«Tesoro,
c’è la colazione» mi disse dolcemente
Edward,
svegliandomi. Mi stropicciai gli occhi, sbadigliando.
Poi sentii l’odore della
mia colazione e storsi il
naso.
In un attimo sentii, attraverso i
miei sensi alquanto
annebbiati, la porta sbattere e Edward ritornare al suo posto, senza
più il
vassoio della colazione in mano, prima di richiudere gli occhi.
Stavo quasi per riaddormentarmi,
quando lo sentii
chiedermi «Come stai?».
«Nausea…
Sonno…» biascicai, sbadigliando ancora e
richiudendo
gli occhi, voltandomi a pancia in giù. Ahia. No, quella non
era affatto una
buona idea.
«Hai ancora
sonno?» mi chiese amorevolmente «Hai
dormito per ben 14 ore, credo che dovresti mangiare
qualcosa».
Decisi di aprire gli occhi,
incontrando così il
meraviglioso e dolce sorriso di mio marito. Niente più Alice
o Rose. Dopo che
avevamo parlato avevano capito che non dovevano fare a gara per
ottenere il mio
affetto. E poi, i loro mariti erano tornati, e chi può
resistere al richiamo
del proprio marito vampiro? Sorrisi. Non io. E ora mi sentivo felice e
tranquilla, nonostante… l’onnipresente nausea.
Sospirai e mi stiracchiai ancora.
Sentii la schiena e
le braccia indolenzite. Gemetti debolmente, piegando il collo.
«Com’è possibile
che mi senta così a pezzi pur passando tutta la mia giornata
a letto o sul
divano?» biascicai assonnata.
Edward ridacchiò,
aiutandomi a mettermi seduta sul
letto. «Ti devo ricordare in che condizioni ti sei ridotta
negli ultimi due
ricoveri in ospedale?» chiese, sedendosi dietro di me sul
letto, facendo
poggiare la mia schiena al suo petto e appoggiandosi alla testiera.
Borbottai qualcosa.
«Sì, ma questo letto è decisamente
più comodo».
Lui rise ancora, passandomi due
cuscini che mi cacciai
in grembo, prima di posarci sopra il mento. «Infatti quando
eri in ospedale
cominciavi a lamentarti dopo tre giorni, ora sono passate
più di due settimane»
disse cominciando a massaggiarmi la schiena con le sue mani
meravigliose.
«Mmm»
mugolai in
approvazione «è passato già
così tanto tempo?».
«Sì»
mi rispose con un sorriso sulle labbra «sei alla
nona settimana di gravidanza ormai. Tranquilla, presto le nausee
scompariranno
e se tutto andrà bene non dovrai più stare a
riposo».
«Ehi»
borbottai, voltandomi appena a fissarlo «come
fai a sapere tutte queste cose sulla gravidanza?».
Ridacchiò, continuando a
massaggiare con delicatezza. Era
sereno, e anche se non gli ero mai di buona compagnia, passando la
maggior
parte del mio tempo a dormire e vomitare. Lui rimaneva sempre
tranquillo, senza
annoiarsi. «Ti ricordo che ho frequentato medicina. Due
volte».
In un attimo mi venne in mente una
cosa e feci una
smorfia.
«Che
c’è?» mi domandò curioso.
«Niente,
niente» borbottai imbarazzata.
«Uh? Come niente? Sputa
il rospo».
«Non è
niente» protestai, arrossendo.
Sospirò, smettendo di
massaggiarmi e lasciandomi un
bacio sul collo. «Odio non poterti leggere i
pensieri».
Rabbrividii, scrollandomelo di
dosso. «Okay. Va bene.
Hai mai assistito a un parto?».
«Sì»
fece, sorpreso «più di uno in
realtà» disse,
facendo spallucce.
Mi nascosi il viso in fiamme fra le
mani.
«Cosa?»
domandò sorpreso.
Scossi il capo, super imbarazzata.
«Non posso credere
che tu abbia visto altre donne nude. Pensavo di essere
l’unica».
Soppresse una risata in un colpo di
tosse. «Ti giuro
che era solo un puro interesse scientifico»
ridacchiò.
«Oddio, ti prego, non
prendermi il giro» feci,
imbarazzandomi ancor di più.
Mi prese fra le braccia,
impedendomi di sfuggirgli.
«Ti adoro quando sei gelosa. E quando ti imbarazzi e quel tuo
battito umido del
cuore aumenta sempre più, ti fa diventare gli occhi
più grandi, lucidi, e tutto
il tuo bel sangue succulento ti colora il viso pallido»
soffiò sulla mia pelle,
baciandomi la guancia dov’era più rossa.
Il mio cuore batteva ancora veloce,
ma non era
imbarazzo. Deglutii. «Dovrei avere paura».
Fece un bel sorriso sghembo.
«Dovevi averne prima di
dirmi “sì”
all’altare» ridacchiò, stemperando la
tensione. Mi abbracciò.
«Edward»
mormorai contro la sua maglietta «fa davvero
così male come dicono, partorire?» domandai,
facendolo scoppiare a ridere
ancora.
Mi fece voltare e mise una mano sul
mio ventre, e
accarezzandolo con dolcezza. «Non sappiamo ancora tante cose.
È un po’ presto
per pensare a come sarà il parto».
«Sarà»
borbottai, pensando al futuro pieno
d’incognite. «Io ci penso».
«Sai»
mormorò, iniziando a disegnare dei cerchi
immaginari sulla mia pancia «questo piccolino mi fa ancora un
po’ paura»
confessò.
Riaprii gli occhi, chiusi per
deliziarmi meglio delle
sue carezze, «Hai paura delle visioni di Alice?».
Scrollò le spalle.
«Non di quelle in particolare. È
solo che sarebbe più facile se riuscisse a vedere che tutto
andrà bene per
entrambi» confessò, rivelando per un attimo il suo
turbamento.
Gli carezzai i capelli.
«Jasper ed Emmett hanno
trovato tutte quelle leggende, e sembra davvero che ci sia una
possibilità che
tutto vada bene».
Fece una smorfia. «Vorrei
avere qualcosa in più di una
leggenda, Bella. Tu non capisci cosa provo» mi disse,
guardandomi negli occhi. E
vidi tutta la sua paura e la sua ansia.
Solo allora compresi.
Sì, ci avevo pensato anch’io. Ma
mentre per me sacrificarmi sarebbe stato scontato…
«Non posso scegliere fra
lui e te» disse con immenso
dolore, chiudendo le palpebre.
Mi sollevai dal suo corpo,
girandomi e prendendo il
suo viso fra le mani. «Non dovrai farlo, non ce ne
sarà bisogno, vedrai. Andrà
tutto per il meglio» dissi convinta «me lo sento, e
so che anche per te è così,
tutto andrà bene e voglio che ci creda anche tu, e che se
non ci credessi vorrei
che tu venissi a dirmelo, finché non ti
convincerò, intesi?».
Lui aprì gli occhi,
facendomi il suo sorriso sghembo.
«La mia determinata moglie umana. Ti amo».
In risposta mi avvicinai alle sue
labbra, baciandole
con amore e dolcezza.
Mi portò in cucina,
perché sapeva che non mi piaceva
mangiare in camera, e amava anche distrarmi, farmi sentire tranquilla e
a mio
agio. Mangiai sul divano bianco ad angolo. Il mio medico di fiducia,
nonché
suocero, mi aveva detto che non dovevo davvero
stare immobile e letto,
che potevo alzarmi per piccoli spostamenti e stare seduta per mangiare.
Ma ero
così stanca che niente e nessuno mi avrebbe staccato da quel
comodissimo
divano.
Mangiavo dei crackers alle olive
con su un formaggio
spalmabile. Carlisle mi aveva consigliato - contro la nausea - di
mangiare dei
cibi secchi e salati.
«Come va la
nausea?» mi chiese Edward spalmando
dell’altro formaggio su un cracker.
«È sempre
lì che dice “Bella, corri in bagno!”»
dissi sarcastica, addentando il biscotto che mi aveva appena passato e
annuendo
al suo gesto che mi chiedeva se condirne un altro «mi chiedo
quando passerà».
«Questo non si
può sapere neppure in una gravidanza
normale. Di solito passa dopo i primi tre mesi, quindi in teoria fra
poco»
disse passandomi l’ultimo cracker. «Ne vuoi
ancora?».
«No, non sono sicura di
riuscire a finire neppure
questo» dissi, reprimendo un conato.
«Beh, non hai mangiato
molto, era appena un pacchetto,
ma non forzarti, non vorrei che fra un po’ mangiare si fosse
rivelato inutile».
«Finisco solo
questo» dissi, prendendo un altro morso
«forse dovemmo… dovresti»
mi corressi
«andare a fare un po’ di spesa».
Lui ridacchiò.
«Ci hanno pensato Alice e Rosalie».
Sorrisi. «Le hai
perdonate?».
Mi fissò con aria
sarcastica. «Per cosa? Per aver
quasi fatto venire un infarto a mia moglie incinta con una minaccia
d’aborto
mentre non potevo neppure correrle dietro per impedirle di schiantarsi
in auto
perché troppo impegnato ad impedire che si
ammazzassero?».
«Già, per
questo».
«Ci sto
lavorando».
«Edward» lo
richiamai.
«Senti» si
sollevò, raccattando il piatto pieno di
briciole e il mio bicchiere «le ho perdonate, ma non posso
dirglielo per ora,
perché altrimenti starebbero di nuovo qui fra i piedi tutto
il giorno, e io
voglio stare da solo con mia moglie».
Sorrisi. «Sei il
peggiore».
Si avvicinò a lasciarmi
un piccolo bacio sulle labbra,
prima di smaterializzarsi per sistemare la stanza. «Lo
so».
Rimanemmo nel soggiorno per
l’intera mattinata, e
fortunatamente riuscii a non vomitare. Il pranzo lo mandai
giù con maggior
piacere, dato che, acquietata la nausea, era spuntato un buon appetito.
«Sai a
cos’altro stavo pensando?» domandai
casualmente.
«A cosa?» mi
domandò, comparendo al mio fianco con un
sorrisetto appena trattenuto. Sapeva che non era affatto una domanda
casuale.
«Alla mia
trasformazione».
«Beh, Alice aveva ragione
sulla storia degli
antidepressivi, ormai fai una dose molto bassa e la prossima settimana
potremmo
sospenderli. Possiamo trasformarti» mi prese in giro.
Gli diedi un colpetto sulla spalla.
«Non prendermi in
giro».
«Scusami»
disse, prendendomi una mano fra le sue
portandosela alle labbra. «Hai ragione, non è
stato molto carino. Cosa volevi
chiedermi in particolare?».
«Nove mesi sono
tanti» mormorai, carezzandomi la pancia
«e se il bambino desse troppi problemi…
beh, potreste sempre
trasformarmi. Avete ancora l’idea di farlo iniettando
direttamente il veleno
nel mio cuore?» domandai cautamente, e sentii la nausea
ritornare.
Edward annuì,
mortalmente serio. «Ne tengo sempre una
siringa pronta per ogni evenienza».
Scossi il capo, con un sorriso
teso. «Tu e Carlisle
pensate sempre a tutto, eh? Beh, dovevo aspettarmi una misura del
genere dopo
la notizia della gravidanza».
«Non è stata
un’idea di Carlisle» confessò
«è stata
una mia idea, e l’ho fatto mentre Jacob ti ha sequestrata.
Non sapevo in che
condizioni ti avrei trovata».
Presi un respiro. «Allora
non hai mai cambiato idea».
«No» ribattè «ti
ho dato la
mia parola».
Annuii. «Allora
c’è qualcos’altro che vorrei chiederti.
Vorrei sfruttare questo prolungamento del mio periodo da umana per
ricominciare
a frequentare l’università».
Lui mi sorrise. «Ci tieni
molto? Pensi di essere
pronta a stare di nuovo in mezzo alla gente?».
«Sì. Credo di
averne bisogno».
Scrollò le spalle.
«Allora troveremo il modo, dopo che
sarà passato questo periodo di riposo, ovviamente».
«Davvero?»
chiesi sorpresa. Non mi sarei mai aspettata
una reazione così mite.
«Certo» disse
con dolcezza «non vedo come potrebbe
andare peggio del mare di dubbi in cui ci troviamo. Navigheremo a vista
e
risolveremo i problemi che ci si presenteranno giorno dopo
giorno».
«Grazie!»
esclamai, gettandogli le braccia al collo.
«Ohi» esclamai, staccandomi da lui dopo un attimo.
Staccò le mie braccia da
lui e mi accarezzò la pancia.
«Attenta».
Ma non era la pancia che mi doleva.
Sorrisi
timidamente, mettendo una mia mano sulla sua, e rabbrividendo. Era
freddo… come
la membrana che avvolgeva il bambino. Pensai al futuro. A quando lo
avrei
tenuto fra le braccia accanto a Edward. Sbadigliai inaspettatamente.
«Ti sei
stancata?» chiese Edward, accarezzandomi i
capelli.
«Sì»
sussurrai, con le palpebre-semi chiuse. «Non so
perché mi sento sempre così spossata».
Edward mi sistemò
addosso il plaid che stava lì
accanto, infagottandomici dentro. «Ti va di andare a riposare
per un paio
d’ore?».
Annuii, facendo per sollevarmi.
«Sta’
giù, ti porto io». Mi prese fra le braccia,
facendo scontrare ancora il mio seno contro il suo petto. Gemetti
dolorante.
«Tutto bene?» mi chiese preoccupato. Annuii ancora,
arrossendo. Decise di non
indagare ulteriormente, e mi portò in camera, facendomi
addormentare.
«Amore?».
«Mmm».
«Amore…».
«Mmm…».
«Sono passate quattro
ore, se non ti svegli ora
stanotte non dormirai» mi disse con dolcezza.
«Invece
sì» borbottai «Te l’ho
già detto che sono
distrutta e stanchissima e spossata?!».
Lui ridacchiò.
«Può darsi, ma c’è tuo padre
qui che ti
vuole vedere. Che ne dici?».
Spalancai gli occhi, sorpresa,
scontrandomi con i
suoi.
Incontrai il suo dolce viso
apprensivo. «Solo se te la
senti, non voglio che tu ti agititi per nulla. Lo faccio
entrare?».
«È nel
soggiorno?» chiesi in un sussurro.
Mi sorrise.
«Sì, è di lì che aspetta. Lo
posso far
venire? Gli manchi molto».
«No» mormorai
«vado io. Non voglio che creda che sia
malata».
«Sicura?» fece
Edward, inarcando un sopracciglio.
Annuii convinta.
«Carlisle ha detto che posso alzarmi
per un po’, no?».
Lui mi accarezzò una
guancia, lievemente arrossata per
lo sfregamento con il cuscino. «Lo sai che dopo che ti sei
svegliata sei molto
debole».
«Starò bene,
mi siederò subito sul divano» sussurrai sicura.
Lui mi sorrise, passandomi la lunga
e calda giacca da
camera, coordinata al pigiama bianco e rosa che indossavo. Tenendomi un
braccio
intorno alla vita mi condusse fino al luminoso soggiorno.
Mio padre era in piedi, voltato di
spalle. Si
dondolava sui talloni, a disagio.
«Papà»
sussurrai commossa, facendolo voltare verso di
me.
«Bells!»
esclamò, aprendo le
braccia per accogliermi dopo la mia breve corsa. Era incredibile. Mi
era
mancato davvero tanto in quei giorni, tuttavia la costante presenza di
tutti i
membri della famiglia Cullen
aveva mitigato un po’ la
mia nostalgia. Ma per lui, solo, non doveva affatto essere stato
così semplice.
Mio padre mi staccò da
sé, solo per guardarmi. «Come
stai Bells?»
mi chiese, tentando di arginare la
commozione.
Edward, che aveva lasciato una
certa distanza fra noi,
in modo da concedermi un momento con mio padre, mi venne accanto,
sorreggendomi
ancora.
«Sto bene
papà» risposi con un sorriso sincero,
stringendomi al petto di Edward. «Tu… tu come
stai?».
«Oh, non preoccuparti per
il tuo vecchio, io me la cavo!»
rispose imbarazzato, scrutandomi con un’aria strana. Come se
ancora non si
fosse convinto della mia felicità.
«Sei riuscito a cucinare
da solo?».
«Certo! Ti ricordo che mi
sono auto-cucinato per ben
17 anni!».
«E ancora mi chiedo come
tu abbia fatto!» dissi
scoppiando a ridere insieme a Edward e Charlie.
Restammo a scherzare e parlare
delle cose più futili,
finché Edward non parlò. «Amore, forse
sarebbe meglio se tu ti stendessi un
po’» mi sussurrò dolcemente ad un
orecchio.
Arrossii, annuendo, notando che
anche mio padre aveva
sentito le sue parole e si era irrigidito.
«Tutto bene?»
mi chiese preoccupato.
«Sì
papà» mormorai debolmente, facendomi guidare verso
il divano da Edward, «vieni, accomodati» dissi,
indicandogli la poltrona e
stendendomi su divano. Edward reclinò lo schienale e mi
sistemò il plaid
addosso, mettendo un cuscino dietro la schiena e sedendosi accanto a
me.
Arrossi quando notai che Charlie
stavo osservando con
attenzione ogni nostro movimento. Mi sentivo in imbarazzo, ma per me e
Edward
quei gesti erano diventati così abituali che quasi non ci
facevano più caso.
«Bella, dimmi la
verità, stai male?» mi chiese
preoccupato.
Sorrisi debolmente e mi voltai
verso Edward, in una
muta richiesta di permesso. Non sapevamo ancora cosa avrebbe avuto di
straordinario quella gravidanza, ma sapevamo che se qualcosa fosse
andato
storto mi avrebbero dovuto trasformare. Fino a quel momento…
avevamo deciso di
dire a mio padre che ero semplicemente incinta. Beh, non incinta di un
vampiro.
Edward annuì, così mi voltai verso mio padre e
presi un grosso respiro. «Papà,
non sto male. Ma… ci sono delle nuove notizie»
feci, sorridendo a Edward,
incerta, e intrecciando le mie mani nelle sue. Lui mi sorrise di
rimando.
Voltando lo sguardo verso mio padre
lo notai
pensieroso e preoccupato. «Sono brutte?».
«No» mi bloccai
«beh, ce n’è una bellissima e una un
po’ meno, ma nulla di cui doversi seriamente
preoccupare».
Mio padre mi fissava, in attesa
della rivelazione.
Presi un respiro. Magari in altri
tempi sarei stata
preoccupata, ansiosa, per dover rivelare una cosa del genere a mio
padre. Ma
noi eravamo sposati, non avevamo fatto nulla di male, e inoltre
l’esperienza
vissuta mi aveva insegnato a vedere il mondo in una nuova ottica.
Quindi in
quel momento ero euforica. «Papà, io e Edward
aspettiamo un bambino» spiegai
contenta.
Vidi la bocca di mio padre aprirsi,
e gli occhi
brillare. «Oh Bella!» disse poi, abbracciandomi di
slancio. Era strano che si
lasciasse andare così. «Lo sapevo che
c’era qualcosa di nuovo, lo sapevo» disse
contento, staccandosi «sei così felice, radiosa,
non speravo di poterti vedere
così contenta ancora, dopo quello che… beh
sai…» fece imbarazzato, alludendo al
rapimento e al mio periodo di depressione «invece!
Diventerò nonno!
Congratulazioni ragazzo!» esclamò dando una pacca
sulla spalla a Edward.
Ero contentissima per quella sua
reazione, mi
aspettavo il peggio, ma in cuor mio sapevo che tutto sarebbe andato per
il
meglio.
«Grazie
Charlie» rispose Edward, sorridendogli.
Improvvisamente mio padre si fece
serio. «Ma Bells,
hai detto anche che c’è una brutta
notizia?».
Sospirai. «Non ti
preoccupare papà, siediti» dissi
indicandogli la poltrona dove era precedentemente seduto.
«È qualcosa
che riguarda la gravidanza?» chiese
allarmato, sedendosi.
Feci un sorriso tirato. Non sapevo
come spiegargli.
Rivolsi uno sguardo implorante a Edward.
Lui mi sorrise, rassicurante, poi
si voltò verso mio
padre. «Vedi Charlie, ci sono stati alcuni problemi
all’inizio della
gravidanza, e abbiamo rischiato di perdere il bambino»
spiegò con serietà,
calma e fermezza. «Ma ora sta tutto andando per il meglio,
supereremo questo
problema, e non ci sarà alcun rischio per il piccolo.
L’importante è che Bella
non si agiti e che stia a riposo, e non correrà alcun
pericolo, né lei, né il
bambino» concluse con dolcezza, accarezzandomi il ventre.
«Ma adesso sta bene? E
tu?» chiese allarmato.
Sorrisi. «Sì.
Sì papà, sta bene» mormorai emozionata.
Vidi il suo sguardo saettare dalla
mano di Edward, sul
mio ventre, alla mia faccia. «P-posso?»
balbettò, indicando la pancia.
Guardai Edward, che annuii.
Probabilmente con il
pigiama, la vestaglia, e il plaid, il freddo della placenta non sarebbe
stato
percepibile. Così mi voltai verso mio padre e diedi il mio
assenso.
Timoroso avvicinò,
tremante, la sua mano e con
delicatezza la posò sul ventre, per poi sorridere, estatico.
«È bellissimo»
disse infine. «Congratulazioni».
Andò via poco dopo, con
lo stesso sorriso stampato in
faccia. Ero davvero contenta della sua felicità.
«Ciao Bells, mi raccomando,
dillo a mamma» disse abbracciandomi stretta.
Feci una smorfia di dolore, senza
farmi vedere da lui.
Mi faceva male il seno. Mi staccai, sorridendo forzatamente.
«Certo, glielo
dirò quanto prima» lo salutai, prima che Edward lo
accompagnasse alla porta
d’ingresso.
Mi sarei sicuramente addormentata
se non fosse tornato
in meno di cinque minuti. «Bella, dovresti
mangiare».
«Sì»
farfugliai sbadigliando.
Dopo cena Edward mi
riportò in camera. Non riuscivo
neppure a stare in piedi per quanto mi sentivo stanca. Ero
letteralmente
esausta, per i miei canoni letargici quella era stata una giornata
molto
stancante.
Ad un tratto Edward
s’irrigidì. «Il telefono»
spiegò
ad un mio sguardo incuriosito. «Torno subito»,
disse, scomparendo nel
soggiorno. Aveva spostato il telefono perché non mi
disturbasse.
Mi accoccolai in posizione fetale.
Mi sentivo molto
stanca, ma non era abbastanza per dormire. Da quando avevo avuto la
notizia del
bambino, nonostante avessi ridotto gli antidepressivi, non avevo
più molto
spesso incubi, ma, nonostante mi sentissi molto stanca, e nonostante
una volta assopita
sognavo per lunghe ore, addormentarmi rimaneva un problema, e dato che
i
sonniferi erano out… Ci pensava Edward.
Mi girai dall’altro lato,
mugugnando. Non riuscivo a
stare in nessuna posizione per quanto mi doleva il seno. Mi imbarazzava
tantissimo, per questo non l’avevo ancora detto a lui.
Intravidi la mia immagine nello
specchio. Notai con
fastidio che i miei capelli erano pieni di nodi, così erano
stati legati in due
trecce basse da Rosalie. Avevo bisogno di uno shampoo. Un bagno.
Edward tornò in camera.
«Erano Alice e Rose» m’informò
«allora, dormiamo?».
Feci un piccolo sorriso.
«Vorrei lavarmi» mormorai
imbarazzata.
Sollevò le sopracciglia.
«Pensi che sia una buona idea?
Non ti reggi in piedi. Non sono sicuro che tu ce la faccia».
Abbassai il viso, arrossendo.
«Speravo di poter avere
un po’ d’aiuto» borbottai imbarazzata.
Lui mi sorrise. «Va bene.
Alice e Rose volevano
venire, ma pensavo tu volessi dormire. Non c’è
problema, le richiamo, saranno
qui in men che non si dica» disse voltandosi.
«Edward!»
esclamai, prima che sparisse.
Lui si voltò verso di
me. «Sì?».
Abbassai lo sguardo, arrossendo
ancora e
mordicchiandomi il labbro. «Ecco… io…
vorrei… sempre che tu voglia… ecco…
sì…».
Sentii una mano ghiacciata lenire
il calore che
m’imporporava una guancia e sussultai, sollevando lo sguardo
su Edward. «Amore.
Prendi un respiro» mi ordinò con un sorriso.
Sospirai. «Se-se
vuoi… puoi farlo tu. Il bagno.
Aiutarmi a farlo. Solo se vuoi» cincischiai.
Lui mi sorrise.
«Davvero?».
Annuii. «Vuoi?».
«Solo quello che vuoi
tu» mi disse dolcemente.
Annuii ancora, consentendogli di
aiutarmi ad alzarmi
dal letto. «Grazie». Nonostante fosse rimasto con
me durante la visita, e
nonostante ci fossero state altre brevi occasioni, Edward non mi aveva
mai
forzata, e aveva continuato a riservarmi una certa privacy.
Riempì la vasca di acqua
calda e schiumosa, poi uscì
dalla stanza e mi lasciò spogliare e immergermi in quel
tepore. Rientrò dopo un
po’, si sollevò le maniche della camicia fino ai
gomiti, poi prese una
spugnetta e cominciò, con gesti lenti e delicati, a passarla
sul mio corpo. Non
c’era alcuna malizia, era come un restauratore che riporta
alla luce una statua
antica, con perizia ed estrema leggerezza. Ogni tanto mi lasciava un
bacio. In
fronte, sul naso, e le sue mani erano un toccasana per il mio corpo,
come
quando mi massaggiava la schiena.
«Vuoi uscire?»
mi chiese dopo un po’ sorridendomi.
Annuii.
Prese un asciugamano bianco e
morbido e me lo porse,
senza guardarmi. Mi alzai in piedi e mi lasciai avvolgere. Mentre mi
asciugava
i capelli notai una cosa. Faceva di tutto per non guardarmi, era sempre
contenuto nei gesti, stava attento a non toccarmi in maniera impropria.
Non mi
ero mai fermata a pensare quali conseguenze potesse aver avuto il mio
rapimento
su di lui. Ripensai a quello che era successo in
camera sua, le mie urla,
la paura per i suoi gesti e per le sue mani. Per un attimo mi sentii
rifiutata,
poi di diedi della sciocca. No, era solo terrorizzato
all’idea di farmi del
male, fisicamente o psicologicamente.
Si sedette sul bordo del letto, con
me, ancora avvolta
nell’asciugamano, fra le braccia.
Mi accarezzò i capelli,
ancora leggermente umidi.
«Vado a prendere dei vestiti puliti».
Misi una mano sulla sua guancia,
bloccando i suoi
gesti. «Aspetta, Edward» mormorai piano.
Mi fissò incuriosito.
«Edward»
deglutii «guardami… p-perché non mi
guardi?».
Si accigliò.
«Ti sto guardando».
«No» sussurrai,
scoprendo il mio corpo
dall’asciugamano e rimanendo nuda fra le sue braccia.
«Guardami, ora».
Lui emise un fremito, poi
sollevò lo sguardo verso il
vuoto.
Automaticamente strinsi i pugni
contro la stoffa della
sua camicia. Ed ecco il senso di rifiuto tornare prepotentemente.
«Non mi vuoi
più?» chiesi, deglutendo per scacciare via il
magone che dolorosamente mi
chiudeva la gola.
Si voltò di scatto.
«No, Bella, no, come puoi dire
questo?!» ansimò, per poi voltarsi a fissare
nuovamente il vuoto. «Io… non
posso» disse, afflitto.
«Perché non
puoi?» chiesi addolorata.
«Io» chiuse gli
occhi, stringendo i pugni «ti voglio»
disse infine, con le palpebre ancora serrate
«troppo».
Una lacrima scese dai miei occhi,
mentre mi stringevo
con forza al suo petto. «Ti prego Edward, dimmelo. Dimmi che
sono solo tua,
dimmi che mi vuoi, dimmi che sono sempre stata solo tua, sempre.
Perché… anche
la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia
tocca il mio corpo, e scivola
via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna
traccia. L’unico a lasciare una
traccia sei stato tu Edward… sono tua, sono solo tua e lo
sono sempre stata…».
Lui aprì gli occhi, ma
non rispose, pur guardandomi
con amore.
Tremate mi asciugai gli occhi, poi
presi una sua mano
e la posai sopra il mio fianco. «Ti prego…
toccami. Amami…».
La sua mano, tremula, delicata,
rimase per un po’
ferma a sfiorare il mio fianco.
Immobile.
Quando pensai che non si sarebbe
più mossa, prese
vita, e con estrema delicatezza salì sul mio volto,
sfiorando le mie palpebre
chiuse, il naso, le labbra; delicata come le ali si una farfalla. Poi
scese sul
collo, con dolcezza, accarezzando e sfiorando, le braccia, le mani, le
dita,
baciando i polpastrelli. Proseguì dalla caviglia,
accarezzando i piedi, i
polpacci, le ginocchia, disegnando fantasie strane e immaginarie,
sempre con la
stessa delicatezza, lo stesso amore. Salì fino alla pancia,
baciandola e
accarezzandola come con un velo di seta e poi… intorno i
seni, tracciandone
delicatamente il profilo, e giù, sulla schiena, su tutto il
corpo.
Mi fissò cautamente,
quasi spaventato di potermi aver
fatto del male con quelle lievi carezze. «Non ho mai smesso
di desiderarti, ma…».
«Lo so»
mormorai piano, asciugandomi le lacrime agli
angoli degli occhi «non so come faremo, ma ti prometto che
impareremo di nuovo
ad amarci in tutti i modi possibili. Voglio farlo».
Annuì, guardandomi con
intensa serietà.
Scossi il capo, sentendo i miei
occhi riempirsi nuovamente
di lacrime. «Ti amo così tanto»
biascicai.
«Lo so. Ti amo
anch’io». Mi prese fra le braccia,
stringendomi al suo petto.
Sibilai, dolorante.
Chinò il capo di lato,
osservandomi. «Che c’è?».
Sbuffai, sospirando fra i denti.
«Mi fa male il seno»
confessai infine, rossa fino alla radice dei capelli.
Lui sorrise, sornione.
«Mi chiedevo quando me
l’avresti detto» ammise con divertimento.
Lo fissai, sbigottita.
«Tu lo sapevi!» lo accusai.
Lui rise. «E tu non me
l’hai detto!» esclamò
continuando a ridere.
M’imbronciai,
incrociando, in un gesto istintivo, le
braccia al petto. «Ahia» mi lamentai.
Smise di ridere. «Ti fa
molto male?» mi domandò, con
solo una punta di divertimento nella voce.
«Sì»
sussurrai, querula «è una tortura».
Lui mi sorrise dolcemente.
«Non ti preoccupare, è
normale. È» fece una pausa, pensieroso
«la prolattina. Sai, credo che questa
interesserà molto a Carlisle. Se il tuo seno si sta
preparando per produrre
latte, forse, vuol dire che al
bambino piacerà il latte, oppure potrebbe essere una normale
risposta del tuo
organismo a…» s’interruppe, smettendo di
pensare a voce alta. Mi sorrise.
«Aspetta qui» mi disse alzandosi e facendomi sedere
sul copriletto.
Tornò in un battibaleno
con il mio intimo, un pigiama
pulito, e una scatolina rettangolare.
Infilai gli slip, ma quando stavo
per mettere il
reggiseno mi bloccò. «Aspetta» disse,
facendomi stendere sul letto e sedendosi
accanto a me.
Prese la scatolina rettangolare e
tirò fuori un
tubetto di crema. «Per le smagliature» mi
spiegò con un sorriso «Alice aveva
visto che ce ne sarebbe stato bisogno». Ne mise un
po’ sulla pancia,
massaggiando delicatamente e poi ne mise un po’ sul seno.
«Ahi» mi
lamentai quando cominciò a sfregare.
«Scusa» disse
lui, rendendo i suoi gesti ancor più
delicati.
Ma a ma faceva male lo stesso. Feci
una smorfia,
mordicchiandomi il labbro. «Ahiiii»
pigolai.
«Forse sarebbe meglio se
tu facessi un controllo»
disse Edward «magari Rosalie…».
«Beh, se sei stato il
medico di tutte quelle donne
nude non vedo perché non tua moglie» borbottai
piena d’imbarazzo.
Tentò seriamente in ogni
modo di contenere il suo
divertimento. «Saranno state tre o quattro»
ridacchiò. «Come desideri, mia
gelosa moglie» disse allegro, scuotendo il capo.
«Dimmi quando ti fa più male»
fece cominciando a tastarmi con delicatezza.
Perché adoravo tanto
quelle mani, che si muovevano con
assoluta professionalità e senza un briciolo di malizia?!
«Ahi… ahi… ahi…
ahi…»
dissi ad ogni suo tocco.
Rise. «Ma ho detto quando
ti fa più
male!».
Feci un sorriso malizioso.
«Se te lo dico poi tu
continui a controllare?» chiesi, arrossendo.
Lui scoppiò in una
fragorosa risata, che finì in un
appassionato bacio sulle mie labbra. «Quanto tempo
vuoi!» esclamò infine.