saiji senza vergogna,
ricordando le lunghe
messe a cui era stato costretto a partecipare quando era al castello
dei
Ramberra, a quelle quando era nella Corda e nella spiga. A quante volte
era
dovuto stare ad ascoltare le lamentazioni di Iren stesso.
Il suo amico
aveva emesso uno
sbuffo e le sue labbra si erano arricciate in una smorfia. Saiji sapeva
che la
fede per Iren era una delle poche colonne della sua vita, delle sue
sicurezze,
come ogni bravo Marnimorbide fedele all’Impero. O anche di
più, non era solo la
sua natalità nobile, ma anche il suo sangue, era benedetto.
Iren era stato
educato per tutte le sorelle della sua vita ad essere – e
considerare sé stesso
– un’emanazione divina, aveva anche incontrato la
sua anima condivisa. Qualcosa
che certi uomini cercavano per tutta la vita, senza mai trovarla.
Iren era
benedetto, manimorbide e
fortunato, ma
Saiji sapeva che nonostante questo sorriso del Buon-Dio a modo suo Iren
era
stato tacciato dalla Bizzaria – una che
ad occhio non poteva essere
vista – ma che lo aveva sempre spinto ad aggrapparsi tanto
nel credo per
sopperire l’urgenza che più lo
animava. Una lotta eterna che non avrebbe
mai potuto vincere.
Il suo amico
aveva fatto scivolare
la lama, lungo la carne impomatata e poi aveva sbagliato una pezza in
una
ciotola d’acqua fredda. “Ora sembri esserti
succhiato un paio di sorelle” aveva
considerato il suo amico, passando la stoffa sul collo per pulirla
dall’olio.
Saiji aveva ridacchiato divertito: “Come quando ci siamo
conosciuti?” lo aveva
preso in giro e non sapeva neanche perché. Aveva ricordato,
per un momento,
quella vita distante quando si erano conosciuti, per davvero
– Saiji aveva
saputo dell’esistenza di Iren ben prima del suo amico ed
anche quando lo aveva
visto per la primissima volta, dubitava che il giovane manimorbide si
fosse accorto
di lui. Ricordava in maniera quasi fumosa e distante, la prima volta
che Saiji
lo aveva visto, passare su uno cavallo dal manto sabbia, kaartiano, con
l’espressione altezzosa, mentre varcava la porta grande. Eccolo!
Eccolo!
Gridavano.
Eccolo, aveva
pensato Saiji senza gioia.
Iren grandioso
esattamente come il
più perfetto degli uomini doveva essere, come il dettame
preciso del Giusto
Sentiero aveva prescritto che esistesse. Saiji aveva provato molte e
differenti
emozioni per i figli del destino, per i manimorbide, per chi era uno,
l’altro o
ambedue, su tutte l’invidia era stata la più
dominante, per la mutilazione che
aveva subito, per la mancanza, che anche volendo, anche quando fingeva
che non
fosse di sua importanza, non avrebbe mai potuto riottenere. Era
libero,
così aveva detto una volta la sua marra. Potrai
seguire il sentiero ignoto,
il sentiero che tu vorrai per te stesso, nessuno deciderà
per te, neanche Dio.
Aveva detto piena di innocenza e buona speranza, la sua marra.
Non era vero,
c’erano state altre
infinitesimali varianti da considerare oltre i fiori che sbocciavano
sui petti.
Il colore della pelle, il rango, il cibo, l’educazione.
Avevano preso
Saiji che non aveva
ancora attraversato la sua trentesima sorella e gli avevano dato
un’arma; da
quel momento tutta la sua vita era stata scelta. Nessuna
libertà, neanche per
un uomo mutilato.
Per Iren, invece, non aveva provato semplicemente invidia, la prima
volta che
lo aveva visto, entrare nella città, acclamato come un dio,
per null’altro
merito che ciò con cui era nato, ma annichilimento.
Saiji aveva sentito tutta la sua sbagliataggine.
Iren aveva
riso, con una crudeltà
quasi divertita, “Direi di no!” aveva esclamato,
“Non credo potresti riavere
tutte quelle sorelle” gli aveva detto.
Saiji aveva
aggrottato le
sopracciglia, “Cosa?” aveva chiesto. Iren si era
lasciato cadere sulla sedia
che aveva occupato prima Saiji, mentre aspettava che il suo turno
dall’ornatrice finisse. “La prima volta che ci
siamo visti tu dovevi avere
circa cinquanta sorelle; anche se pensandoci non so quante sorelle
abbia tu
effettivamente” aveva dichiarato Iren senza battere ciglia.
Saiji lo aveva
guardato,
“Centosette, quasi cento-otto il selune del primo ciclo della
prossima sorella”
aveva replicato, “Quindi vuol dire che hai festeggiato
centosette sorelle e non
mi hai detto nulla” aveva quantificato Saiji, quasi
indignato, prima di
scoppiare a ridere, nessuno aveva festeggiato le loro sorelle negli
ultimi
tempi.
“Allora, io ho novantadue sorelle, credo. Il latte potrebbe
aver un po’
annebbiato la mia mente, ecco” aveva cominciato a fare i
conti Iren, usando
anche le dita. Sembrava buffo.
“La
prima volta che ci siamo visti,
io avevo trentasei sorelle e tu cinquanta-due!”
aveva esclamato.
Saiji non la ricordava affatto così, “No! La prima
volta che ci siamo visti tu
avevi settanta sorelle e io ottantadue” aveva risposto Saiji.
Una gioia
prorompente era eruttata
negli occhi grigio-neri di Iren. “Oh, Giardino-Incantato! Tu
non ricordi il
nostro primo incontro. Il grande Saiji Alderichi che tutto sa e tutto
ricorda,
non lo rimembra” aveva esclamato pieno di gioia.
“Davvero?”
aveva chiesto Saiji, che
non riusciva a ricordarlo, “Certo!”
aveva ammesso Iren, “È stato al torneo di Baresana, vicino
Città di Raflesia Alta” aveva
raccontato. Saiji aveva ricordato quell’evento con una
chiarezza quasi
devastante, “Hai partecipato al Torneo degli
Scudieri” aveva ricordato Iren con
una certa meraviglia. “Ho vinto il
torneo” lo aveva corretto con
asprezza Saiji, ricordando quel momento, aveva vinto a duello con una
spada
smussata, “Hai sconfitto
il Gran Bastardo, sì” aveva
ricordato Iren.
Ricordava l’eccitazione, il sole sul viso, il peso della lama
sulle sue mani e
l’acclamazione popolare, oltre che il suo avversario sulla
schiena che
accettava la sconfitta, senza rabbia o rancore.
‘Bel
duello, Alderichi’ aveva detto senza esitazione,
dandoli poi la mano.
Non
era un nobile vero il Gran Bastardo, ma era un manimorbide per sangue
ed
educazione ed era stato il primo a riconoscere Saiji come pari.
“In
quel momento io ero sugli
spalti, con mio zio, che mi aveva chiesto di essere il suo
scudiero” aveva
ricordato con gioia Iren, “Certo, lui ha perso alla prima
lancia contro Cresten
di Rocca Serpillo” aveva terminato meno esuberante.
L’espressione
sul suo viso però era
ancora placida; Saiji ricordava che Iren non usciva molto dalla sua
casa da
bambino, ma forse quella doveva essere stata un’occasione
speciale. Saiji non riusciva
a ricordare che vi fosse nulla di così speciale in quel
torneo, per gli altri,
ovviamente. Per lui lo era stato. Aveva vinto la
mischia degli scudieri,
si era fatto un amico, aveva sperato lo avrebbero ordinato Cavaliere ma
Moria
si era opposto – e quella volta aveva avuto successo
– e gli avevano concesso
un altro premio.
“Sì,
devo ammettere che la tua
vittoria in quel caso fu molto impressionante. Più della
vittoria di Ser Moira
alle lance contro Fjord Altavilla” aveva raccontato, ma anche
in quel caso i
suoi occhi erano scintillati di una piacevole meraviglia.
“Cosa hai avuto come
premio?” aveva chiesto poi Iren, stupendolo, “Non
ricordo affatto, o forse non
lo ho mai saputo. A quell’età pensavo che il mio
peso in torte di zucca fosse
un pagamento accettabile” aveva chiosato.
Saiji aveva
riso, “Volevo essere
cavaliere” aveva dichiarato, “Ma mi hanno detto di
no, che potevo chiedere qualsiasi
altra cosa” aveva ammesso.
Qualsiasi.
Avrebbe potuto chiedere
di essere un eretico libero, di poter lasciare Teschio di Drago,
qualsiasi
cosa, ma voleva solo urtare il suo signore. “Il bacio di una
principessa come
tutti gli aspiranti cavalieri” aveva ricordato, un brivido
aveva attraversato
la sua schiena, a quel ricordo. Era
stato anche prima che cominciasse a partecipare alle Parole Cortesi e
seguisse
tutto il corso necessario.
“Mi
ricordo che al torneo non
mancavano le principesse” aveva considerato Iren, la sua
mente si era fatta
distante e per un secondo aveva ricordato qualcosa che era passato da
tempo.
“Quattro
di nome e due di fatto”
aveva replicato Saiji, ricordando quelle donne. “Sarebbe
stato oltremodo ilare
se avessi baciato la madre del Gran Bastardo” aveva
considerato, pensando alla
principessa Annamrys con quella sua espressione stoica, di chi non si
curava di
aver generato un figlio naturale senza giuste nozze o altro. “Quindi chi hai baciato? La
bella Yorrehim
di
Grandi Querce?”
aveva
domandato divertito Iren.
Il sorriso di Saiji si era spento al ricordo, “Avevo chiesto
una principessa”
aveva replicato cupo e Yorrehim non lo era, non nel titolo almeno,
nonostante fosse
gran-nipote dell’Imperatore Myrto I il Guiscardo.
Ovviamente avrebbe voluto baciare la bella Yorrehim, non
perché la desiderasse
in alcuna maniera, ma perché avrebbe indispettito Moria
più di chiunque altra.
La signora era la figlia di Iseo di Querce Grandi, con sangue
imperiale, ma
sopra ogni cosa: nipote dello scintillante generale.
Iren aveva
riso e per un secondo
era sembrato un suono così genuino e naturale che quasi
aveva inabissato ogni
cattivo pensiero. Figlio del destino, d’altronde.
“Credo
di poter immaginare quale
principessa ti abbia concesso un bacio” aveva considerato.
“Come se una
principessa smaniasse di baciare un senza-dio mezzo eosiano senza nulla
da
offrire perché lo chiedeva. Ci ho guadagnato un man
rovescio, ecco, che premio
ho avuto” aveva mentito.
Aveva mentito parzialmente, “Secondo me, invece, hai avuto un
bacio
dall’arciduchessa” lo aveva provato Iren, che
all’ora era solo principessa.
Sì,
avrebbe dovuto rispondere, ma
non in quell’occasione, diverse sorelle dopo –
più maturi e volontari. La
ragazzina aveva chinato lo sguardo quando l’aveva veduto,
doveva esserle
apparso come un mostro, così selvaggio, rispetto gli altri
fanciulli ben
vestiti. Saiji era stato l’uomo dal sangue più
basso lì presente, non era stato
concesso ai cavalieri erranti di natali bassi di partecipare, figurarsi
ad uno
che era a malapena uno scudiero, ma Moria aveva garantito per lui.
“Hai
ragione, in parte. Dopo la
sberla di Moria la notizia si è comunque diffusa ed una
principessa ha deciso
che meritavo un bacio se era ciò che
avevo chiesto” aveva ammesso. Che
stupido pensiero, che stupida richiesta, che stupido ragazzino. Si
chiedeva
come sarebbe stata la sua vita senza quella richiesta.
“Vedi” aveva replicato
Saiji con una risata, “Cinquantadue sorelle ed un bacio da
una delle fanciulle
più desiderate del mondo” lo aveva preso in giro.
Saiji aveva
guardato le sue guance
nude e scure nel suo riflesso, pulire come quelle di un infante ed
aveva
ricordato tenuamente il contatto tra le labbra, appena un bacio
delicato. “La
fanciulla” aveva corretto Iren, ma il suo tono era stato
basso e poco chiaro.
“Come?” aveva interrogato il suo amico,
“Non hai baciato una delle fanciulle più
desiderate al mondo, ma la fanciulla
più desiderata al mondo” aveva
detto senza calore.
Non sapeva
quale reazione avrebbe
dovuto aspettarsi da Iren, ma non era quella. Il suo viso era rimasto
uguale,
così come il sorriso languido. “Mi hai preso in
giro” aveva riconosciuto Saiji,
“Lo sapevi benissimo, il premio ed il bacio” aveva
considerato, “Lo sapevo. Mi
ero semplicemente chiesto perché non me lo avessi mai detto.
E no, non parlo di
queste ultime sorelle, ma anche delle prime” aveva
considerato, “Io non avrei
esitato nello strofinartelo sul muso” aveva stabilito.
Saiji aveva
ridacchiato, “Se avessi
inforcato l’imperatrice, puoi giurare sul tuo Buon-Signore
che lo avrei detto a
tutti, anche a costo di finire sulla ruota, ma era solo un bacio
innocente”
aveva raccontato alla fine. Il sorriso di Iren non si era incrinato di
un
secondo, così quello di Saiji, anche se un molesto pensiero
dopo tutte quelle
lune lo aveva attraversato. Lo sapevi fin dal principio?
“Mi
accompagnerai alla funzione?” aveva chiesto alla
fine Iren, Saiji aveva annuito, “Sì. Sempre se la
basilica non prenderà fuoco
appena ci metterò piede, resto sempre un principista
senza-dio.”
Si erano
diretti alla Basilica
cittadina; per Saiji percorrere quella strada non era stato diverso, da
prendere alcuna altra via, ma riconosceva che Iren fosse invece molto
più
nervoso. Aveva sentimenti misti sul viso; era stato esuberante
all’idea di
andare ad una funzione, ma ogni passo che si faceva più
vicino, l’incertezza
dirompeva sul viso. D’altronde Iren aveva il suo Principio
personale contro cui
combattere.
Così preso dai suoi pensieri, notava a malapena lo sguardo
rapito dai passanti,
attirati da lui, come i girasoli dal sole. Con i capelli corti ed
ordinati, con
la camisa pulita ocra, nitido e profumato, con un
solo accenno, nel viso
smunto del Latte d’Uccello.
Qualche
sguardo era rivolto anche a
lui: Saiji sapeva di attirare l’attenzione, era alto, eosiano
e con i capelli
rossi e non tutti erano ammirati da queste stranezze come
l’ornatrice.
La Basilica di
Città Azalea
occupava la parte levante della piazza cittadina. Era una struttura
imponente,
grandi quasi quanto quella nel Bocciolo. Una massiccia scalinata di
pietra
calcarea bianca che luccicava sotto il sole, lunga quasi venti gradini,
che
conduceva ad un portico di dodici colonne, disposte in due file da sei.
Erano
altissime, in marmo di breccia color arancio e clasti bianchi, che
terminavano
in capitelli con fiori d’acanto e volute. Sostenevano una
trabeazione
triangolare su cui era stata mosaicata un’immagine di un
giardino con
uomini-fiore. Non riusciva ad immaginare come fosse
l’interno, ma immaginava
dalla stazza, che l’edificio potesse ingoiare tutti i
cittadini, almeno i più rispettabili.
“Splendida” aveva ammesso Saiji, con un tono
leggermente ammirato.
Non era
sicuramente un estimatore
del Credo, ma riconosceva la grandiosità di
un’opera. “Azalea vuole competere
con Il Bocciolo mi sembra di intuire” aveva considerato.
Si era
aspettato una risposta di
Iren, che lo sgridasse o un commento sdegnato sull’opulenza,
ricordando come la
cattedrale di Città Malva come spoglia e semplice, fredda
quasi all’esterno, ma
piena di colore all’interno – non che Saiji lo
avesse mai vista, ma il suo amico
aveva speso tantissimo tempo a descriverla – però
Iren non aveva fiatato.
Sembrava non aver neanche visto il tempio, i suoi occhi guardavano il
centro
della piazza a stella.
Una statua
dominava il centro.
“Ah”
aveva detto Saiji, “L’ultima
volta c’era una raffigurazione a cavallo rampante
dell’Imperatore Selonio III
dei Trittili. Il fondatore della città” aveva
ricordato.
Una statua in
bronzo-nero, di un
vecchio con espressione furiosa e mustacchi spessi ed arricciati sulle
punte,
con una lunga barba a forma di treccia. Con una mano reggeva le redini
di uno
stallone ruspante e con l’altra una spada lunga –
una a doppia presa, ma
l’artista non doveva aver saputo la diversità
– sguainata verso il cielo.
Niente Selonio, però, con i suoi baffi e la sua spada
sbagliata, al suo posto
c’era la sua discendente – di qualche centinaio di
anni e matrimoni scambiati
dopo – l’Imperatrice.
Su di un
piedistallo di pietra
grigia, la Signora del Pregiatissimo Impero, composta di marmo in
cipollino,
dalle tonalità di verde, guardava con severità i
suoi avventori. La
statua conservava l’incondizionata bellezza
di figlia benedetta dell’Imperatrice stessa, la posa in cui
era sistemata
sembrava naturalissima, con le pieghe realistiche della stoffa incise
nel
marmo. Il viso era
dolce, il sorriso
tremolante, appena accennato, a sinonimo di una natura velata e gli
occhi erano
austeri; imprigionati benissimo nello sguardo. Il vestito ricalcava
quello di
una matrona fioriana in tutto punto, con le maniche strette, le spalle
semicoperte
da un fazzolo aderentissimo, che si chiudeva sul petto con la spilla di
un
fiore a due pendenti di perle. Il busto stretto da vespa e i fianchi
larghi,
messi in risalto dal corpetto rigido e la gonna morbida, che scendeva
lungo le
gambe.
In una mano reggeva il globo d’oro del mondo,
nell’altra lo scettro di
girasole, con foglie larghe d’oro, così come i
petali del fiore, che
ricordavano una versione realistica. Altro oro e gemme preziose erano
nella
corona imperiale, una perfetta imitazione di quella originale. Un
anello di
ferro dorato, da cui spuntava al centro un rettangolo su cui erano
incastonate
perle bianche e gemme, circondato, ai lati, da triangoli ed archetti
che si
susseguivano alternandosi – Saiji si era chiesto quanti
audaci ladri avessero perso
le mani per quel tesoro.
Ciò che rovinava l’incanto era data da un viso di
fanciulla, più vicino alle
sorelle che aveva avuto l’Imperatrice quando aveva indossato
la tiara che
quelle che aveva in quel momento, per quanto fosse ben lontana dalla
vecchiaia.
Così
come i capelli, corti appena
sopra le spalle.
Quando era
salita al seggio
imperiale, la Signora non era già più una
fanciulletta, ma portava i capelli
intrecciati come una donna.
“Ha
il taglio della vedova” aveva dichiarato
solenne Iren, con la voce sottile come uno stiletto, come se fosse
sorpreso. “Lei
è vedova” aveva rimarcato Saiji,
“Il dolce imperatore è morto.”
“Cresca
il suo fiore rigoglioso”
aveva sibilato monocorde Iren, senza emozione, senza amore, con gli
occhi scuri
così distanti.
“La
statua le rende abbastanza
giustizia” aveva concesso Saiji, “Non alle sue
tette” aveva risposto Iren.
Si erano lasciati l’austera espressione
dell’Imperatrice alle spalle,
percorrendo la strada verso la basilica, dove un numero non
indifferente di
persone stava virando. Saiji l’aveva guardata ancora una
volta, doveva
ammettere, con sommo rammarico, che per quanto veritiera,
l’immagine non
rendeva giustizia alla sua forma di carne: lo sguardo
dell’Imperatrice era
assai più spietato.
Avevano preso
la scalinata, per
raggiungere l’interno della chiesa, quando Saiji aveva notato
l’ornatrice che
avevano incontrato il giorno prima. Era pochi gradini sopra di loro,
con i
capelli verginali scuri sciolti, tranne che due piccole treccine sulle
orecchie, tirate con un fiocco dietro la nuca. Anche lei li aveva
notati ed era
rimasta ferma, guadagnando qualche spallata poco gentile dai fedeli;
aveva sollevato
la mano e salutato timida, con le guance tonde rosso ciliegia.
Ambedue
avevano ridacchiato; “Che
novità, amico mio, un’altra giovinetta infatuata
di te” aveva considerato
sterline Saiji, pensando alla fanciulla a piccolo pulvino che si era
convinta
di essere l’anima condivisa di Iren solo per averlo veduto.
La divina bellezza
della perfezione!
“Non
questa volta” aveva dichiarato
del tutto consapevole Iren, “La nostra giovane acconciatrice,
ha un interesse
per te” lo aveva pungolato, lasciandosi sfuggire un sorriso
un po’ storto.
Saiji aveva riso, “Povera la sua marra, dunque. Sono
l’incubo di ogni genitore:
mezzo-eosiano, principiente e senza un soldo” aveva
considerato. Iren lo aveva
guardato, “Sei anche un cavaliere. Mia madre sarebbe
felicissima di avere un
cavaliere sull’uscio che corteggia mia sorella”
aveva replicato.
Ah, la sorella
di Iren, argomento
meno spinoso del resto della sua famiglia, ne parlava ben di meno di
quanto
facesse di suo fratello, ma aveva sempre un tono pieno
d’amore e goia quando
rinvangava qualcosa con lei come protagonista.
Saiji
non l’aveva mai veduta di persona, la immaginava come Iren,
altrettanto
benedetta, con gli stessi occhi grigio-nero, il viso pallido come la
polvere di
luna e i capelli scuri come una notte senza stelle, solo più
morbida e
delicata. Doveva essere una fanciulletta, non più bambina.
“Tua
madre era una contadina” aveva
risposto Saiji, ricordando che tra le varie offese che aveva raccolto
dai
Ramberra, ricordava anche quello. Non era una donna ricca di nobili
natali, ma
era stata l’anima condivisa del manimorbide padre di Iren.
“Inoltre,
dubito che il Margravio
avrebbe apprezzato il matrimonio” aveva aggiunto, un
po’ più ferace e
vergognoso, quando aveva visto il viso esangue alla menzione di sua
madre. E
pensare che Saiji avrebbe potuto chiamarla una puttana, come sempre
aveva
sentito Moria definirla, “Tutto ciò che ho
è la mia spada. Ed ora non la
possiedo neanche” aveva replicato, sentendo il fianco vuoto.
Il sorriso di
Iren si era spento,
“Adesso potresti sposarla e a nessuno irriterebbe il naso. Un
cavaliere della
spina che sposa una fanciulla nuda e cruda” aveva
considerato. Una voce
asciutta.
Saiji ne
dubitava, sapeva che la
condizione della ragazzina doveva esser orribilmente mutata nelle
ultime
Sorelle e che il piatto in cui mangiava era terribilmente
più povero di quanto
non fosse mai stato; ma rimaneva comunque una manimorbide, ben lontana
da
essere nuda e cruda, come la pensava Iren. Non era comunque sicuro che
dire
quei pensieri ad alta voce avrebbero rincuorato il suo amico. Era ben
consapevole, che nulla di quello che avrebbe mai detto, avrebbe reso la
mente di
Iren più leggera o non avrebbe avuto bisogno di stordirsi
con il suo veleno.
“Non sono un cavaliere cordato; sono uno spigato che ha
permesso al suo signore
di morire” aveva liquidato la faccenda Saiji, salendo le
scale della chiesa.
Non era la
verità, non del tutto,
non corretta, non giusta, ma sufficiente.
La
verità era sempre impantanata in
luoghi ambigui, aveva detto a Zegros, Sgorbio ed il resto del
Punteruolo che
non era mai stato veramente una Spiga, ma era una menzogna. Lo era
stato ed
aveva fallito. Non c’è onore ad un cavaliere che
sopravvive al suo signore.
Ai tempi del
Florido Impero,
avrebbero dovuto bruciare Saiji con le spoglie mortali
dell’uomo che aveva
giurato di proteggere, ma non c’era stata pira per il Dolce
Imperatore, né
sepolcro.
Iren lo aveva
guardato, Saiji non
aveva avuto dubbi di questo, ma si era sforzato di non voltarsi, poi
aveva
sentito i suoi passi – chiari, nonostante la cacofonia di
quel luogo –
raggiungerlo, silenzioso.
“Non
è colpa tua, è colpa sua”
aveva detto solamente.
Gli occhi
imperiosi della Statua
erano ancora rivolti, austeri, verso il suo popolo.
“Cosa
osservo con questi miei
occhietti!” aveva squittito una voce fin troppo felice, che
si era sollevata
con vigore oltre il resto del ronzio. “Un uomo-d-albume ti
sta chiamando” aveva
considerato Iren, Saiji si era voltato appena in tempo per osservare
Zegros che
sollevava una mano salutandolo. Non sembrava lo stesso ragazzino
incontrato al
bordello qualche luna prima: i vestiti erano lindi di fresco, un
farsetto nuovo
di un colore pervinca, gli stivali di pelle lucidissimi ed anche una
mantella
scura con cappuccio, con cui immaginava dovesse nascondere la pelle
incolore.
Il viso era pulito, lucido e i capelli bianchi ordinati, pettinati in
una coda
alta; sembrava più il figlio di un mercante che un lupo
d’arme. “Mio buon
Saijir!” aveva squittito subito, accogliendolo in un
abbraccio fraterno, alle
sue spalle come una peperella lo aveva seguito un altro ragazzetto
– forse era
una nuova leva del Punteruolo, Saiji lo aveva guardato a malapena.
“L’ultimo
posto dove mi aspettavo di vederti era una chiesa” aveva
ridacchiato il
ragazzino, “Mi piace non essere prevedibile” aveva
mentito.
Zegros aveva sorriso, se fosse stato intenzionato ad aggiungere alcun
chè, gli
occhi chiari erano rimasto impigliati nella figura di Iren. Aveva
battuto le
palpebre un paio di volte, “Oh, avete un
accompagnatore” aveva detto subito,
era rivolto a Saiji, ma i suoi occhi erano ancora incagliati su Iren,
che lo
ricambiava con anonima freddezza.
Iren si era
accorto di quella
morbosità, “Lui ehm …” aveva
cominciato Saiji, “Beren Alderichi, cugino di
Saiji” aveva risposto secco l’altro. Doveva essere
colpa del latte che offuscava
la sua mente. Iren aveva anche allungato una mano, aveva sfoggiato un
sorriso
di vetro, teso, che mancava di tutto quel fascino – ma
l’aspetto incantevole
del manimorbide era astato abbastanza per irretire Zegros.
“Non
vi somigliate molto” aveva
considerato il compagno del lupo d’armi e la voce melodiosa
era stato un
campanello nella sua memoria, Saiji aveva aggrottato le sopracciglia
rosse,
osservandolo meglio. Fioriano-istiano con la pelle olivigna, i ricci
scuri e
gli occhi piuttosto luminosi: era Eleas, con meno trucco e
più indumenti
addosso.
Eleas
indossava una camisa lunga,
verde, leggermente datata, con bottoni di tagua. La veste scendeva fino
alle
cosce, fermata in vita da una cintola di cuoio, sotto indossava una
calzamaglia
nera e gli stivalacci di pelle marrone, più simile ad un
lupo d’armi che di
baci. La sbagliataggine sul suo viso, senza tutta
la cosmesi, appariva
molto più evidente, se nelle luci soffuse della notte, Eleas
era parso
intrigante, in quel momento sembrava quanto mai banale, ma con occhi
vispissimi.
“I
nostri padri erano a loro volta
cugini” aveva considerato Saiji, ammaltando la menzogna.
Aveva distanziato la
loro parentela, per rendere credibile ma menzogna, non solo
perché lui ed Iren
non condividevano una forma, un colore, un dettaglio; Saiji era
vistosamente
eosiano, ma aveva il vigoroso rosso tulpee ghaadiano di suo padre nei
capelli,
come Iren poteva sfoggiare una pelle chiarissima del settentrione.
Abbastanza
ghaadiani – si era detto. “Io sono Zegros Themisio
e questo bisbetico qui è il
mio amico Eleas Dartin” si era presentato
l’uomo-d-albume.
“Un
nome irtoso” aveva considerato
solamente Elas, fastidioso ed attento come ogni lupo di baci,
guadagnando un
colpo di tallone poco gentile da Zegros. Iren nelle sue menzogne aveva
scelto
bene, era cresciuto a Irti Pini e non avrebbe potuto passare per
null’altra
cosa, aveva i capelli lisci del settentrione e la pelle chiara della
maggior
parte della Ghaadia, ma aveva l’accento arso dei suoi
compaesani. “Nome irtoso
per un uomo irtoso. Mia madre era di Irti Pini, così come
suo padre, porto il
suo nome” aveva mentito con scioltezza Iren, quella
particolare fandonia era
una che aveva ripetuto diverse volte nelle ultime sorelle.
Beren di Irti Pini, figlio di una donna irtosa e cresciuto come
paggetto in un
qualche castello – per spiegare le sue conoscenze da mani
morbide.
Zegros non era
stato turbato, o
aveva mentito benissimo con il suo corpo, “Oh ecco,
perché non eri sul pianoro
di Malvasia!” aveva esclamato il giovane lupo
d’armi, sciogliendo la presa
dalla mano di Iren. Il suo amico si era fatto rigido come la corda di
una
cetra, “Punto e morto” aveva risposto secco Saiji,
“Ho ricordi dolci di Irti
Pini e molto rispetto per la buon’anima di mia Zia”
aveva mentito, non con la
stessa leggerezza di Iren, ma abbastanza da essere plausibile, non
poteva osare
troppo: Zegros lo conosceva, conosceva il suo passato con Ser Moria e
la corte
di Grandi Querce. “Cresce vigoroso il suo fiore”
aveva replicato Zegros
guardando Iren, con un sorriso complice, il suo amico era ancora bianco
come un
lenzuolo, ma aveva riacquisito del coraggio.
“Eri
a Malvasia” aveva considerato
Iren, poi, forzando un sorriso di ghiaccio.
“Oh,
sì, sono il Furiere del
Punteruolo di Erzeveka” aveva chiosato immediatamente lui,
sciorinando una
lista delle sue imprese militari – fin troppo gonfia per la
giovane età che
sfoggiava – per impressionare Iren, evitando per bene la
battaglia al pianoro
di Malvasia, che era rimasto ieratico.
Saiji poteva
vedere una battaglia
infuriare in Iren: rimanere in passivo silenzio o sferrare un pugno su
Zegros,
lui sperava decisamente che il suo compagno scegliesse la prima, per
quanto
difficile, avrebbe dovuto dominare quell’angoscia, da
lì in avanti. Saiji aveva
voluto che Iren realizzasse che avrebbero dovuto interagire con il
punteruolo,
aveva anche immaginato che l’aumento del consumo di latte
fosse guidato da
quella prospettiva.
Ovviamente, come ogni volta che doveva confrontarsi con qualcosa di
scomodo,
Iren aveva accantonato il pensiero fino a che non era diventato
impossibile
evitarlo.
Zegros ed Elas
li avevano accompagnati
all’interno della chiesa. Dietro le colonne mastodontiche,
Saiji aveva potuto
riconoscere che la chiesa era divisa in cinque navate, le due
più esterne erano
un unico corridoio colonna dalla forma circolare, avvolgendo le tre
navate che
erano divise da colonne meno mastodontiche, ma più sobrie.
Il pavimento era composto di frammenti di marmi differenti, di ogni
colore
diverso, creando un effetto piacevole di caos.
L’edificio
era splendido, con
colonne di cipollino, finestre ampie sulla parte superiore, il registro
inferiore coperto di iconografie fioriane. Il soffitto a cassettoni
bianco
pallido, con fiori d’oro nel centro. Tutto terminava in
un’abside ampio, con
tre finestre di vetro colorato, intervallato da martiri e santi. Sul
catino,
nella parte superiore. In un mosaico simbolista: Santa Lionah ed il suo
martirio con il fuoco. Una donna pallida, del settentrione, con capelli
biondo
scuro lunghi e spessi come un mantello che coprivano le vergogne del
corpo
nudo, fiamme rosso-aranciato lambivano dai suoi piedi, ma fili
d’edera la
proteggevano.
“So di non essere stato un estimatore delle dottrine. Ma
ricordo che Santa
Lionah era protetta da un caprifoglio rampicante” aveva
sussurrato Saiji
all’orecchio di Iren.
“Sì”
aveva confermato il suo amico placido,
osservando i rami molli dell’edera che si arrampicavano sulle
gambe bianche.
“Forse, l’artista si è
confuso” aveva provato Zegros, “Un artista fioriano
che
sbaglia dei fiori?” aveva chiesto retorico Eleas, dando voce
ai pensieri di
Saiji.
“No,
nell’agiografia di Santa
Lionah è specificato che fosse il glicine a proteggerla. Un
altro nome del
fiore è la pioggia blu” aveva spiegato subito
Iren, tirando fuori le sue
conoscenze religiose.
Anche Saiji
ricordava quel
particolare, se mai, una donna di nome Lionah era stata quasi bruciata
viva,
probabilmente era stata la pioggia a spegnere la sua pira, ma le
narrazioni
fioriane avevano convertito la storia alla loro utilità.
Quella però era edera,
con le sue foglie a tre punte.
Avevano preso
il loro posto, in
piedi. “Non deve essere facile per tuo cugino, dico, in
questo momento” aveva
valutato Elas, “Mezzo impero odia Irti Pini più di
Garlio il
Principio-Incarnato e quelli danno fuoco a donne e bambini, appendo
preti ed
hanno ammazzato il dolce imperatore” aveva ricordato il
lupetto. “Arlo Ceidri”
aveva ricordato Saiji, “Ha ucciso il Dolce Imperatore, io
c’ero” aveva
ricordato con voce atona, ancora bloccata in quella finzione, aveva
ripetuto
quella storia così tante volte da averla cominciata a
trovare plausibile.
“Per il mondo i Principienti sono tutti uguali”
aveva replicato Eleas,
“Comunque, Beren ha sempre avuto un rapporto conflittuale con
Irti Pini,
quindi, non gli tange poi molto” aveva mentito, ancora meno
credibile. Eleas
aveva annuito, prima di guardarlo di nuovo, aggrottando le sopracciglia
scurissime, “Aspetta, eri lì?”
aveva chiesto poi. Saiji aveva annuito,
chinando il capo, “Ero una Spiga, servivo lì.
Servivo il Dolce Imperatore. Ero
al Passo della Laminaceae” aveva raccontato poi,
“Non risponderò ad altre
domande” aveva aggiunto stupidamente, quello che aveva detto
non era una
menzogna, ma si sentiva così sciocco ad averlo detto.
Eleas aveva annuito, “Comunque, c’è una
buona probabilità che anche mio padre
venga da Irti Pini, almeno così teorizzava mia madre, si
può dire che non le
mancassero i sospetti” aveva ammesso con voce bassa quello,
passandosi una mano
tra i capelli. Saiji lo aveva studiato, Eleas aveva un aspetto
assolutamente
istiano, del meridione del continente, mentre gli abitani di Irti Pini
avevano
denotati leggermente diversi, più simili ai ghaadiani e i
Sussuranti, per
quanto meno pallidi. Nulla di Eleas lo sembrava irtoso.
“Comunque,
devo ammettere che non
mi aspettavo di vedere qui ne te ne Zegros” aveva commentato
Saiji, volendo
cambiare discorso da Iren, da Irti Pini e la morte del Dolce Imperatore.
Il Lupo di
Baci aveva ridacchiato:
“Quel guscio-d-uovo è schifosamente credente,
potrebbe passare per un ortodosso
it ghaadiano se mi permetti, io vengo a raccogliere pettegolezzi, si
sussurrano
più segreti qui che nella Serra” aveva risposto
pratico, poi aveva passato una
mano sulla blusa, “Inoltre sotto la luce del sole e vestito
la gente non mi
riconosce mai nessuno.”
“In
effetti: appari abbastanza
anonimo” aveva valutato Saiji, “Lo
prenderò per un complimento” aveva
ridacchiato Eleas, con un sorriso sardonico sul viso.
“Eccola!”
aveva esclamato Zegros
allegro, attirando l’attenzione sia di Saiji, sia di Eleas,
sia di Iren. Il
Lupo d’Armi aveva allungato anche la mano, puntando il dito
verso l’ingresso
della chiesa, anche Saiji si era voltato, con un principio di
curiosità. Sul
deambulatorio era comparso un manipolo di guardie, con la semi-armatura
indossata, sul pettorale era dipinto uno scudo squarciato. Sul primo e
terzo
quadrante c’era un albero di Liriodendro, sul secondo
quadrante il fiore di un’azalea
violacea e sul quarto quadrante una pianta di tamerici. Le guardie,
almeno sei,
erano organizzate come una corona, ma si erano aperte, permettendo di
sbocciare
dal loro interno due figure.
“Quella
è la Signora Misabea Lania,
contessa vedova di Liriodendri Antichi e futura margravia
di Rigogliose
Tamerici” aveva illustrato immediatamente Elas, con una punta
di divertimento
nella voce.
Tre cose erano
spiccate
immediatamente alla mente di Saiji riguardo la contessa vedova: era
pregna, il
suo ventre era gonfio come un otre, che si rifletteva in una camminata
goffa,
nonostante lei stessa si sforzasse di apparire imperiosa, sfoggiava un
taglio
della vedova, i capelli legno bruciato portati molto corti, arrivavano
fin
sotto le orecchie, dove si arricciavano appena, ed aveva un uomo appeso
al suo
braccio che le faceva da perno.
Cartemisio Dhoeri, barone di Aceri Ruggenti. Sbagliato, con le
lentiggini rosa
sulle guance piene, gli occhi scuri brillanti ed i capelli castani con
sfumature ramate, non abbastanza da essere rosso tulpee.
Saiji aveva fatto saettare lo sguardo nella direzione di Iren, rapido
come un
fulmine, aveva ricevuto un’occhiata altrettanto veloce, solo
che negli occhi
nerissimi di Iren vibrava il panico, se fosse stato possibile il volto
chiaro
di Iren si sarebbe fatto ancora più smorto, come ossa.
Cartemisio di
Aceri Ruggenti conosceva
Saiji, ovviamente lui si era fatto una certa fama, ma non era un
problema, lo
era molto di più il fatto che conosceva Iren, lo conoscesse
così bene da
poterlo riconoscere probabilmente con uno sguardo, un po’
più attento.
Iren si era
spostato, era più alto
di Zegros, che era un ragazzino di neanche ottanta sorelle, con un
temperamento
da lupo d’arme ma con una natura che non lo aveva favorito
affatto, ma aveva
cercato in ogni modo di sfruttarlo come una copertura, per sfuggire al
casuale
sguardo di Cartemisio. L’aspetto meticcio di Iren non era
così evidente, aveva
la pelle bianca come la neve, ma i suoi capelli erano scuri,
però era splendido
– i figli benedetti attiravano sempre lo sguardo –
e si accompagnava con un
uomo-incompleto ed un mezzo-eosiano dai capelli di sangue e la pelle
scura come
lo zucchero, particolarmente alto. Come lo aveva definito duchessa
Candeia –
moglie di Iseo Ramberra – Saiji tendeva a spiccare come una
rosa in un mazzo di
pratoline, assieme all’uomo-dal-albume doveva apparire come
un faro sul mare di
notte; decise di non nascondersi, Elas era diverse teste più
basso di lui, la
cosa non avrebbe avuto comunque senso.
Aveva saputo
di aver guadagnato lo
sguardo di Cartemisio su di sé, nel momento in cui
l’uomo, elegante e posato
come solo un manimorbide poteva essere, era sfilato nel corridoio
centrale
della navata, sul tappetto rosso, accompagnandosi alla vedova.
“Il
barone era un buon amico del defunto
conte, pare. Il nobile Dhoeris è qui per sostenere la vedova
in un momento così
delicato. Il conte è deceduto alla piana di
Malvasia” aveva cominciato a
spiegare Elas pratico, “Se vuoi la verità, il buon
barone speri di diventare un
uomo molto ricco” aveva aggiunto.
“Il Marchesato di Rigogliose Tamerici ha le terre
più fertili di tutto
l’Impero. Ed il Contado di Liriodendro, con la sua bella
città di Azalea, è uno
snodo commerciale, proprio sulla via Cartiana” aveva ripreso,
“Di rimando il
baronato di Aceri Ruggenti ha una storia che farebbe impallidire i
migliori,
tre dei Dhoeri hanno indossato l’Aspra Corona, ma le loro
terre sono secche, i
loro alberi magri e le loro casse vuote da un pezzo” aveva
detto furbo il
lupetto, “Quattro Sorelle fa, il Bimonte, il fiume che
passava per la loro
città principale, ha subito un crollo, che ne ha deviato un
pezzo. La gente
chiama la terra degli Aceri, la terra dei Ceri,
ora”.
“Tu sai tante cose, per una terrà così
a settentrione” aveva voluto Saiji, non
così impressionato, non c’erano reali
novità, che le casse e gli introiti dei
Dhoeri fossero secchi come le sterparglie nella vivace più
calda, era un fatto
noto.
Cartemisio
Dhoeri era un
manimorbide, oltre il decadente, quasi decaduto, con una
città ornata di
ricordi e gloriose memorie, con poco da parte. Ogni orpello che aveva
reso
grande Città Iris era scomparso da un pezzo. Il bronzo
rifuse, come i
candelabri d’oro, il ferro, il rame. Anche i marmi pregiati
spogliati,
sostituiti con pietre carlcaree, dipinte. La terra dei Ceri e la
città Nuda.
Però a Cartemisio Dhoeri restava il suo cognome, che era
appartenuto ad una
gente così pregiata da aver avuto risalto durante
l’epoca del Florido Impero –
nella sua discendenza sì – ed alcuni degli uomini,
di cui gli attuali Dhoeri
erano un ramo cadetto sopravvissuto – si erano chiamati
Imperatori.
A volte un
nome aveva anche più
valore dell’oro sonante.
“Sono
tutte congetture della
Signora Lues” aveva dichiarato Elas, “Lei
è una maestra nell’arte della lettura
degli uomini, o sicuro più di me” aveva detto,
“Io leggo solo se l’uomo davanti
a me vuole uccidermi e scoparmi. Troverebbe surreale, mio signore,
quanti
vogliano ambedue le cose insieme.”
Saiji aveva
aggrottato le
sopracciglia, pensando alla sua sarra eosiana, Lues, con quel suo
sorriso
affascinante e gli occhi così simili a quella della sua
Marra, l’aveva
giudicata una donna svelta e capace, ma forse, doveva rivalutare le sue
capacità.
Era un
pensiero vile, il suo,
perché Saiji sapeva di conoscere più
realtà di quanto Lues avrebbe mai potuto
raccogliere dai sussurri del suo lupanare.
“Non
credo” aveva detto Saiji alla
fine, “Che certi uomini vorrebbero scoparmi e uccidermi?
Sì, lo vogliono,
perché provano vergogna dei loro desideri, così
vorrebbero scoparmi per
sfamarsi della loro fame ed trucidarmi per la loro penitenza”
aveva risposto
quasi indignato il ragazzo.
Saiji si era
distratto,
sull’elucubrazioni sul conte Cartemisio Dhoeri da aver
perduto l’ultimo
segmento della loro conversazione, “Perdonatemi”
aveva ammesso, “Parlavo del
nobile Cartemisio” aveva aggiunto.
“Lo conosci?” aveva chiesto Elas, tutto il suo
malumore inghiottito e la brama
di informazioni infiammata sul viso, oh giovane affamato.
“Ho
avuto modo di sentire parlare
di lui, quando ero cordato” aveva mentito Saiji. Cartemisio
aveva smesso di
guardarlo, per accomodarsi accanto alla sua pregna amica vedova.
Sul nobile
uomo potevano essere
detto moltissime cose, alcune piuttosto cattive, ma su una cosa Saiji
era
certo: non era un cacciatore di ricchezze. Non ne aveva né
la stoffa
nell’indole; non mancava di intelligenza, quello no, ma non
era né furbo né
ammaliante, di rimando era testardo come un vecchio mulo. “Ha
conosciuto molte
persone interessanti” aveva detto Elas, “O servito
molte persone interessanti”
aveva risposto lui con voce calma, “Vorrei dire anche io, ma
ho servito gente
per lo più disgustosa” aveva replicato, prima di
lanciare uno sguardo verso
Zegros che di rimando sembrava ascoltare le chiacchiere di Iren, che
aveva
ripreso un colore genuinamente umano e stava spiegando probabilmente
qualcosa
in relazione all’iconografia, con il suo bagaglio culturale
da manimorbide
perfettamente istruito. Probabilmente per rifuggire all’idea
di Cartemisio
Dhoeri. “Per lo più?” aveva chiesto
retorico, un sorriso con allegrezza si era
aperto sul suo viso.
C’era stato un signore che si era voltato verso di loro,
probabilmente indispettito
dalle loro chiacchiere, ma prima che potesse parlare per rimproverarli,
con la
bocca già aperta in una maldicenza, Elas lo aveva zittito,
“Non
vuoi dirlo, Anvien” aveva
detto secco.
L’uomo
aveva spalancato le
sopracciglia scure, quasi sconvolto che quello sapesse il suo nome,
“Come?”
aveva sibilato piano, “Lavoro con Caitana” aveva
detto secco, il viso dell’uomo
era passato dal pallido esangue, fino al vibrante rosso pieno della
vergogna ed
era tornato a dar loro la schiena con gli occhi bassi, pieno di
vergogna.
“Quindi il buon Barone è un uomo come si
deve?” aveva chiesto Elas, affamato di
voci.
“Ne esistono?” aveva risposto di rimando Saiji, il
lupo aveva sorriso.
Il prete della
città aveva
cominciato il suo sermone, ma non prima che la Signora della
Città, desse il
suo benestare, con un gesto gentile. Il suo rango e la sua condizione
la
portavano a poter occupare una delle panche presenti nella chiesa e
Cartemisio
non si era seduto lontano da lei, proprio alla prima fila con gli occhi
rivolti
al catino, li dove l’edera cresceva in mattoncini da mosaico.
Non ricordava
molto del Conte di
Liodendri, “Da quanto ci sono edere al posto della Pioggia
Blu?” aveva chiesto
ad Elas, “Da quando il dolce imperatore è morto,
ovviamente” aveva risposto
Elas.
Solo un
tributo, dunque, non una
dichiarazione di intenti.
Eppure, non
riusciva a togliere
sgradevoli pensieri dalla sua memoria, da un lato pensava alla statua
in
cipollino, imperiosa dell’imperatrice con il globo del mondo
e lo scettro del
girasole che con occhi severi guardava il popolo, rivolta proprio verso
la
chiesa, dove il mosaico absidale mostrava l’edera proteggere
una santa dal suo
martirio.
Gethren Rastia era morto, ma non tutto di lui lo era, ancora le sue
idee e la
sua ribellione ribollivano sotto i pasciuti manimorbidi. Forse non era
il caso
che il defunto Conte fosse morto a Malvasia, non aveva combattuto per
il
Margravio o difficilmente non lo avrebbe saputo o la sua vedova avesse
potuto
tenere il titolo o la città, ma forse era stato aderente a
Gathren il
traditore.
Con quei
pensieri in testa aveva
perso tutto il discorso del prete, fino a che non aveva potuto sentire
un
piccolo singhiozzo al suo fianco, si era voltato ed aveva visto che
Iren scosso
da un singulto, aveva chiuso un pugno sul viso e gli occhi erano
strizzati.
Zagreo era
pallido al suo fianco
sconvolto, da quell’improvvisa emotività,
“Ma cosa …?” aveva provato Saiji.
Iren aveva aperto gli occhi verso di lui, screziati di rosso, lucidi,
sul viso
pallido come un cero, per un secondo era stato convinto fosse sul punto
di
ricadere nella Sdregolatezza. Ma poi aveva visto anche le lacrime
scorrere giù
dagli occhi sulle guance magre; Zegros si era sporto per poter
sussurrare
qualcosa all’orecchio di Iren, forse per consolarlo, ma non
aveva ottenuto
nulla. Saiji era rimasto impotente, nervoso, un pensiero stupido ed
infantile
aveva animato la sua mente: Adda! Adda avrebbe
capito!
Aveva
allungato una mano timorosa e
con movimenti indolenti e rigidi aveva accarezzato la nuca di Iren,
come fosse
stato un cane.
“…
Mai più di ora, il Principio è
stato così vicino da lambirci, ma è nostro dovere
rimanere uniti, rimanere
fedeli, contro tutta questa così dilagante sedizione che ci
attanaglia …” aveva
ascoltato frammentariamente
Saiji, il
discorso del prete.
“Bergen
è un uomo molto sensibile”
aveva considerato Elas, “Quel vecchio porco – e non
lo dico a cuor leggero – di
Artion, fa questa predica ogni seconda messa del quinlune,
ma non avevo
mai visto nessuno piangerci sopra.”
Aveva pensato alle notti nella brughiera e i suoi discorsi, forse non
era
ancora pronto a lasciare alle spalle certe parte di sé,
“Certi uomini non hanno
che la loro devozione” aveva commentato Saiji e non era una
menzogna. Forse non
era una male, aveva pensato, doveva essere bello credere in qualcosa di
diverso
dalla lama della propria spada.
Quando si era accorto del suo sguardo e quello di Elas, oltre che la
preoccupazione
sdolcinata di Zegros, Iren aveva smesso di singhiozzare, ma aveva
ancora il
viso bello nascosto dalle mani bianche e piccoli singulti che facevano
tremare
le sue spalle. Saiji riusciva ad immaginare che in quella situazione,
forse
Adda lo avrebbe abbracciato, forse, così aveva allungato una
mano per carezzare
i capelli tagliati di fresco, con un movimento tutt’altro che
delicato – non
era pratico.
Il resto del
sermone era scivolato
via dalle sue orecchie senza piantarsi, come semplice rumore di fondo.
Iren si
era voltato verso di lui, togliendo le mani dal viso cinereo, si era
forzato di
sorridere, con gli occhi umidi di lgrime, Saiji lo aveva guardato con
serietà,
con un sorriso stanco, prima di tornare a guardare nelle prime file
dove la
vedova di Azalea e Cartemisio sedevano l’uno al fianco
dell’altro.
Saiji era
dannatamente certo che
Cartemisio lo avesse riconosciuto, quando i loro occhi si erano
incrociati. Non
erano stati di certo amici, probabilmente non erano neanche stati
conoscenti,
avevano occupato gli stesi ambienti, Saiji lo aveva battuto in una
mischia una
volta da adulti e lo aveva fatto cadere da cavallo durante il torneo
degli
scudieri quando erano ragazzini – Cartemisio non era mai
stato uomo con
attitudini a quel genere di attività, ma il suo vecchio lo
aveva sempre
obbligato.
Saiji aveva
imparato sulla propria
carne che bisognava far attenzione ai manimorbide a cui si faceva
inghiottire
la terra spazzata dalle zampe di una cavalcatura, perché
erano più potenti e
pericolosi di quanto avrebbe potuto essere lui, anche senza lancia e
spada e
non tutti somigliavano ad Enneo dei Carti, che
rideva divertito delle
sue cadute, senza preoccupazione alcuna.
Cartemisio non
aveva riso della sua
sconfitta, ma aveva avuto il viso dipinto del rosso polposo
dell’imbarazzo, ma
non per essere stato sconfitto da una melanzana cagliata come lui,
‘Oh, che
disgraziato che sono’ si era lamentato melodrammatico, sotto
lo sguardo offeso
dell’allora Barone. Cartemisio non sembrava poi troppo
turbato della sua
incapacità in duello, ‘comprendimi amico,
dopo, dovrò strapazzarti per bene
… Sono un Manimorbide, ho una reputazione da difendere’
gli aveva detto
poi, ‘Ma senza rancore’.
Saiji immaginava che anche Cartemisio avesse dovuto prendere parte alla
battaglia alla piana di Malvasia, ma non riusciva a vederlo scendere
dal suo
cavallo di stirpe errante, che guardava la battaglia senza colpo
ferire, in
compagnia degli altri manimorbide, con l’eccezione di Moira,
ovviamente, e di
Gathren.
Il vecchio
prete aveva augurato
loro un felice Incedere nel Sentiero Giusto, dopo una lunga litania che
aveva
sciolto Saiji fino alle sue ginocchia. Non aveva ascoltato nulla della
nenia
dell’uomo di culto, ma sentiva comunque la testa pesante da
tutto quel
chiacchiericcio. Un ronzio fastidioso rimasto attaccato alle sue
orecchie, come
una zanzara nel cuore della notte.
Saiji si era
lasciato guidare dalla
folla, come una mandria di pecore, per l’uscita. Iren ancora
toccato dalle
parole del sermone era taciturno con gli occhi lucidi, accerchiato da
Zegros
che lo seguiva calamitato dalla sua presenza. Elas invece si era
separato, era
sgusciato veloce via, tra la folla, forse ben interessato a nutrirsi
del
chiacchiericcio della folla. Durante la funzione solo qualche mormorio
si era
alzato durante il sermone, ma in quel momento le parole della folla
riempivano
con voce alta tutto l’ambiente della cattedrale.
Perfino Iren poteva sentire in quelle chiacchiere qualche affare
vagamente
interessante, immaginava che per Elas quelle confidenze dovessero
essere
piuttosto succose, da far guadagnare qualche moneta in meno sul suo
contratto
con Lues.
“Seeer
Saaaijiii! Seeerr” si era
sentito chiamare a pieni polmoni, da una voce acuta che aveva superato
la
folla, Saiji si era voltato osservando l’ornatrice sgomitare
tra la folla per
raggiungerlo, con la gonna sollevata, lasciando scoperte le caviglie,
mentre
scendeva a grandi falcate le scalinate di marmo della cattedrale. Non
aveva
caviglie nude, ma dentro le pianelle, alte con il tacco a zeppa di
sughero,
sfavillava una calza bianco perla con decorazioni floreali in blu.
“Oh Ser
Saiji!” aveva ghignato allegra quando l’aveva
riconosciuto.
“Mia signora” aveva detto lui, osservandola.
L’Ornatrice, rispetto il taglio dei
capelli, era vestita con abiti più pregiati, un vestito
pervinca con clavi blu,
il busto stretto alla vita e la gonna leggermente gonfia sui fianchi.
Le spalle
erano semi scoperte, nascosto dal fazzolo semi-opalescente ocra. I
capelli
scuri erano decisamente più ricci, ma portati sciolti, per
segnalare la sua
disponibilità, con piccoli boccioli azzurri tra i capelli.
Saiji aveva chinato il capo, piuttosto incerto su come doveva
rivolgersi a lei,
l’Ornatrice era una donna libera, non era soggetta a
servitù-debitoria,
probabilmente era di nascita pura, per quanto non fosse fioriana per
intero era
ancora molto più fioriana di lui, normalmente Saiji sarebbe
stato considerato
più in basso di lei, ma lui era un cavaliere, nominato da
uno dei duchi
maggiori del pregiatissimo impero dei fiori, aveva fatto da
palafreniere allo
Scintillante Generale, aveva baciato la donna più desiderata
del mondo,
ed era stato lo scudo giurato del Dolce Imperatore, una volta. Sebbene
quel
Saiji lì, era rimasto sepolto, con la Corda, con la Spiga e
con i sogni di
gloria, ma pur sempre un cavaliere e la ragazza non era una signora, ma
Moira
si era impegnato perché Saiji fosse almeno un po’
istruito nelle maniere
cortesi, lo aveva anche costretto a partecipare alle parole cortesi.
Ricordava ancora i sorrisi della Nobile Nervia pieni di imbarazzo
quando lui
recitava i suoi miseri versi alla sua bellezza e la sua dolcezza
– ricordava
quanto si era sentito sciocco nel pronunciare quelle parole.
L’Ornatrice con un sorriso pieno e le labbra dipinte di rosa
aveva attirato
nuovamente la sua attenzione: “Mi chiedevo se lei, ser, ed il
suo buon amico,
voleste dividere dei pandolci con me e mio cugino” aveva
chiesto con un tono
dolce, inclinando appena il capo, per osservare Iren.
Il ragazzo era
in disparte che gli
osservava attenti, con ancora gli occhi lucidi, in compagnia di Zegros.
“Come?”
aveva chiesto incerto
Saiji.
Avrebbe dovuto
rifiutare senza
ombra di dubbio, ma era decisamente sconvolto che una fanciulletta
libera fosse
così sfacciata.
L’Ornatrice
aveva sollevato lo
sguardo verso di lui, aveva occhi scintillanti di un colore ambra
lucido, con
punte quasi d’arancio, che tradivano le gocce di sangue
colomynato. “Non credo
che la tua famiglia approverebbe un vagabondare con un mezzo eosiano di
padre
ignoto” aveva buttato fuori. L’Ornatrice aveva
battuto le ciglia scure, colta
di sorpresa da quella risposta, aveva schiuso le labbra poi, sottili
come fili
di cotone, “Mio cugino non vede in questo nulla di
sconveniente” aveva
spiegato, ammiccando poi ad un giovane che stava scendendo lento
giù delle
scale.
Differentemente
dal viso lungo
cyrasti di lei, il cugino era tutto istiano, con il viso tondo ed un
naso da
topo, aveva ricci nerissimi, stretti e lunghi che arrivavano alle
spalle. Aveva
occhi a palla, marcati da nere occhiaie, con l’espressione
fiacca sul volto. E
lattiginoso.
Saiji avrebbe
riconosciuto gli
effetti del Latte d’Uccello su chiunque dopo i lunghi cicli
con Iren. Il cugino
de L’Ornatrice riverberava in quello stato leggermente
oscurato dalla
leggerezza del Latte, che permetteva ai pensieri di sfuggire alla
mente,
rendeva il corpo molle e una contentezza irrequieta nelle labbra
tremolanti.
“Domani” si era intromesso Iren, allacciando un
braccio intorno al suo collo
con un gesto fraterno, “Se non ricordo male domani
è la seconda silune del
primo ciclo[1]
della Pallida. La festa di Santa Suranna delle margherite
pallide” aveva
aggiunto.
Saiji aveva
aggrottato le
sopracciglia, aveva ricevuto anche lui una certa educazione religiosa
ma non
era sicura di ricordarsi tutti i santi comandati. Inoltre, da che
ricordava
Saiji c’erano pochi festeggiamenti nella Sorella Pallida,
rispetto alla Sorella
Fredda, dove più che festeggiamenti c’erano
ricorrenze e promesse di tempi
migliori. Durante la Fredda le piante erano spoglie, venti algidi e
nevi
pesanti coprivano gran parte dell’impero, la terra umida era
morta e tutta la
vita soffocata. Perciò Saiji era abituato a vedere candele,
ceri e preghiere,
in feste che nulla avevano di festoso, ma che chiedevano piccole gioie.
L’Ornatrice
aveva sorriso e poi
aveva cinguettato: “Sì”, dopo una pausa
aveva ripreso: “Inoltre, al palazzo la
Baronessa apre il giardino della Casa Padronale, al popolo. In
verità, è per
ascoltare le lamentele dei cittadini, ma è possibile
passeggiare” aveva
considerato con voce quasi divertita. “Possiamo mangiare
delle castagne tostate
con vino fermentato o alcuni datteri, tardivi, ricoperti di
miele” aveva
sospirato l’Ornatrice. Saiji aveva forzato un sorriso freddo,
che era decisamente
meno scintillante di quello, “Sarebbe fantastico”
aveva dichiarato alla fine.
L’Ornatrice
era sembrata
soddisfatta della risposta: “Meraviglioso, ser. Alla decima
ora, dunque, sul
lato est di Ponte di Giada, è il più grande della
città, collega la via
Pennatosetta verde, quella che parte della porta occidentale, con la
via
Sinuata viola, che conduce all’ingresso della dimora
baronale” aveva spiegato
pratica.
Il cugino, sebbene ancora cotto dagli effetti del Latte
d’Uccello, si era
avvicinato, forse risvegliato leggermente dal suo torpore, aveva
permesso alla
sua razionalità di riaffiorare, così aveva
realizzato che sua cugina si fosse
dilettata in lunghe chiacchiere con due sconosciuti
dall’aspetto poco
raccomandabile. “Come sei diligente” aveva
considerato Iren, con un tono privo
di tutto il suo fascino.
Il cugino
l’aveva richiamata, con
labbra e voce piene di pastosità. L’Ornatrice era
arrossita piena di imbarazzo,
“Obbligata” aveva detto a loro con gentilezza,
dilettandosi in un inchino
appena accennato, prima di allontanarsi.
“Ti
avevo detto che si fosse
infatuata di te” aveva risposto Iren, con un divertimento
quasi meschino, che
mal si associava a lui. “Sono sconvolto anche io di
questo” aveva valutato
Saiji, con onestà. “Di solito sono tutte infatuate
di te” aveva considerato
Saiji.
Iren aveva
ridacchiato con un certo
divertimento, “Forse ha il gusto per la Bizzarria”
aveva proposto. “Da
fanciullo, ogni volta che guardavo troppo a lungo una ragazza, questa
scappava
terrorizzata che potessi rubargli l’anima” aveva
raccontato Saiji.
Questo era
stato dopo essere stato
accolto dai Ramberra; ogni ragazzina del palazzo era stata terrorizzata
da lui,
un eosiano, bastardo, senza fiore. Bia – l’altra
bastarda – la coppiera era stata
la prima a non scappare. “Non ci credo che Adda sia fuggita
da te” aveva
considerato Iren vago.
Dipende da quale volta. Aveva pensato Saiji, “Lo ha fatto
anche lei. Almeno una
volta” aveva ammesso. Questo aveva confuso per un secondo il
suo amico, sul viso
bello era balenato un’espressione piena di confusione.
“Scusa ma giusto sta
mani rivangavamo di quando hai ricevuto un bacio
dall’imperatrice” aveva
ricordato Iren.
“Avevo
vinto il torneo” gli aveva
ricordato.
“Tu …
tu vuoi andare?” aveva indagato, poi,
Iren, con un viso di bronzo, rimanendo appiccicato a lui. Saiji si era
sottratto da quella presa fraterna, cominciando a trovarla invadente.
Provava
fiducia in Iren, quando non era annebbiato dal Latte, abbastanza
perché potesse
dormire con il suo respiro contro la nuca, nelle notti buie, da non
temere la
sua vita.
Si era chiesto
se avesse dovuto o
meno andare, non aveva mai pensato di maritarsi. Ricordava che una
volta Moria
gli aveva proposto di sposare Adda, quando le era stato concesso il
ruolo di Dama
della Camera. ‘Penso che ora sia alla tua altezza’
aveva considerato.
Che immagine
bislacca, aveva
pensato e non aveva risposto chiaramente, dicendo che avrebbe dovuto
pensarci.
Aveva studiacchiato Adda chiedendosi se avessero potuto funzionare, la
sua amica
sarebbe stata così buona e gentile, da farlo sentire quasi
in colpa. Quella
stessa notte la Nobile Nervia lo aveva baciato con audacia che mal si
sposava
ad una signora del suo rango, ‘Non hai recitato che le mie
labbra dovevano
essere morbide come la crema?’ lo aveva stuzzicato lei.
Il giorno dopo
aveva comunicato a
Moria che non aveva l’intenzione di maritarsi per quel tempo,
che aveva un
mestiere più importante. Non aveva parlato né di
Adda, né di Nervia – non che
mai avesse potuto sposarla.
“No” aveva confermato Saiji. Non erano per lui pan
dolci, datteri tostati e
passeggiate nei giardini.
‘Sono lieto di sentirlo, ho in mente una sposa
più adatta per te.”
Zegros si era
affacciato di nuovo,
aveva recuperato Eleas, “Noi pensavamo di andare a cercare
qualcosa da
mangiare” aveva dichiarato il lupo d’arme.
“Qui vicino, conosco un posto dove
fanno una purea di ceci che sembra cibo vero che viene solo qualche
margherita”
aveva dichiarato l’altro lupo. “Se fanno anche
della carne, sono venduto” aveva
dichiarato Saij. “Mica sono così ricco da potermi
permettere la carne” aveva
detto Zegros, con un sorriso tranquillo, come se la cosa non lo
turbasse
davvero. “Una fortuna che noi abbiamo invece qualche
damigella di cui servirci”
aveva replicato Iren, aveva ancora gli occhi lagrimosi, ma la sua
espressione
aveva recuperato una parvenza di leggerezza; Saij lo aveva rimproverato
con lo
sguardo. “Allora lascia che ti porti alla Serra,
lì non mancheranno dame per le
tue damigelle” aveva ribeccato Eleas.
Ma il loro
allegro chiacchiericcio
era stato interrotto dall’arrivo di due soldati ben piazzati,
che sulla blusa
portavano cucito uno scudo squartato. Sul primo e sul terzo quadrante
c’era la
Foglia a quattro punte, d’oro, del Liodeandro, alternata
– nel secondo e nel quarto
– con la Violetta-del-pensiero. La guardia cittadina di
Città Viola.
Saiji non
aveva vissuto con
l’illusione di essersi salvato allo sguardo del buon
Cartemisio.
“Problemi?” aveva sussurrato Zegros, osservando i
due uomini.
Saiji aveva
sentito la mano di
Iren, stringersi sulla stoffa che copriva la sua schiena pieno di
nervosismo.
“Sir
Saiji Alderichi, la Signora
desidera vedervi” aveva stabilito l’uomo.
Aveva la netta
impressione che a
volerlo incontrare non fosse la Vedova della città, ma il
suo appassionato
spasimante
[1]
Ogni
Sorella ha tre cicli, ogni ciclo ha tre decimane. Il secondo silune del
primo
ciclo, corrisponderebbe al Silune della seconda decimana della Sorella.
Help.
Il silune è il Sesto Giorno.