Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: RLandH    22/06/2023    0 recensioni
Quando il Dio-Di-Ogni-Cosa-Buona creò gli uomini non li fece tutti uguali, al contrario: si impegnò perché fossero più diversi, variopinti e colorati possibili, come fiori.
Si adoperò perché i suoi uomini fossero come i fiori del suo giardino, virtuosi, bellissimi, colorati ma differenti.
Unici.
Eccezionali.
Ogni fiore era unico, non solo da una specie all’altra ma da un individuo all’altro.
Così, erano e dovevano essere gli uomini.
Bellissimi.
Furono gli uomini, in maniera del tutto arbitraria, a decidere che quella diversità andasse classificata, andasse ordinata, secondo il loro iniquo giudizio.
Che il dono di Dio dovesse essere – non un regalo ma – un assetto.
E, che gli uomini professino quel che vogliono, tale iattanza fu Il Principio.

C'è un cavaliere, senza ne arte ne parte, che cerca uno scopo ed un mondo che non ha riguardi verso di lui o altre anime sfortunate. Circa.
Cosa può, d'altronde, un uomo contro Re, Signori e Principesse? Cosa può un uomo contro il Destino stesso?
Genere: Angst, Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Benvenuti al capitolo che ho scritto fin’ora. Da questo momento gli aggiornamenti si faranno più sporadici (di quelli che già sono) per ragioni personali.
Un bacio

RLandH

Ps – Tecnicamente avevo fatto un disegno per questo capitolo, ma … ci ho avvertitamente lanciato dentro uno spoiler ahaha
PS 2 - Uhm, credeteci ho meso ma siamo in dirittura di arrivo per il TITOLO I.

 

 

P A R T E   P R I M A

 

L ‘ I N V I O L A B I L E

 

T I T O L O   I

 

I  G I O C A T O R I

 

C A P I T O L O    I X

 

I O   S P E R O   C H E  S I A    T V  V N   G I O R N O


A   S V E G L I A R T I     E     N O N   S E N T I R L A    P I V’

 

 

L’Ornatrice era carina, lontana dalla perfezione, sbagliata ovviamente, ma carina. Era giovane, e questo le dava la bellezza della freschezza, poteva avere ottanta sorelle o anche meno. La pelle era dello stesso colore di una mandorla, gli occhi erano un castano dolce ed i capelli erano lisci e scuri come il legno d’ebano umido. Aveva il viso lungo cyristi, ma un piccolo naso a bottone.

“Ti piacciono così?” aveva domandato lei, con un tono pieno di curiosità, sfiorando con i polpastrelli le punte ritte dei capelli di Iren.

Il suo amico si era guardato i capelli in uno specchio di bronzo lucido e levigatissimo. Lei aveva fatto un buon lavoro con i capelli di Iren, aveva raccolto una matassa piena di intrecci, lunga e ricca di incuria in qualcosa che somigliava all’umano. Il nero era tornato lucido come una pietra pomice ed avevano riacquisito stranezza, ma anche una nuova forma. La ragazza aveva accorciato le punte di molto, la matassa non toccava più le scapole, ed era andata ben oltre le-orecchie-o-le-spalle come la moda imperiale voleva. I capelli di Iren erano un solo dito di stanza dalla sua pelle, corti come quelli di un ragazzetto pronti per l’hakademya, tranne che sulla fronte, dove leggermente più lunghi cadevano per coprire gli occhi grigio-nero.

“Sì”, aveva risposto laconico Iren; il suo viso era ancora bianco come quello di uno spettro, le occhiaie viola come unico colore sul volto emaciato. “Grazie” aveva aggiunto Iren, forzando un sorriso, facendo illuminare il suo viso perfetto. La ragazzetta era avvampata sulle guance, che erano divenute rosse, come se il suo amico invece di un ringraziamento le avesse chiesto la mano in matrimonio; la ragazza aveva farfugliato qualcosa, probabilmente più appropriato dire che avesse squittito – come un topolino.

La ragazza era una domestica, non di palazzo, ma di una famiglia nobile – che tagliava i capelli per arrotondare le entrate – si poteva vedere dall’abito che sfoggiava, era semplice, ma il materiale era ottimo e resistente, ciniglia arancione, l’orlo delle maniche, del colletto e della gonna avevano una decorazione semplice in filo zenzero con delle spighe. Aveva ricordato a Saiji Adda quando svolgeva un lavoro simile. Certo, la lunga lista di abiti che Adda aveva indossato era andata dal cotone duro alle stoffe più morbide, da quando appena bambina portava il vassoio per aiutare sua sorella, fino a che era stata la guardarobiera di Canadea, al posto di qualche nobile dama.

La donna indossava una cintura che le fermava la stoffa alla vita, evidenziato il ventre piatto e i fianchi tondi, in quello non somigliava ad Adda.

 

Saiji provava un senso orribile di estraniazione a quei pensieri. Da un lato, pensando a quelle sorelle, Saiji ricordava quelle lune come rinchiuso in una prigione, con un’angoscia, rabbia e dolore che inzuppavano ogni fibra di lui stesso, guidato dal solo desiderio di voler urlare come una bestia; e dall’altro, dopo tutta l’acqua che era piovuta, quello tempo sembrava un sogno, qualcosa che era esistito sì, ma che era passato, splendido anche e che come tutte le cose che erano avvenute e che mai più potevano essere raggiunte: era meraviglioso.
“Sir, tocca a lei” aveva aggiunto la ragazza, indicandolo con il pettine d’osso.

Saiji aveva annuito, sollevandosi dallo sgabello dove era acciambellato, per occupare la sedia che Iren aveva appena liberato, mentre con un certo manierismo continuava a far passare le dita pallide sui capelli nerissimi.
Lui aveva guardato la ragazza, “Sistema solo la lunghezza. Ho adottato la maniera ghaadiana aveva dichiarato subito; la corolla superiore lunga, fino all’attaccatura delle orecchie e poi fino alla nuca, corti quasi da essere rasati.
“Vuole che lavori anche sulla barba?” aveva chiesto la ragazza. Saiji sapeva che erano passate più lune di quanto fosse necessario perché sulle sue guance l’ombra non sembrasse più l’ombra delicata che prevedeva l’etichetta fioriana. Iren era decisamente più bravo da quel punto di vista, il suo viso era rimasto imberbe. Saiji l’aveva guardata, “Certo, sì, sbarbami come un poppante” le aveva dato il permesso.

La ragazza aveva inumidito i suoi capelli con un panno bagnato, per cercare di sciogliere il ricciolo dei suoi capelli, teneta tra i denti le forbici, mentre con una mano aveva il pettine per distendere i nodi, ma Saiji aveva potuto sentire le dita nude della ragazza, passare più e più volte tra i suoi capelli ammirata.
“Che stai facendo?” aveva chiesto curioso e confuso.

“Perdoni questa impudente, Sir, ho perso il controllo di me stessa. Sono capelli morbidi, i più morbidi che abbia mai sentito ed il colore: sembra sangue!” aveva ammesso.

Saiji era rimasto colpito, sapeva che i suoi capelli potevano guidare stranezze, “Di eosiani ne ho visti, ma mai con capelli così. Morbidi sì, ma i ricci sono sempre stretti e mai di un colore del genere” aveva spiegato. Saiji aveva annuito, “Perché sono eosiano solo per metà. Mio padre era ghaadiano, con sangue tulpee” aveva raccontato senza vergogna.

I capelli rossi erano un’eredità del suo vecchio, ma lui aveva avuto capelli rossi come fuoco crepitante, quella tonalità così scura e sorprendente, era venuta assieme a sua madre. La sua marra aveva i capelli scuri come legno bruciato e per qualche scherzo del destino, i capelli di Saiji erano usciti così. Non castagni, mogano, castano-ramato, ma sanguinello.

Però gli piaceva pensare che quel colore di capelli fosse un dono di suo padre, Saiji aveva ereditato tanto dalla sua marra, l’incarnato – di cui lui aveva una tonalità solo leggermente più chiara – le labbra piene, il naso dritto come una freccia, gli occhi dalla forma allungata, la forma del viso, la massa dei capelli, le labbra ed ogni cosa. Da suo padre aveva preso il rosso, l’altezza – anche se il suo genitore era stato filiforme come un chiodo – ed il colore scuro degli occhi, tutte cose evidentissime, ma che sembrano sparire rispetto a ciò che aveva avuto da sua madre.

“Prima di sapere il suo nome mi riferivo a lui come … il rosso” aveva mentito Iren, era stato la melanzana rossa, la bestia rossa ed altri epiteti raziali anche meno gentili. “Anche io, sapete?” aveva dichiarato audace la ragazza, “Mia madre è fioriana fatta e finita, ma mio padre è un ferriano, mezzo eriaco e mezzo  colomynato!” aveva detto piena di allegrezza e vivacità sulla voce, facendo inclinare ancora il capo di Saiji, per indugiare con il pettine d’osso e le forbicine sui capelli.

“Anche lei immagino” aveva aggiunto la ragazza guardando Iren di sottecchi, “Al nord esistono un sacco di fioriani bianchi” aveva replicato lui, gonfiando le guance.

Meglio così, aveva pensato Saiji, meglio che mentisse.

Dopo aver tagliato il crine, la ragazza aveva oliato le guance ed il collo di Saiji, ma quando si era allontanata per raccogliere la lama piatta per raderlo, Iren, con uno scatto fulmineo, e troppo irruento, le aveva preso un polso. Lei era sussultata e non aveva potuto trattenere un urlo. “Ci penso io, scusa. Ha un mento appuntito e la gente si taglia sempre” si era giustificato vergognoso, lasciando la presa dal polso della ragazza.
“Certo” aveva detto la ragazza, leggermente turbata, “Il prezzò varrà … niente! Niente” aveva detto, la sua espressione si era addolcita come miele, quando Iren le aveva sorriso.

Lei aveva allungato la lama, dal lato dell’elsa al suo amico, “Viviamo in un mondo assai poco gentile. Anche il Vecchio Imperatore, che il suo fiore cresca forte nel Bel Giardino, si faceva radere la barba solo con cocci rotti e dalle fidate mani delle sue figlie” aveva raccontato.

Dicerie da toletta!  Saiji lo sapeva per esperienza personale, lo aveva anche visto, l’imperatore si faceva radere con il filo, alla maniera eosiana, e da una sola delle sue figlie – la minore.

Il Vecchio Vivirian II poteva anche amare il suo successore, ma riconosceva un pericolo, non avrebbe mai offerto la carne tenera all’Imperatrice. “Si può essere la rappresentazione di Dio-in-terra ma essere comunque carne alla mercè degli uomini” aveva sussurrato Iren con cupezza neanche celata, gli occhi scuri rivolti distanti a pensieri che avrebbe dovuto soffocare. “Che il suo fiore cresca alto e rigoglioso” aveva detto invece Saiji. “Che il suo fiore cresca alto e rigoglioso” aveva cinguettato la ragazza, anche se il suo tono era parso molto meno partecipe. “Comunque, per tranquillizzarti, nessuna mania. Il mio amico ha ragione: ho un mento complicato” aveva ammesso con una punta di divertimento.

La ragazza aveva scosso il capo, facendo oscillare i lisci capelli, “In tale caso, lasciò voi signori soli. Vi aspetterò per il pagamento al pian terreno. Mio padre ha inchiodato la finestra, perciò non ci sono altre uscite” aveva detto, muovendo la mano in un segno di saluto.

“Mai ci permetteremo, mia signora” aveva detto calma Iren, “Obbligata” aveva detto lei, “Obbligato” aveva risposto il suo amico, chinando anche il capo, lei era sparita poi dietro una porta.

“Pensavi mi avrebbe tagliato la gola? Con te qui, presente?” aveva chiesto Saiji, nel momento in cui avevano sentito il rumore della porta sbattere, sapeva che la sua voce e la sua allegrezza si era esaurita subito. Iren lo aveva guardato: “Una volta pensavo che l’Anima Condivisa fosse la massima aspirazione che ogni uomo potesse aspirare. Quel piccolo pezzo destinato a riunire uno spirito rimasto tragicamente spezzato in due corpi” aveva esclamato drammatico. Saiji aveva sollevato un sopracciglio rosso, “Ho imparato, da te, a pensare sempre il peggio; se lei avesse voluto aprire un sorriso sulle tua gola, da un orecchio all’altro, lo avrebbe fatto con me presente o meno” aveva stabilito Iren, serio mortalmente.

Saiji era cresciuto imparando diffidando di tutto il mondo, dopo aver perso i suoi genitori – eppure, ogni tanto, doveva riconoscere una certa innocenza in se stesso e si dispiaceva, non poco, che fosse stato costretto ad soffocare come un’erbaccia, quell’innocenza.

“Però non sarebbe successo e lo sai anche tu” aveva commentato Saiji, le probabilità che l’ornatrice fosse una pazza con la passione del sangue erano comunque basse.

Iren gli aveva tirato i capelli e portato la lama alla gola, “Sicuro di avere le mani ferme?” aveva chiesto Saiji. “Il mio corpo sta bene, ora” aveva dichiarato.

Lo spirito meno, aveva dovuto prendere altro Latte d’Uccello, Zegros era riuscito a procurarne un po’ a Saiji, questo aveva tirato su Iren, abbastanza da non farlo apparire un morto, ma un’imitazione di essere umano. Quando era tornato dal suo amico, dopo la notte alla Serra, Iren era riuscito a liberarsi i piedi, ma non il bavaglio dalla bocca e le mani, ci aveva provato, i polsi erano frastornati, feriti, sanguinanti. Il suo corpo si era riempito di lividi a causa degli urti guidati dalla rabbia convulsa.

Saiji aveva sentito la lama gelida scorrere lungo la pelle imbevuta. “Una volta la mia sposa mi ha fatto la barba, te lo ho mai raccontato? Mi è venuto in mente sentendo prima l’ornatrice” aveva detto disinvolto Iren.
“Tu non hai barba” era stata la risposta di Saiji, occhieggiandolo, lo vedeva alla rovescia quasi.
“Lo so, vorrei dirti che penso volesse avere semplicemente un momento di puro potere, lì con un coltello alla gola con il rischio di uccidermi ma non è un pensiero” aveva ammesso.

“Diciamo che l’aver tentato di ucciderti potrebbe effettivamente portare credito a questa ipotesi” aveva valutato Saiji.
Iren aveva riso spontaneamente, “Può darsi. Ma in quel momento è stato così diverso perché io lo ho sentito davvero, che lo voleva, così come ho sentito che non poteva. Dal tagliarmi la gola è passata ad inghiottirmi intero” aveva ammesso, “Ed io ho sentito tutto e lei sentiva tutto di me” aveva considerato.
“Iren, davvero, non voglio sapere queste cose” aveva detto evasivo Saiji.

Non sapeva neanche lui se stesse parlando del sesso e del legame di due anime condivise. Non gli piaceva pensare a quell’argomento, sentiva le vecchie cicatrici sul suo petto bruciare, come se la lama bollente fosse sulla sua pelle.

“Mi chiedo se ogni giorno si svegli aspettando speranzosa di non sentirmi più” aveva commentato acre Iren.

La lama era scesa di nuovo, prima di risalire raso sulla sua guancia.

Moria diceva che un uomo poteva vivere tutta la sua vita senza mai incontrare la sua anima condivisa e vivere ugualmente bene – una vita che non sarebbe mai stata del tutto completa, ma che poteva essere soddisfacente – ma era impossibile sopportare la rottura di un legame.

Lui diceva che il mondo diventava più freddo: nessun fuoco poteva riscaldare il corpo, nessun raggio del sole poteva allietare lo spirito e nessun abbraccio poteva rasserenare il fuoco. Freddo e solo freddo.
Io spero che sia tu un giorno a svegliarti e non sentirla più” aveva commentato Saiji alla fine, nervoso.
“Il Latte d’Uccello aiuta anche in questo” aveva ammesso Iren, poi aveva sospirato, “Vorrei ucciderla. Lo vorrei proprio” aveva ammesso.

“Mi spaventi quando fai questi discorsi con una lama alla mia di gola. Non vorrei ti facessi trasportare troppo dalle tue emozioni” lo aveva rimproverato Saji. “Se ti tagliassi la gola, amico mio, poi dovrei tagliare anche la mia e far risparmiare a tutti il tempo che ci impiegherebbero ad uccidermi” aveva canticchiato Iren.
“Tagliami questa barba e smettila di fare il cazzone” aveva replicato lui, alzando una mano come a scacciare una mosca.

“Poi ti va di accompagnarmi alla funzione?” aveva chiesto, mentre recuperava dell’olio da barba da mettere sulla sua pelle, era così lento in quell’operazione che su una guancia si era seccato.
“Dopo aver piantato la Spiga speravo vivamente di non dover più partecipare a queste stronzate” aveva dichiarato Saiji senza vergogna, ricordando le lunghe messe a cui era stato costretto a partecipare quando era al castello dei Ramberra, a quelle quando era nella Corda e nella spiga. A quante volte era dovuto stare ad ascoltare le lamentazioni di Iren stesso.

Il suo amico aveva emesso uno sbuffo e le sue labbra si erano arricciate in una smorfia. Saiji sapeva che la fede per Iren era una delle poche colonne della sua vita, delle sue sicurezze, come ogni bravo Marnimorbide fedele all’Impero. O anche di più, non era solo la sua natalità nobile, ma anche il suo sangue, era benedetto. Iren era stato educato per tutte le sorelle della sua vita ad essere – e considerare sé stesso – un’emanazione divina, aveva anche incontrato la sua anima condivisa. Qualcosa che certi uomini cercavano per tutta la vita, senza mai trovarla.

Iren era benedetto, manimorbide e fortunato, ma Saiji sapeva che nonostante questo sorriso del Buon-Dio a modo suo Iren era stato tacciato dalla Bizzaria – una che ad occhio non poteva essere vista – ma che lo aveva sempre spinto ad aggrapparsi tanto nel credo per sopperire l’urgenza che più lo animava. Una lotta eterna che non avrebbe mai potuto vincere.

Il suo amico aveva fatto scivolare la lama, lungo la carne impomatata e poi aveva sbagliato una pezza in una ciotola d’acqua fredda. “Ora sembri esserti succhiato un paio di sorelle” aveva considerato il suo amico, passando la stoffa sul collo per pulirla dall’olio. Saiji aveva ridacchiato divertito: “Come quando ci siamo conosciuti?” lo aveva preso in giro e non sapeva neanche perché. Aveva ricordato, per un momento, quella vita distante quando si erano conosciuti, per davvero – Saiji aveva saputo dell’esistenza di Iren ben prima del suo amico ed anche quando lo aveva visto per la primissima volta, dubitava che il giovane manimorbide si fosse accorto di lui. Ricordava in maniera quasi fumosa e distante, la prima volta che Saiji lo aveva visto, passare su uno cavallo dal manto sabbia, kaartiano, con l’espressione altezzosa, mentre varcava la porta grande. Eccolo! Eccolo! Gridavano.

Eccolo, aveva pensato Saiji senza gioia.

Iren grandioso esattamente come il più perfetto degli uomini doveva essere, come il dettame preciso del Giusto Sentiero aveva prescritto che esistesse. Saiji aveva provato molte e differenti emozioni per i figli del destino, per i manimorbide, per chi era uno, l’altro o ambedue, su tutte l’invidia era stata la più dominante, per la mutilazione che aveva subito, per la mancanza, che anche volendo, anche quando fingeva che non fosse di sua importanza, non avrebbe mai potuto riottenere. Era libero, così aveva detto una volta la sua marra. Potrai seguire il sentiero ignoto, il sentiero che tu vorrai per te stesso, nessuno deciderà per te, neanche Dio. Aveva detto piena di innocenza e buona speranza, la sua marra.

Non era vero, c’erano state altre infinitesimali varianti da considerare oltre i fiori che sbocciavano sui petti. Il colore della pelle, il rango, il cibo, l’educazione.

Avevano preso Saiji che non aveva ancora attraversato la sua trentesima sorella e gli avevano dato un’arma; da quel momento tutta la sua vita era stata scelta. Nessuna libertà, neanche per un uomo mutilato.
Per Iren, invece, non aveva provato semplicemente invidia, la prima volta che lo aveva visto, entrare nella città, acclamato come un dio, per null’altro merito che ciò con cui era nato, ma annichilimento.
Saiji aveva sentito tutta la sua sbagliataggine.

Iren aveva riso, con una crudeltà quasi divertita, “Direi di no!” aveva esclamato, “Non credo potresti riavere tutte quelle sorelle” gli aveva detto.

Saiji aveva aggrottato le sopracciglia, “Cosa?” aveva chiesto. Iren si era lasciato cadere sulla sedia che aveva occupato prima Saiji, mentre aspettava che il suo turno dall’ornatrice finisse. “La prima volta che ci siamo visti tu dovevi avere circa cinquanta sorelle; anche se pensandoci non so quante sorelle abbia tu effettivamente” aveva dichiarato Iren senza battere ciglia.

Saiji lo aveva guardato, “Centosette, quasi cento-otto il selune del primo ciclo della prossima sorella” aveva replicato, “Quindi vuol dire che hai festeggiato centosette sorelle e non mi hai detto nulla” aveva quantificato Saiji, quasi indignato, prima di scoppiare a ridere, nessuno aveva festeggiato le loro sorelle negli ultimi tempi.
“Allora, io ho novantadue sorelle, credo. Il latte potrebbe aver un po’ annebbiato la mia mente, ecco” aveva cominciato a fare i conti Iren, usando anche le dita. Sembrava buffo.

“La prima volta che ci siamo visti, io avevo trentasei sorelle e tu cinquanta-due!” aveva esclamato.
Saiji non la ricordava affatto così, “No! La prima volta che ci siamo visti tu avevi settanta sorelle e io ottantadue” aveva risposto Saiji.

Una gioia prorompente era eruttata negli occhi grigio-neri di Iren. “Oh, Giardino-Incantato! Tu non ricordi il nostro primo incontro. Il grande Saiji Alderichi che tutto sa e tutto ricorda, non lo rimembra” aveva esclamato pieno di gioia.

“Davvero?” aveva chiesto Saiji, che non riusciva a ricordarlo, “Certo!” aveva ammesso Iren, “È stato al torneo di Baresana, vicino Città di Raflesia Alta” aveva raccontato. Saiji aveva ricordato quell’evento con una chiarezza quasi devastante, “Hai partecipato al Torneo degli Scudieri” aveva ricordato Iren con una certa meraviglia. “Ho vinto il torneo” lo aveva corretto con asprezza Saiji, ricordando quel momento, aveva vinto a duello con una spada smussata, “Hai sconfitto il Gran Bastardo, sì” aveva ricordato Iren.
Ricordava l’eccitazione, il sole sul viso, il peso della lama sulle sue mani e l’acclamazione popolare, oltre che il suo avversario sulla schiena che accettava la sconfitta, senza rabbia o rancore.

Bel duello, Alderichi’ aveva detto senza esitazione, dandoli poi la mano.

Non era un nobile vero il Gran Bastardo, ma era un manimorbide per sangue ed educazione ed era stato il primo a riconoscere Saiji come pari.

“In quel momento io ero sugli spalti, con mio zio, che mi aveva chiesto di essere il suo scudiero” aveva ricordato con gioia Iren, “Certo, lui ha perso alla prima lancia contro Cresten di Rocca Serpillo” aveva terminato meno esuberante.

L’espressione sul suo viso però era ancora placida; Saiji ricordava che Iren non usciva molto dalla sua casa da bambino, ma forse quella doveva essere stata un’occasione speciale. Saiji non riusciva a ricordare che vi fosse nulla di così speciale in quel torneo, per gli altri, ovviamente. Per lui lo era stato. Aveva vinto la mischia degli scudieri, si era fatto un amico, aveva sperato lo avrebbero ordinato Cavaliere ma Moria si era opposto – e quella volta aveva avuto successo – e gli avevano concesso un altro premio.

“Sì, devo ammettere che la tua vittoria in quel caso fu molto impressionante. Più della vittoria di Ser Moira alle lance contro Fjord Altavilla” aveva raccontato, ma anche in quel caso i suoi occhi erano scintillati di una piacevole meraviglia. “Cosa hai avuto come premio?” aveva chiesto poi Iren, stupendolo, “Non ricordo affatto, o forse non lo ho mai saputo. A quell’età pensavo che il mio peso in torte di zucca fosse un pagamento accettabile” aveva chiosato.

Saiji aveva riso, “Volevo essere cavaliere” aveva dichiarato, “Ma mi hanno detto di no, che potevo chiedere qualsiasi altra cosa” aveva ammesso.

Qualsiasi. Avrebbe potuto chiedere di essere un eretico libero, di poter lasciare Teschio di Drago, qualsiasi cosa, ma voleva solo urtare il suo signore. “Il bacio di una principessa come tutti gli aspiranti cavalieri” aveva ricordato, un brivido aveva attraversato la sua schiena, a quel ricordo.  Era stato anche prima che cominciasse a partecipare alle Parole Cortesi e seguisse tutto il corso necessario.

“Mi ricordo che al torneo non mancavano le principesse” aveva considerato Iren, la sua mente si era fatta distante e per un secondo aveva ricordato qualcosa che era passato da tempo.

“Quattro di nome e due di fatto” aveva replicato Saiji, ricordando quelle donne. “Sarebbe stato oltremodo ilare se avessi baciato la madre del Gran Bastardo” aveva considerato, pensando alla principessa Annamrys con quella sua espressione stoica, di chi non si curava di aver generato un figlio naturale senza giuste nozze o altro. “Quindi chi hai baciato? La bella Yorrehim di Grandi Querce?” aveva domandato divertito Iren.
Il sorriso di Saiji si era spento al ricordo, “Avevo chiesto una principessa” aveva replicato cupo e Yorrehim non lo era, non nel titolo almeno, nonostante fosse gran-nipote dell’Imperatore Myrto I il Guiscardo.
Ovviamente avrebbe voluto baciare la bella Yorrehim, non perché la desiderasse in alcuna maniera, ma perché avrebbe indispettito Moria più di chiunque altra. La signora era la figlia di Iseo di Querce Grandi, con sangue imperiale, ma sopra ogni cosa: nipote dello scintillante generale.

Iren aveva riso e per un secondo era sembrato un suono così genuino e naturale che quasi aveva inabissato ogni cattivo pensiero. Figlio del destino, d’altronde.

“Credo di poter immaginare quale principessa ti abbia concesso un bacio” aveva considerato. “Come se una principessa smaniasse di baciare un senza-dio mezzo eosiano senza nulla da offrire perché lo chiedeva. Ci ho guadagnato un man rovescio, ecco, che premio ho avuto” aveva mentito.
Aveva mentito parzialmente, “Secondo me, invece, hai avuto un bacio dall’arciduchessa” lo aveva provato Iren, che all’ora era solo principessa.

Sì, avrebbe dovuto rispondere, ma non in quell’occasione, diverse sorelle dopo – più maturi e volontari. La ragazzina aveva chinato lo sguardo quando l’aveva veduto, doveva esserle apparso come un mostro, così selvaggio, rispetto gli altri fanciulli ben vestiti. Saiji era stato l’uomo dal sangue più basso lì presente, non era stato concesso ai cavalieri erranti di natali bassi di partecipare, figurarsi ad uno che era a malapena uno scudiero, ma Moria aveva garantito per lui.

“Hai ragione, in parte. Dopo la sberla di Moria la notizia si è comunque diffusa ed una principessa ha deciso che meritavo un bacio se era ciò che avevo chiesto” aveva ammesso. Che stupido pensiero, che stupida richiesta, che stupido ragazzino. Si chiedeva come sarebbe stata la sua vita senza quella richiesta. “Vedi” aveva replicato Saiji con una risata, “Cinquantadue sorelle ed un bacio da una delle fanciulle più desiderate del mondo” lo aveva preso in giro.

Saiji aveva guardato le sue guance nude e scure nel suo riflesso, pulire come quelle di un infante ed aveva ricordato tenuamente il contatto tra le labbra, appena un bacio delicato. “La fanciulla” aveva corretto Iren, ma il suo tono era stato basso e poco chiaro. “Come?” aveva interrogato il suo amico, “Non hai baciato una delle fanciulle più desiderate al mondo, ma la fanciulla più desiderata al mondo” aveva detto senza calore.

Non sapeva quale reazione avrebbe dovuto aspettarsi da Iren, ma non era quella. Il suo viso era rimasto uguale, così come il sorriso languido. “Mi hai preso in giro” aveva riconosciuto Saiji, “Lo sapevi benissimo, il premio ed il bacio” aveva considerato, “Lo sapevo. Mi ero semplicemente chiesto perché non me lo avessi mai detto. E no, non parlo di queste ultime sorelle, ma anche delle prime” aveva considerato, “Io non avrei esitato nello strofinartelo sul muso” aveva stabilito.

Saiji aveva ridacchiato, “Se avessi inforcato l’imperatrice, puoi giurare sul tuo Buon-Signore che lo avrei detto a tutti, anche a costo di finire sulla ruota, ma era solo un bacio innocente” aveva raccontato alla fine. Il sorriso di Iren non si era incrinato di un secondo, così quello di Saiji, anche se un molesto pensiero dopo tutte quelle lune lo aveva attraversato. Lo sapevi fin dal principio?

Mi accompagnerai alla funzione?” aveva chiesto alla fine Iren, Saiji aveva annuito, “Sì. Sempre se la basilica non prenderà fuoco appena ci metterò piede, resto sempre un principista senza-dio.”

 

Si erano diretti alla Basilica cittadina; per Saiji percorrere quella strada non era stato diverso, da prendere alcuna altra via, ma riconosceva che Iren fosse invece molto più nervoso. Aveva sentimenti misti sul viso; era stato esuberante all’idea di andare ad una funzione, ma ogni passo che si faceva più vicino, l’incertezza dirompeva sul viso. D’altronde Iren aveva il suo Principio personale contro cui combattere.
Così preso dai suoi pensieri, notava a malapena lo sguardo rapito dai passanti, attirati da lui, come i girasoli dal sole. Con i capelli corti ed ordinati, con la camisa pulita ocra, nitido e profumato, con un solo accenno, nel viso smunto del Latte d’Uccello.

Qualche sguardo era rivolto anche a lui: Saiji sapeva di attirare l’attenzione, era alto, eosiano e con i capelli rossi e non tutti erano ammirati da queste stranezze come l’ornatrice.

La Basilica di Città Azalea occupava la parte levante della piazza cittadina. Era una struttura imponente, grandi quasi quanto quella nel Bocciolo. Una massiccia scalinata di pietra calcarea bianca che luccicava sotto il sole, lunga quasi venti gradini, che conduceva ad un portico di dodici colonne, disposte in due file da sei. Erano altissime, in marmo di breccia color arancio e clasti bianchi, che terminavano in capitelli con fiori d’acanto e volute. Sostenevano una trabeazione triangolare su cui era stata mosaicata un’immagine di un giardino con uomini-fiore. Non riusciva ad immaginare come fosse l’interno, ma immaginava dalla stazza, che l’edificio potesse ingoiare tutti i cittadini, almeno i più rispettabili. “Splendida” aveva ammesso Saiji, con un tono leggermente ammirato.

Non era sicuramente un estimatore del Credo, ma riconosceva la grandiosità di un’opera. “Azalea vuole competere con Il Bocciolo mi sembra di intuire” aveva considerato.

Si era aspettato una risposta di Iren, che lo sgridasse o un commento sdegnato sull’opulenza, ricordando come la cattedrale di Città Malva come spoglia e semplice, fredda quasi all’esterno, ma piena di colore all’interno – non che Saiji lo avesse mai vista, ma il suo amico aveva speso tantissimo tempo a descriverla – però Iren non aveva fiatato. Sembrava non aver neanche visto il tempio, i suoi occhi guardavano il centro della piazza a stella.

Una statua dominava il centro.

“Ah” aveva detto Saiji, “L’ultima volta c’era una raffigurazione a cavallo rampante dell’Imperatore Selonio III dei Trittili. Il fondatore della città” aveva ricordato.

Una statua in bronzo-nero, di un vecchio con espressione furiosa e mustacchi spessi ed arricciati sulle punte, con una lunga barba a forma di treccia. Con una mano reggeva le redini di uno stallone ruspante e con l’altra una spada lunga – una a doppia presa, ma l’artista non doveva aver saputo la diversità – sguainata verso il cielo.
Niente Selonio, però, con i suoi baffi e la sua spada sbagliata, al suo posto c’era la sua discendente – di qualche centinaio di anni e matrimoni scambiati dopo – l’Imperatrice.

Su di un piedistallo di pietra grigia, la Signora del Pregiatissimo Impero, composta di marmo in cipollino, dalle tonalità di verde, guardava con severità i suoi avventori.  La statua conservava l’incondizionata bellezza di figlia benedetta dell’Imperatrice stessa, la posa in cui era sistemata sembrava naturalissima, con le pieghe realistiche della stoffa incise nel marmo.  Il viso era dolce, il sorriso tremolante, appena accennato, a sinonimo di una natura velata e gli occhi erano austeri; imprigionati benissimo nello sguardo. Il vestito ricalcava quello di una matrona fioriana in tutto punto, con le maniche strette, le spalle semicoperte da un fazzolo aderentissimo, che si chiudeva sul petto con la spilla di un fiore a due pendenti di perle. Il busto stretto da vespa e i fianchi larghi, messi in risalto dal corpetto rigido e la gonna morbida, che scendeva lungo le gambe.
In una mano reggeva il globo d’oro del mondo, nell’altra lo scettro di girasole, con foglie larghe d’oro, così come i petali del fiore, che ricordavano una versione realistica. Altro oro e gemme preziose erano nella corona imperiale, una perfetta imitazione di quella originale. Un anello di ferro dorato, da cui spuntava al centro un rettangolo su cui erano incastonate perle bianche e gemme, circondato, ai lati, da triangoli ed archetti che si susseguivano alternandosi – Saiji si era chiesto quanti audaci ladri avessero perso le mani per quel tesoro.
Ciò che rovinava l’incanto era data da un viso di fanciulla, più vicino alle sorelle che aveva avuto l’Imperatrice quando aveva indossato la tiara che quelle che aveva in quel momento, per quanto fosse ben lontana dalla vecchiaia.

Così come i capelli, corti appena sopra le spalle.

Quando era salita al seggio imperiale, la Signora non era già più una fanciulletta, ma portava i capelli intrecciati come una donna.

“Ha il taglio della vedova” aveva dichiarato solenne Iren, con la voce sottile come uno stiletto, come se fosse sorpreso. “Lei è vedova” aveva rimarcato Saiji, “Il dolce imperatore è morto.”

“Cresca il suo fiore rigoglioso” aveva sibilato monocorde Iren, senza emozione, senza amore, con gli occhi scuri così distanti.

“La statua le rende abbastanza giustizia” aveva concesso Saiji, “Non alle sue tette” aveva risposto Iren.
Si erano lasciati l’austera espressione dell’Imperatrice alle spalle, percorrendo la strada verso la basilica, dove un numero non indifferente di persone stava virando. Saiji l’aveva guardata ancora una volta, doveva ammettere, con sommo rammarico, che per quanto veritiera, l’immagine non rendeva giustizia alla sua forma di carne: lo sguardo dell’Imperatrice era assai più spietato.

Avevano preso la scalinata, per raggiungere l’interno della chiesa, quando Saiji aveva notato l’ornatrice che avevano incontrato il giorno prima. Era pochi gradini sopra di loro, con i capelli verginali scuri sciolti, tranne che due piccole treccine sulle orecchie, tirate con un fiocco dietro la nuca. Anche lei li aveva notati ed era rimasta ferma, guadagnando qualche spallata poco gentile dai fedeli; aveva sollevato la mano e salutato timida, con le guance tonde rosso ciliegia.

Ambedue avevano ridacchiato; “Che novità, amico mio, un’altra giovinetta infatuata di te” aveva considerato sterline Saiji, pensando alla fanciulla a piccolo pulvino che si era convinta di essere l’anima condivisa di Iren solo per averlo veduto. La divina bellezza della perfezione!

“Non questa volta” aveva dichiarato del tutto consapevole Iren, “La nostra giovane acconciatrice, ha un interesse per te” lo aveva pungolato, lasciandosi sfuggire un sorriso un po’ storto. Saiji aveva riso, “Povera la sua marra, dunque. Sono l’incubo di ogni genitore: mezzo-eosiano, principiente e senza un soldo” aveva considerato. Iren lo aveva guardato, “Sei anche un cavaliere. Mia madre sarebbe felicissima di avere un cavaliere sull’uscio che corteggia mia sorella” aveva replicato.

Ah, la sorella di Iren, argomento meno spinoso del resto della sua famiglia, ne parlava ben di meno di quanto facesse di suo fratello, ma aveva sempre un tono pieno d’amore e goia quando rinvangava qualcosa con lei come protagonista. Saiji non l’aveva mai veduta di persona, la immaginava come Iren, altrettanto benedetta, con gli stessi occhi grigio-nero, il viso pallido come la polvere di luna e i capelli scuri come una notte senza stelle, solo più morbida e delicata. Doveva essere una fanciulletta, non più bambina.

“Tua madre era una contadina” aveva risposto Saiji, ricordando che tra le varie offese che aveva raccolto dai Ramberra, ricordava anche quello. Non era una donna ricca di nobili natali, ma era stata l’anima condivisa del manimorbide padre di Iren.

“Inoltre, dubito che il Margravio avrebbe apprezzato il matrimonio” aveva aggiunto, un po’ più ferace e vergognoso, quando aveva visto il viso esangue alla menzione di sua madre. E pensare che Saiji avrebbe potuto chiamarla una puttana, come sempre aveva sentito Moria definirla, “Tutto ciò che ho è la mia spada. Ed ora non la possiedo neanche” aveva replicato, sentendo il fianco vuoto.

Il sorriso di Iren si era spento, “Adesso potresti sposarla e a nessuno irriterebbe il naso. Un cavaliere della spina che sposa una fanciulla nuda e cruda” aveva considerato. Una voce asciutta.

Saiji ne dubitava, sapeva che la condizione della ragazzina doveva esser orribilmente mutata nelle ultime Sorelle e che il piatto in cui mangiava era terribilmente più povero di quanto non fosse mai stato; ma rimaneva comunque una manimorbide, ben lontana da essere nuda e cruda, come la pensava Iren. Non era comunque sicuro che dire quei pensieri ad alta voce avrebbero rincuorato il suo amico. Era ben consapevole, che nulla di quello che avrebbe mai detto, avrebbe reso la mente di Iren più leggera o non avrebbe avuto bisogno di stordirsi con il suo veleno. “Non sono un cavaliere cordato; sono uno spigato che ha permesso al suo signore di morire” aveva liquidato la faccenda Saiji, salendo le scale della chiesa.

Non era la verità, non del tutto, non corretta, non giusta, ma sufficiente.

La verità era sempre impantanata in luoghi ambigui, aveva detto a Zegros, Sgorbio ed il resto del Punteruolo che non era mai stato veramente una Spiga, ma era una menzogna. Lo era stato ed aveva fallito. Non c’è onore ad un cavaliere che sopravvive al suo signore.

Ai tempi del Florido Impero, avrebbero dovuto bruciare Saiji con le spoglie mortali dell’uomo che aveva giurato di proteggere, ma non c’era stata pira per il Dolce Imperatore, né sepolcro.

Iren lo aveva guardato, Saiji non aveva avuto dubbi di questo, ma si era sforzato di non voltarsi, poi aveva sentito i suoi passi – chiari, nonostante la cacofonia di quel luogo – raggiungerlo, silenzioso.

“Non è colpa tua, è colpa sua” aveva detto solamente.

Gli occhi imperiosi della Statua erano ancora rivolti, austeri, verso il suo popolo.

 

“Cosa osservo con questi miei occhietti!” aveva squittito una voce fin troppo felice, che si era sollevata con vigore oltre il resto del ronzio. “Un uomo-d-albume ti sta chiamando” aveva considerato Iren, Saiji si era voltato appena in tempo per osservare Zegros che sollevava una mano salutandolo. Non sembrava lo stesso ragazzino incontrato al bordello qualche luna prima: i vestiti erano lindi di fresco, un farsetto nuovo di un colore pervinca, gli stivali di pelle lucidissimi ed anche una mantella scura con cappuccio, con cui immaginava dovesse nascondere la pelle incolore. Il viso era pulito, lucido e i capelli bianchi ordinati, pettinati in una coda alta; sembrava più il figlio di un mercante che un lupo d’arme. “Mio buon Saijir!” aveva squittito subito, accogliendolo in un abbraccio fraterno, alle sue spalle come una peperella lo aveva seguito un altro ragazzetto – forse era una nuova leva del Punteruolo, Saiji lo aveva guardato a malapena. “L’ultimo posto dove mi aspettavo di vederti era una chiesa” aveva ridacchiato il ragazzino, “Mi piace non essere prevedibile” aveva mentito.
Zegros aveva sorriso, se fosse stato intenzionato ad aggiungere alcun chè, gli occhi chiari erano rimasto impigliati nella figura di Iren. Aveva battuto le palpebre un paio di volte, “Oh, avete un accompagnatore” aveva detto subito, era rivolto a Saiji, ma i suoi occhi erano ancora incagliati su Iren, che lo ricambiava con anonima freddezza.

Iren si era accorto di quella morbosità, “Lui ehm …” aveva cominciato Saiji, “Beren Alderichi, cugino di Saiji” aveva risposto secco l’altro. Doveva essere colpa del latte che offuscava la sua mente. Iren aveva anche allungato una mano, aveva sfoggiato un sorriso di vetro, teso, che mancava di tutto quel fascino – ma l’aspetto incantevole del manimorbide era astato abbastanza per irretire Zegros.

“Non vi somigliate molto” aveva considerato il compagno del lupo d’armi e la voce melodiosa era stato un campanello nella sua memoria, Saiji aveva aggrottato le sopracciglia rosse, osservandolo meglio. Fioriano-istiano con la pelle olivigna, i ricci scuri e gli occhi piuttosto luminosi: era Eleas, con meno trucco e più indumenti addosso.

Eleas indossava una camisa lunga, verde, leggermente datata, con bottoni di tagua. La veste scendeva fino alle cosce, fermata in vita da una cintola di cuoio, sotto indossava una calzamaglia nera e gli stivalacci di pelle marrone, più simile ad un lupo d’armi che di baci. La sbagliataggine sul suo viso, senza tutta la cosmesi, appariva molto più evidente, se nelle luci soffuse della notte, Eleas era parso intrigante, in quel momento sembrava quanto mai banale, ma con occhi vispissimi.

“I nostri padri erano a loro volta cugini” aveva considerato Saiji, ammaltando la menzogna. Aveva distanziato la loro parentela, per rendere credibile ma menzogna, non solo perché lui ed Iren non condividevano una forma, un colore, un dettaglio; Saiji era vistosamente eosiano, ma aveva il vigoroso rosso tulpee ghaadiano di suo padre nei capelli, come Iren poteva sfoggiare una pelle chiarissima del settentrione. Abbastanza ghaadiani – si era detto. “Io sono Zegros Themisio e questo bisbetico qui è il mio amico Eleas Dartin” si era presentato l’uomo-d-albume.

“Un nome irtoso” aveva considerato solamente Elas, fastidioso ed attento come ogni lupo di baci, guadagnando un colpo di tallone poco gentile da Zegros. Iren nelle sue menzogne aveva scelto bene, era cresciuto a Irti Pini e non avrebbe potuto passare per null’altra cosa, aveva i capelli lisci del settentrione e la pelle chiara della maggior parte della Ghaadia, ma aveva l’accento arso dei suoi compaesani. “Nome irtoso per un uomo irtoso. Mia madre era di Irti Pini, così come suo padre, porto il suo nome” aveva mentito con scioltezza Iren, quella particolare fandonia era una che aveva ripetuto diverse volte nelle ultime sorelle.
Beren di Irti Pini, figlio di una donna irtosa e cresciuto come paggetto in un qualche castello – per spiegare le sue conoscenze da mani morbide.

Zegros non era stato turbato, o aveva mentito benissimo con il suo corpo, “Oh ecco, perché non eri sul pianoro di Malvasia!” aveva esclamato il giovane lupo d’armi, sciogliendo la presa dalla mano di Iren. Il suo amico si era fatto rigido come la corda di una cetra, “Punto e morto” aveva risposto secco Saiji, “Ho ricordi dolci di Irti Pini e molto rispetto per la buon’anima di mia Zia” aveva mentito, non con la stessa leggerezza di Iren, ma abbastanza da essere plausibile, non poteva osare troppo: Zegros lo conosceva, conosceva il suo passato con Ser Moria e la corte di Grandi Querce. “Cresce vigoroso il suo fiore” aveva replicato Zegros guardando Iren, con un sorriso complice, il suo amico era ancora bianco come un lenzuolo, ma aveva riacquisito del coraggio.

“Eri a Malvasia” aveva considerato Iren, poi, forzando un sorriso di ghiaccio.

“Oh, sì, sono il Furiere del Punteruolo di Erzeveka” aveva chiosato immediatamente lui, sciorinando una lista delle sue imprese militari – fin troppo gonfia per la giovane età che sfoggiava – per impressionare Iren, evitando per bene la battaglia al pianoro di Malvasia, che era rimasto ieratico.

Saiji poteva vedere una battaglia infuriare in Iren: rimanere in passivo silenzio o sferrare un pugno su Zegros, lui sperava decisamente che il suo compagno scegliesse la prima, per quanto difficile, avrebbe dovuto dominare quell’angoscia, da lì in avanti. Saiji aveva voluto che Iren realizzasse che avrebbero dovuto interagire con il punteruolo, aveva anche immaginato che l’aumento del consumo di latte fosse guidato da quella prospettiva.
Ovviamente, come ogni volta che doveva confrontarsi con qualcosa di scomodo, Iren aveva accantonato il pensiero fino a che non era diventato impossibile evitarlo.

Zegros ed Elas li avevano accompagnati all’interno della chiesa. Dietro le colonne mastodontiche, Saiji aveva potuto riconoscere che la chiesa era divisa in cinque navate, le due più esterne erano un unico corridoio colonna dalla forma circolare, avvolgendo le tre navate che erano divise da colonne meno mastodontiche, ma più sobrie.
Il pavimento era composto di frammenti di marmi differenti, di ogni colore diverso, creando un effetto piacevole di caos.

L’edificio era splendido, con colonne di cipollino, finestre ampie sulla parte superiore, il registro inferiore coperto di iconografie fioriane. Il soffitto a cassettoni bianco pallido, con fiori d’oro nel centro. Tutto terminava in un’abside ampio, con tre finestre di vetro colorato, intervallato da martiri e santi. Sul catino, nella parte superiore. In un mosaico simbolista: Santa Lionah ed il suo martirio con il fuoco. Una donna pallida, del settentrione, con capelli biondo scuro lunghi e spessi come un mantello che coprivano le vergogne del corpo nudo, fiamme rosso-aranciato lambivano dai suoi piedi, ma fili d’edera la proteggevano.
“So di non essere stato un estimatore delle dottrine. Ma ricordo che Santa Lionah era protetta da un caprifoglio rampicante” aveva sussurrato Saiji all’orecchio di Iren.

“Sì” aveva confermato il suo amico placido, osservando i rami molli dell’edera che si arrampicavano sulle gambe bianche. “Forse, l’artista si è confuso” aveva provato Zegros, “Un artista fioriano che sbaglia dei fiori?” aveva chiesto retorico Eleas, dando voce ai pensieri di Saiji.

“No, nell’agiografia di Santa Lionah è specificato che fosse il glicine a proteggerla. Un altro nome del fiore è la pioggia blu” aveva spiegato subito Iren, tirando fuori le sue conoscenze religiose.

Anche Saiji ricordava quel particolare, se mai, una donna di nome Lionah era stata quasi bruciata viva, probabilmente era stata la pioggia a spegnere la sua pira, ma le narrazioni fioriane avevano convertito la storia alla loro utilità. Quella però era edera, con le sue foglie a tre punte.

Avevano preso il loro posto, in piedi. “Non deve essere facile per tuo cugino, dico, in questo momento” aveva valutato Elas, “Mezzo impero odia Irti Pini più di Garlio il Principio-Incarnato e quelli danno fuoco a donne e bambini, appendo preti ed hanno ammazzato il dolce imperatore” aveva ricordato il lupetto. “Arlo Ceidri” aveva ricordato Saiji, “Ha ucciso il Dolce Imperatore, io c’ero” aveva ricordato con voce atona, ancora bloccata in quella finzione, aveva ripetuto quella storia così tante volte da averla cominciata a trovare plausibile.
“Per il mondo i Principienti sono tutti uguali” aveva replicato Eleas, “Comunque, Beren ha sempre avuto un rapporto conflittuale con Irti Pini, quindi, non gli tange poi molto” aveva mentito, ancora meno credibile. Eleas aveva annuito, prima di guardarlo di nuovo, aggrottando le sopracciglia scurissime, “Aspetta, eri lì?” aveva chiesto poi. Saiji aveva annuito, chinando il capo, “Ero una Spiga, servivo lì. Servivo il Dolce Imperatore. Ero al Passo della Laminaceae” aveva raccontato poi, “Non risponderò ad altre domande” aveva aggiunto stupidamente, quello che aveva detto non era una menzogna, ma si sentiva così sciocco ad averlo detto.
Eleas aveva annuito, “Comunque, c’è una buona probabilità che anche mio padre venga da Irti Pini, almeno così teorizzava mia madre, si può dire che non le mancassero i sospetti” aveva ammesso con voce bassa quello, passandosi una mano tra i capelli. Saiji lo aveva studiato, Eleas aveva un aspetto assolutamente istiano, del meridione del continente, mentre gli abitani di Irti Pini avevano denotati leggermente diversi, più simili ai ghaadiani e i Sussuranti, per quanto meno pallidi. Nulla di Eleas lo sembrava irtoso.

“Comunque, devo ammettere che non mi aspettavo di vedere qui ne te ne Zegros” aveva commentato Saiji, volendo cambiare discorso da Iren, da Irti Pini e la morte del Dolce Imperatore.

Il Lupo di Baci aveva ridacchiato: “Quel guscio-d-uovo è schifosamente credente, potrebbe passare per un ortodosso it ghaadiano se mi permetti, io vengo a raccogliere pettegolezzi, si sussurrano più segreti qui che nella Serra” aveva risposto pratico, poi aveva passato una mano sulla blusa, “Inoltre sotto la luce del sole e vestito la gente non mi riconosce mai nessuno.”

“In effetti: appari abbastanza anonimo” aveva valutato Saiji, “Lo prenderò per un complimento” aveva ridacchiato Eleas, con un sorriso sardonico sul viso.

 

“Eccola!” aveva esclamato Zegros allegro, attirando l’attenzione sia di Saiji, sia di Eleas, sia di Iren. Il Lupo d’Armi aveva allungato anche la mano, puntando il dito verso l’ingresso della chiesa, anche Saiji si era voltato, con un principio di curiosità. Sul deambulatorio era comparso un manipolo di guardie, con la semi-armatura indossata, sul pettorale era dipinto uno scudo squarciato. Sul primo e terzo quadrante c’era un albero di Liriodendro, sul secondo quadrante il fiore di un’azalea violacea e sul quarto quadrante una pianta di tamerici. Le guardie, almeno sei, erano organizzate come una corona, ma si erano aperte, permettendo di sbocciare dal loro interno due figure.

“Quella è la Signora Misabea Lania, contessa vedova di Liriodendri Antichi e futura margravia di Rigogliose Tamerici” aveva illustrato immediatamente Elas, con una punta di divertimento nella voce.

Tre cose erano spiccate immediatamente alla mente di Saiji riguardo la contessa vedova: era pregna, il suo ventre era gonfio come un otre, che si rifletteva in una camminata goffa, nonostante lei stessa si sforzasse di apparire imperiosa, sfoggiava un taglio della vedova, i capelli legno bruciato portati molto corti, arrivavano fin sotto le orecchie, dove si arricciavano appena, ed aveva un uomo appeso al suo braccio che le faceva da perno.
Cartemisio Dhoeri, barone di Aceri Ruggenti. Sbagliato, con le lentiggini rosa sulle guance piene, gli occhi scuri brillanti ed i capelli castani con sfumature ramate, non abbastanza da essere rosso tulpee.
Saiji aveva fatto saettare lo sguardo nella direzione di Iren, rapido come un fulmine, aveva ricevuto un’occhiata altrettanto veloce, solo che negli occhi nerissimi di Iren vibrava il panico, se fosse stato possibile il volto chiaro di Iren si sarebbe fatto ancora più smorto, come ossa.

Cartemisio di Aceri Ruggenti conosceva Saiji, ovviamente lui si era fatto una certa fama, ma non era un problema, lo era molto di più il fatto che conosceva Iren, lo conoscesse così bene da poterlo riconoscere probabilmente con uno sguardo, un po’ più attento.

Iren si era spostato, era più alto di Zegros, che era un ragazzino di neanche ottanta sorelle, con un temperamento da lupo d’arme ma con una natura che non lo aveva favorito affatto, ma aveva cercato in ogni modo di sfruttarlo come una copertura, per sfuggire al casuale sguardo di Cartemisio. L’aspetto meticcio di Iren non era così evidente, aveva la pelle bianca come la neve, ma i suoi capelli erano scuri, però era splendido – i figli benedetti attiravano sempre lo sguardo – e si accompagnava con un uomo-incompleto ed un mezzo-eosiano dai capelli di sangue e la pelle scura come lo zucchero, particolarmente alto. Come lo aveva definito duchessa Candeia – moglie di Iseo Ramberra – Saiji tendeva a spiccare come una rosa in un mazzo di pratoline, assieme all’uomo-dal-albume doveva apparire come un faro sul mare di notte; decise di non nascondersi, Elas era diverse teste più basso di lui, la cosa non avrebbe avuto comunque senso.

Aveva saputo di aver guadagnato lo sguardo di Cartemisio su di sé, nel momento in cui l’uomo, elegante e posato come solo un manimorbide poteva essere, era sfilato nel corridoio centrale della navata, sul tappetto rosso, accompagnandosi alla vedova.

“Il barone era un buon amico del defunto conte, pare. Il nobile Dhoeris è qui per sostenere la vedova in un momento così delicato. Il conte è deceduto alla piana di Malvasia” aveva cominciato a spiegare Elas pratico, “Se vuoi la verità, il buon barone speri di diventare un uomo molto ricco” aveva aggiunto.
“Il Marchesato di Rigogliose Tamerici ha le terre più fertili di tutto l’Impero. Ed il Contado di Liriodendro, con la sua bella città di Azalea, è uno snodo commerciale, proprio sulla via Cartiana” aveva ripreso, “Di rimando il baronato di Aceri Ruggenti ha una storia che farebbe impallidire i migliori, tre dei Dhoeri hanno indossato l’Aspra Corona, ma le loro terre sono secche, i loro alberi magri e le loro casse vuote da un pezzo” aveva detto furbo il lupetto, “Quattro Sorelle fa, il Bimonte, il fiume che passava per la loro città principale, ha subito un crollo, che ne ha deviato un pezzo. La gente chiama la terra degli Aceri, la terra dei Ceri, ora”.
“Tu sai tante cose, per una terrà così a settentrione” aveva voluto Saiji, non così impressionato, non c’erano reali novità, che le casse e gli introiti dei Dhoeri fossero secchi come le sterparglie nella vivace più calda, era un fatto noto.

Cartemisio Dhoeri era un manimorbide, oltre il decadente, quasi decaduto, con una città ornata di ricordi e gloriose memorie, con poco da parte. Ogni orpello che aveva reso grande Città Iris era scomparso da un pezzo. Il bronzo rifuse, come i candelabri d’oro, il ferro, il rame. Anche i marmi pregiati spogliati, sostituiti con pietre carlcaree, dipinte. La terra dei Ceri e la città Nuda. Però a Cartemisio Dhoeri restava il suo cognome, che era appartenuto ad una gente così pregiata da aver avuto risalto durante l’epoca del Florido Impero – nella sua discendenza sì – ed alcuni degli uomini, di cui gli attuali Dhoeri erano un ramo cadetto sopravvissuto – si erano chiamati Imperatori.

A volte un nome aveva anche più valore dell’oro sonante.

“Sono tutte congetture della Signora Lues” aveva dichiarato Elas, “Lei è una maestra nell’arte della lettura degli uomini, o sicuro più di me” aveva detto, “Io leggo solo se l’uomo davanti a me vuole uccidermi e scoparmi. Troverebbe surreale, mio signore, quanti vogliano ambedue le cose insieme.”

Saiji aveva aggrottato le sopracciglia, pensando alla sua sarra eosiana, Lues, con quel suo sorriso affascinante e gli occhi così simili a quella della sua Marra, l’aveva giudicata una donna svelta e capace, ma forse, doveva rivalutare le sue capacità.

Era un pensiero vile, il suo, perché Saiji sapeva di conoscere più realtà di quanto Lues avrebbe mai potuto raccogliere dai sussurri del suo lupanare.

“Non credo” aveva detto Saiji alla fine, “Che certi uomini vorrebbero scoparmi e uccidermi? Sì, lo vogliono, perché provano vergogna dei loro desideri, così vorrebbero scoparmi per sfamarsi della loro fame ed trucidarmi per la loro penitenza” aveva risposto quasi indignato il ragazzo.

Saiji si era distratto, sull’elucubrazioni sul conte Cartemisio Dhoeri da aver perduto l’ultimo segmento della loro conversazione, “Perdonatemi” aveva ammesso, “Parlavo del nobile Cartemisio” aveva aggiunto.
“Lo conosci?” aveva chiesto Elas, tutto il suo malumore inghiottito e la brama di informazioni infiammata sul viso, oh giovane affamato.

“Ho avuto modo di sentire parlare di lui, quando ero cordato” aveva mentito Saiji. Cartemisio aveva smesso di guardarlo, per accomodarsi accanto alla sua pregna amica vedova.

Sul nobile uomo potevano essere detto moltissime cose, alcune piuttosto cattive, ma su una cosa Saiji era certo: non era un cacciatore di ricchezze. Non ne aveva né la stoffa nell’indole; non mancava di intelligenza, quello no, ma non era né furbo né ammaliante, di rimando era testardo come un vecchio mulo. “Ha conosciuto molte persone interessanti” aveva detto Elas, “O servito molte persone interessanti” aveva risposto lui con voce calma, “Vorrei dire anche io, ma ho servito gente per lo più disgustosa” aveva replicato, prima di lanciare uno sguardo verso Zegros che di rimando sembrava ascoltare le chiacchiere di Iren, che aveva ripreso un colore genuinamente umano e stava spiegando probabilmente qualcosa in relazione all’iconografia, con il suo bagaglio culturale da manimorbide perfettamente istruito. Probabilmente per rifuggire all’idea di Cartemisio Dhoeri. “Per lo più?” aveva chiesto retorico, un sorriso con allegrezza si era aperto sul suo viso.
C’era stato un signore che si era voltato verso di loro, probabilmente indispettito dalle loro chiacchiere, ma prima che potesse parlare per rimproverarli, con la bocca già aperta in una maldicenza, Elas lo aveva zittito,

“Non vuoi dirlo, Anvien” aveva detto secco.

L’uomo aveva spalancato le sopracciglia scure, quasi sconvolto che quello sapesse il suo nome, “Come?” aveva sibilato piano, “Lavoro con Caitana” aveva detto secco, il viso dell’uomo era passato dal pallido esangue, fino al vibrante rosso pieno della vergogna ed era tornato a dar loro la schiena con gli occhi bassi, pieno di vergogna.
“Quindi il buon Barone è un uomo come si deve?” aveva chiesto Elas, affamato di voci.
“Ne esistono?” aveva risposto di rimando Saiji, il lupo aveva sorriso.

Il prete della città aveva cominciato il suo sermone, ma non prima che la Signora della Città, desse il suo benestare, con un gesto gentile. Il suo rango e la sua condizione la portavano a poter occupare una delle panche presenti nella chiesa e Cartemisio non si era seduto lontano da lei, proprio alla prima fila con gli occhi rivolti al catino, li dove l’edera cresceva in mattoncini da mosaico.

Non ricordava molto del Conte di Liodendri, “Da quanto ci sono edere al posto della Pioggia Blu?” aveva chiesto ad Elas, “Da quando il dolce imperatore è morto, ovviamente” aveva risposto Elas.

Solo un tributo, dunque, non una dichiarazione di intenti.

Eppure, non riusciva a togliere sgradevoli pensieri dalla sua memoria, da un lato pensava alla statua in cipollino, imperiosa dell’imperatrice con il globo del mondo e lo scettro del girasole che con occhi severi guardava il popolo, rivolta proprio verso la chiesa, dove il mosaico absidale mostrava l’edera proteggere una santa dal suo martirio.
Gethren Rastia era morto, ma non tutto di lui lo era, ancora le sue idee e la sua ribellione ribollivano sotto i pasciuti manimorbidi. Forse non era il caso che il defunto Conte fosse morto a Malvasia, non aveva combattuto per il Margravio o difficilmente non lo avrebbe saputo o la sua vedova avesse potuto tenere il titolo o la città, ma forse era stato aderente a Gathren il traditore.

Con quei pensieri in testa aveva perso tutto il discorso del prete, fino a che non aveva potuto sentire un piccolo singhiozzo al suo fianco, si era voltato ed aveva visto che Iren scosso da un singulto, aveva chiuso un pugno sul viso e gli occhi erano strizzati.

Zagreo era pallido al suo fianco sconvolto, da quell’improvvisa emotività, “Ma cosa …?” aveva provato Saiji. Iren aveva aperto gli occhi verso di lui, screziati di rosso, lucidi, sul viso pallido come un cero, per un secondo era stato convinto fosse sul punto di ricadere nella Sdregolatezza. Ma poi aveva visto anche le lacrime scorrere giù dagli occhi sulle guance magre; Zegros si era sporto per poter sussurrare qualcosa all’orecchio di Iren, forse per consolarlo, ma non aveva ottenuto nulla. Saiji era rimasto impotente, nervoso, un pensiero stupido ed infantile aveva animato la sua mente: Adda! Adda avrebbe capito!

Aveva allungato una mano timorosa e con movimenti indolenti e rigidi aveva accarezzato la nuca di Iren, come fosse stato un cane.


 

“… Mai più di ora, il Principio è stato così vicino da lambirci, ma è nostro dovere rimanere uniti, rimanere fedeli, contro tutta questa così dilagante sedizione che ci attanaglia …” aveva ascoltato frammentariamente

Saiji, il discorso del prete.

“Bergen è un uomo molto sensibile” aveva considerato Elas, “Quel vecchio porco – e non lo dico a cuor leggero – di Artion, fa questa predica ogni seconda messa del quinlune, ma non avevo mai visto nessuno piangerci sopra.”
Aveva pensato alle notti nella brughiera e i suoi discorsi, forse non era ancora pronto a lasciare alle spalle certe parte di sé, “Certi uomini non hanno che la loro devozione” aveva commentato Saiji e non era una menzogna. Forse non era una male, aveva pensato, doveva essere bello credere in qualcosa di diverso dalla lama della propria spada.
Quando si era accorto del suo sguardo e quello di Elas, oltre che la preoccupazione sdolcinata di Zegros, Iren aveva smesso di singhiozzare, ma aveva ancora il viso bello nascosto dalle mani bianche e piccoli singulti che facevano tremare le sue spalle. Saiji riusciva ad immaginare che in quella situazione, forse Adda lo avrebbe abbracciato, forse, così aveva allungato una mano per carezzare i capelli tagliati di fresco, con un movimento tutt’altro che delicato – non era pratico.

 

Il resto del sermone era scivolato via dalle sue orecchie senza piantarsi, come semplice rumore di fondo. Iren si era voltato verso di lui, togliendo le mani dal viso cinereo, si era forzato di sorridere, con gli occhi umidi di lgrime, Saiji lo aveva guardato con serietà, con un sorriso stanco, prima di tornare a guardare nelle prime file dove la vedova di Azalea e Cartemisio sedevano l’uno al fianco dell’altro.

Saiji era dannatamente certo che Cartemisio lo avesse riconosciuto, quando i loro occhi si erano incrociati. Non erano stati di certo amici, probabilmente non erano neanche stati conoscenti, avevano occupato gli stesi ambienti, Saiji lo aveva battuto in una mischia una volta da adulti e lo aveva fatto cadere da cavallo durante il torneo degli scudieri quando erano ragazzini – Cartemisio non era mai stato uomo con attitudini a quel genere di attività, ma il suo vecchio lo aveva sempre obbligato.

Saiji aveva imparato sulla propria carne che bisognava far attenzione ai manimorbide a cui si faceva inghiottire la terra spazzata dalle zampe di una cavalcatura, perché erano più potenti e pericolosi di quanto avrebbe potuto essere lui, anche senza lancia e spada e non tutti somigliavano ad Enneo dei Carti, che rideva divertito delle sue cadute, senza preoccupazione alcuna.

Cartemisio non aveva riso della sua sconfitta, ma aveva avuto il viso dipinto del rosso polposo dell’imbarazzo, ma non per essere stato sconfitto da una melanzana cagliata come lui, ‘Oh, che disgraziato che sono’ si era lamentato melodrammatico, sotto lo sguardo offeso dell’allora Barone. Cartemisio non sembrava poi troppo turbato della sua incapacità in duello, ‘comprendimi amico, dopo, dovrò strapazzarti per bene … Sono un Manimorbide, ho una reputazione da difendere’ gli aveva detto poi, ‘Ma senza rancore’.
Saiji immaginava che anche Cartemisio avesse dovuto prendere parte alla battaglia alla piana di Malvasia, ma non riusciva a vederlo scendere dal suo cavallo di stirpe errante, che guardava la battaglia senza colpo ferire, in compagnia degli altri manimorbide, con l’eccezione di Moira, ovviamente, e di Gathren.

Il vecchio prete aveva augurato loro un felice Incedere nel Sentiero Giusto, dopo una lunga litania che aveva sciolto Saiji fino alle sue ginocchia. Non aveva ascoltato nulla della nenia dell’uomo di culto, ma sentiva comunque la testa pesante da tutto quel chiacchiericcio. Un ronzio fastidioso rimasto attaccato alle sue orecchie, come una zanzara nel cuore della notte.

Saiji si era lasciato guidare dalla folla, come una mandria di pecore, per l’uscita. Iren ancora toccato dalle parole del sermone era taciturno con gli occhi lucidi, accerchiato da Zegros che lo seguiva calamitato dalla sua presenza. Elas invece si era separato, era sgusciato veloce via, tra la folla, forse ben interessato a nutrirsi del chiacchiericcio della folla. Durante la funzione solo qualche mormorio si era alzato durante il sermone, ma in quel momento le parole della folla riempivano con voce alta tutto l’ambiente della cattedrale.
Perfino Iren poteva sentire in quelle chiacchiere qualche affare vagamente interessante, immaginava che per Elas quelle confidenze dovessero essere piuttosto succose, da far guadagnare qualche moneta in meno sul suo contratto con Lues.

“Seeer Saaaijiii! Seeerr” si era sentito chiamare a pieni polmoni, da una voce acuta che aveva superato la folla, Saiji si era voltato osservando l’ornatrice sgomitare tra la folla per raggiungerlo, con la gonna sollevata, lasciando scoperte le caviglie, mentre scendeva a grandi falcate le scalinate di marmo della cattedrale. Non aveva caviglie nude, ma dentro le pianelle, alte con il tacco a zeppa di sughero, sfavillava una calza bianco perla con decorazioni floreali in blu. “Oh Ser Saiji!” aveva ghignato allegra quando l’aveva riconosciuto.
“Mia signora” aveva detto lui, osservandola. L’Ornatrice, rispetto il taglio dei capelli, era vestita con abiti più pregiati, un vestito pervinca con clavi blu, il busto stretto alla vita e la gonna leggermente gonfia sui fianchi. Le spalle erano semi scoperte, nascosto dal fazzolo semi-opalescente ocra. I capelli scuri erano decisamente più ricci, ma portati sciolti, per segnalare la sua disponibilità, con piccoli boccioli azzurri tra i capelli.
Saiji aveva chinato il capo, piuttosto incerto su come doveva rivolgersi a lei, l’Ornatrice era una donna libera, non era soggetta a servitù-debitoria, probabilmente era di nascita pura, per quanto non fosse fioriana per intero era ancora molto più fioriana di lui, normalmente Saiji sarebbe stato considerato più in basso di lei, ma lui era un cavaliere, nominato da uno dei duchi maggiori del pregiatissimo impero dei fiori, aveva fatto da palafreniere allo Scintillante Generale, aveva baciato la donna più desiderata del mondo, ed era stato lo scudo giurato del Dolce Imperatore, una volta. Sebbene quel Saiji lì, era rimasto sepolto, con la Corda, con la Spiga e con i sogni di gloria, ma pur sempre un cavaliere e la ragazza non era una signora, ma Moira si era impegnato perché Saiji fosse almeno un po’ istruito nelle maniere cortesi, lo aveva anche costretto a partecipare alle parole cortesi.
Ricordava ancora i sorrisi della Nobile Nervia pieni di imbarazzo quando lui recitava i suoi miseri versi alla sua bellezza e la sua dolcezza – ricordava quanto si era sentito sciocco nel pronunciare quelle parole.
L’Ornatrice con un sorriso pieno e le labbra dipinte di rosa aveva attirato nuovamente la sua attenzione: “Mi chiedevo se lei, ser, ed il suo buon amico, voleste dividere dei pandolci con me e mio cugino” aveva chiesto con un tono dolce, inclinando appena il capo, per osservare Iren.

Il ragazzo era in disparte che gli osservava attenti, con ancora gli occhi lucidi, in compagnia di Zegros.

“Come?” aveva chiesto incerto Saiji.

Avrebbe dovuto rifiutare senza ombra di dubbio, ma era decisamente sconvolto che una fanciulletta libera fosse così sfacciata.

L’Ornatrice aveva sollevato lo sguardo verso di lui, aveva occhi scintillanti di un colore ambra lucido, con punte quasi d’arancio, che tradivano le gocce di sangue colomynato. “Non credo che la tua famiglia approverebbe un vagabondare con un mezzo eosiano di padre ignoto” aveva buttato fuori. L’Ornatrice aveva battuto le ciglia scure, colta di sorpresa da quella risposta, aveva schiuso le labbra poi, sottili come fili di cotone, “Mio cugino non vede in questo nulla di sconveniente” aveva spiegato, ammiccando poi ad un giovane che stava scendendo lento giù delle scale.

Differentemente dal viso lungo cyrasti di lei, il cugino era tutto istiano, con il viso tondo ed un naso da topo, aveva ricci nerissimi, stretti e lunghi che arrivavano alle spalle. Aveva occhi a palla, marcati da nere occhiaie, con l’espressione fiacca sul volto. E lattiginoso.

Saiji avrebbe riconosciuto gli effetti del Latte d’Uccello su chiunque dopo i lunghi cicli con Iren. Il cugino de L’Ornatrice riverberava in quello stato leggermente oscurato dalla leggerezza del Latte, che permetteva ai pensieri di sfuggire alla mente, rendeva il corpo molle e una contentezza irrequieta nelle labbra tremolanti.
“Domani” si era intromesso Iren, allacciando un braccio intorno al suo collo con un gesto fraterno, “Se non ricordo male domani è la seconda silune del primo ciclo[1] della Pallida. La festa di Santa Suranna delle margherite pallide” aveva aggiunto.

Saiji aveva aggrottato le sopracciglia, aveva ricevuto anche lui una certa educazione religiosa ma non era sicura di ricordarsi tutti i santi comandati. Inoltre, da che ricordava Saiji c’erano pochi festeggiamenti nella Sorella Pallida, rispetto alla Sorella Fredda, dove più che festeggiamenti c’erano ricorrenze e promesse di tempi migliori. Durante la Fredda le piante erano spoglie, venti algidi e nevi pesanti coprivano gran parte dell’impero, la terra umida era morta e tutta la vita soffocata. Perciò Saiji era abituato a vedere candele, ceri e preghiere, in feste che nulla avevano di festoso, ma che chiedevano piccole gioie.

L’Ornatrice aveva sorriso e poi aveva cinguettato: “Sì”, dopo una pausa aveva ripreso: “Inoltre, al palazzo la Baronessa apre il giardino della Casa Padronale, al popolo. In verità, è per ascoltare le lamentele dei cittadini, ma è possibile passeggiare” aveva considerato con voce quasi divertita. “Possiamo mangiare delle castagne tostate con vino fermentato o alcuni datteri, tardivi, ricoperti di miele” aveva sospirato l’Ornatrice. Saiji aveva forzato un sorriso freddo, che era decisamente meno scintillante di quello, “Sarebbe fantastico” aveva dichiarato alla fine.

L’Ornatrice era sembrata soddisfatta della risposta: “Meraviglioso, ser. Alla decima ora, dunque, sul lato est di Ponte di Giada, è il più grande della città, collega la via Pennatosetta verde, quella che parte della porta occidentale, con la via Sinuata viola, che conduce all’ingresso della dimora baronale” aveva spiegato pratica.
Il cugino, sebbene ancora cotto dagli effetti del Latte d’Uccello, si era avvicinato, forse risvegliato leggermente dal suo torpore, aveva permesso alla sua razionalità di riaffiorare, così aveva realizzato che sua cugina si fosse dilettata in lunghe chiacchiere con due sconosciuti dall’aspetto poco raccomandabile. “Come sei diligente” aveva considerato Iren, con un tono privo di tutto il suo fascino.

Il cugino l’aveva richiamata, con labbra e voce piene di pastosità. L’Ornatrice era arrossita piena di imbarazzo, “Obbligata” aveva detto a loro con gentilezza, dilettandosi in un inchino appena accennato, prima di allontanarsi.

“Ti avevo detto che si fosse infatuata di te” aveva risposto Iren, con un divertimento quasi meschino, che mal si associava a lui. “Sono sconvolto anche io di questo” aveva valutato Saiji, con onestà. “Di solito sono tutte infatuate di te” aveva considerato Saiji.

Iren aveva ridacchiato con un certo divertimento, “Forse ha il gusto per la Bizzarria” aveva proposto. “Da fanciullo, ogni volta che guardavo troppo a lungo una ragazza, questa scappava terrorizzata che potessi rubargli l’anima” aveva raccontato Saiji.

Questo era stato dopo essere stato accolto dai Ramberra; ogni ragazzina del palazzo era stata terrorizzata da lui, un eosiano, bastardo, senza fiore. Bia – l’altra bastarda – la coppiera era stata la prima a non scappare. “Non ci credo che Adda sia fuggita da te” aveva considerato Iren vago.
Dipende da quale volta. Aveva pensato Saiji, “Lo ha fatto anche lei. Almeno una volta” aveva ammesso. Questo aveva confuso per un secondo il suo amico, sul viso bello era balenato un’espressione piena di confusione. “Scusa ma giusto sta mani rivangavamo di quando hai ricevuto un bacio dall’imperatrice” aveva ricordato Iren.

“Avevo vinto il torneo” gli aveva ricordato.

 “Tu … tu vuoi andare?” aveva indagato, poi, Iren, con un viso di bronzo, rimanendo appiccicato a lui. Saiji si era sottratto da quella presa fraterna, cominciando a trovarla invadente. Provava fiducia in Iren, quando non era annebbiato dal Latte, abbastanza perché potesse dormire con il suo respiro contro la nuca, nelle notti buie, da non temere la sua vita.

Si era chiesto se avesse dovuto o meno andare, non aveva mai pensato di maritarsi. Ricordava che una volta Moria gli aveva proposto di sposare Adda, quando le era stato concesso il ruolo di Dama della Camera. ‘Penso che ora sia alla tua altezza’ aveva considerato.

Che immagine bislacca, aveva pensato e non aveva risposto chiaramente, dicendo che avrebbe dovuto pensarci. Aveva studiacchiato Adda chiedendosi se avessero potuto funzionare, la sua amica sarebbe stata così buona e gentile, da farlo sentire quasi in colpa. Quella stessa notte la Nobile Nervia lo aveva baciato con audacia che mal si sposava ad una signora del suo rango, ‘Non hai recitato che le mie labbra dovevano essere morbide come la crema?’ lo aveva stuzzicato lei.

Il giorno dopo aveva comunicato a Moria che non aveva l’intenzione di maritarsi per quel tempo, che aveva un mestiere più importante. Non aveva parlato né di Adda, né di Nervia – non che mai avesse potuto sposarla.
“No” aveva confermato Saiji. Non erano per lui pan dolci, datteri tostati e passeggiate nei giardini.
Sono lieto di sentirlo, ho in mente una sposa più adatta per te.

 

Zegros si era affacciato di nuovo, aveva recuperato Eleas, “Noi pensavamo di andare a cercare qualcosa da mangiare” aveva dichiarato il lupo d’arme. “Qui vicino, conosco un posto dove fanno una purea di ceci che sembra cibo vero che viene solo qualche margherita” aveva dichiarato l’altro lupo. “Se fanno anche della carne, sono venduto” aveva dichiarato Saij. “Mica sono così ricco da potermi permettere la carne” aveva detto Zegros, con un sorriso tranquillo, come se la cosa non lo turbasse davvero. “Una fortuna che noi abbiamo invece qualche damigella di cui servirci” aveva replicato Iren, aveva ancora gli occhi lagrimosi, ma la sua espressione aveva recuperato una parvenza di leggerezza; Saij lo aveva rimproverato con lo sguardo. “Allora lascia che ti porti alla Serra, lì non mancheranno dame per le tue damigelle” aveva ribeccato Eleas.

Ma il loro allegro chiacchiericcio era stato interrotto dall’arrivo di due soldati ben piazzati, che sulla blusa portavano cucito uno scudo squartato. Sul primo e sul terzo quadrante c’era la Foglia a quattro punte, d’oro, del Liodeandro, alternata – nel secondo e nel quarto – con la Violetta-del-pensiero. La guardia cittadina di Città Viola.

Saiji non aveva vissuto con l’illusione di essersi salvato allo sguardo del buon Cartemisio.
“Problemi?” aveva sussurrato Zegros, osservando i due uomini.

Saiji aveva sentito la mano di Iren, stringersi sulla stoffa che copriva la sua schiena pieno di nervosismo.

“Sir Saiji Alderichi, la Signora desidera vedervi” aveva stabilito l’uomo.

Aveva la netta impressione che a volerlo incontrare non fosse la Vedova della città, ma il suo appassionato spasimante



[1] Ogni Sorella ha tre cicli, ogni ciclo ha tre decimane. Il secondo silune del primo ciclo, corrisponderebbe al Silune della seconda decimana della Sorella. Help. Il silune è il Sesto Giorno.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: RLandH