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Autore: _Lightning_    09/08/2023    3 recensioni
Napoli, 1933.
Il dottor Modo, come suo solito, non si cura di nascondere l'astio verso il regime e viene arrestato dai fascisti, in attesa di essere mandato al confino – o peggio.
Il commissario Ricciardi, recluso nella sua solitudine volontaria dacché vede i morti, si rende conto di non poter tollerare di perderlo – né tanto meno di vederlo unirsi alle schiere di spettri che già popolano il suo mondo.
~~~
Ricciardi sa benissimo a cosa dovrebbero essere associate quelle sensazioni, quei sentimenti (ha paura a dare loro un nome) lui che si proibisce di provarli con chiunque e rifugge il mondo dei vivi (perché i morti sono spaventosi, sì, ma semplici e immutati, mentre le persone cambiano e lui non riesce a stare loro appresso).
Sono spaventose, le persone, i sentimenti; quelle stesse cose che legano i morti al mondo dei vivi.

[Angst // Hurt&Comfort // Ricciardi/Modo // Ricciardi&Livia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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Napoli, novembre 1933
 
          È L'ALBA, quando Ricciardi si decide a uscire di casa dopo una notte insonne passata tra la finestra e il letto coi passi corti e scattosi di una belva in gabbia. Un’alba pallida, velata da stracci di nubi, col grigio che avvolge i vicoli e i tetti e la rugiada che ancora imperla le grondaie, rendendolo quasi invisibile nel suo solito soprabito del medesimo colore.

Non è ancora spento, il sole, pensa con un’ostinazione che può nascere solo dallo sconforto più cupo (o da emozioni innominabili).

Non è spento, è solo coperto, si ripete, calcando i tacchi sul prato ben curato di Villa Pignatelli, verso l’ampio colonnato, incurante di infradiciarsi i calzoni e le scarpe appena lucidate. E il sole ben vale la vergogna di presentarsi lì, di implorare Livia in ginocchio, se deve.

Il sole vale questo e ben altro, anche se poi potrà solo osservarlo da lontano. Gli basta quello, dopotutto (gli è sempre bastato).
 
 
Livia ha sempre avuto buon gusto, gli viene da pensare a sproposito, mentre la attende nell’ampio atrio della villa.

Il suo sguardo vaga sui soffitti a cassettoni intarsiati e sulle statue di marmo, dalle curve morbide come miele nella luce acerba del primo mattino. Non che abbia arredato lei quel luogo, né vi abbia probabilmente aggiunto il minimo tocco personale da quando vi è giunta da Roma, ma trova che le si addica perfettamente, come i vestiti avvitati che indossa spesso. Eleganti, raffinati, mai esosi. Non ha bisogno di mettersi in mostra, per apparire.

Ricciardi stringe e allenta la mandibola in modo impercettibile, in un ritmo sobbalzante.

Livia è bella. L’ha sempre pensato, sin dal momento in cui ha incrociato i suoi occhi scuri e cangianti di toni più caldi oltre la veletta. Nemmeno un cieco potrebbe negarlo (nemmeno lui può negarlo).

Non si è mai soffermato troppo su quel pensiero. È sempre stato un dato di fatto, per lui, come sapere che il cielo è azzurro (come sapere che il sole splende), e non giocava un ruolo poi così rilevante nel loro rapporto. Almeno, non per lui. Ora, si chiede perché la trovi bella e non sa darsi una risposta.

Fissa il pavimento sotto le sue scarpe; hanno lasciato aloni di rugiada umidi sui motivi floreali più chiari che si intrecciano sul marmo verde serpentino.

Non sa più rispondersi con chiarezza neanche al perché abbia sempre tenuto Livia a distanza. Pensava di saperlo, come ha sempre saputo perché sia stato solo fin da ragazzo. Legarsi a qualcuna vuole inevitabilmente dire trascinarla nella sua vita vissuta fianco a fianco coi morti, senza poterne mai parlare. Senza poter mai avere figli, se il rischio è condannarli alla sua stessa maledizione. Significherebbe un amore mutilo di fiducia e un matrimonio sterile e infelice per entrambi.

Il motivo della sua solitudine volontaria è sempre stato quello, né più, né meno (anche se non è sempre stato solo). D’un tratto, gli pulsa di nuovo il cuore in gola, in modo spiacevole, asfissiante.
Ha ricordi confusi dell’unica notte che ha passato con Livia. La febbre ha offuscato i dettagli e le sensazioni, ha annacquato i gesti e i pensieri (gli si stringono i vestiti addosso, soffocanti, sente il principio di nausea nello stomaco che preme verso l’alto).

Non ricorda come erano arrivati a quel punto (non sa se l’aveva voluto davvero). Non sa perché non l’ha respinta. Ma non può pensarci adesso (no, non l’aveva voluto davvero), non può farsi sopraffare.
Deve riuscire a guardare Livia negli occhi senza vacillare, come ha sempre fatto (come gli è sempre riuscito di fare con una facilità incomprensibile agli altri uomini).

Il rumore di passi sul marmo lo riscuote, ma sa già che non è Livia, di cui riconoscerebbe l’andatura svelta e decisa, di chi sa esattamente quello che vuole e come ottenerlo. La domestica bionda che lo ha accolto gli si avvicina con espressione leggermente più severa rispetto a prima, e Ricciardi è convinto che lo stia per invitare a lasciare la villa senza nemmeno aver parlato con Livia, nonostante abbia insistito ben oltre ogni educazione perché la informasse del suo arrivo.

«La signora Luciani vi attende nelle sue stanze. Vi faccio strada,» gli annuncia invece, con voce gentile e un gesto cordiale a seguirla.

Ricciardi maschera un respiro più sonoro, carico di tensione. È ovvio che voglia parlare lì. È una mossa che si sarebbe dovuto aspettare, perfettamente in linea col modo di fare scaltro, quasi tattico di Livia. La ammira anche per quello, per la sua forza d’animo che rasenta la sfrontatezza e le attira contro più di una malalingua.

«Vi ringrazio,» risponde con un cenno del capo, suonando compassato come suo solito, anche se sa di non essere in grado di celare del tutto il suo turbamento.

È un miracolo che stia riuscendo a non pensare troppo (a Bruno, a cosa può essergli capitato) e a frenare l’impulso di compiere gesti sconsiderati, come ordinare un fermo del porto e delle stazioni e interdire ogni nave e treno in partenza, come se avesse l'autorità per fare una cosa del genere.

La domestica, ignara dei suoi tumulti, lo accompagna fino alla porta di Livia, socchiusa; poi si congeda, sparendo svelta al pianoterra come seguendo un ordine dato in precedenza.

Ricciardi non ricorda quella porta di mogano intarsiato, né quel corridoio dove i passi sono attutiti da lunghi tappeti scuri stesi sul marmo; almeno non da quella prospettiva. Era incosciente, quando li ha attraversati, e troppo inquieto e preso da altri pensieri quando li ha lasciati: ruotavano tutti attorno all’omicidio del piccolo Tettè, quell’indagine che gli aveva divorato l’anima fino a farlo collassare – poi l’incidente, la ferita, la convalescenza (Bruno, Bruno l’aveva salvato) e non c’era stato tempo per tornare qui o ragionare su quanto successo. L’aveva lasciato scivolare via, sperando scomparisse alle sue spalle. Non può ovviamente aspettarsi che per Livia sia stato lo stesso.

Fissa il legno lucido per ancora qualche secondo, prima di posarvi sopra le nocche. Non sa cosa dire (ma è il suo turno di salvarlo, adesso). Non bussa, alla fine. Scosta solo la porta e varca la soglia di mezzo passo.

«Permesso?»

La voce gli gratta contro le corde vocali, roca, poco naturale.

Livia è in piedi davanti alla finestra e gli dà ostentatamente le spalle, lo sguardo rivolto verso il parco oltre il patio esterno, sui tetti lontani e rossicci del centro città. È in abiti comodi, con una semplice blusa lilla e dei pantaloni larghi e scuri. I capelli solitamente raccolti e acconciati con forcine dietro la nuca sono sciolti, lasciando liberi i ricci neri fino alle spalle. Non si è curata di rendersi presentabile per lui. Non è certo se interpretarlo come un segno di disprezzo o se sia una qualche strategia per fargli abbassare la guardia.

«Non mi aspettavo una tua visita,» esordisce lei tagliente, senza nemmeno voltarsi. «Accomodati.»

Sembra una minaccia, più che un invito, e lo mette istintivamente sul chi vive. A Ricciardi non importa di dover affrontare una conversazione scomoda, né di ferire, anche se preferirebbe evitarlo, o tantomeno venire ferito, né di perdere eventualmente Livia; sarebbe solo tanto di guadagnato per lei. Ma inimicarsela vuol dire precludersi anche l’unica speranza di salvare Bruno; e questo sì, che gli causa un pizzicore di paura in fondo allo stomaco. Deve muoversi cauto come non ha mai fatto con lei.

Entra nella stanza con un momento di ritardo, facendo cigolare le scarpe con uno stridio che pare assordante.

Nota solo allora il baule da viaggio aperto ai piedi del letto, la valigia sul tavolino e l’armadio spalancato, vuoto. Non serve essere commissario di polizia per mettere insieme i pezzi.

Deglutisce a vuoto, con l’emicrania che riprende a premergli violenta dietro gli occhi. Livia sarà convinta che sia venuto lì per scusarsi o forse trattenerla, avendo intuito chissà come che sta per lasciare Napoli, ma non c’è nulla di più lontano dalla verità. O meglio, deve impedire che parta, ma per motivi molto distanti da quelli che vorrebbe lei (per il motivo opposto). Anche se una parte quasi impercettibile della sua coscienza gli dice che è colpa sua, il fatto che se ne stia andando, e ciò non gli invia una bella sensazione.

La discussione alterata che hanno avuto appena qualche giorno fa gli rimbomba nelle orecchie come un temporale sempre più vicino. Non è mai stato deliberatamente villano con nessuno, lui, ma in quel singolo istante in cui si è ritrovato allo stesso tavolo con Livia e Bruno, qualcosa gli è scattato dentro. Una rabbia ingiustificata, repentina, che ha rovesciato addosso a entrambi alla cieca (con la sensazione incomprensibile, asfissiante, di trovarsi tra due fuochi).

Schiude la bocca per parlare e poi la serra di nuovo. Non gli riesce di parlar bene con le persone e le persone di rado parlano volentieri con lui. L’alterco che ha avuto con Livia ne è l’ennesimo esempio. Solo i morti sembrano sempre ben lieti di rivolgergli la parola.

«Scusami, se ti ricevo in queste condizioni,» continua Livia, con una vena d’irritazione a quel suo lungo tacere.

«Scusami tu,» ribatte lui, prima di poter trovare qualcosa di più sensato da dire, e forse ha già detto troppo. «Vengo qui senza nemmeno avvisare...»

Il silenzio protratto di Livia è teso, pericoloso. La mano posata in alto, sulla cornice della finestra, freme irrequieta.

«Immagino. Per farti venire qui, deve esserlo davvero,» dice infine, voltando appena il capo e mostrando per un istante il profilo elegante, cesellato.

Ricciardi, in una frazione di secondo, con la stessa rapidità con cui a volte riallaccia tra loro i fili sfrangiati di un caso, capisce che, se gioca male le sue carte, è finita (per Bruno è finita, e anche per lui).
Inghiotte l’orgoglio, non poi così tanto, in fin dei conti, e parla come un automa (non ha tempo ma glielo deve, almeno questo):

«Hai ragione, a essere arrabbiata con me. Mi sono comportato in una maniera che non ammette giustificazioni.»

Non sa nemmeno lui a cosa si stia riferendo, se a quella notte passata insieme, al loro diverbio più recente, o al modo in cui l’ha sempre schivata, evasa, tenuta a distanza ma non troppo sin da quando si sono incontrati, in un gioco che lei ha erroneamente interpretato come sfida.

«Lascia stare,» scatta Livia, non curandosi affatto di apparire composta come suo solito. «C’era un’altra persona presente e ha complicato le cose, tutto qua.»

Ricciardi chiude gli occhi per un brevissimo istante, assecondando una fitta di emicrania particolarmente acuta. Quindi è del diverbio, che sta parlando. Non ne è comunque sollevato. Sì, c’era un’altra persona (l’unica), e Livia non ha la più pallida idea di quanto stia camminando vicina all’orlo del suo baratro, di come basterebbe una spinta noncurante a farlo precipitare. Si sente la vista appannata e ringrazia che Livia gli stia ancora voltando le spalle.

«E il tuo comportamento è stato quello che hai sempre avuto nei miei confronti,» continua poi lei, senza perdere un battito, con la voce asettica di chi ha passato abbastanza tempo a riflettere su qualcosa, tanto da poterne parlare come se fosse di poco conto.

Se gli avesse sferrato uno schiaffo in pieno volto, avrebbe probabilmente fatto meno male. È una paura diversa, quella che gli morde le viscere adesso, più fredda, più razionale, proiettata verso l’interno: da quanto si comporta in quel modo? Quanto sono stati evidenti e leggibili i suoi comportamenti, quando nemmeno lui sapeva come interpretarli? Da quanto Livia si chiede se ci sia qualcosa che non va in lui, piuttosto che in lei?

«No, Livia, non è come credi,» si lascia scappare, quasi affannato.

Copre la distanza che li separa con due falcate, lasciando uno spazio appena accettabile tra loro, tanto che sente il profumo di peonie sulla sua pelle e vede le sue ciglia inchiostrate in controluce (ed è come guardare un quadro, bello ma dal soggetto irraggiungibile, destinato rimanere in una cornice).

«Non è così,» ribadisce, con quella voce che non è la sua (vorrebbe che non fosse così, vorrebbe non essere così).

Lui non parla con la gente, tantomeno parla di sé. Rosa, forse, è l’unica persona al mondo che a volte riesce a farlo parlare anche quando non vuole (e Bruno, con Bruno vuole parlare sempre, a volte gli fa quasi paura la facilità con cui si ritrova ad aprirsi con lui).

Ma no, lui non parla con la gente e vorrebbe farlo il meno possibile, così come vorrebbe parlare di sé il meno possibile; ma adesso è all’angolo, con Livia che lo crede a ragione un uomo freddo, indifferente.
Quando invece, ogni giorno della sua vita, gli pare che il mondo gli prema addosso cercando di fargli sentire ogni suo più piccolo fremito di gioia e dolore, schiaffandogli in faccia la morte e la vita fianco a fianco, e il dolore e i sentimenti (e quanto poco lui sia adatto a contenere entrambi). Si sente esplodere, a volte; vorrebbe smetterla, di vedere morti a ogni angolo e di fissare il mondo da dietro una finestra per paura di esserne travolto.

«Io sono una persona chiusa, non mi apro con nessuno.» Si strappa fuori ogni parola a forza, come estraendola a colpi di scalpello da una cava. «Tantomeno con una donna come te, che avrebbe diritto a ogni felicità. Se ti tengo lontana da me, è soltanto per il tuo bene.»

Bruno, però, non ci è riuscito a tenerlo lontano.

Quel pensiero gli falcia la mente, privo di veli, e pulsa come fuoco liquido, ribolle come le solfatare sotto al Vesuvio quando la terra trema. Trema anche lui, gli tremano le vene nei polsi e quel sentimento taciuto nel petto, un canarino bloccato in una miniera che ammutolisce e soffoca a poco a poco.

Livia scatta, a quelle parole, e il suo fremito d’ira sembra investire l’aria. «Che ne sai, tu, qual è il mio bene?» gli chiede, con un disprezzo puro che non gli ha mai riservato. «Sono abbastanza vecchia da capire quando non piaccio ad un uomo, senza dovermi umiliare di più davanti a lui.»

Ricciardi si sente avvampare, a quell’affermazione (vergogna, allarme, di nuovo paura). La vista gli si fa sempre più liquida, si sente incurvare le spalle. Livia non ha la più pallida idea di quanto sia vicina a recidere quel misero filo di sanità che lo sta tenendo in piedi dal giorno prima.

«Dimmi, piuttosto, perché sei qui?» gli chiede poi, precludendogli qualsiasi tentativo di risposta.

E le è quasi grato, perché non è certo che saprebbe trovare scuse coerenti a quella sua ultima affermazione. Si sente quasi nudo di fronte a lei, spogliato dell’ultimo scampolo di dignità che poteva usare come difesa (perché, no, Livia non gli piace, non in quel modo, ed è folle che anche solo pensarlo).

Inghiotte a vuoto, la bocca arida, e in quel momento Livia si volta, decidendosi a fronteggiarlo. Ricciardi capisce dal modo in cui lei sbarra leggermente gli occhi di non essere minimamente riuscito a celare nulla di ciò che gli si sta agitando nel petto (ha paura, non ne ha mai avuta tanta in vita sua) e di avere con tutta probabilità l’aspetto spaventoso di chi ha passato un giorno e una notte tormentato da nausea e incubi.

«La persona che era con noi l’altro giorno...» comincia prima che Livia possa parlare, con la voce che si spegne, flebile.

Bruno, non riesce nemmeno a dirlo; ha paura di far vibrare sulla lingua quel nome così familiare, come se ciò potesse tradirlo del tutto.

«Il dottor Modo?» chiede conferma lei, inclinando il capo, con quel suo modo di fare grazioso e distinto, ma venato di pericolosità.

Ricciardi annuisce soltanto, rigidamente.

«Che gli è successo?»

Non era la domanda che si aspettava, e non sa a che gioco stia giocando Livia. Ma Bruno, dopotutto, gli ha salvato la vita non troppo tempo fa (sente ancora la cicatrice sulla nuca e il ricordo appannato di mani abili che la sfiorano). È chiaro che lei è disposta almeno ad ascoltare, se si tratta di qualcuno con cui si sente indirettamente in debito. Ricciardi si ricorda di respirare.

«È scomparso.»

Gli trema la voce come non gli è mai tremata di fronte a lei, con le parole che lottano contro un nodo scorsoio prima di uscire. Quell’informazione sembra dissipare, per un istante, il velo di furia che le offusca lo sguardo.

«Lo hanno caricato su un’auto e lo stanno per portare al confino.»

Gli si spezza la voce, facendo crollare l’ultimo baluardo di fermezza che la teneva salda. Anche se non era lì, la scena gli si dipinge in testa con fin troppa chiarezza. Bruno deve aver lottato come un leone, avranno dovuto tenerlo fermo in tre, forse a suon di manganellate e pugni e calci, prima di ammanettarlo e scaraventarlo in un’automobile. Prima di portarlo chissà dove e fargli chissà cosa (chissà se è ancora vivo).

L’ondata di nausea si fa così forte che è convinto di stare per rimettere lì, davanti a Livia, sul tappeto persiano rosso. Riesce a domarla appena in tempo, ma il sapore acre della bile gli brucia la gola, e il suo spasmo non passa inosservato. Ha visto fin troppi morti per poter pensare a Bruno ridotto così.

Livia è una statua di marmo non dissimile da quelle che adornano la villa, adesso, con lo stesso sguardo temporalesco, ma al contempo imperturbabile, di una qualche divinità che scruta dall’alto le faccende umane. È inquieta, lo vede, ma è anche troppo adirata per darlo a vedere.

«Tu come lo sai?» chiede a denti stretti, stringendo le dita sulle braccia con forza visibile.

«Sono venuto a saperlo.»

Ricciardi la fissa di rimando, inamovibile, senza aggiungere altro. Non è il momento di menzionare che Achille Pivani, un funzionario del Partito, gli deve un favore (né che tipo di favore; quella gli sembra quasi una beffa del destino). Sa che Livia si muove su lato della scacchiera abbastanza lontano dai pezzi neri, ma è una casella fin troppo vicina alla figlia del Duce per scoprirsi troppo.

Lei sembra frastornata per un istante, le braccia ora strette al petto e le labbra tinte di carminio compresse tra loro. È un’apertura, e Ricciardi la coglie, stavolta senza esitare. Questo lo sa fare: fatti, eventi, piani d’azione, puntini da unire con linee nette per arrivare a un risultato. Si sente quasi meglio, per un istante.

«Così come sono venuto a sapere che c’è una persona incaricata di vigilare sulla tua sicurezza, e che quella persona sarebbe determinante per liberare Modo, per non farlo partire.»

Bruno, non dice di nuovo, il suo nome bloccato tra le corde vocali. E ha fatto breccia, lo coglie nel modo in cui Livia quasi indietreggia di un passo, colta alla sprovvista, forse allarmata.
Non è un’informazione che lui dovrebbe avere, quella. Nessuno dovrebbe averla. Capisce anche che, chiunque sia l’uomo di cui gli ha parlato Pivani, non nutre la simpatia di Livia; anzi, ne sembra quasi intimorita.

Per questo ha la sensazione di stare giocando sporco, quando parla di nuovo (sta giocando sporco dall’inizio, ingannandola con ogni parola che pronuncia):

«Livia, tu puoi salvarlo.»

Lei batte le ciglia con qualche istante di ritardo, come riscuotendosi a forza da un turbinio di pensieri. Lo supera, scansandolo, e si poggia subito al tavolino lì a fianco, voltandogli le spalle. Ricciardi frena l’impulso di sfiorarle la schiena, ad accertarsi che non stia avendo un mancamento. È turbata, molto più di quanto non l’abbia mai vista, e il senso di colpa gli arpiona lo stomaco. Non dovrebbe chiederle nulla di tutto questo.

«Non credo di avere il potere...» comincia lei, ma le manca la voce, Ricciardi non sa se per l’incertezza o la confusione. «Di quest’uomo non conosco nemmeno il vero nome,» dichiara poi, e c’è timore palpabile, nella sua voce, per quell’ombra che le hanno insinuato a forza nella vita.

Ricciardi chiude per un lungo secondo gli occhi, domando la fitta improvvisa di panico nel sentire quello che è chiaramente il preambolo a un “no”. Sente anche una fitta di protettività, nel vederla così e l
’istinto di saperne di più sulla persona in grado di farla alterare a quel modo. Poi decide che, per una volta in vita sua, deve essere egoista, e in tutto e per tutto l’uomo frigido e insensibile che finge di apparire (non appare così ora, di certo, non con gli occhi liquidi, il respiro che trema e lo sguardo di un disperato). Il resto può aspettare, per ora.

«Non te lo sto chiedendo per me.» Le prende un braccio prima di potersi frenare, delicatamente, ma con fermezza, e la obbliga a guardarlo di nuovo. «Te lo chiedo per lui.»

Non sa quanto sia evidente quella bugia sul suo volto, sa solo che brucia e riverbera, e che Livia può vederla benissimo. Sta camminando di nuovo sul ciglio del baratro (ma Bruno, forse è già nel baratro, è già...)

«Bruno non merita di essere sbattuto chissà dove per le sue idee,» gli esce detto con foga, prima di potersi rifugiare nel più neutrale dottor Modo, e il suo nome gli risuona in bocca in modo estraneo, gli accarezza la lingua di una vibrazione più dolce che quasi lo scioglie.

Qualcosa cambia, negli occhi di Livia. Un riflesso fugace di dubbio, di perplessità. Una domanda inespressa, proibita, che le rimane appesa sulla punta delle sue labbra quando le schiude appena, in procinto di parlare, prima che lui la anticipi, spazzandola via:

«Ti prego, Livia. Non c’è tempo.»

Sa che, in questo momento, chiunque potrebbe leggergli in volto tutto ciò che dovrebbe sempre tenere ben celato in fondo al cuore. Sa che nessun uomo perbene si ridurrebbe a implorare in quel modo patetico senza almeno tentare di mantenere un contegno, un briciolo di compostezza. Sa di apparire in ogni gesto e sguardo e parola come l’uomo attanagliato dall’angoscia che è, e non gli importa.

Livia, per un singolo istante, lo guarda dritto nelle pupille, vi si immerge con la stessa quieta ma inarrestabile determinazione con cui si è immersa nel suo sguardo prima di baciarlo e trascinarlo su di sé, quella notte. E poi si ritrae con altrettanta rapidità, come se avesse incontrato una superficie troppo glaciale, stavolta, o troppo rovente.

Scuote appena la testa, un movimento impercettibile di ricci, e lui le libera subito il braccio, recuperando un poco di distanza. Gli ondeggia la terra sotto i piedi e il pulsare nello stomaco si fa più forte, si estende a tutto il corpo. Evita di guardare il letto, che sembra comunque incombere al centro della stanza, e tiene invece gli occhi puntati sulla sagoma slanciata di Livia, che ora evita di guardarlo.

Non dovrebbe chiederle tutto questo (ma deve, deve, o il buio appena dietro l’angolo inghiottirà tutto il resto). Prende fiato silenziosamente, senza trarne alcun giovamento.

«Io non ho dimenticato nulla di quel che è successo tra me e te qui. Nulla,» scandisce poi, in un tono completamente diverso da quello che vorrebbe.

Non pacato e comprensivo, ma quasi rabbioso, con la gola che gli si chiude attorno alle parole. No, non ha dimenticato nulla, ma per tutti i motivi più sbagliati. Quella notte con Livia l’aveva lasciato confuso, a chiedersi perché non si sentisse appagato, e perché se ne fosse andato in fretta e furia, con la sensazione strisciante di non essere se stesso, di essere sporco, mutilo. Ora riesce a intravedere un senso in quegli smottamenti di pensieri rimescolati, in quel suo arrovellarsi sul perché gli sembrasse di aver commesso un errore madornale.

È ancora troppo vicino a lei, tanto da sembrare un invito. A quelle parole così ambigue, pronunciate nel modo più crudele, vede un barlume di speranza e affetto malcelato ammansire gli occhi di Livia. E sa che deve spegnerlo. A costo di allontanarla, anche a costo di pregiudicarsi il suo appoggio. Non può ingannarla ancora, anche se potrebbe farlo con facilità disarmante (dovrebbe, ha bisogno del suo aiuto).

Lo sguardo di entrambi, con ritmo e fuggevolezza diversi ma in qualche modo in sincrono, corre verso il letto, prima di tornare a scontrarsi in mezzo alla stanza.

«Mi dispiace di non essere rimasto,» pronuncia allora Ricciardi, forse le prime parole sincere che le rivolge, prima di camminare di nuovo sul filo tra verità e menzogna, «ma non potevo illuderti.»

Non ha bisogno di aggiungere altro. È sufficiente a devastarla, ad annientare qualsiasi sentimento positivo possa provare per lui, a farle diventare gelidi quegli occhi in cui avrebbe dovuto perdersi e da cui è sempre sfuggito con indifferenza. Ma non è abbastanza, non davvero. Livia merita di sapere, di sentirsi dire che non è colpa sua o di qualcosa che le manca, perché non le manca nulla, o di qualche sua leggerezza, perché gli ha sempre dato troppo (ma farlo è follia, è un suicidio, dovrebbe tacere).

«Il vero motivo per cui non sono rimasto allora è lo stesso per cui sono qui adesso,» continua, a voce così bassa che dubita di averlo detto davvero; forse è solo un pensiero leggermente più forte degli altri.

Ma l’ha fatto, l’ha fatto, perché vede la sorpresa allargarsi negli occhi di Livia, come macchie d’ambra su una lastra fotografica che vanno a formare un’immagine sbiadita. Livia schiude le labbra, un refolo di sgomento che le sfugge in un respiro. Si scosta del tutto da lui, mettendo un ampio passo di distanza tra loro. Ricciardi, in quel gesto, non può fare a meno di leggervi disgusto. Come potrebbe essere altrimenti? (persino per Bruno sarebbe lo stesso, lo sa).

Si costringe a sostenere il suo sguardo, a mantenere quella fragile patina di calma. Livia non può aver capito tutto da quella singola frase criptica. È ancora in tempo per correggersi, per ritrattare. Bruno è solo un amico, il più caro amico che ha; e questo lo sa anche lei, non ne ha mai fatto mistero (forse sbagliando, forse avrebbe dovuto).

Livia li ha intravisti lavorare, discutere e scherzare insieme. Lui, che non scherza mai. Che, per cavargli un sorriso dal viso, dice Bruno, non basterebbe manco tutta la Commedia dell’Arte al gran completo (e invece basta lui, e lui nemmeno lo sa, non potrà mai saperlo). Livia si è seduta al loro stesso tavolo e ha sentito quel che basta, delle loro conversazioni, da sapere che il loro non è un mero rapporto superficiale e lavorativo. I semplici colleghi non parlano di sentimenti e relazioni e dolore, non si scavano a vicenda nell’anima sotto gli occhi di tutti, non si rimbrottano a vicenda in quel modo così viscerale, di chi sa di potersi permettere una stoccata in più senza timore.

Livia, forse, non ha capito nulla; ma è una donna troppo intelligente per non aver invece capito tutto.

«Cercherò di mettermi in contatto con quella persona.»

Le parole di Livia non acquistano subito senso, ma si abbattono come una frana sulle sue orecchie, incomprensibili, accavallate. Poi, Ricciardi si sente mancare la terra sotto i piedi, un vuoto d’aria, come se avesse mancato mille gradini scendendo una scala interminabile, per poi ritrovare un appoggio solido.

Lo sta aiutando, aiuterà Bruno.

Porta le mani al volto appena in tempo, le giunge strettamente tra loro in quella che potrebbe essere una preghiera, frenando sul nascere le lacrime di sollievo che hanno rotto a tradimento gli argini, premendo contro gli occhi arrossati; e sente su di sé lo sguardo ancor più pesante di Livia, ancor più indagatore.

«Ti ringrazio,» esala, ricomponendosi a fatica, col cuore che gli sobbalza a singhiozzi nel petto come se non sapesse più battere normalmente.

Livia annuisce in modo impercettibile, accogliendo le sue parole senza aggiungere altro. Ricciardi capisce che è un congedo e si affretta a eseguire. C’è un’ombra nuova, nei suoi occhi, che non vuole fissare troppo a lungo.

Per un singolo istante, mentre lascia Villa Pignatelli ancora con le gambe molli e inala l
’aria frizzante del mattino, si concede di immaginare il sollievo che proverà nel rivedere Bruno, sano e salvo. Quasi sente il cuore spiccare il volo tra le costole, privo di peso, prima di precipitare di nuovo, le ali tarpate dalla consapevolezza che quel momento è in un futuro incerto, offuscato da nubi (ma ora il sole è lì, e non si è ancora spento, gli intiepidisce il viso).

L’unico dubbio che si concede di provare, e che gli trasforma il costato in una gabbia, è se guardarlo e basta, quel sole, sarà ancora abbastanza (la risposta la conosce già, e il cuore gli svolazza impazzito in cerca d’aria, senza trovarla, ma sentendola appena oltre le sbarre).

 
 
Note dell'Autrice:
Rieccomi qui col secondo capitolo (mostruosamente lungo, I know) di questa follia estiva.
Faccio una comparsata solo per puntualizzare che ho rimaneggiato la cronologia degli eventi come meglio mi aggradava e che però il 99% dei dialoghi/gesti è preso paro paro dalla serie, quindi è canonico che Mr. Sorriso Ricciardi vada totalmente nel pallone solo quando c'è di mezzo Bruno in pericolo. Ho shippato per molto meno, Vostro Onore!
Solo la confessione finale è ovviamente una mia aggiunta, perché inizialmente Livia doveva essere marginale, poi è stato interessante scrivela come attivamente coinvolta in questo contesto ed eccoci qua.
Grazie a chi ha letto e commentato, in modo del tutto inaspettato ♥

-Light-

P.S. 
Tenete ovviamente da conto che l'omofobia a quei tempi era quasi scontata e internizzata inconsciamente pure da chi era queer, oltre al fatto che molte etichette odierne erano un miraggio lontano. Identifico Ricciardi come demi-pan, per dare una chiave di lettura, ma è chiaro che lui non potrà mai identificarsi in questi termini esatti, considerando il contesto culturale.
   
 
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