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Autore: 0421_Lacie_Baskerville    17/08/2023    1 recensioni
"Conservava uno strano ricordo del momento in cui il flebile fruscio dell'erba alta gli aveva fatto sollevare lo sguardo dai blocchi in legno con cui stava giocando, per incrociare quegli occhi penetranti che lo fissavano. Il silenzio immobile denso dell'odore dei fiori in cui erano rimasti a guardarsi, avvolti dall'ombra odorosa del glicine, con la voce cristallina di sua madre intenta a stendere il bucato poco lontano che faceva fremere le sottili orecchie pelose della volpe con il suo dolce canto. (...) Non sapeva ancora niente, allora, a parte che quella visione fugace l'aveva stregato. "
Venite con me, se quello che cercate è un mondo in cui potervi perdere e cercare riposo, questa storia potrebbe fare proprio al caso vostro. Perciò, girate pagina e addentriamoci insieme nelle atmosfere senza tempo del Giappone antico e forse, potremo vedere insieme una volpe dagli occhi rossi riposare all'ombra odorosa del glicine insieme al ragazzo che rinunciò a tutto per perdersi con lui in sogno...
💚 AU con ambientazione storica-leggenda giapponese
🦊 Kitsune legend
Genere: Fantasy, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Altri, Inko Midoriya, Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Come nasce un'amicizia all'ombra del glicine III

 

La casa dei suoi nonni, la casa in cui era nata e cresciuta sua madre, sorgeva su un'alta scogliera che dominava l'immane distesa ribollente dell'oceano e posava le sue fondamenta su una roccia candida e frastagliata, un poco discosta dal resto del villaggio e dalla spiaggia di sassi che si stendeva a lato degli scogli.

Un vento salmastro soffiava dalle acque ribollenti a qualunque ora del giorno e della notte, facendo scricchiolare gli infissi come se una mano invisibile battesse con forza chiedendo di entrare. I vetri tremavano. Strani rumori provenivano dal piano di sotto, come se le stesse fondamenta piangessero per la fatica di dover tenere in piedi quella dimora fatiscente, dimenticata dal tempo.

Onde spumeggianti si scagliavano furiose contro la parete di roccia, disperdendo nell'aria spruzzi di salsedine che appesantivano i suoi riccioli, rendendoli ancora più ribelli del solito. Sdraiato nel futon che era stato di sua madre, nel buio della camera, Izuku sentiva le onde battere ed erodere le rocce sotto la casa con la costante furia di una divinità che aveva l'eternità per portare avanti una lotta estenuante. Le lacrime che gli inumidivano le ciglia cadevano a bagnare la fodera del cuscino, su cui non era rimasta traccia del dolce profumo di sua madre.

Ogni notte, la nostalgia per la casa che aveva lasciato cresceva e Izuku si ritrovava a rannicchiarsi su sé stesso, sotto una spessa coperta rosa che puzzava di umidità, soffocando i singhiozzi che lo scuotevano nel cuscino. Non aveva mai avuto grandi affetti. A parte sua madre e la volpe, era sempre stato da solo. Ma in quella casa sconosciuta, circondata dal mare e da un villaggio movimentato e ricco di attività, si rese conto di cosa fosse realmente la solitudine.

Lì non c'erano braccia calde pronte ad accoglierlo. La mano delicata di sua madre che gli spazzolava i riccioli ribelli e la sua voce dolce che gli cantava le sue canzoni preferite. Non c'era la sua volpe a intrattenerlo e sfidarlo, costringendolo ad affrontare le sue paure e superare i suoi limiti.

Non c'erano nemmeno i suoi dèi. Anche se Izuku li cercava nel vento che soffiava aspro fuori dalla sua finestra, non riusciva a riconoscerne la voce e scorgerne la forza vitale nelle cose che lo circondavano. Come il bambino che era, tremava stringendosi su sé stesso, sentendosi sempre più perso e infelice in un mondo che non riconosceva come proprio.

Non aveva mai visto l'oceano e il suo primo sguardo su di esso, gli aveva rivelato una distesa di ombre fruscianti nell'oscurità, come un canto incessante che mutava in un rombo feroce con l'alzarsi del vento o in un mormorio ribollente con il suo calare.

Era arrivato alla porta di quella vecchia casa che il sole era già calato oltre l'orizzonte e una scia di stelle perforava il manto della notte. Il viaggio l'aveva lasciato stordito, stanco e abbattuto. I sussulti della carrozza gli avevano pestato le ossa e intorpidito le membra. Attraverso la tenda scostata dal finestrino aveva visto le montagne allontanarsi e appianarsi in morbidi colli, finché il sussultare sconnesso del mezzo l'aveva cullato in un sonno inquieto.

Nel scendere dalla carrozza le gambe avevano vacillato. Una mano sconosciuta, forte e rugosa, l'aveva afferrato per il braccio prima che potesse cadere e Izuku nel sollevare lo sguardo appannato dalla stanchezza, si era stupito della ruvida forza che quella mano nodosa e rovinata, così diversa da quella di sua padre, lasciava trasparire. Al suo fianco, c'era un vecchio dalla schiena curva che si reggeva a un bastone nodoso e lo scrutava con attenzione. Gli occhi verdi erano pieni di ombre che gli facevano sembrare neri come pece, gli angoli della bocca sottile inclinati verso il basso fremettero quando serrò le labbra.

C'era qualcosa nel viso rugoso di quell'uomo che aveva fatto battere più forte il cuore di Izuku.

≪ Assomigli a tua madre. ≫ aveva detto e quelle erano state le prime parole aspre che gli aveva rivolto. Izuku l'aveva fissato spiazzato, lo sguardo che scivolava dal suo viso rugoso a quello contratto del servo che in piedi accanto alla carrozza reggeva la lampada da viaggio e si sforzava di non tradire alcuna emozione.

≪ M-mia madre? ≫ balbettò Izuku. La voce suonò incerta alle sue stesse orecchie e inasprì le rughe sul viso del vecchio che emise un grugnito irritato. ≪ Pare di vedere il suo ritratto sputato. ≫ borbottò, mollando la presa sul suo braccio e lasciando scivolare via le dita nodose per posarle sulla mano che stringeva il bastone. ≪ Non hai mai visto il tuo dannato volto, ragazzino? Pure un cieco capirebbe da quale ventre sei stato tirato fuori. ≫

Izuku avvampò fino alla punta delle orecchie. Gli occhi verdi si sbarrarono fissando in quel mare di ombre che scurivano le iridi del vecchio, trovandoci dentro il suo riflesso pallido e sbiadito. Lui non assomigliava affatto a sua madre. Aveva ereditato i suoi occhi, certo, ma sua madre aveva una lunga e folta massa di capelli neri come la pece e un viso dolce e gentile privo di imperfezioni. Izuku sapeva di non avere gli stessi tratti delicati di lei o la sua grazia nei movimenti.

Non aveva la sua stessa bellezza. Non più di quanto la possedesse quel vecchio che lo scrutava torvo.

≪ Santo cielo, sarà mica ottuso come suo padre? ≫ Gli occhi verdi scattarono sul servo che strinse le labbra con aria contrariata, la lampada nella sua mano ondeggiava al vento salmastro che risaliva dal dirupo facendo scricchiolare gli infissi della vecchia casa che incombeva su di loro. ≪ Ha fatto un lungo viaggio e lei deve assumersene la responsabilità. Il padrone ha detto... ≫

≪ Sai quanto me ne importa di cosa dice il tuo dannato padrone. ≫ sbottò il vecchio, facendo sussultare Izuku per lo stupore di sentire quella voce aspra alzarsi irritata. Il servo parve offeso da una simile mancanza di rispetto. ≪ È il figlio del padrone e ha fatto arrabbiare una kitsune. Non può restare nella Casa principale. ≫

Un lieve sorriso comparve sul viso del vecchio, facendo scintillare divertiti i suoi occhi scuri. ≪ Tale e quale a sua madre. ≫ borbottò a mezza voce e Izuku si chiese cosa intendesse. Sua madre aveva avuto terrore della kitsune appollaiata sui rami del glicine. Aveva tradito tutto ciò che gli aveva sempre insegnato sugli dèi della foresta e sugli spiriti che l'abitavano e aveva lasciato che venisse spedito lontano dall'unica casa che avesse mai conosciuto.

≪ Dì al tuo padrone che il ragazzo può restare, dato che ha il mio sangue e questa è casa sua. ≫ commentò il vecchio, voltando le spalle ad entrambi e incamminandosi verso l'ingresso a passo claudicante. ≪ Ma non intendo accettare altre imposizioni. Il tuo padrone ha sposato mia figlia, non ha però potere su questa casa e i suoi abitanti. ≫ Gli occhi scuri baluginarono di ombre nella notte, sfiorati dalla luce della lanterna che delineava i margini frastagliati della roccia ai loro piedi. ≪ Non finché vivrò. ≫

Izuku aveva lanciato uno sguardo al servo, confuso e disorientato, ma tutto quello che aveva ricevuto era una scrollata di spalle e l'augurio di preservare la sua buona salute. Era stato lasciato lì, da solo con quello strano e arcigno vecchio che lo guardava con sguardo penetrante come se scorgesse oltre i tratti del suo viso quello di qualcun altro.

Gli aveva fatto strada lungo stretti corridoi e ampie stanze disabitate, rivestite da uno spesso velo di polvere che il tempo aveva steso su ogni cosa, fino a una camera ad angolo che affacciava sulla spiaggia di ciottoli e sull'oceano oltre il margine del dirupo.

Non c'erano servi nella casa che potessero aiutarlo con i bagagli e suo nonno era decisamente troppo vecchio per potersi sobbarcare la fatica di trascinare dentro le sue cose, così Izuku dovette farlo da solo. Sudò e si sforzò, stringendo i denti mentre la frustrazione e la rabbia gli montavano dentro come una tempesta. In tutta la sua giovane vita, non aveva mai dovuto faticare una sola ora per qualcosa di così poco piacevole. C'era sempre stato qualcun altro pronto a sobbarcarsi i lavori più pesanti o le incombenze e le uniche fatiche che gli erano spettate erano quelle dell'esercizio fisico e dello studio che gli lasciavano una certa gratificazione in cambio.

Senza servi da chiamare, il vecchio lo guardava arcigno trascinare il pesante baule su per la scala fino alla stanza che gli aveva assegnato. ≪ Lo ha rammollito come lui, quel gran signore. Questo ragazzo è un incapace che non sa mettere insieme nemmeno due passi senza cadere. ≫ lo sentì borbottare quando scivolò sulle scale per l'ennesima volta e il baule precipitò giù con un tale fracasso da far tremare i quadri alle pareti.

Izuku trasalì, il viso madido di sudore contratto in un'espressione mortificata. Il gancio che chiudeva il baule si era spaccato a metà nella caduta e le vesti pregiate si erano aggrovigliate sul pavimento insieme ai suoi libri e ai giocatoli che ne erano rotolati fuori.

Un sospiro rassegnato sfuggì dalle labbra dell'uomo, ma quando Izuku si voltò ansimante a guardarlo con gli occhi brucianti di lacrime. Suo nonno si limitò a indicargli un armadio in cui trovare coperte e lenzuola. ≪ Là. Dati una mossa prima che faccia l'alba, ragazzo. Qui ci si alza presto. ≫

Ingoiò il pianto che gli stringeva la gola e ricacciò indietro le lacrime che gli inumidivano gli occhi, con un gesto stizzito delle mani arrossate. ≪ I-Izuku. Mi chiamo Izuku, non ragazzo. ≫ si lamentò, pestando i piedi sul parquet usurato e tormentando le maniche pregiate della sua veste. ≪ E la mamma non mi ha mai parlato così. Nessuno mi ha mai parlato così. ≫

≪ C'è una prima volta per tutto, ragazzino. ≫ commentò aspro, socchiudendo gli occhi pieni di ombre. Le spesse rughe che gli segnavano il viso scavavano la pelle con solchi profondi che tremavano a ogni contrazione della bocca, lasciandogli intendere che una volta doveva aver avuto un viso espressivo quanto il suo e quello di sua madre. Un viso capace di lasciar trasparire ogni sfumatura di emozione e sentimento.

Restò a guardarlo, sbraitandogli contro perché non sapeva nemmeno distendere un futon e sprimacciare un cuscino. Fu la prima cosa che Izuku imparò nel tempo che passò con quello strano uomo irascibile: a badare a sé stesso e fare le cose da sé.

Se voleva mangiare doveva scendere con suo nonno al villaggio ad acquistare le verdure e contrattare con i pescatori lungo la costa per il pesce fresco. Se spendeva troppo o si lasciava ingannare dai venditori, suo nonno lo spediva a letto con nulla più di una scodella di latte e miele per cena e una bella ramanzina a risuonargli nella testa. Non c'era alcun fuoco caldo ad attenderlo la mattina presto, quando veniva buttato giù dal letto al sorgere del sole per accompagnarlo alla spiaggia a far visita al tempio che sorgeva dai flutti del mare.

L'aria era gelida e lo faceva rabbrividire nelle vesti pesanti. Un sentiero di roccia sembrava comparire come per magia quando la marea si ritirava, illuminata dai raggi pallidi del sole nascente. Non c'era alcun altare alla sua fine o statue di idoli dalle sembianze umane ad attenderli, solo un alto arco dipinto di rosso, unito da travi lavorate e consumate dalla salsedine che affondavano la loro base nel fondale marino. Solo un altro Torii come ce n'erano a milioni per il Giappone, situato nel mezzo di un mare che non stava mai immobile ad attendere.

Eppure, nulla di tutto ciò impediva a suo nonno di pregare in ginocchio davanti a quel mare ne scoraggiava in alcun modo la fila di persone che si recava lì ogni mattina e ogni sera per inginocchiarsi nell'acqua salmastra a pregare in silenzio mentre i pescatori caricavano le reti da pesca sulle loro imbarcazioni e gli artigiani accendevano i fuochi nelle loro fucine.

≪ I nostri dèi non hanno bisogno di incenso e doni. ≫ gli spiegò una volta, suo nonno, in ginocchio davanti ai primi raggi di sole che si riversavano sulle acque ribollenti del mare mentre Izuku rabbrividiva al suo fianco. ≪ Non hanno un volto e non possono essere chiusi in templi fatti di pietra e sale buie. ≫

Schiuma salmastra e spruzzi freschi salivano dalle onde che si infrangevano sugli scogli e spruzzavano i loro visi. ≪ Gli dèi che noi veneriamo vivono nelle reti dei pescarecci che portano il pesce con cui sfamare le nostre famiglie, ogni giorno. Nelle onde che riportano a casa i nostri marinai, ogni sera. Sani e salvi dalle loro famiglia che li attendono. ≫

Suo nonno non lo guardò, le mani giunte davanti alle labbra sottili e le rughe che scavavano solchi profondi in un viso che una volta doveva aver posseduto tratti forti e gentili. ≪ Nel ferro con cui forgiamo le spade con cui difendiamo le cose e le persone che amiamo. Nell'aria che respiriamo, nel fuoco che ci scalda, nell'acqua che ci bagna e nella terra che ci dona i suoi dolci frutti. ≫

Izuku avvertì qualcosa fremergli dentro, una nostalgia così profonda per la sua casa e il bosco che lambiva il suo giardino da procurargli dolore. A quell'ora, il lago sotto i rami del glicine scintillava argenteo e i petali violacei galleggiavano sulle acque placide insieme alle prime foglie verdi degli aceri. Sulle sue rive solitarie, la sua volpe dorata si bagnava le zampe e si sfregava il muso appuntito. Le folte code che ondeggiavano pigramente sull'erba bagnata di rugiada mentre gli abitanti della casa ancora dormivano o si apprestava a svegliarsi e Izuku l'osservava da dietro i vetri della sua finestra, intontito di sonno, prima di tornarsene al calore del suo letto.

≪ Sono come gli dèi della montagna. ≫ mormorò con un filo di voce, chiudendo per un attimo gli occhi e tenendo stretto a sé il ricordo dell'ombra che rivestiva la foresta dissiparsi man mano che il sole risaliva l'orizzonte e dipingeva d'oro i margini dei monti, accendendo di mille colori le foglie che fremevano all'aria umida della mattina. ≪ Sono in ogni cosa. Sempre sotto il nostro sguardo eppure sempre nascosti alla nostra vista, come il fremito dei nostri cuori che non cessa mai di battere ma che notiamo solo quando pensiamo di starlo per perdere. Solo quando abbiamo paura. ≫

Un angolo della bocca dell'uomo si contrasse sotto il suo sguardo e per un terribile attimo, Izuku temete che suo nonno si fosse arrabbiato e l'avrebbe sgridato. Forse avrebbe riso di lui, di quelle idee sciocche che aveva concepito inseguendo la sua volpe sui rami degli alberi e sul tetto spiovente. Invece, lui sorrise con tristezza senza distogliere lo sguardo dal Torii che pregava. ≪ È stata tua madre a parlartene? ≫

Il fruscio delle onde nella luce del mattino era una melodia dolce e sconosciuta. Un mistero che Izuku non sapeva penetrare e che ascoltò in silenzio, inginocchiato nell'acqua salmastra a rabbrividire di freddo. Non rispose a quella domanda, non era più sicuro di quanto di ciò che gli avesse detto sua madre fosse ancora vero per lui. In fondo, era stata lei ad aver avuto paura della kitsune e a innescare la reazione degli abitanti della casa e di suo padre. A distruggere tutto ciò che Izuku aveva protetto e custodito nella sua breve vita.

≪ Io... pensavo che avrebbe capito. ≫ sussurrò con un filo di voce e il frusciare delle onde del mare che gli lambivano la veste, imprimendo il pesante tessuto di acqua salmastra, quasi disperse le sue parole. ≪ È stata lei a insegnarmi a non temere il bosco e gli dèi che l'abitavano. Ascoltavamo insieme il vento che soffiava fuori dalla finestra e lei diceva che era la voce degli dèi e che non c'era nulla da temere... ma quando ha visto la kitsune ha avuto paura e mi ha mandato via. ≫

Un brivido gelido gli percorse la schiena e Izuku chiuse gli occhi per trattenere le lacrime che pungevano per uscire. Le sentì rotolare comunque sulle guance paffute, sferzate dal vento gelido dell'alba. ≪ Ho conservato quel segreto per così tanto tempo... per tutta la mia vita. È sempre stato con me e ora, n-non lo rivedrò più. La mia volpe dagli occhi di fuoco... ≫

La sua voce si spense in un mormorio amaro, al di sotto del fruscio del vento che li investiva gelido. La veste di seta che indossava si gonfiava intorno al suo corpo tremante, ormai rovinata dalla salsedine. Tutti i vestiti che possedeva erano inadatti al clima aspro della costa e lo facevano sentire a disaggio con i suoi abitanti.

Li sentiva ridacchiare alle sue spalle e prendersi gioco di lui, chiamandolo "signorino" quando passava loro davanti. Ma non era lo stesso atteggiamento che avevano gli abitanti della sua città di origine, non c'era in loro la volontà di accaparrarsi il favore della sua famiglia e tenerlo buono. Per quella gente di mare, lui non era nessuno.

Izuku si sentiva afferrare dalla tristezza ogni volta che lo notava, non esisteva un posto in cui si sentisse davvero libero di essere sé stesso al di fuori del suo giardino e della compagnia della sua volpe.

≪ Lei aveva un dono. ≫ mormorò suo nonno, spezzando il silenzio e voltandosi per guardarlo negli occhi con qualcosa nello sguardo che diede una sfumatura amara alla sua voce. ≪ Aveva ereditato il sangue che scorreva nelle vene di mio padre e come lui, poteva sentire la voce del mondo degli spiriti. Ma poi iniziò a tingersi i capelli per sembrare come tutte le altre e a cercare di soffocare il suo dono... finché quello non sparì, cancellato dal suo rifiuto. ≫

Izuku lo guardò senza capire, gli occhi verdi sbarrati nella luce dell'alba, ma suo nonno si limitò a scuotere piano la testa e a tendere la mano per afferrare il bastone con cui rialzarsi. Nell'afferrargli il braccio ossuto avvertì i muscoli duri tendersi sotto la manica, ancora forti e tenaci nonostante l'età. ≪ Com'era lei da ragazza? ≫ domandò con una nota incerta nella voce sottile, alzando lo sguardo per incrociare quello scuro dell'uomo.

C'era del castano a screziare il verde delle sue iridi, piccole scintille scure che si perdevano in quel mare impenetrabile che l'osservavano con attenzione mentre liberava un respiro rapido. ≪ Mia madre. Com'era quando viveva con te? ≫

≪ Coraggiosa. ≫ sussurrò con amarezza, il fiato che si condensava sulle sue labbra tagliate dal vento. Ciuffi candidi di capelli caddero sulla fronte, spinti dal vento, formando riccioli ribelli che Izuku fissò come sorpreso. ≪ Tremava come una foglia il giorno in cui tuo padre venne a prenderla, ma andò con lui anche se la pregai di non farlo. Mi disse che era l'unica cosa che poteva fare per me e sua madre. L'unico modo che aveva di dimostrarci il suo amore e proteggerci. Lo fece con il sorriso sulle labbra giurando di non rimpiangerlo mai. ≫

Un tremito scosse le sue labbra e Izuku si chiese se il velo di lacrime che intravide per un'istante riflesso nei suoi occhi mentre gli voltava le spalle, fosse frutto della sua immaginazione o qualcosa di reale. ≪ Era una sciocca. Sarebbe dovuta restare a cantare le sue canzoni alle onde e a rideva dei rimproveri di sua madre quando la pregava di stare attenta e non saltare a piedi nudi sulle rocce. ≫

Izuku restò indietro, muovendosi con cautela sulle rocce bagnate e osservando la schiena curva di suo nonno precederlo con passo claudicante. Non aveva la grazia di sua madre nel muoversi, né la sua dolcezza, eppure c'era qualcosa nelle morbide onde dei suoi capelli candidi che gli ricordavano i suoi riccioli ribelli. Qualcosa che lo spinse a chiedersi quanto conoscesse davvero la donna che lo aveva tenuto fra le braccia e aveva riso con lui.

Sotto quelle vesti eleganti e i gioielli che le adornavano i capelli, Izuku riusciva a immaginare con facilità la bambina che doveva essere stata. La creatura delicata e selvaggia che correva sulla costa e saltava fra gli scogli, cercando nel vento e nel brivido del pericolo la voce di quegli dèi che aveva amato.

 

🦊🦊🦊

 

Fu un'estate solitaria in cui ebbe tempo di riflettere e di porre domande a cui non aveva mai avuto risposta o su cui non aveva riflettuto abbastanza. Imparò a girare per la cittadina e a parlare con gli abitanti, nascondendo ai loro occhi la timidezza e quel filo di disaggio che gli si annidava dentro. A spaccare legna sotto lo sguardo attento di suo nonno finché le braccia e le spalle gli dolevano tanto da fargli cadere le lacrime lungo le guance lentigginose e le mani gli si arrossavano fino ad aprire vesciche piene di liquido che bruciavano come fuoco sulla carne viva.

Ogni notte, si addormentava in un letto freddo che non sentiva suo. In una stanza che possedeva ancora qualcosa della persona che l'aveva occupata in precedenza e soffocava i singhiozzi e le lacrime di nostalgia nel suo cuscino.

Non voleva che suo nonno lo sentisse. Eppure, ogni mattina, aveva l'impressione che per quanto facesse piano o si sforzasse di sembrare tranquillo, quello strano vecchio riuscisse a sentire come si sentisse davvero. Sapeva che gli mancava la sua volpe dorata e la sua casa, ma non gli chiese mai nulla al riguardo e non lo guardò mai con il biasimo e l'orrore dei suoi genitori e della servitù.

Insieme a lui, Izuku imparò a muoversi per le strade frementi di attività senza più sussultare spaventato a ogni rumore o movimento improvviso e a saltare sui pescherecci per contrattare sul prezzo del pesce. Con il passare delle settimane e dei mesi, una luce d'orgoglio andò ad accendersi nel fondo degli occhi di suo nonno che l'osservava sempre con un certo interesse e anche Izuku iniziò a sentirsi soddisfatto di sé stesso. Il sorriso tornò a fiorirgli sulle labbra, sincero e vitale e la sua risata animò gli ambienti polverosi della sua nuova casa.

Più si trovava impegnato, meno aveva tempo per rimpiangere ciò che si era lasciato alle spalle e alla fine dell'estate, imparò a disegnare e a mettere a frutto quel poco che sapeva sul carboncino e sulla china, ad usare la trementina e le pitture colorate. Sperimentò stili e tecniche diverse, fermandosi ad osservare le cose che voleva imprimere su carta con uno sguardo diverso. Innamorandosi della forma delle cose, dell'espressione sui volti delle persone e delle emozioni che lasciavano trasparire. Della forma che assumevano i suoi ricordi, messi su carta con il colore e la china.

Dalle finestre della casa poteva ammirare i tetti ricurvi delle case, le stradine acciottolate che si diramavano in ogni direzione e i vari mercati ricchi di bancarelle, tendaggi sbiaditi dalla luce del sole e dalla fiumana di gente in visita. Era un luogo di pescatori e commercianti, affollato di visitatori durante la bella stagione e fremente di vita commerciale, ma totalmente diverso dalla calma solenne della sua casa natale. Lì non c'era nessuna volpe con cui poter giocare o dèi da cogliere nel vento, solo la nota salmastra di alghe nell'aria che veniva dalla spiaggia al di sotto o l'aroma del pesce arrosto che soffiava dal villaggio.

≪ A volerli cercare gli dèi sono in ogni cosa. ≫ gli fece notare un giorno, suo nonno, mentre percorrevano la spiaggia sassosa per far visita al Torii e rivolgere le preghiere del mattino agli dèi di quella regione. Izuku gli camminava accanto, trattenendo a stento la voglia di correre e sfidare le onde, per aiutarlo nei punti più difficoltosi. Dove le rocce erano ricoperte da un sottile strato di alghe scivolose e l'acqua salmastra formava pozze spumeggianti.

≪ Ma non sono i miei dèi. ≫ mormorò, osservando lo spumeggiare delle onde sulla battigia e strappando un sorriso all'uomo al suo fianco. ≪ È giusto. Le persone hanno bisogno di qualcosa in cui credere nei momenti bui. Non commettere lo stesso errore di tua madre, non dimenticare chi sei e in cosa credi. ≫

Izuku annuì e si morse il labbro inferiore, osservando il mare gonfiarsi alla spinta del vento e abbattersi furente sulla spiaggia di sassi. In quella spiaggia sua madre aveva amato giocare e sedere a guardare le onde. Era quella la casa in cui era cresciuta, dove era stata una bambina e poi una ragazza. Aveva riempito i cassetti di tovaglie e centrini ricamati a mano con motivi di onde e pesci d'argento. Aveva pitturato fiori dai petali gialli e rossi sui pannelli di legno del corridoio e appeso tende colorate alle finestre scrostate che ora il tempo e l'incuria avevano ingrigito.

Un intero giardino di girasoli si celava sotto uno spesso strato di polvere lungo la scala e uno stormo di uccellini azzurri, sbiaditi dal tempo, adornava la calce sulla porta del giardino e saltellava sui rami di ciliegio che incorniciavano le finestre della sala da pranzo. Segni sbiaditi di una presenza che aveva abbandonato quelle stanze da anni, per non farci più ritorno.

Izuku riconosceva la mano di sua madre nel motivo della porcellana con cui consumavano i pasti e bevevano il tè la sera. La sua impronta nel gusto con cui erano stati disposti i mobili della stanza in cui dormiva - tutti di un pallido verde giada - e nei fiori che crescevano nel giardinetto dietro la casa, sfidando le intemperie.

A volte, suo nonno si fermava vicino a una parete e ammirava quel che restava delle pitture. Le sfiorava con la punta delle dita nodose, levando una manciata di polvere che le aveva offuscate e tendeva le orecchie al silenzio della casa, come se si aspettasse di cogliere una voce famigliare nel rombo delle onde e del vento.

C'era qualcosa di struggente nel suo sguardo in quei momenti. Una malinconia impalpabile che scavava le rughe nel suo viso e colpiva Izuku dritto allo stomaco. Qualche volta, nel guardarlo, si scopriva a tendere l'orecchio al ruggire del vento e al frusciare delle onde, quasi sperasse di cogliere un rumore famigliare o di scoprire la sparizione di un giocatolo o dei geta che rivelassero come perfino lì, la sua volpe non aveva smesso di esistere.

Ma nessuno dei due era mai tanto fortunato.

Trascorrevano le loro giornate a faticare e ad ammirare il mare in tutte le sue sfumature. Le pregiate vesti sostituite da pratici abiti da lavoro o di cotone leggero, i piedi nudi che affondavano nella terra sabbiosa del giardino e le mani graffiate che si riempivano di calli. Il suono della risata di Izuku si insinuò lentamente in quelle stanze buie e polverose, ripulite di fresco e vi riportarono vasi di fiori e i raggi del sole che facevano irruzione dalle finestre lasciate aperte.

Senza più la tinta nera che sua madre spalmava con cura sui suoi capelli dopo ogni lavaggio, Izuku si trovò a non poter più celare la sfumatura verde dei suoi capelli che attirava lo sguardo della gente e i loro mormorii turbati. Riccioli ribelli si alzavano al vento intorno al suo viso abbronzato, cosparso di lentiggini, e facevano scintillare il verde smeraldo delle sue iridi come gemme al sole, ma a lui non importava.

Le onde del mare che si infrangevano contro la scogliera creavano un canto misterioso che non aveva nulla di famigliare. Un frusciare costante che a volte, mutava in rombo e altre, in un placido silenzio ingannevole rotto dal grido acuto dei gabbiani e dalle grida dei pescatori sulle loro imbarcazioni.

Izuku li osservava spesso, seduto sui gradini della casa di suo nonno o sulle alte rocce ammassate contro la scogliera, con una tavoletta poggiata sul ginocchio e un carboncino in mano. I fogli nelle sue mani frusciavano al vento salmastro. Linee scure correvano sulla carta, delineando un muso affilato e orecchie appuntite che fremevano fra i petali del glicine che gli piovevano intorno, come un incantesimo che aveva il sapore di una favola.

≪ Posso chiederti una cosa, nonno? ≫ domandò un pomeriggio, intento a disegnare sul vano della porta che portava al giardino mentre suo nonno era chino sul piccolo orto che germogliava a fatica nella terra sabbiosa, sferzato dal vento salmastro e bruciato dal sole.

Un grugnito sfuggì dal fondo del petto dell'uomo. ≪ Hai deciso di chiedere il permesso, adesso, prima di fare la tua solita raffica di domande? ≫ La schiena curva sussultava appena a ogni colpo di vanga sul terreno. Un lieve sorriso curvò le labbra di Izuku. Non si piacevano sempre l'uno con l'altro e suo nonno non era di certo un uomo flessibile, eppure negli ultimi mesi aveva imparato ad apprezzarlo. ≪ No, è solo che... ormai sono mesi che vivo qui e mi chiedevo se potrò mai tornare a casa. ≫

Suo nonno non sollevò nemmeno il viso, limitandosi a un grugnito soffocato e la piccola vanga che stringeva nella mano ossuta affondò nel terreno con troppa forza, tranciando alcuni germogli verdi. ≪ Perché? Pensi che quella kitsune abbia smesso di volere la tua testa? ≫

≪ Non credo che l'abbia mai voluta. ≫ Le parole gli sfuggirono dalle labbra con una punta d'irritazione e gli accesero le guance lentigginose di un caldo rossore. Gli occhi verdi screziati di castano di suo nonno si fissarono sul suo viso di bambino con un'ombra a scurirli nella luce pomeridiana.

Izuku tacque, distogliendo lo sguardo imbarazzato. Oltre il precipizio il cielo cosparso di nuvole temporalesche si specchiava nella massa ribollente del mare. Un mondo di sfumature azzurrine e biancastre, di verde sbiadito e raggi dorati, di cui non aveva conosciuto l'esistenza prima di arrivare in quella casa.

≪ Forse è vero che sono stato impudente. ≫ mormorò nel vento che gli soffiava indietro i riccioli ribelli. I geta ai suoi piedi strusciarono nel terreno sabbioso alzando un lieve sentore di salvia. ≪ Ho continuato a inseguire la kitsune senza preoccuparmi che potesse o meno dispiacerle. Anche quando ho scoperto cos'era... non ho mai pensato fosse un problema o che avrei dovuto smettere. ≫

L'aria profumava di verdure fresche appena tagliate e di salsedine, delle alghe abbandonate sugli scogli e nella spiaggia sottostante. Sapeva di sale e sole, del vento che soffiava da ponente, portando l'odore della legna arsa nei focolari. ≪ Ma c'era qualcosa in lui... nella mia volpe... ogni volta che la sentivo muoversi o la vedevo non riuscivo a trattenermi. ≫

Percepiva lo sguardo penetrante di suo nonno premere sulla pelle. Aveva la schiena curva inondata di sole, il collo madido di sudore e i bianchi capelli che formavano riccioli ribelli sulle tempie e dietro la nuca. Un'ombra scuriva i suoi occhi screziati di castano sotto le spesse sopracciglia. ≪ Le persone hanno paura degli yokai. ≫ commentò a bassa voce, con qualcosa di aspro nella curva della bocca sottile. ≪ Avvertono il loro potere e capiscono che non fanno parte del loro stesso mondo, ma tu no. Non hai avuto paura di lui, non è vero? ≫

Izuku si strinse nelle spalle, corrugando la fronte pensieroso. I fogli sul suo grembo frusciarono al vento. Gli mancava la sua vita, il suo giardino lussureggiante e la sua amata volpe. Per quanto non si sentisse più infelice come i primi tempi, non riusciva a sentire quel posto come suo. E c'era un'altra cosa che lo tormentava... Quanto ci sarebbe voluto perché la sua volpe si dimenticasse di lui e lasciasse i luoghi in cui era solita bazzicare?

Forse era già successo. Temeva che se mai fosse tornato a casa non ci sarebbe stata alcuna volpe dal pelo dorato ad attenderlo e tutto quello che gli sarebbe rimasto sarebbe stato un ricordo dolceamaro che il tempo avrebbe scolorito. Un giorno, avrebbe ripensato a quel bambino dagli occhi di brace che gli sorrideva dagli alti rami del glicine come a un sogno infantile privo di margini reali.

≪ Izuku? ≫ lo chiamò suo nonno, una nota aspra nella voce rauca e qualcosa di scuro nello sguardo. Izuku sollevò il viso e riccioli scuri caddero a sfiorargli la fronte. Un grugnito sfuggì dalle labbra sottili del vecchio nel raddrizzare la schiena curva e premere una mano ossuta sui lombi. ≪ Perché tu non hai avuto paura di lui? ≫

Perché lo conosco da sempre.

Era sempre stato lì, ai margini della sua consapevolezza ancora prima che imparasse a parlare o a stare in piedi. A volte, aveva la sensazione che fossero stati gli dèi a decidere di farli incontrare. Avevano attratto la volpe con il dolce canto di sua madre e avevano fatto frusciare le foglie perché lui si voltasse e lo vedesse. Ma non era solo quello. Izuku ci aveva pensato così spesso in quei mesi che una nuova consapevolezza era sorta in lui, semplice quanto sconvolgente.

≪ Ogni volta che lo guardavo avevo la sensazione che fosse come me. ≫ La punta delle dita sfiorò la curva morbida delle code volpine tratteggiate con il carboncino e ne sfumò la linea. ≪ Era solo e diverso da chiunque altro. Giocare con lui era come una magia: c'eravamo solo noi al mondo e se non eravamo come gli altri o se anche avevamo un aspetto diverso dall'ordinario... Beh, andava bene. A lui andava bene e... anche a me. ≫

Un lieve sorriso curvò le labbra sottili dell'anziano, rimarcando le rughe sul suo viso. Izuku non osò guardarlo mentre gli si avvicinava senza il bastone ad aiutarlo, trascinando la gamba malata sul terreno sabbioso. Lo sguardo fisso sul suo piede sollevato e sul geta che ondeggiava nell'aria salmastra.

≪ Una volta anche tua madre era così. ≫ sospirò suo nonno, sedendosi al suo fianco nel vano della porta. Izuku sollevò di scatto lo sguardo, le labbra schiuse per lo stupore. ≪ M-mia madre? ≫

Suo nonno annuì, lo sguardo perso nel vuoto e un'ombra di malinconia a segnare i tratti del suo viso. ≪ A volte, le persone perdevano delle cose. Oggetti di uso comune o che avevano un significato sentimentale per loro e lei riusciva a sentirli... a riportarli ai loro rispettivi padroni. ≫

Il vento che soffiava dalla cittadina si scontrava con quello proveniente dal mare, scompigliando i riccioli candidi dell'uomo e spingendoli sulla sua fronte abbronzata. Solleticò la nuca di Izuku, facendo scaturire un brivido freddo che corse sulla pelle, sotto il cotone dell'abito e scese lungo la spina dorsale.

≪ Giurava che il vento parlasse una lingua familiare solo a lei. Le raccontava storie, le portava brandelli di canzoni e le sussurrava di cose che dovevano ancora accadere. Sapeva sempre quando qualcosa di brutto sarebbe successo. ≫ Un sospiro sfuggì dalle labbra sottili di suo nonno e i suoi occhi verdi, screziati di castano, si posarono su di Izuku con un'ombra di melanconia ad offuscali. ≪ Qualche volta, quando scendeva la notte e misteriosi fuochi fatui illuminavano il litorale, sedevamo qui insieme a guardarli. Il vento ci portava il suono della musica degli yokai in festa e le loro risate. Tua madre amava gli spiriti. ≫

≪ Mia madre... ≫ ripeté Izuku con un filo di voce. Rivide l'ombra del glicine sotto cui aveva ritrovato la sua palla di stoffa e sua madre che gli era venuta incontro come se avesse sempre saputo dove si trovasse suo figlio. Il modo in cui aveva guardato la kitsune sui rami del glicine e non avesse avuto un solo dubbio su cosa fosse. ≪ Ma allora perché...?! ≫ urlò, balzando in piedi e le piccole mani si serrarono a pugno lungo i fianchi, tremando.

Suo nonno lo guardò arrossire di sgomento e rabbia, gli occhi verdi spalancati e luccicanti nella luce del sole. Il vento gli soffiava i riccioli scuri sulle guance arrossate e sferzava il calore dal suo viso. L'uomo davanti a lui aveva qualcosa di rassegnato nello sguardo, un'ombra di melanconia che appesantiva le rughe sul suo viso fino a farlo sembrare ancora più vecchio di quel che era.

Vecchio come la roccia di quella scogliera e la casa in cui viveva, dimenticato dal tempo e ancorato a un passato sbiadito.

≪ Devi capire, Izuku, che il sangue che scorre nelle nostre vene può diventare una vera maledizione. ≫ La sua voce rauca si insinuò al di sotto del fischio del vento, mescolandosi al grido dei gabbiani in volo e alle grida provenienti dai pescherecci. ≪ Specie quando incontra la superstizione della gente comune. ≫

Izuku aveva la sensazione che nel guardarlo, quell'uomo non vedesse solo lui, ma un passato perduto. Lo spettro di quello che era stata sua madre prima che lo mettesse al mondo. Quando aveva deciso di nascondere i riflessi verdi dei suoi capelli sotto il nero della tintura e chiuso al mondo degli spiriti il suo cuore.

≪ Arriva un momento in cui devi scegliere a quale mondo vuoi appartenere... ≫ gli disse e il vento che soffiava da ponente sollevò i riccioli di entrambi, scuri e accesi di riflessi verdi per Izuku e bianco candido come la neve per suo nonno. ≪ Tua madre ha scelto la sua strada. Ha scelto di dimenticare il suo sangue e di sopprimere i suoi doni. ≫ Un lieve sorriso curvò le sue labbra sottili e accese il verde dei suoi occhi di scintille d'ambra scura. ≪ Anche tu, un giorno, dovrai compiere una scelta. Ma cosa farai... beh, quello spetta solo a te deciderlo. ≫

Allora pensava ancora che quella scelta era già stata presa nel momento stesso in cui aveva incontrato Kacchan, la prima volta. Nel guardare l'uomo che gli sedeva di fronte, non aveva idea che quel momento doveva ancora venire.

Aveva nove anni l'autunno in cui sentì quelle parole e come tutti i bambini, credeva di sapere già tutto. In realtà, non sapeva ancora nulla.

 

🦊🦊🦊

 

Nel mentre, la volpe sedeva all'ombra del glicine che si specchiava nel laghetto naturale del giardino in attesa che qualcosa accadesse.

Le orecchie appuntite tese a cogliere ogni rumore interessante e gli occhi rossi fissi davanti a sé. Il giardino soleggiato non offriva più alcun divertimento e il bosco alle sue spalle risuonava di vita animale come sempre, ma nessun canto veniva dalla dimora signorile. La Signora non cantava più. La sentiva spesso singhiozzare dietro le finestre chiuse e a volte, intravedeva la sua alta figura ondeggiare come uno spirito tormentato lungo il corridoio esterno.

Le vesti colorate avevano lasciato il posto a semplici abiti di seta bianca o nera, i lunghi capelli ricadevano sciolti sulle spalle e facevano sembrare l'ovale del suo viso ancora più pallido. Qualche volta si fermava a guardare i fiori del suo giardino e Katsuki rizzava la schiena per osservarla con maggior attenzione, ma non c'era nessun piccolo piantagrane con lei e nessun sorriso addolciva quel viso meditabondo.

Katsuki.

La voce di sua madre risuonava nella sua mente come un fruscio, un monito sussurrato con amara durezza dal vento che gli sfiorava la pelliccia dorata. Gli chiedeva di voltare le spalle al mondo degli umani e di tornare alla sicurezza dei boschi, alla ricerca di suoi simili.

Non vale la pena avvicinarsi agli umani. Portano solo guai e sofferenze.

Le folte code alle sue spalle ondeggiavano al vento, scandendo il tempo che passava. Gli sembravano trascorsi pochi giorni da quando gli abitanti della casa erano venuti a cercarlo in processione e il piccolo piantagrane si era inginocchiato a recitare una ridicola e ampollosa lettera di scuse. Ma dovevano essere molti di più, perché il clima era cambiato e si era fatto più caldo.

Il tempo per chi vive per secoli scorre in modo diverso e il mite sole della primavera aveva lasciato posto all'afa dell'estate e al frinire delle cicale. Le finestre della dimora padronale erano state aperte e le pesanti vesti invernali stese ad arieggiare prima di essere ritirate dai servi e sostituite dai panni giornalieri.

Vuoi che ti uccidano come hanno fatto con tuo padre? Che ti diano la caccia come un'animale?

Sotto il dolce profumo del glicine in fiore e della terra calda, poteva sentire il sentore acre del fumo e delle fiamme. Le grida soffocate di rabbia e dolore di sua madre mentre correva verso l'incendio che aveva devastato la loro casa. Quando chiudeva gli occhi riusciva ancora a vedere la figura di suo padre che si dibatteva mentre bruciava e il corteo di esseri umani che l'attanagliava con le lance scintillanti nelle fiamme e le spade snudate.

Era stato solo un cucciolo quel giorno, afferrato nelle fauci grondanti saliva di sua madre e trascinato al sicuro prima che le ferite e il dolore uccidessero anche lei. Qualche volta, anche se la luce nei suoi occhi rossi si era spenta e la sua morbida pelliccia era diventata fredda, ricordava ancora l'affetto del suo ultimo bacio e la sua voce calda che gli parlava. Gli umani portano solo distruzione. Non lasciare che ti vedano e se mai riuscissero a farlo, uccidili prima che loro uccidano te e scappa lontano. Non fare l'errore di tuo padre e di tua madre.

Doveva essere grato che fossero venuti a cercarlo con l'incenso e delle ridicole scuse. Una folla di esseri umani che avrebbero potuto braccarlo e tentare di ucciderlo e che invece, avevano scelto di porgli rispetto e temerlo piuttosto che odiarlo e combatterlo, ma Katsuki non si sentiva affatto riconoscente.

Da quando il bambino se n'era andato, trascinato via singhiozzante e frignante, le giornate erano tutte uguali. Il bosco non era cambiato, ma non aveva più la sua solita bellezza e le giornate si erano fuse fra loro fino a perdere significato. Non c'era più alcun canto fatato a fargli battere più forte il cuore né il sorriso stupidamente allegro di quel piccolo piantagrane che lo inseguiva.

Izuku.

Era così che si chiamava il bambino. Era il nome che la Signora della dimora chiamava quando la notte calava e gli incubi l'assalivano. Era il nome che gridava quando supplicava il suo signore di riportare indietro il suo bambino.

Era successo giorni prima o forse erano mesi. Non ne era sicuro. Il tempo per chi vive per secoli scorreva in modo diverso e Katsuki aveva perso la sua cognizione mentre un'altra stagione sfuggiva via.

La neve cadeva lenta sulla sua testa, le orecchie appuntite si drizzarono di scatto e il muso appuntito si sollevò a sondare l'aria gelida. A Katsuki parve di destarsi da un lungo sonno mentre si sollevava a sedere e la neve che gli si era accumulata addosso pioveva al suolo.

La Signora stava ridendo.

La casa che era stata silenziosa per così tanto che quel suono gli sembrò strano e nuovo. Dietro le finestre chiuse e le porte serrate risuonavano passi frenetici e risate, voci che si mescolavano e sovrastavano. Ombre si muovevano nella luce delle lanterne e proiettavano sulla carta di riso due figure che si stringevano l'una all'altra in un abbraccio.

Una era quella della Signora. I lunghi capelli che cadevano come un manto intorno alla sua figura. L'altra era minuta e portava l'odore del sale e di qualcosa di famigliare. Katsuki si ritrovò in piedi prima ancora di capire lucidamente cosa stesse guardando. Le code ondeggianti nell'aria gelida e il cuore che gli batteva rapido in petto.

Il bambino era tornato.

Aspettò fremente che le porte si aprissero e che lui venisse a cercarlo come aveva sempre fatto. Zampettò sulla neve, girando intorno al lago, gli occhi rossi fissi sulle finestre e le porte chiuse. L'avrebbe graffiato quando sarebbe venuto. Una punizione per averlo lasciato attendere così allungo e averli rivolto quelle ridicole scuse. Avrebbe fatto a pezzi le sue vesti pregiate per settimane e morso le sue mani quando avrebbe cercato di afferrargli le code.

La pelliccia dorata sul suo corpo si drizzò di eccitazione mentre attendeva che venisse da lui. Le risate nella casa si assestarono, i servi tornarono a muoversi silenti, la Signora a cantare e a ridere insieme a suo figlio. La sua voce squillante filtrava attraverso le finestre chiuse e gli faceva tremare le orecchie.

A Katsuki pareva di non riuscire a respirare bene per l'impazienza. Ma la porta non si aprì. La luce mutò sotto i suoi occhi e Katsuki tornò a sedersi in attesa, le code che ondeggiavano impazienti e gli occhi fissi su una porta che non si aprì mai.

E quando finalmente lo fece, non fu il bambino a comparire ma un servo. Accese le lanterne per la notte e scomparve senza dare segno di averlo notato, là in mezzo alle ombre, come se fosse tornato ad essere uno spirito invisibile agli occhi umani.

Come se non esistesse.

Come se fosse di nuovo solo in un mondo a cui non apparteneva del tutto.

 

Continua in "Sotto il candore della neve" ...

 

 

   
 
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