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Autore: Roberto Turati    23/07/2023    0 recensioni
È il XVIII secolo di un mondo dove l'umanità ha convissuto coi titani fin dall'alba dei tempi. Alford, uno dei pochi ad aver formato un legame speciale con uno di questi maestosi esseri, ha un passato di cui non va per niente fiero alle spalle, un passato che ha rovinato la sua reputazione e la sua personalità. Ora lui e il suo titano Godzilla vivono aiutando le stesse persone che tanto li temono in cerca di riscatto e di una nuova vita. Ma l'uomo non può ignorare i suoi trascorsi per sempre: presto, una cospirazione per rivoluzionare il mondo lo costringerà ad affrontare il peso del suo passato per evitare che la catastrofe sia troppo grande...
 
Un AU del Monsterverse in cui i titani sono decine di metri più piccoli, ideato con la collaborazione del mio lettore beta (e co-sceneggiatore) Rickypedia04
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dalla turbina provenne un altro scoppio preoccupante e Ahmed sobbalzò al timone per lo spavento: e se la fortuna l’avesse abbandonato? Fermò l’aeroscafo a mezz’aria, si bardò con le protezioni per proteggersi dall’energia della titanite e controllò il motore antico. Dopo un attento controllo, tirò un sospiro di sollievo: poteva continuare a volare. Maledisse a denti stretti l’Ammazzatitani: avrebbe dovuto uccidere tutti i Sapientes quella sera, con tanto di tre Padroni di Titani, ma quel dannato eremita si era inserito nell’equazione e aveva interrotto l’attacco. Questo non l’avrebbe certo fermato, anzi: aveva reso più facile la sua prossima mossa. Tuttavia, era comunque pericoloso volare con un aeroscafo danneggiato senza mai ripararlo. Gli serviva rotto.

“Se solo potessi rischiare di volare alla massima velocità!” pensò.

Volava senza sosta da settimane, ormai. Una volta lasciate le Azzorre, aveva seguito la costa atlantica dell’Africa fino a Gibilterra, poi aveva attraversato il Mediterraneo da occidente a oriente e, per gli ultimi giorni, aveva sorvolato l’immensa taiga della Siberia. Era la parte più monotona del viaggio: il paesaggio era sempre uguale, la distesa di pini era sconfinata e l’aria fredda gli penetrava nel corpo fino alle ossa. Oltretutto, le sue provviste iniziavano a scarseggiare. A volte Ahmed aveva la sensazione di stare per impazzire, ma teneva duro ricordandosi che serviva tutto a spalancare le porte a un futuro rivoluzionario.

“Il minimo che mi sarà dovuto è dare il mio nome alla prima generazione di nuovi apparecchi alla titanite” si diceva, sognante.

Ma per ora, era meglio concentrarsi sul presente: aveva una destinazione ben precisa, nel cuore della Siberia. Finalmente, il suo lungo viaggio volse al termine: una mattina, dopo l’alba, Ahmed si ritrovò a sorvolare l’immenso fiume Enisej, il più lungo della Russia. Emozionato, svoltò verso nord e iniziò a seguire il corso del fiume artico, resistendo alla tentazione di accelerare per giungere prima a destinazione. A mezzogiorno, avvistò quello che stava cercando: un’isola abitata in mezzo al fiume. Lì sorgeva Svobodaburgo, o la “città libera dei fuorilegge”, com’era chiamata nei racconti. Ahmed fece manovra e si fermò a bassa quota sopra l’isola: voleva osservare il posto dall’alto, prima di atterrare e interagire con la gente del posto.

Doveva ammettere di essere stupefatto: non era affatto come l’aveva immaginata. Svobodaburgo era un raduno di criminali, reietti, banditi da ogni angolo del mondo. Tutti la figuravano come un’accozzaglia di bettole cadenti, abitate da barbari sudici e incivili che si sgozzavano a vicenda come animali. Cosa si trovava di fronte, invece? Un borgo ridente abitato da quella che sembrava una comunità normalissima, composta persino da bambini che giocavano per strada. Le abitazioni erano raffinate e di bell’aspetto, gli abitanti visti da lontano sembravano impegnati nelle tipiche attività delle cittadine e, poco lontano dall’insediamento, si ergeva uno splendido palazzo che sembrava la reggia di un re. Ma ciò che saltava più all’occhio era quello che stava al centro di Svobodaburgo: un enorme cumulo d’oro e pietre preziose nella piazza principale, fatto di manufatti di gioielleria impilati l’uno sull’altro. Il mucchio era circolare e concavo: sembrava un gigantesco nido di ricchezza.

“Di certo i fondi non mancano” pensò Ahmed, con una smorfia.

Sapeva bene com’era possibile quel benessere; lo sapevano tutti. E si sapeva anche chi spingeva i fuorilegge a compiere un pellegrinaggio lunghissimo e pericoloso fino alla Siberia, in cerca di un rifugio sicuro: erano tutti attratti dalla promessa di un’uomo. Non un uomo qualunque: era considerato da chiunque la persona più pericolosa al mondo, nonché il Padrone di Titani più distruttivo. Ivan il Pazzo. Era lui che, col suo titano, terrorizzava intere nazioni e costringeva re e imperatori a consegnargli tutte le ricchezze che esigeva come tributo, in cambio di non essere spazzati via. E sempre lui aveva fondato Svobodaburgo, un’utopia per fuggitivi e reietti che cercavano la sua protezione. Grazie a Ivan il Pazzo, ora erano diventati una “società” autonoma che si manteneva con le ruberie del loro protettore. E sarebbe stato proprio lui che avrebbe aiutato Ahmed a chiudere l’era dei titani e guidare l’umanità verso un nuovo mondo.

“Si comincia ora” pensò l’ex Sapiens.

Si accorse solo allora che gli abitanti di Svobodaburgo si erano radunati tutti nella piazza centrale per guardarlo. Li comprendeva: una meraviglia tecnologica come l’aeroscafo aleutiano doveva sembrare miracoloso, agli occhi dei comuni mortali. Ahmed armeggiò coi comandi e planò verso le rive dell’isola, vicino alle prime case. Finalmente, il motore poteva riposare in pace finché non l’avrebbe riparato. Non rischiava più di esplodere, ma ora doveva vedersela coi locali. Ben presto, fu raggiunto di corsa da un manipolo di guardie armate di spada, che gli puntarono le lame contro e iniziarono a sbraitare in russo. Ahmed aveva studiato la lingua per un anno intero, prima di attuare il suo piano: era il momento di mettere in pratica quello che aveva imparato.

«Vengo in pace, onorevoli guardiani! Non abbiate paura del mio insolito veicolo: è solo un mezzo di trasporto. Certo, è un mezzo che sfida la gravità, ma nulla di più»

Non poteva certo fare menzione del cannone alla titanite. Alcune guardie gli girarono intorno e iniziarono a osservare l’aeroscafo con timorosa curiosità, mentre le altre continuarono a tenere d’occhio Ahmed. Mentre pensava a qualcos’altro da dire per rassicurarli, arrivò una guardia con un’armatura d’argento e un mantello dorato: sembrava un superiore. A giudicare dai lineamenti, gli sembrava medio-orientale. Il capo delle guardie squadrò Ahmed da capo a piedi, dopodiché lo sorprese parlando in turco:

«Capisci quello che dico?»

«Sì, certo»

Ahmed nascose un sospiro di sollievo: lo metteva molto più a suo agio parlare nella sua seconda lingua. Il capo delle guardie annuì e ordinò:

«Dimmi chi sei e che intenzioni hai»

«Come desideri: sono Ahmed Ibn-Sina, appassionato membro dell’associazione dei Sapientes. Ho un messaggio di vitale importanza per il vostro augusto signore»

Non importava quello che i “sapienti” pensavano delle sue idee e della sua visione, lui era un Sapiens degno di quel nome, e presto l’avrebbe dimostrato a tutti. Il capo delle guardie incrociò le braccia, diffidente:

«Solo chi desidera ricominciare con una nuova vita, libero dalle leggi dei regni e al sicuro dalla ferocia umana, può sbarcare su quest’isola. Sappi che il modo… ehm… insolito con cui sei arrivato è l’unica cosa che ti ha permesso di arrivare fin qui»

Ahmed fece un passo indietro, chinò il capo e alzò le mani:

«Sono desolato per aver infranto le vostre usanze e chiedo perdono. Tuttavia, ritengo che l’emergenza di cui devo avvertire il vostro generoso protettore sia tale da giustificare qualsivoglia irregolarità»

Sperava che il suo linguaggio forbito e ricercato gli conferisse abbastanza autorevolezza da persuadere quei sempliciotti in armatura. Il capo delle guardie iniziò a rimuginare; osservò a lungo sia lui sia l’aeroscafo fumante e mezzo sfasciato. A un certo punto, sebbene la sua espressione fosse ancora sospettosa, diede un ordine in russo e le guardie se ne andarono. Il loro capo si voltò e gli fece un cenno:

«Seguimi e non allontanarti da me»

«Ma certo. Ti ringrazio per la comprensività, egregio…»

«Çelik»

«Egregio Çelik. C’è una tempesta all’orizzonte, amico mio: bisogna prepararsi»

Il capo delle guardie scoppiò a ridere:

«Oh, la tempesta all’orizzonte ci sarà eccome, quando Ivan tornerà. Lo vedrai»

«Dunque non è presente?»

«È andato a riscuotere un tributo in India, ma prevediamo che torni proprio oggi. Hai avuto un ottimo tempismo, Ahmed. Sono proprio curioso di sapere cos’ha un Sapiens da dirgli!»

«Molto bene, approfitterò dell’attesa per dare un’occhiata più attenta alla vostra comunità, se non è un problema»

Mentre Çelik scortava Ahmed attraverso le strade di Svobodaburgo, l’ex Sapiens provò ad analizzarlo in base al ruolo che ricopriva e al suo atteggiamento: se Ivan il Pazzo era la massima autorità e quelle guardie erano l’unico gruppo che facevano rispettare la sua volontà, era probabile che Çelik fosse la seconda figura più importante dell’insediamento, motivo per cui parlava così tanto e con quella disinvoltura, di fronte a un visitatore inatteso. Forse lo considerava una mosca che si era posata su un bue. Be’, che lo credesse quanto voleva: prima o poi, avrebbero parlato i fatti per Ahmed.

Mentre seguiva il capo delle guardie, Ahmed ebbe modo di osservare più da vicino Svobodaburgo. La folla di curiosi si era dispersa, ma tutti stavano solo fingendo di svolgere le loro attività quotidiane: tutti gli sguardi erano puntati su di lui, tra curiosità e sospetto. L’ex Sapiens notò subito una cosa: l’immagine di Ivan il Pazzo era ovunque. Tra murali sulle case, statue d’oro massiccio e citazioni delle sue parole su grossi cartelli, il fondatore di quell’utopia per banditi sembrava onnipresente nonostante fosse in viaggio. Era incredibile: il suo patrimonio era tale che aveva potuto sia dare un aspetto civile al suo covo sperduto sia alimentare il suo ego con tutto quel lusso. In tutte le sue rappresentazioni, Ivan indossava una pacchiana armatura dorata che sembrava uscita da un racconto di fantasia ed era armato di una spada altrettanto appariscente.

«Non posso fare a meno di notare che il venerabile Ivan ha a cuore la propria immagine» commentò.

Çelik annuì:

«Vuole essere sempre in mezzo a noi, così che tutti si ricordino chi devono ringraziare per tutto questo benessere e sicurezza. Inoltre, vuole che i nostri figli imparino dalla sua saggezza. Ecco, lo puoi vedere proprio laggiù»

Il capo delle guardie indicò un cortiletto in fondo a un vicolo, dove un maestro stava facendo una lettura a una scolaresca di bambini. Ahmed tese l’orecchio e colse alcune frasi che gli parvero familiari: l’insegnante stava spiegando agli allievi che l’uomo era un lupo per gli altri uomini. Gli ricordava qualcosa. Alzò gli occhi al cielo: per forza un egocentrico come Ivan il Pazzo faceva pure indottrinamento. Tipico dei Padroni di Titani: in un modo o nell’altro, credevano tutti che il mondo ruotasse intorno a loro. Quanto gli facevano pena. Mentre rimuginava, i due raggiunsero l’enorme “nido” d’oro e gioielli e Çelik disse ad Ahmed che avrebbero aspettato lì fino al ritorno di Ivan.

«Sono davvero ansioso di consegnargli il mio messaggio» affermò Ahmed, con un sorriso forzato.

Si sedé su una panca ai margini della piazza principale e Çelik continuava a tenerlo d’occhio, impassibile. Un manipolo di guardie si unì a lui a poco a poco. Ahmed temeva che quell’attesa si prolungasse troppo, ma per fortuna il momento giunse dopo appena un’ora. Tutto iniziò quando il vento cambiò direzione all’improvviso e divenne molto più forte: le chiome dei pini intorno all’insediamento si piegavano con le folate; Ahmed doveva tenersi il turbante, per non lasciarlo volare via. Il cielo si rannuvolò in pochi minuti e dei tuoni cominciarono a rimbombare da sud.

Ahmed sapeva benissimo cosa stava arrivando e fremeva dall’emozione: per quanto disprezzasse i titani, non poteva negare che vederne uno da vicino fosse affascinante. Tra le nuvole iniziarono a brillare dei lampi gialli; dapprima si vedevano appena all’orizzonte, ma si avvicinarono in poco tempo e i tuoni diventavano sempre più assordanti. Alla fine, quella tempesta che sembrava quasi innaturale raggiunse Svobodaburgo e il vento diventò potentissimo. Fulmini dorati cominciarono a saettare tra le nuvole e alcuni folgorarono le punte dei pini. Cominciò a piovere e la gente, che si era già rifugiata in casa, chiuse tutte le porte e finestre.

«Prepararsi!» ordinò Çelik.

Le nuvole scesero sull’insediamento e velarono ogni cosa: Ahmed non riusciva a vedere a un palmo dal naso. Qualcosa si schiantò davanti a loro con un tonfo profondo e la terra tremò. I fulmini rivelarono per un attimo un’ombra gigantesca nella foschia e Ahmed cominciò a udire dei sibili di serpente, uniti a ringhi ticchettanti. Di colpo, brusca com’era arrivata, la tempesta si dissipò: smise di piovere, tuoni e fulmini cessarono, il vento si placò e cadde il silenzio. Le nuvole si diradarono e rivelarono la creatura: una colossale viverna gialla con tre lunghi colli e due code a sonagli, alta quaranta metri. Un Ghidorah.

“Straordinario!” pensò Ahmed.

Con un lieve battito d’ali, il Ghidorah disperse l’ultimo velo di nubi e si rivelò in tutta la sua imponenza. Stringeva qualcosa con una zampa: un grande sacco gonfio da scoppiare, da cui provenivano suoni tintinnanti. Il titano allontanò il sacco con un calcio distratto e si posizionò al centro del grande cumulo d’oro, rivelando così il suo scopo: era il suo posatoio. Mentre osservava con attenzione quel mostro dall’anatomia assurda, Ahmed notò una sagoma tra le corna della testa centrale: un uomo in armatura. La stessa armatura stravagante delle statue e dei murali; era Ivan il Pazzo. Il Ghidorah avvicinò le teste al suolo e il suo padrone saltò sul mucchio d’oro. Stette in piedi sul margine del nido e gridò a gran voce, in russo:

«Il vostro leviatano è tornato, miei protetti!»

“Leviatano?” pensò Ahmed.

All’improvviso, unì i puntini con quello che aveva origliato prima e capì molte cose: Ivan doveva aver fondato la sua piccola autocrazia sul pensiero di Thomas Hobbes, un filosofo inglese del secolo precedente. Ahmed ricordava di aver ascoltato una spiegazione delle sue tesi tempo prima, da un Sapiens tedesco fissato con la filosofia. Trattenne una smorfia: se Ivan si considerava il leviatano del “patto sociale”, scommetteva che non contemplava il piccolo dettaglio che il popolo poteva revocare il potere al capo assoluto in qualunque momento. Ma d’altronde, chi avrebbe mai osato sfidare il titano più letale del pianeta? Intanto, Ivan aggiunse:

«Porto con me il bottino dall’India! Come promesso, sarà usato subito per costruire il nostro primo sanatorio! Finalmente i nostri malati avranno una speranza in più, grazie alla mia lungimiranza e benevolenza!»

A quel punto gli abitanti di Svobodaburgo, che già facevano capolino dalle loro finestre, uscirono e si radunarono intorno al nido del Ghidorah per applaudire e osannare il loro governatore. Le tre teste del titano guardavano la folla ed emettevano versi gutturali, mentre Ivan si inchinava e ringraziava i suoi sudditi delle lodi. Ahmed decise che non avrebbe aspettato oltre: si fece largo tra la folla e si avvicinò il più possibile al cumulo. Tuttavia, attirare l’attenzione del Pazzo si rivelò più difficile del previsto: il baccano della folla che inneggiava era troppo forte e Ivan era concentrato sull’autocelebrarsi. Alla fine, però, si fece notare la qualcuno: la testa sinistra del Ghidorah posò lo sguardo su di lui e fece subito un’espressione incuriosita. Ahmed sudò freddo, intimidito, e fece dei passi indietro. La testa sinistra si abbassò subito per annusarlo, ma la testa di destra le rivolse un sibilo rabbioso e la testa centrale le morse le corna in segno di rimprovero.

“È proprio come nei testi aleutiani: ogni testa è un’entità separata” rifletté Ahmed, impressionato.

Ivan il Pazzo si accorse del bisticcio con se stesso del suo titano e si voltò, perplesso:

«Che problema c’è, Molnii? Qualcosa non va?»

Le tre teste si misero subito sull’attenti, quando il padrone si rivolse a loro. Con fare timoroso, la testa di sinistra si abbassò ancora e indicò Ahmed con un cenno del muso. Ivan si voltò, scrutò la folla e si accorse dell’unico estraneo. Ebbe un fremito e strinse i pugni; dopodiché, con molta calma, si tolse l’elmo della sua bizzarra armatura e rivelò il suo volto: era un quarantenne biondo coi capelli lunghi e fluenti, coi baffi curati e il resto della barba rasato. Senza staccare lo sguardo da Ahmed, Ivan il Pazzo scese dal cumulo d’oro e la folla fece un timoroso passo indietro; l’ex Sapiens, invece, non osò muoversi e si irrigidì come un tronco. Cos’aveva in mente? Ivan avanzò verso di lui con l’elmo sottobraccio e gli girò intorno, come un predatore che studiava il suo prossimo pasto. Dopodiché, il signore di Svobodaburgo cercò le sue guardie con gli occhi e li strinse, quando adocchiò il loro capo.

«Çelik!» sbraitò.

Il diretto interessato impallidì e si affrettò ad avvicinarsi, con un inchino:

«Mio sovrano?»

«Sai che conosco ogni singolo membro di questa comunità, dal più vecchio al più giovane, vero?»

«Sì, mio sovrano»

«Eppure non conosco quest’Arabo. Questo fa di lui un estraneo, dico bene?»

«Sì, mio sovrano»

«Questo mi fa sorgere un dubbio, Çelik: ho forse cambiato la legge, prima di partire per l’India?»

«No, mio sovrano»

«Allora vige ancora la regola per cui nessuno, ripeto, nessuno può mettere piede su quest’isola senza la mia approvazione personale. Allora dimmi, mio secondo in comando, che ci fa costui nel mio dominio senza il mio permesso?»

«Mio sovrano, dice di avere…»

«Molnii!» esclamò Ivan.

Il Ghidorah sibilò con le sue tre lingue biforcute e il suo padrone indicò il capo delle guardie. Tra le guardie si levò un brusio sconvolto, mentre gli abitanti della comunità chinarono subito gli sguardi, impauriti e dispiaciuti. Çelik si buttò in ginocchio e farfugliò:

«Mio sovrano, aspettate! L’ho fatto entrare solo…»

La sua frase fu interrotta quando la testa centrale del Ghidorah scattò fino a terra e lo afferrò con la bocca. Si potevano sentire le atroci grida di dolore del malcapitato, ovattate dalle fauci. La testa centrale si risollevò, strinse la morsa e le gambe di Çelik si staccarono. Le altre due teste afferrarono al volo ciascuna e la ingoiarono, mentre la testa centrale si rigirava il corpo in bocca per scartare la corazza e il mantello. Ahmed dové fare uno sforzo immenso per mantenere la calma e non mostrare segni di panico: se la vita di tutti i presenti dipendeva davvero da un semplice sbalzo d’umore del “leviatano”, doveva stare attentissimo e misurare con cura tutte le sue prossime parole. Non osava neanche asciugarsi il sudore dalla fronte. Ivan sospirò, poi si avvicinò a una guardia coi capelli rossi e gli diede una pacca sulla spalla con un sorrisetto:

«Francisco, ora sei tu il mio secondo in comando. Congratulazioni! Rompete le righe»

Ahmed era sconvolto dalla disinvoltura con cui parlava dopo aver fatto una cosa del genere. Si era davvero guadagnato il suo titolo. Dopo quella sostituzione lampo, Ivan si rivolse alla folla e annunciò:

«Miei protetti, purtroppo non sono più dell’umore adatto per celebrare oggi stesso la mia ultima impresa. Ma non temete: i canti, le danze e le bevande ci attendono domani, e sarà festa fino al tramonto!»

La folla parve incerta in un primo momento, ma quando Ivan alzò un sopracciglio come per esigere una reazione, esultarono tutti ancora una volta. Dopo l’ennesima ondata di ovazioni, Ivan fece un cenno di congedo e tutti gli abitanti lasciarono la piazza per riprendere le loro attività giornaliere. A quel punto, Ivan e Ahmed erano gli unici presenti, oltre al Ghidorah.

Godzilla1 by RobertoTurati

Ivan si strofinò gli occhi con uno sbuffo: non poteva lasciare le sue guardie sole un minuto. Gli sarebbe piaciuto tanto imporre la sua legge di persona tutto il tempo, ma doveva pur sempre reclamare bottini dai falsi leviatani del mondo per mantenere in buono stato Svobodaburgo e farla prosperare. Quell’idiota di Çelik gli aveva proprio rovinato la giornata, e già era nervoso per il lungo volo. Non voleva fare altro che chiudersi nel suo palazzo per il resto del pomeriggio e osservare la sua comunità dalla balconata frontale, quindi voleva risolvere la questione del visitatore il più in fretta possibile. Rifletté un attimo su cosa fare con lui: dapprima, pensò di farlo fulminare. Ma poi preferì trovare un valido motivo per condannarlo a morte, quindi sfoggiò il suo sorriso più accogliente e disse:

«Çelik stava dicendo qualcosa sulle tue intenzioni. Saresti così cordiale da condividerle con me, così che possa giudicare la tua presenza qui? Oh, ma che sbadato! Non ti ho chiesto neanche come ti chiami!»

L’estraneo fece un respiro agitato e rispose in tono cauto:

«Ahmed Ibn-Sina, sono un Sapiens dalla Mecca. Ho viaggiato fino alla tua terra per informarti di certe novità enormi che potrebbero coinvolgerti in futuro»

«Sei venuto fin qui solo per dirmi le ultime notizie? Come sei premuroso! Dev’essere qualcosa di epocale»

Ahmed annuì:

«Non avresti potuto usare una parola più adeguata: “epocale”. Come ben sai, è ormai la norma che i sovrani delle nazioni del mondo stringano un’alleanza privata con un Padrone di Titani per sostenere la loro economia»

«Oh, sono il primo a saperlo! Sono patetici, non trovi? Quei Padroni di Titani, intendo. Potrebbero schiacciare quei “governatori” autoproclamati come mosche e prendersi tutto quello che vogliono dai loro popoli, invece si mettono a servirli! Che razza di sistema è?»

«Ecco, temo che i servigi dei Padroni di Titani stiano per raggiungere vastità senza precedenti: gira voce, infatti, che i sovrani d’Europa, Africa e Asia stiano progettando di radunare un immenso esercito comune, coi titani a loro sottomessi in prima fila, con un solo scopo: marciare su queste terre e distruggere te e la tua maestosa cavalcatura»

Non appena sentì quelle parole, Ivan non seppe trattenere l’impulso di ridere e scoppiò in una risata così fragorosa che si piegò in due davanti all’ospite e gli venne il singhiozzo. Allora le risate cederono il posto all’imbarazzo e Ivan guardò oltre le spalle di Ahmed con preoccupazione: non voleva che i suoi sudditi lo vedessero così. Alle sue spalle, Molnii emise dei ticchettii preoccupati, ma Ivan alzò la mano per calmarlo e fece dei respiri lenti e profondi per riprendere il controllo. Si asciugò le lacrime dovute alle risate e batté la mano sulla spalla di Ahmed:

«Amico mio, sei un pazzo scatenato!»

Il Sapiens gli rivolse un’occhiata perplessa:

«Non capisco. Cosa fa di me un pazzo?»

«Quanti mesi ti ci saranno voluti per venire qui? Non è garantito sopravvivere a un simile viaggio! Eppure hai fatto tutta questa strada solo per raccontarmi questa barzelletta? Sei un folle! Però devo dire che non ridevo così da parecchi anni: sei un comico di talento, te lo riconosco. Potrei fare di te l’intrattenitore ufficiale di Svobodaburgo! La mia gente non ha tanti mezzi per svagarsi qui, a parte l’alcol e le donne»

L’espressione dell’Arabo diventò esterrefatta e, a tratti, offesa, cosa che a Ivan non piacque affatto. Ahmed si schiarì la voce e affermò:

«Sono lieto di averti fatto divertire con efficacia, ma purtroppo le mie parole sono serie, come lo è la faccenda che si sta svolgendo in questo momento nelle corti dei re. Ci sono voluti anni di preparazioni, assemblee e prese di posizione, prima che si arrivasse a questo, ma hanno promosso quest’operazione fino in fondo. Non manca molto, prima che l’esercito comune sia pronto ad assediarti»

Il tono cupo in cui Ahmed pronunciò il discorso iniziò a preoccupare Ivan: era davvero possibile una cosa del genere? Dopo secoli di dispute, territori contesi e conflitti interni e tra loro, i falsi leviatani erano davvero diventati così baldanzosi da sperare di potersela vedere con lui, la loro più grande paura condivisa? Se era vero, Ivan non poteva accettarlo: la sua stirpe era stata una costante universale per secoli. Da generazioni, Molnii era il più grande terrore della società: era il promemoria vivente che non importava la potenza di un impero, i veri padroni del mondo erano i titani; e chi ne stringeva il potere. Come osavano ignorare quella sacrosanta verità? Il loro attaccamento ai loro beni materiali aveva dunque superato il loro timore di lui? Non avevano più paura di avere le vite di interi popoli sulla coscienza? Ivan sentì la rabbia divampare nel suo petto, ma si sforzò di trattenerla ancora un po’: prima doveva averne la conferma definitiva.

«Esigo delle prove, perché stento a credere che le monarchie siano tanto audaci. Non so che motivo avresti per mentirmi, ma se scopro che ti stai prendendo gioco di me, non sarò così clemente da ucciderti»

Ahmed annuì con riverenza:

«Sono ben consapevole di quanto sembri improbabile un tale fenomeno, ma per fortuna ho con me un’evidenza difficile da confutare. Ti spiace seguirmi fuori dal borgo?»

«Volentieri: devo ancora sgranchirmi le gambe dopo aver volato per giorni»

E così, Ahmed iniziò ad accompagnare Ivan lungo le vie di Svobodaburgo, mentre il signore dei reietti faceva sciogliere le articolazioni delle gambe a ogni passo. Al loro passaggio, gli abitanti si inchinavano con rispetto e timore, com’era giusto che fosse. La soddisfazione di vedere il suo ruolo riconosciuto e apprezzato non svaniva mai. Quando giunsero sulla sponda dell’isola, Ahmed indicò il rottame di una stranissima barca come Ivan non ne aveva mai viste. Non ne era sicuro fino in fondo, ma sospettava che provenisse dalla stessa civiltà perduta a cui Luigi Franchi si era ispirato per forgiare la sua armatura unica nel suo genere, assieme alla spada.

«Affascinante. Che roba è? Perché è conciata così?» domandò.

Ahmed guardò il relitto con uno sguardo afflitto e sospirò:

«Un aeroscafo aleutiano, soltanto una delle innumerevoli meraviglie tecnologiche che io e i miei soci abbiamo riesumato studiando gli abitanti della Terra Cava. Ma purtroppo, i Sapientes non sono più gli amanti della conoscenza di una volta: ormai anche loro si sono lasciati sedurre dalle ambizioni della politica e ora ci marciano dentro!»

«Ah, sì?»

«Ebbene sì: vedi, uno dei più grandi misteri su cui indaghiamo dalla nostra fondazione in epoca romana è la natura dei Ghidorah, “coloro che sono molti”. La prospettiva di abbattere il tuo esemplare li tenta, poiché consentirebbe loro di studiarlo da vicino. Ecco perché, con mio estremo rammarico, hanno sostenuto il progetto dell’esercito comune, infrangendo così la nostra tradizione di apoliticità»

«Osano anche solo sognare di poter macellare la carcassa di Molnii come un bue morto per vedere com’è fatto? Questo è un insulto!»

«Lo credo anch’io. Ma non è ancora tutto: non ti ho spiegato cos’ha ridotto il mio aeroscafo in questo stato. I Padroni di Titani, al contrario dei re e degli imperatori, sanno bene quanto sei potente. Erano molto scettici, quando il progetto è stato avallato, ma è stato allora che i Sapientes li hanno persuasi presentando il loro campione. La sua mera presenza è bastata per instillare ardore nei loro animi: ora lo seguiranno in prima fila, uniti contro il tuo Ghidorah. Quando ho espresso il mio disappunto, i miei stessi soci si sono rivoltati contro di me e hanno deciso che ero di troppo. Sono sfuggito all’esecuzione per miracolo, ma non prima che il loro campione danneggiasse il mio velivolo nella fuga»

Ivan osservò meglio i danni dell’aeroscafo e impietrì: riconosceva quei segni. Era impossibile confonderli. Li aveva visti numerose volte tra le macerie, sulle carcasse di titani morti, sul paesaggio sfregiato da quell’energia devastante. C’era solo una persona che poteva esserne responsabile, fuori dalla natura selvaggia. La sua ira cominciò a diventare incontenibile: Ivan si sentiva sempre più caldo, sudava, gli pulsavano le orecchie e sentiva il sangue confluirgli alla testa. Strinse i pugni così forte che le unghie gli incisero i palmi delle mani. Si avvicinò all’aeroscafo e passò la mano sui segni; dopodiché, si voltò verso Ahmed e mormorò:

«È stato chi penso io?»

«Ti riferisci all’Ammazzatitani? Proprio così: sarà lui a condurre i titani dell’esercito dei regni. Ha promesso ai padroni di titani di spiegare loro ogni tuo segreto, per aiutarli a sconfiggerti»

Era la goccia che faceva traboccare il vaso. Ivan iniziò ad ansimare a denti stretti, per poi urlare a pieni polmoni come una bestia rabbiosa. Tirò un possente calcio a un sasso e lo gettò al largo del fiume Enisej con un grosso schizzo d’acqua. Con un altro urlo, tirò un pugno all’aeroscafo così forte da lasciarci una lieve ammaccatura. Ahmed fece dei passi indietro, intimidito, e Ivan sbraitò:

«Che cazzo hai detto?! Che c’entra Alford in tutto questo?! Come si permette?! Figlio di puttana! Traditore! Egoista! Ipocrita di merda!»

Quel barbaro ingrato non conosceva proprio vergogna: dopo tutto il lavoro che avevano svolto insieme, ora istigava tutti i padroni di titani contro di lui? Non solo gli si era rivoltato contro, non solo gli aveva voltato le spalle nonostante Ivan gli avesse dato uno scopo nella vita, ma a distanza di anni aveva la faccia tosta di dichiarargli guerra. Cos’era quella storia? Avevano tutti dimenticato a chi stavano pestando i piedi?

“È proprio il caso che rinfreschi la memoria a quei miserabili boriosi” si disse, malizioso.

Al centro del borgo, Molnii si era accorto da lontano della sua sfuriata e ora le tre teste lo stavano fissando con sguardi interrogativi. Ivan rivolse un sorriso al suo titano: ora che ci pensava, non gli sarebbe dispiaciuta affatto una bella rivincita. L’unico motivo per cui non era mai andato a cercare Alford dopo che avevano preso strade diverse era che, secondo lui, vivere in solitudine col peso del giudizio del mondo intero era già una punizione sufficiente. Ma se Alford era disposto ad arrivare a tanto pur di essere benvoluto dagli altri, gli avrebbe ricordato volentieri chi comandava. Ahmed si schiarì la voce:

«Ne deduco che il vostro screzio sia una ferita ancora aperta. Comunque, ora che sono riuscito ad avvertirti degli ultimi sviluppi politici, mi sono tolto un gran peso»

Ivan lo guardò negli occhi, gli si avvicinò e chinò la testa:

«Ti ringrazio, Ahmed Ibn-Sina. Se vuoi unirti a noi, le porte di Svobodaburgo ti saranno sempre aperte»

«Apprezzo l’offerta, ma non mi tratterrò a lungo: giusto il tempo di riparare il mio aeroscafo, dopodiché ho intenzione di oppormi alla corruzione dei Sapientes. Forse alcuni di loro sono ancora in tempo per rinsavire»

«In questo caso, sei libero di usare tutte le risorse e gli strumenti nel nostro deposito. Però ti sconsiglio di andare nelle capitali dei regni, nei prossimi giorni»

Ahmed alzò un sopracciglio e Ivan sogghignò:

«Dopo le celebrazioni di domani, io e Molnii partiremo per un giro dell’occidente. Vedremo di fargli abbassare la cresta»

   
 
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