Serie TV > Il Commissario Ricciardi
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Autore: _Lightning_    03/08/2023    2 recensioni
Napoli, 1933.
Il dottor Modo, come suo solito, non si cura di nascondere l'astio verso il regime e viene arrestato dai fascisti, in attesa di essere mandato al confino – o peggio.
Il commissario Ricciardi, recluso nella sua solitudine volontaria dacché vede i morti, si rende conto di non poter tollerare di perderlo – né tanto meno di vederlo unirsi alle schiere di spettri che già popolano il suo mondo.
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Ricciardi sa benissimo a cosa dovrebbero essere associate quelle sensazioni, quei sentimenti (ha paura a dare loro un nome) lui che si proibisce di provarli con chiunque e rifugge il mondo dei vivi (perché i morti sono spaventosi, sì, ma semplici e immutati, mentre le persone cambiano e lui non riesce a stare loro appresso).
Sono spaventose, le persone, i sentimenti; quelle stesse cose che legano i morti al mondo dei vivi.

[Angst // Hurt&Comfort // Ricciardi/Modo // Ricciardi&Livia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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Napoli, novembre 1933
 
          A RICCIARDI piace pensare, forse per via di qualche meccanismo autopunitivo di cui è solo parzialmente cosciente, che l’unica finestra dalla quale possa guardare il mondo esterno sia quella della sua stanza, affacciata sul vicolo; o meglio, sulla finestra opposta dalla quale può scorgere, attraverso il velo sottile della tenda e la condensa del vetro, la figura esile di Enrica.

Vi guarda spesso, da quella finestra, poiché, avendo una sola finestra in stanza, non v’è poi modo di cambiare vista così facilmente. Soprattutto al mattino e alla sera, quando fin troppi pensieri gli si addensano in testa, frutto delle poche ore di sonno che ha strappato alla notte o che si appresta a tentare di strapparle tra le emicranie e le visioni di spettri che hanno affollato la sua giornata.

Per aprirsi una nuova vista sul mondo dovrebbe buttar giù un muro, o magari cambiar casa. O dovrebbero portargliela via, quella finestra, costringerlo a trovarne un’altra.

È un singolo quadrato di cielo in cui si concede di sognare un futuro, di fingersi normale, di non vedere gli occhi spenti dei morti che lo scrutano dall’ombra, ricordandogli che lui, un futuro, non ce lo può avere, e normale non è mai stato.

È certo, come è certo di sentire il sole tiepido filtrare dal vetro ogni mattina, che sia quella, l’unica imposta da non chiudere mai. Che sia quella, l’unica luce a cui può permettere di raggiungerlo. A distanza, oltre un vetro, irraggiungibile. Qualcosa da guardare solo da lontano.

Se non che quella mattina livida di novembre, sebbene la finestra sia ancora lì, spalancata e coi vetri limpidi, la luce è venuta a mancare lo stesso. S’è accorto solo allora, con l’ingenuità di un bambino che ancora non sa come funziona il mondo, che della finestra non può farsene nulla, senza il sole fuori. Il buio è arrivato all’improvviso, come una nuvola che copre l’ultimo sangue del tramonto, tirando giù con anticipo la coperta della notte. Ma, così come non lo è la notte, neanche quel buio è inaspettato. Perché, in fondo al cuore, Ricciardi sapeva che prima o poi sarebbe accaduto, così come sa che ogni giorno il sole tramonta e non se ne sorprende; ma non per questo il buio appare meno nero e fitto.

Mentre cammina a passo più svelto del solito verso casa, i vicoli di Napoli non gli sono mai sembrati così bui, così poco accoglienti. Sa già che, non appena la luce riflessa dal mare del Golfo e dalle facciate calde delle case svanisce, emergono i derelitti rannicchiati sugli scaloni delle chiese, e gli scugnizzi vestiti di stracci in cerca di una borsa facile o di un tozzo di pane, e i bastardini rognosi raggomitolati negli androni; e, anche, chi, in divisa nera, s’impegna a prendere a bastonate tutti gli altri col favore del buio, per ristabilire un presunto ordine che non è mai davvero esistito.

Quella sera, però, non ci sono nemmeno le solite ombre a far capolino dagli angoli al suo passaggio, né il marciare ritmato di stivali pesanti sugli acciottolati o i cori svociati che li accompagnano. Persino i morti sembrano essersi rintanati nel loro regno, per una volta.

Ricciardi, in altre circostanze, accoglierebbe con piacere quella solitudine, perché della gente viva tende a stancarsi facilmente; e sulla gente morta preferisce non posare lo sguardo troppo a lungo. In quel momento, però, gli pesa più che mai, la sente nello stomaco con un principio di nausea (più intenso alla prospettiva che possa non passare mai, anzi, peggiorare).

È venerdì sera, e il venerdì sera quella strada non la percorre mai da solo. C’è quasi sempre Bruno a camminargli accanto, col suo passo elastico e scanzonato, allegro e gioviale come lo è sempre, quando stacca dall’ospedale con la prospettiva di una cena in trattoria offerta dalle tasche del suo “commissario ‘ngrugnato” (gli piace, quando gli affibbia quei nomignoli).

Durante il cammino, quella sera, la consapevolezza dell’assenza si fa via via più tangibile, fino a diventare un qualcosa di solido, in totale contrasto col concetto stesso di vuoto.

Mancano le gomitate che Bruno gli rifila tra le costole quando lo ritiene troppo poco partecipativo alla conversazione (piccole scariche elettriche), la scia del sigaro che si lascia dietro fumando distratto (era quasi un profumo), le risate soffiate che getta fuori ripensando a questo o quell’aneddoto, prima di raccontarlo anche a lui e strappargliene a sua volta una (con una facilità sconosciuta a tutti gli altri).

E, ogni volta che Ricciardi gliela concedeva, quella risata non trattenuta o quel sorriso sbieco che non si curava di nascondere, Bruno si illuminava come se avesse vinto al banco lotto e lo fissava con l’aria del gatto che ha colto in fallo il topo (e lui sorrideva di più, senza nemmeno pensarci). Perché, a onor del vero, non sono poi molte le persone in grado di farlo sorridere genuinamente e ancor meno quelle che lo sanno far ridere, e Bruno ne faceva un punto di vanto, di essere tra quei pochi eletti (e aveva ragione).

Ricciardi si sforza di non rallentare il passo, di non guardare alla sua sinistra, di tenere le mani ben ferme, ancorate dietro la schiena e di non passarsele sul volto tirato, ancor più pallido del solito sotto la luce dei lampioni. A casa, deve solo arrivare a casa e tentare di dormire, in qualche modo, di riportare sotto controllo il buio che pulsa ai margini della sua vista.

No, non è inaspettata, quell’improvvisa oscurità.

Quante volte l’ha detto, a Bruno, di non dar sempre fiato alla sua bocca pungente, specialmente in certi posti, di fronte a certe persone (specialmente lontano da lui?) C’è ben poco che un commissario di polizia possa fare contro uno squadrone di camicie nere deciso a pestare qualcuno, ma quel poco l’avrebbe fatto senza pensarci due volte. Fosse stato anche solo porsi tra un pugno e il volto di Bruno. Fosse stato anche solo porgergli una mano per aiutarlo a rialzarsi, o venire scortato via di fianco a lui per essere spediti entrambi al confino.

Ricciardi non ha timore della morte. Ne ha di vivere, semmai. E ne ha ancor di più al pensiero di doverlo fare da solo; e la prospettiva di sentirsi già tale con Bruno sotto arresto da a malapena un giorno gli torce lo stomaco (in un modo nuovo, estraneo, bollente e gelido al contempo).

Perché la finestra in camera sua è aperta, sì, ma buia; e la luce dall’altro lato della strada è forse solo l’idea che si è fatto della felicità, non certo la felicità stessa, anche se si è convinto che lo sia. Ricciardi lascia ricadere la tenda a velare il bagliore fioco di fronte a lui e la sagoma indistinta di Enrica, con lo sguardo puntato su un ricamo.

Spera che non lo alzi per guardare nella sua direzione e chiude piano le imposte, avvolgendosi nel buio fitto della propria stanza. Preme la fronte contro il vetro freddo, strizzando gli occhi e trovandoli più gonfi e doloranti che mai, un principio di emicrania particolarmente violenta che gli preme dietro i bulbi oculari.

La domanda martellante che gli si rivolta nella testa (dov’è Bruno?) sembra ricoperta di spine e gli invia fitte a ogni minima contrazione. È terrorizzato dal darsi una risposta; e non dovrebbe esserlo, o almeno non così tanto (eppure lo è).

Solo che Bruno è l’unico che sopporta i suoi umori cupi, l’unico che riesce a farlo ridere con facilità disarmante,  l’unico a fargli perdere le staffe con altrettanta facilità, l’unico che gli tiene testa a suon di umorismo mordace, l’unico con cui si concede un bicchiere di troppo, l’unico che potrebbe bussare alla sua porta alle tre di notte e trovarla aperta, l’unico... (l’unico in un’altra infinità di modi che, forse, sono fin troppi).

Non dovrebbe sentirsi così. Non dovrebbe sentirsi come se gli avessero strappato un organo, non dovrebbe provare quel senso di angoscia paralizzante che gli toglie il respiro.

Sa benissimo a cosa dovrebbero essere associate quelle sensazioni, quei sentimenti (ha paura a dare loro un nome) lui che si proibisce di provarli con chiunque e rifugge il mondo dei vivi (perché i morti sono spaventosi, sì, ma semplici e immutati, mentre le persone cambiano e lui non riesce a stare loro appresso). Sono spaventose, le persone, i sentimenti, le stesse cose che legano i morti al mondo dei vivi.

Strizza il tessuto della tenda tra le mani fino a sentirlo impresso sui palmi e serra gli occhi, con la consapevolezza che gli ribolle tra stomaco e gola in una massa di fango (nauseante, opprimente, sbagliata).

Bruno è solo il suo migliore amico; ed è molto più di quello, anche se c’è voluto il buio per farglielo capire (non è certo di volerlo capire davvero).

Era accanto a sé, il sole (accanto, non là fuori, non oltre la finestra, non nel cielo); aveva il sole accanto e non l’ha visto (non l’ha voluto vedere) finché non gliel’hanno spento.

 
 
Note dell'Autrice:
Provo altissima, purissima, levissima vergogna nel postare questa... roba qua?
Mah, relativamente. Ho già superato lo scoglio del volermi sotterrare nell'essermi ritrovata colpita dall'ispirazione per colpa di una fiction RAI – l'ho vista in circostanze particolari e probabilmente si tratta di semplice sindrome di Stoccolma nel costringermi a tollerare un prodotto italiano.
Il vero punto è essere finalmente tornata a scrivere dopo mesi e mesi, su un fandom che ci filiamo solo io, Lino Guanciale e sua zia, probabilmente. Ed è bellissimo essere invisibili, non avrei mai pensato di dirlo.

Per chi conosce la serie, ovvero quei tre cristiani che hanno avuto la (s)fortuna di vederla (perché, diciamocelo, rimane una fiction RAI in tutto e per tutto), la scelta della coppia non sarà credo una sorpresa. Per tutti gli altri, ovvero tutti, sappiate che c'è più chimica tra 'sti due carciofi che con tutto il resto del cast femminile, tanto che il deficiente Ricciardi si fa arrestare con sospetto di omosessualità per i suoi rapporti troppo amicali con Bruno – e no, non è proprio carina, una cosa del genere in pieno regime fascista, ma è molto indicativa che venga buttata lì in un programma con target casalinga disperata. Non ho sprecato l'occasione, ecco: se mi porgi la ship su un piatto d'argento io mi ci tuffo a pesce e ci sguazzo finché mi va.
Non ho letto volutamente i libri d cui è tratta la serie prima di scrivere, anche se progetto di farlo, quindi non ho idea di come sia reso il personaggio originale. Molto probabilmente, meglio!

In tutto ciò, ringrazio le anime prave che hanno letto fin qui e soprattutto Miryel, che mi ha preso a pizze per farmi superare le mie fisime su questa storia. Qui mi taccio per il resto dei capitoli (quattro, per la precisione), lasciandovi alle elucubrazioni di un commissario confuso con sottofondo dei Pinguini Tattici Nucleari, che con la Napoli fascista degli anni Trenta ho pensato si sposassero bene, proprio come il cacio sul profiterol.

-Light-

P.S. Avviso: non sono napoletana e pertanto la mia conoscenza del dialetto è estremamente limitata, se non nulla. Per evitare cringe a chi il napoletano lo parla, ho evitato di inserirlo, se non per qualche sporadica espressione qua e là e in un paio di dialoghi più avanti, giusto per dare un po' di colore, ma sono più colloquialismi che vero dialetto – da traduttrice, dico no agli scempi linguistici.




 
   
 
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